In memoria di - Sie Editore - Alice Miller

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a cura di
Claudio Foti, Laura Ferro, Claudio Bosetto

In memoria di
Alice Miller
Educazione e psicoterapia
nel rispetto delle emozioni

Sie Editore

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Indice

Introduzione                                                                     7

I mattoni della nostra casa interna                                              9
di Claudio Foti

L’educazione come pratica del rispetto delle emozioni                            16
di Claudio Bosetto, Claudio Foti

La cultura psicologica e psichiatrica dell’incredulità e della negazione della   20
violenza
di Silvana Claudia Mara

Riflessioni intorno a “La persecuzione del bambino”                              24
di Luciano Griso

Adulti: Ladri d’infanzia                                                         29
di Marina Annunziata

Il tempo del perdono                                                             33
di Letizia Prezia

Il bambino ritrovato                                                             38
di Rosa Maria Elena Aloia

Quando la psicoterapia non porta all’inferno…                                    42
di Silvia Carnisio

Cambiare per ritrovarsi: il pensiero di Alice Miller                             47
di Daniela Cipriani

Limiti? No, grazie                                                               52
di Anna Maltese

Il contributo di Alice Miller alla pedagogia                                     56

                                               2
3
Introduzione

“Cari lettori, è con immenso dolore che devo annunciare la scomparsa di Alice Miller,
avvenuta il 14 aprile del 2010.
In queste poche righe Alice avrebbe voluto far giungere a tutti voi la sua più profonda
gratitudine per l’affetto e l’incoraggiamento che con le vostre lettere avete saputo
trasmetterle nei suoi ultimi giorni di vita, rendendo onore alle sue opere letterarie.
Alice Miller non è più tra noi ma la sua memoria rimarrà viva grazie al grande valore dei
suoi scritti e all’attività del suo sito web, che ognuno potrà consultare in qualunque
momento necessiti di un suggerimento o voglia portare avanti specifiche ricerche.
La più grande ambizione di Alice Miller era certamente che ogni adulto potesse giungere
ad una piena comprensione del fatto che il maltrattamento dei bambini, oltre ad avere
conseguenze disastrose sulla loro vita futura, finisce anche inevitabilmente per
ripercuotersi negativamente sull’intera società.
Grazie di cuore, Alice, per aver dedicato gran parte della tua esistenza alla scrittura; i tuoi
testi, che conserveranno per noi un valore speciale, costituiranno – ne siamo certi –
un’eredità di straordinario valore per il nostro futuro” 1.

Così, il 23 aprile 2010, Brigitte Oriol annuncia la morte della psicoterapeuta e scrittrice
zurighese sul suo sito ufficiale: con un ultimo pensiero rivolto dall’autrice scomparsa ai
suoi lettori ed un invito rivolto a tutti noi a raccogliere l’eredità del messaggio alla cui
diffusione Alice Miller dedicato un’intera esistenza.

Ed è proprio con questo spirito che il Centro Studi Hansel e Gretel Onlus – che da sempre
di questo messaggio di attenzione e di tutela nei confronti dell’infanzia sofferente si è fatto
attivamente promotore e portavoce – ha scelto di raccogliere e pubblicare una serie di
brevi interventi con cui alcuni dei suoi collaboratori – psicologi, insegnanti, educatori –
hanno voluto riflettere sulla traccia profonda che la lettura dei testi di Alice Miller ha
lasciato sulla loro esperienza professionale, e non solo.

“Chi ha letto i suoi libri” scrive Olivier Maurel 2 “a partire da Il dramma del bambino
dotato, fino a Riprendersi la vita, ha visto la propria vita profondamente trasformata.
Leggere Alice Miller vuol dire ricentrarsi su sé stessi, sul bambino che siamo stati. Significa,
per quante cose degradanti e mutilanti si possano aver subito, riprendere contatto con
l’innocenza di quel bambino. Significa, spazzando via i giudizi che si siano potuti sostenere

1
  Da Information, comparso sul sito ufficiale di Alice Miller (http://www.alice-miller.com) il 23 aprile
2010.
2
  da Tributo ad Alice Miller, comparso sul sito dell’Osservatorio Regionale sulla Violenza Ordinaria
(http://www.oveo.org/) il 30 Aprile 2010.

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sui bambini, sulla loro “follia”, il loro “peccato originale”, la loro “innata bestialità”, le
“pulsioni” con cui la cultura del disprezzo del bambino li ha etichettati, osare dichiarare
del tutto innocente il bambino che siamo stati. Nessuno prima di Alice Miller era stato
altrettanto radicale. A partire da questa certezza che i suoi libri sanno comunicare ai
lettori, diventa possibile per ognuno una vera resurrezione, semplicemente perché ciascuno
può riconnettersi con il bambino che è stato, la sorgente della vita dentro di lui.
In questo modo Alice Miller ha dato un apporto fondamentale alla causa dell’infanzia”
Alice Miller, lo ricordiamo, è nata nel 1923 in Polonia; completati i suoi studi in Filosofia,
Psicologia e Sociologia a Basilea, dove nel 1953 ha conseguito il dottorato in Filosofia, e
specializzatasi in psicoanalisi a Zurigo, ha esercitato per vent’anni la professione di
psicoterapeuta fino a quando, nel 1980, ha deciso di abbandonare l’esercizio
professionale e l’attività didattica per dedicarsi esclusivamente allo studio dell’infanzia e
alla stesura dei suoi libri. Nel 1986 fu insignita del premio intitolato al medico e studioso
polacco Janusz Korczak, direttore della “Casa degli orfani” di Varsavia e sostenitore del
diritto del bambino al rispetto. Nel 1988, al termine di un sofferto percorso di
allontanamento dalla pratica psicoanalitica, annuncia la sua uscita dall’Unione
Internazionale degli Psicoanalisti, perché convinta che la psicoanalisi non solo non aiuti
il raggiungimento della consapevolezza della propria realtà infantile, ma addirittura lo
impedisca. Tra i punti fermi della contestazione milleriana vi è, infatti, il rifiuto della
teoria e della pratica psicoanalitiche “tradizionali”, ma anche una profonda critica delle
pratiche educative correnti e dell’intero edificio teorico di quella che chiama la
“pedagogia nera”.

Leggiamo ancora sul suo sito: “(…) la sua ambizione è sempre stata quella di diffondere
una maggiore consapevolezza sull’impatto profondo e duraturo che qualunque forma di
abuso subito nell’infanzia ha sull’intera esistenza di chi ne è stato vittima, nonché sulle
possibili vie per raggiungere la guarigione
(…)Secondo Alice Miller, le radici della violenza diffusa in tutto il mondo risiedono nel fatto
che i bambini di tutto il mondo vengono picchiati e maltrattati, e in particolar modo nei
loro primi anni della loro vita, proprio quando il loro cervello è in via di strutturazione. Per
quanto i danni causati da queste pratiche siano devastanti, la società è restia a prenderne
atto. E non è difficile comprendere il perché: nella misura in cui ai bambini non è
consentito difendersi dalla violenza di cui sono vittime, essi non potranno che sopprimere
le naturali reazioni di rabbia e angoscia. E solo più tardi, una volta divenuti adulti, essi
potranno scaricare queste emozioni così intense e disturbanti sui propri figli o, in alcuni
casi, su popolazioni intere.
Alice Miller descrive questa dinamica nei suoi 13 libri, illustrandola non soltanto con
l’ausilio delle storie cliniche dei suoi pazienti, ma anche attraverso i suoi numerosi studi
sulle biografie dei dittatori e di artisti celebri.
Il diffuso evitamento, in ogni società, di tale questione ha come risultato il proliferare
indisturbato all’interno delle famiglie di comportamenti oltremodo irrazionali, fatti di
brutalità, sadismo e altre perversioni, i cui effetti ci piace poi etichettare, negli adulti, come
"geneticamente determinati". Alice Miller ritiene che soltanto accettando di prendere

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coscienza fino in fondo di questa dinamica si possa spezzare la catena della violenza: per
questa ragione ha dedicato la sua intera esistenza alla diffusione di questo messaggio.
Negli scorsi anni l’autrice ha sviluppato un modello di psicoterapia che ci invita a
confrontarci con la nostra storia e a riconoscere la paura, ancora straordinariamente
attiva per quanto inconscia, dei bambini maltrattati che siamo stati. Solo quando
finalmente riusciamo a sentire la rabbia e l’indignazione che tanto a lungo abbiamo
dovuto negare possiamo crescere pienamente e diventare autonomi. Poiché è proprio la
paura infantile di genitori onnipotenti e maltrattanti che porta gli adulti a maltrattare i
propri figli.
Pur consapevole dei tragici risvolti della sua scoperta Alice Miller è profondamente
ottimista nella convinzione che questa consapevolezza possa aprire finalmente le porte a
una visione più realistica della realtà dei bambini e allo stesso tempo alla liberazione
dell’adulto dalla sua paura infantile e dai suoi effetti distruttivi” 3

3
    Tratto da Profilo di Alice Miller. Verso la realtà dell’infanzia, www.alice-miller.com © 2008 Alice Miller.

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I mattoni della nostra casa interna 1
di Claudio Foti

Alice Miller riprende una riflessione, già presente nel movimento psicoanalitico, relativa
agli atteggiamenti di cura efficaci, riflessione che diversi autori hanno elaborato
attraverso concetti quali “rispecchiamento”, “capacità di risposta empatica” del genitore
(Kohut 2) e “partecipazione affettiva” dell’analista (Ferenczi 3). Tali concetti, nella
riflessione di Alice Miller, prendono avvio dalla clinica psicoanalitica ed arrivano
successivamente ad essere utilizzati e sviluppati in una riflessione più ampia sulla
relazione educativa.

Il pensiero di Kohut ripreso da Alice Miller riguarda l’evoluzione della nostra mente,
l’organizzazione del nostro sé, vista come il bene più importante e prezioso che ciascuno
di noi possiede. Secondo questi autori la struttura della nostra casa interna è costituita
da mattoni che sono le risposte interiorizzate che le figure adulte per noi significative
hanno dato ai nostri bisogni affettivi ed evolutivi. Noi abbiamo fatto nostri questi
mattoni, che ovviamente hanno potuto risentire del momento e della situazione in cui
sono stati inseriti nella costruzione del nostro Sé. I mattoni meno solidi e peggio
fabbricati sono costituiti dalle risposte carenti dei nostri genitori nei confronti dei nostri
bisogni. La fragilità e la rischiosità di questi mattoni può essere stata amplificata dalle
condizioni di impotenza in cui ci trovavamo quando la casa interna era in costruzione e
dalle manovre difensive che abbiamo attuato per sopravvivere a situazioni di grave
difficoltà.

La riflessione di Alice Miller può aiutarci a chiarire due punti:
   • qual è la radice del nostro essere, del nostro “esserci”, quali sono le fondamenta
        della soggettività del bambino, che vanno protette dalla violenza, dalle
        strumentalizzazioni e dalle distorsioni, affinché la casa interna ed esterna, la vita
        psichica e la vita sociale del bambino, possano svilupparsi in modo solido e
        soddisfacente;
   • quali sono le principali risposte genitoriali ai bisogni del bambino, risposte
        estremamente differenziate - ma in ogni caso determinanti per la direzione di
        sviluppo del cucciolo dell’uomo - e quali sono i parametri che possono aiutarci ad
        inquadrare la grande differenziazione di queste risposte.

Alice Miller chiarisce innanzitutto che il nostro essere, il nostro “esserci” è costituito
essenzialmente dalla nostra vita emotiva, dalla nostra bisognosità affettiva e relazionale.

1
  Dalle conclusioni del seminario “Il pensiero di Alice Miller”, Centro Studi Hansel e Gretel, 1995.
2
  R. Siani, La psicologia del Sé, Boringhieri, 1993.
3
  F. Borgogno (a cura di), La partecipazione affettiva dell’analista (a cura di), Angeli, 1999.

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Il rispecchiamento è l’atteggiamento del genitore che risponde adeguatamente ai bisogni
“narcisistici” dell’essere che viene al mondo, bisogni intesi non già come un fatto
patologico, bensì come esigenza fondamentale ed irrinunciabile, del soggetto umano. Il
Sé profondo ed articolato del bambino ha esigenza di venire rispecchiato in tutte le sue
parti, ha necessità di una figura di accudimento che faccia da specchio capace di
rinviare - in senso positivo e realistico e non già in senso deformante - l’interezza dei
bisogni emotivi e relazionali del bambino stesso, uno specchio riflettente, capace di
restituire in modo adeguato e valorizzante al soggetto in evoluzione un’immagine di sé
complessivamente buona e bella ed un’immagine accettante e rispettosa delle sue
diverse componenti, gioiose e sofferenti, affettive e cognitive, disposte all’adattamento o
al conflitto, alla crescita o alla regressione
Lo specchio deve risultare gratificante e non già suscitare frustrazione ed invidia come
lo specchio della matrigna di Biancaneve. Lo specchio deve inquadrare e restituire non
solo una parte, ma l’immagine completa del soggetto. Lo specchio deve fornire
un’immagine realistica, capace di riflettere realisticamente non solo i limiti, ma
innanzitutto il valore e l’integrità della persona che si specchia e non deve pertanto
funzionare come certi specchi che, nei baracconi delle fiere, alterano la percezione
dell’immagine di sé.
Per Alice Miller il rispecchiamento genitoriale e, su un altro piano, il rispecchiamento
terapeutico si traducono innanzitutto - sul piano della rappresentazione mentale del
bambino o del paziente - in un atteggiamento di attenzione e valorizzazione e si
prolungano - sul piano del comportamento - in un atteggiamento coerente di rispetto
emotivo e relazionale.
Per quanto riguarda l’analisi delle risposte genitoriali va innanzitutto sottolineato che
tali risposte sono costituite soprattutto da comportamenti quotidiani, atteggiamenti
mentali, modi di dire e soprattutto di fare, abitudini e modalità di comportamento
consapevoli o inconsapevoli. Compaiono quattro parametri per comprendere l’origine
e valutare la qualità delle risposte genitoriali.

Un primo parametro è dato dalla capacità di accoglienza, cioè da quanto e da come i
genitori desiderano che venga al mondo questa nuova soggettività con i nuovi bisogni di
cui sarà portatrice e da quanto i genitori riescono a farsi un’idea, sufficientemente
corrispondente alla realtà, di tali bisogni.
Quindi il primo parametro è costituito dalle caratteristiche affettive e mentali del
desiderio genitoriale nei confronti del bambino immaginato, dalla capacità del
desiderio del genitore di rapportarsi alla propria storia di vita e alla realtà dei bisogni di
un bambino, dalla disponibilità mentale e relazionale del genitore a fare spazio ad un
altro essere, dalla possibilità di disporre delle risorse emotive e materiali per dare
risposte adeguate a questo nuovo essere che arriva.
Possiamo riscontrare su questo piano una gamma estremamente varia di atteggiamenti
genitoriali. In ogni caso, per molti versi, i giochi si fanno prima della nascita. Tantissimi
individui , ancora prima di nascere, vengono al mondo in una rete relazionale non
predisposta all’accoglienza oppure la loro venuta al mondo è anticipata da una
rappresentazione mentale distorta o distorcente della loro soggettività, una

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rappresentazione mentale che può essere appesantita da tutti i deficit non elaborati o da
tutte le aspettative compensative dei loro genitori.

Un secondo parametro è quello della comprensione e valorizzazione dell’alterità del
bambino, che avrà modo di esprimersi nel confronto relazionale ed educativo con il
bambino reale. È fondamentale che il genitore sia consapevole che questo essere che
arriva al mondo è proprio un individuo altro. In molti genitori c’è una tendenza emotiva
profonda a non percepire la differenza, la soggettività originale, di cui il bambino è
portatore, quindi a confondere, senza una chiara consapevolezza, i propri bisogni
soggettivi con i bisogni del figlio.
Il nuovo arrivato ha bisogno di essere rispecchiato, riconosciuto, valorizzato nella
propria irrepetibile e straordinaria unicità: egli è portatore di una personalità
individuale, caratterizzata da bisogni affettivi, relazionali, fisici, del tutto peculiari e
radicalmente distinti da quelli del genitore.

Un terzo parametro è rappresentato dal livello di intelligenza emotiva o di stupidità
emotiva del genitore. Per esempio può esserci nel genitore un desiderio affettivo
sufficientemente intenso e realistico di un figlio, può esserci una certa consapevolezza
della sua alterità, ma nel contempo può risultare carente il riconoscimento che questa
alterità è fondamentalmente portatrice di aspetti emotivi e di aspetti emotivi
differenziati. In altri termini, questo bambino ha bisogno di sorridere, ma ha anche
bisogno di arrabbiarsi; ha esigenza di essere appagato e soddisfatto nei suoi bisogni
materiali, ma ha anche esigenza di piangere; ha necessità di ridere e di essere allegro, ma
anche diritto ad essere triste perché deve confrontarsi con i vissuti di perdita e,
viceversa, deve confrontarsi con le difficoltà della vita ed imparare a gestire la
sofferenza; ma ha anche necessità di svagarsi; chiede di muoversi ma anche di essere
contenuto e, viceversa, con la sua crescita deve imparare a star fermo, ma ha anche un
bisogno insopprimibile di correre e giocare e non solo di stare composto secondo quelli
che sono gli schemi di ordine e di efficienza dell’ambiente adulto. Il bambino in altri
termini esprime bisogni estremamente differenziati che appartengono
all’emotività e che non possono essere governati o manipolati da appelli alla volontà, al
controllo, alla ragione, che fanno tanto comodo agli adulti, o da rappresentazioni
ideologiche, che rischiano di soffocare, colpevolizzare o eliminare potenzialità vitali
o intere parti del Sé del bambino.
Molte modalità relazionali maltrattanti passano attraverso il non riconoscimento, da
parte degli adulti, delle componenti emotive e si accompagnano ad una
sopravvalutazione doveristica delle componenti intellettive, volitive, morali del
bambino, esaltate in nome di valori educativi che si presumono oggettivi, che
nascondono a ben vedere esigenze soggettive strumentali degli adulti.

Il quarto parametro è quello legato alle capacità di rispecchiamento e di ascolto
empatico. Non basta “sapere”, avere consapevolezza in senso cognitivo. Occorre poi
mettersi dalla parte dell’altro, identificarsi emotivamente con il bambino, con la sua
bisognosità. Rispecchiare significa fare da specchio benevolo, uno specchio che

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riconosce che il bambino è portatore di bisogni meritevoli di essere rispettati. Non
sempre, ovviamente, i bisogni dei bambini possono essere soddisfatti e spesso occorre
fare i conti con gli inevitabili limiti (anche in termini di tempo) che la realtà impone, né
si può garantire che tutte le frustrazioni vengano costantemente riparate. Ma se, dunque,
i bisogni dei bambini non possono essere sempre soddisfatti, essi possono comunque
essere riconosciuti e rispettati, ancorché spesso inevitabilmente frustrati.

Fondamentali in proposito sono le riflessioni che Alice Miller fa su un’esperienza storica
particolare, che è l’esperienza di generazioni che hanno conosciuto la povertà, la guerra,
i bombardamenti, i campi di concentramento, e più in generale condizioni materiali
oggettivamente frustranti, e capaci di penalizzare i bisogni infantili. Cosa può fare un
adulto di fronte a tutto questo? Non potrà certo risparmiare al bambino i
bombardamenti, con la paura che ne consegue, non potrà forse risparmiargli la povertà
e talora la fame, ma quello che potrà fare è riconoscere il suo dolore, fare da eco e da
specchio benevolo al suo sentimento di impotenza, ansia, avvilimento, pena. Questo
atteggiamento dell’adulto, capace di mettere da parte il bisogno di autogiustificarsi per
porsi nella posizione di chi può comprendere empaticamente, ha un’importante
funzione riparatoria, nella misura in cui può comunicare al bambino qualcosa come:
“Capisco che tu stai male, hai ragione a stare male, la tua sofferenza è legittima e io non
ho saputo o non ho potuto risparmiartela - non è possibile risparmiare tutte le
sofferenze - ma io mi metto dalla tua parte, riconosco che nella gamma dei tuoi bisogni
c’è anche quello di essere sicuro, mentre tu avevi paura, c’era il bisogno di stare bene,
mentre io ti ho visto stare male. Ti sono dunque emotivamente vicino, condivido la tua
sofferenza o anche, se la sento, la tua rabbia”. Questo è il testimone consapevole.

Scrive Alice Miller: “Gli individui a cui è stato possibile e consentito sin dal principio della
loro infanzia di reagire in maniera adeguata, ossia con ira, ai dolori, alle offese, ai rifiuti
loro inflitti in modo consapevole e inconsapevole, manterranno tale capacità di presentare
reazioni adeguate anche in età più adulta. Da adulti essi riusciranno a rendersi conto che
qualcuno ha fatto loro del male e a esprimere tale fatto con le parole, ma difficilmente
avvertiranno il bisogno di saltare alla gola del loro interlocutore”. 4

Tutti noi, da bambini, abbiamo vissuto delle frustrazioni; tutti noi abbiamo potuto
riconoscere, almeno in qualche occasione, che il comportamento dei nostri genitori era
sbagliato, ingiusto. In quel momento è come se fossimo stati, in qualche misura,
testimoni soccorrevoli di noi stessi: di fronte a un bisogno frustrato abbiamo saputo
essere solidali con noi stessi, con il nostro bisogno, abbiamo potuto mantenere la
consapevolezza del fatto che quel nostro bisogno non è stato compreso dai nostri
genitori. Nei mattoni interni che hanno strutturato la nostra casa interna ci siamo
dunque ritrovati una capacità straordinariamente benefica di consapevolezza e di
autoriconoscimento della verità e del fondamento di nostri bisogni e del valore del

4
    A. Miller, La persecuzione del bambino, Bollati, 1987, p. 56.

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nostro Sé ferito. Evidentemente dobbiamo essere grati a qualcuno che ci ha donato quei
mattoni interni o ci ha consentito di fabbricarceli.
C’è qualcosa di complesso e prezioso che in quel momento ci ha consentito di essere
testimoni soccorrevoli di noi stessi, di non rinnegare il nostro bisogno, di avvertirne
la legittimità e di pensare per esempio: “Quando sarò grande non farò così”. Questo
atteggiamento presuppone una solidarietà con noi stessi, una consapevolezza, una
sensibilizzazione ai nostri stessi bisogni, che risulta un atteggiamento mentale tutt’altro
che scontato e che può venir meno in situazioni di grave impotenza, stress e solitudine,
come nelle situazioni traumatiche, nelle quali è stato inevitabile, se non abbiamo
ricevuto un forte ed approfondito sostegno, staccare la spina del contatto emotivo e
della solidarietà con la nostra condizione emotiva.
Nei mattoni della nostra casa interna, nei materiali costitutivi e costruttivi della
nostra mente possiamo spesso ritrovarci una capacità di autoriconoscimento di certi
bisogni, ma non di tutti i bisogni; di certe sofferenze o privazioni, ma non di tutte le
sofferenze o privazioni. Essere consapevoli di tutti i nostri bisogni emotivi, anche di
quelli che sono risultati censurati o conflittualizzati, è cosa tutt’altro che semplice!
Quanti sono i bisogni di cui noi stessi abbiamo smarrito la memoria o non abbiamo
potuto acquisire la consapevolezza? È proprio a questo livello inconscio che si determina
il rischio di una trasmissione intergenerazionale di comportamenti irriguardosi,
inadeguati o addirittura maltrattanti. In altri termini anche se i nostri bisogni sono
stati frustrati, ma abbiamo potuto garantire comprensione e solidarietà a noi stessi,
siamo in grado di impegnarci nell’evitare di procurare la medesima privazione o
sofferenza ai nostri figli o ad altri bambini, ma se non abbiamo potuto riconoscere la
nostra ferita, se abbiamo giustificato il comportamento dei nostri genitori, se
siamo stati costretti ad identificarci con il loro comportamento carente o
maltrattante, con la loro mancanza di rispetto o di ascolto nei nostri confronti, è in
qualche misura inevitabile il rischio di riprodurre quel comportamento o quella
mancanza sui nostri figli o su altri bambini.

“Nel frattempo avevo anche capito - scrive Alice Miller - che ero stata maltrattata da
bambina perché i miei genitori, durante la loro infanzia, avevano sperimentato qualcosa di
simile e nello stesso tempo appreso a considerare questo abuso come un’educazione
impartita per il loro bene. Dal momento che non era stato concesso loro di sentire, e quindi
di capire, quanto era loro capitato, non sono stati in grado di riconoscere l’abuso e me lo
hanno trasmesso, senza il benché minimo turbamento di coscienza” 5.

Fintanto che siamo sensibili ai nostri stessi bisogni le cose filano lisce, ma noi sappiamo
che il bambino tende a desensibilizzarsi rispetto a una serie di esigenze che non sono
rispecchiate dall’adulto, quindi queste esigenze il bambino continuerà ad averle ma non
ne sarà affatto consapevole, e non potendo riconoscere la violenza che gli viene inflitta
non sarà neppure in grado di comprenderla empaticamente negli altri, perché non l’ha
imparata dentro di sé.

5
    A. Miller, L’infanzia rimossa, Garzanti, 1990, p.12).

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Ci sono certi aspetti del carattere del bambino, rispetto ai quali non siamo attrezzati ad
empatizzare, non siamo in grado di accettare e accogliere, perché qualcosa è mancato
nella nostra storia. di cui non ci siamo resi conto, non abbiamo potuto renderci conto.

Scrive A. Miller:
“Non sono solo i sentimenti belli, buoni, piacevoli che ci fanno essere vivi, che conferiscono
profondità alla nostra esistenza e comprensione al nostro intelletto, ma spesso proprio
quelli scomodi, non adattati, che preferiremmo evitare: impotenza, vergogna, invidia,
gelosia, confusione, afflizione” 6.

La pena e l’impotenza del bambino sofferente che siamo stati: questo è il “rospo” da
trangugiare, questo è il “calice amaro” che siamo disponibili a bere solo in parte. La
conseguenza è quella di continuare a non essere pienamente sensibili e consapevoli nei
confronti di tutta la nostra esperienza emotiva. Quel che è fondamentale è fare i conti
fino in fondo, almeno per quanto è possibile, con la nostra infanzia rimossa, percepire
tutta la realtà emotiva, tutta l’alterità di cui siamo stati portatori, percepire tutta la
gamma di bisogni emotivi (di cui in parte siamo consapevoli, in parte no) che sono stati
calpestati, ricordare tutto ciò che ci è stato fatto, l’attenzione parziale di cui siamo stati
oggetto, il desiderio parziale che ha accompagnato il nostro venire al mondo. Ricordare
tutto ciò che ci è stato fatto, non per autocommiserarci ma per ampliare la
comprensione di noi stessi e quindi la nostra capacità di comprendere gli altri. C’è
una specifica resistenza in tutti noi a portare avanti questo compito; è quello che io
verifico sia nella mia storia personale, sia nella mia attività di psicoterapeuta:
preferiamo evitare di attraversare fino in fondo la verità della nostra storia, non
contattare fino in fondo la pena e l’impotenza della nostra infanzia, mantenere una parte
di rimozione, a prezzo tuttavia di rinunciare ad una parte della nostra energia vitale, ad
una parte della nostra capacità di amare e di essere sensibili.
In quest’ottica, ciò che è fondamentale, più ancora che fare i conti con i genitori reali -
prospettiva che può risultare psicologicamente salutare o addirittura indispensabile in
alcune situazioni - è fare i conti con i genitori interni, per poter prendere contatto, per
quanto possibile, con tutta la nostra emotività, con tutta la gamma dei nostri bisogni, con
tutta la sofferenza e la rabbia infantili, con tutte le frustrazioni che abbiamo vissuto, o
almeno con una buona parte di esse.
Sarebbe sbagliato cercare una ricetta valida per tutti su come comportarsi nella realtà
quotidiana con i propri genitori reali: io credo che si possa concordare sul fatto che
trattare bene le persone sia meglio che trattarle male, vivere in pace sia meglio che
vivere in guerra, trovare dei punti di compromesso sia meglio che trovare
continuamente punti di conflitto. Questo può certamente essere un orientamento
generale. Ciò nondimeno ci saranno coloro che devono fare i conti in modo più aspro con
i loro genitori, perché le responsabilità di questi ultimi sono state più gravi, come nel
caso delle violenze, o perché i comportamenti attuali continuano ad essere lesivi.

6
    A. Miller, Il dramma del bambino dotato, Boringhieri, 1985, p.70).

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Ciascuno, in sostanza, potrà trovare la propria modalità di convivenza con le figure dei
genitori reali e farci i conti.
Ma il punto è un altro: il punto è distinguere i genitori reali dai nostri genitori interni,
quelli che abitano la nostra mente e che possono essere associati non solo a mattoni
solidi e positivi della nostra casa interna, ma anche a mattoni mal fabbricati e pericolosi.
Sono i genitori interni che noi ci ostiniamo a proteggere, anche quando sono associati a
schemi mentali colpevolizzanti, svalutanti, negativi, confusivi, distruttivi. È con questi
genitori che noi dobbiamo fare i conti, distinguendoli in qualche misura dai genitori
reali.
Certamente dentro di noi esistono delle cariche attuali di idealizzazione nei confronti
dei genitori reali, ma d’altra parte l’idealizzazione più nociva, quella più difficile da
elaborare perché è legata alle esigenze difensive del bambino impotente che siamo stati
e che doveva giustificare per sopravvivere il comportamento dei propri genitori è
l’idealizzazione nei confronti dei genitori interni.
Io penso che il lavoro volto a ricordare ciò che ci è stato fatto debba giocarsi innanzitutto
fra noi e noi stessi, nella nostra mente, nella nostra memoria, anche se non sempre
possiamo sottovalutare ciò che avviene all’esterno e la necessità di compiere
fattivamente scelte importanti e salutari per difendere la nostra mente.
In questo senso, nella mia esperienza, l’abbinamento dell’analisi individuale allo
psicodramma psicoterapeutico si è rivelata una strategia straordinariamente efficace
a livello terapeutico. Nello psicodramma si possono infatti raggiungere degli insight -
cioè delle visioni interiori dei bisogni che sono stati calpestati, dei ricordi di ciò che è
stato fatto - si possono contattare profonde espressioni di collera e di odio nei confronti
dei genitori interni, senza che i genitori reali ne siano immediatamente coinvolti: ciò che
risulta decisivo non è infatti coinvolgere i genitori reali, quel che conta è arrivare a delle
forme di drammatizzazione che risultino liberanti, anche delle cariche di espressione
della sofferenza, di protesta e di differenziazione nei confronti delle
rappresentazioni dei genitori. Ma è a questo livello che incontriamo le resistenze più
forti.
Di fronte a questo tipo di impegno ci sarà qualcuno che si difenderà dicendo: “Non posso
farlo, non voglio far male ai miei genitori” oppure “Non è giusto parlar male di loro, in
fondo non ne erano consapevoli, hanno sofferto anche loro ”. Bisognerà rispondere che il
problema non è certo quello di disprezzare i genitori reali, non comprendendo la loro
pena, la loro storia o misconoscendo le loro, pur carenti, capacità di amare, ma che il
compito di ciascuno è assumere una responsabilità verso il proprio Sé, la responsabilità
di comprendere la verità della propria sofferenza infantile, di rispettare e di
recuperare la preziosità della vita che abita in ciascun bambino e in ciascuna persona
e che può essere stata lesa. Si potrà inoltre far notare, almeno in una parte dei casi, che i
genitori reali non patiranno alcun male, perché non verranno necessariamente a
conoscenza dell’elaborazione del figlio.
Ma ciò che è fondamentale chiarire è che la paura più rilevante è quella di ferire, di
danneggiare non tanto i genitori reali, quanto piuttosto i loro più temibili simulacri, le
rappresentazioni interne delle figure genitoriali. Sono queste figure che desideriamo
spesso mantenere in un Pantheon interno, per evitare di ricordare ciò che abbiamo

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subito, per continuare a fuggire dal riconoscimento dell’impotenza, della confusione,
della pena e della rabbia, legate a ciò che ci è stato fatto e a ciò che è mancato.
Il gruppo in quest’ottica può essere dunque il contenitore capace di rispecchiare la
realtà storica e psicologica degli individui, non attraverso un’operazione pietistica o
di semplice sfogo emozionale ma attraverso un’operazione di consapevolezza realistica,
benevola e paziente, favorendo una possibilità di comprensione reciproca e di
esplicitazione delle emozioni maggiormente censurate e difficili da esprimere
(protesta, impotenza, disperazione, angoscia, odio, colpa, vergogna, eccitazione…), sia
delle emozioni autentiche di sollievo, di condivisione e di gioia, associate al
percorso di elaborazione e di crescita individuale e di gruppo.

“Chiunque riesca a comprendere e a integrare la propria collera come parte di sé non sarà
mai un violento. Avverte il bisogno di colpire gli altri soltanto chi non riesca a comprendere
la propria rabbia, dato che non gli è stato consentito, quand’era bambino, di acquisire
familiarità con tale sentimento che egli non ha mai potuto vivere come una parte di sé,
visto che nell’ambiente che lo circondava ciò era assolutamente impensabile.” 7

È dunque soltanto se torniamo indietro a sentire, a riacquistare la sensibilità che non
abbiamo potuto attivare o mantenere verso la nostra vita emotiva infantile, possiamo
procedere in un lungo, complesso, faticoso - ma anche liberante - cammino di
consapevolezza. Soltanto migliorando la nostra capacità di riconoscere - in modo
attento, tollerante e solidale verso noi stessi - le emozioni bloccate, censurate o
colpevolizzate della nostra vicenda infantile ed adolescenziale, possiamo ampliare la
nostra capacità di comprensione empatica dell’altro: competenza fondamentale nella
relazione educativa, in famiglia o nelle istituzioni sociali ed educative.
Non basta limitarsi a una consapevolezza superficiale o razionale. Ciò che è
fondamentale è la possibilità di dare voce alla dimensione infantile interna che non
fu ascoltata dagli adulti e neppure da noi stessi e trovare il rispecchiamento adeguato.
Non possiamo dimenticare che è solo attraverso l’altro che noi possiamo giungere a
legittimare fino in fondo la nostra vita emotiva. E questo può avvenire in qualsiasi
momento della nostra vita, se abbiamo la possibilità di trovare lo spazio e il luogo idoneo
per farlo.

Questa è un’altra indicazione preziosa che il pensiero di Alice Miller ci offre: se la
sofferenza, la rabbia, l’impotenza, la confusione non vennero comprese ed espresse o
furono disprezzate, negate o travisate, potranno sempre trovare in seguito degli spazi e
dei luoghi per poter essere riconosciute ed attraverso il ruolo di un testimone
soccorrevole, attraverso l’ascolto riparativo dell’altro, di uno psicoterapeuta empatico
o di un gruppo accogliente.
In un’ottica psicoanalitica la psicoterapia individuale, a cui personalmente rimango
legato, possibilmente abbinata al gruppo di psicodramma, può diventare il luogo di

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    A. Miller, La persecuzione …, op.cit, p.57.

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ricostruzione consapevole e trasformativa della vicenda del paziente: di ciò è stato fatto
al suo Sé e di ciò che il Sé ha fatto per reagire ai mal/trattamenti subiti.

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