In memoria di - Sie Editore - Alice Miller
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
a cura di Claudio Foti, Laura Ferro, Claudio Bosetto In memoria di Alice Miller Educazione e psicoterapia nel rispetto delle emozioni Sie Editore 1
Indice Introduzione 7 I mattoni della nostra casa interna 9 di Claudio Foti L’educazione come pratica del rispetto delle emozioni 16 di Claudio Bosetto, Claudio Foti La cultura psicologica e psichiatrica dell’incredulità e della negazione della 20 violenza di Silvana Claudia Mara Riflessioni intorno a “La persecuzione del bambino” 24 di Luciano Griso Adulti: Ladri d’infanzia 29 di Marina Annunziata Il tempo del perdono 33 di Letizia Prezia Il bambino ritrovato 38 di Rosa Maria Elena Aloia Quando la psicoterapia non porta all’inferno… 42 di Silvia Carnisio Cambiare per ritrovarsi: il pensiero di Alice Miller 47 di Daniela Cipriani Limiti? No, grazie 52 di Anna Maltese Il contributo di Alice Miller alla pedagogia 56 2
3
Introduzione “Cari lettori, è con immenso dolore che devo annunciare la scomparsa di Alice Miller, avvenuta il 14 aprile del 2010. In queste poche righe Alice avrebbe voluto far giungere a tutti voi la sua più profonda gratitudine per l’affetto e l’incoraggiamento che con le vostre lettere avete saputo trasmetterle nei suoi ultimi giorni di vita, rendendo onore alle sue opere letterarie. Alice Miller non è più tra noi ma la sua memoria rimarrà viva grazie al grande valore dei suoi scritti e all’attività del suo sito web, che ognuno potrà consultare in qualunque momento necessiti di un suggerimento o voglia portare avanti specifiche ricerche. La più grande ambizione di Alice Miller era certamente che ogni adulto potesse giungere ad una piena comprensione del fatto che il maltrattamento dei bambini, oltre ad avere conseguenze disastrose sulla loro vita futura, finisce anche inevitabilmente per ripercuotersi negativamente sull’intera società. Grazie di cuore, Alice, per aver dedicato gran parte della tua esistenza alla scrittura; i tuoi testi, che conserveranno per noi un valore speciale, costituiranno – ne siamo certi – un’eredità di straordinario valore per il nostro futuro” 1. Così, il 23 aprile 2010, Brigitte Oriol annuncia la morte della psicoterapeuta e scrittrice zurighese sul suo sito ufficiale: con un ultimo pensiero rivolto dall’autrice scomparsa ai suoi lettori ed un invito rivolto a tutti noi a raccogliere l’eredità del messaggio alla cui diffusione Alice Miller dedicato un’intera esistenza. Ed è proprio con questo spirito che il Centro Studi Hansel e Gretel Onlus – che da sempre di questo messaggio di attenzione e di tutela nei confronti dell’infanzia sofferente si è fatto attivamente promotore e portavoce – ha scelto di raccogliere e pubblicare una serie di brevi interventi con cui alcuni dei suoi collaboratori – psicologi, insegnanti, educatori – hanno voluto riflettere sulla traccia profonda che la lettura dei testi di Alice Miller ha lasciato sulla loro esperienza professionale, e non solo. “Chi ha letto i suoi libri” scrive Olivier Maurel 2 “a partire da Il dramma del bambino dotato, fino a Riprendersi la vita, ha visto la propria vita profondamente trasformata. Leggere Alice Miller vuol dire ricentrarsi su sé stessi, sul bambino che siamo stati. Significa, per quante cose degradanti e mutilanti si possano aver subito, riprendere contatto con l’innocenza di quel bambino. Significa, spazzando via i giudizi che si siano potuti sostenere 1 Da Information, comparso sul sito ufficiale di Alice Miller (http://www.alice-miller.com) il 23 aprile 2010. 2 da Tributo ad Alice Miller, comparso sul sito dell’Osservatorio Regionale sulla Violenza Ordinaria (http://www.oveo.org/) il 30 Aprile 2010. 4
sui bambini, sulla loro “follia”, il loro “peccato originale”, la loro “innata bestialità”, le “pulsioni” con cui la cultura del disprezzo del bambino li ha etichettati, osare dichiarare del tutto innocente il bambino che siamo stati. Nessuno prima di Alice Miller era stato altrettanto radicale. A partire da questa certezza che i suoi libri sanno comunicare ai lettori, diventa possibile per ognuno una vera resurrezione, semplicemente perché ciascuno può riconnettersi con il bambino che è stato, la sorgente della vita dentro di lui. In questo modo Alice Miller ha dato un apporto fondamentale alla causa dell’infanzia” Alice Miller, lo ricordiamo, è nata nel 1923 in Polonia; completati i suoi studi in Filosofia, Psicologia e Sociologia a Basilea, dove nel 1953 ha conseguito il dottorato in Filosofia, e specializzatasi in psicoanalisi a Zurigo, ha esercitato per vent’anni la professione di psicoterapeuta fino a quando, nel 1980, ha deciso di abbandonare l’esercizio professionale e l’attività didattica per dedicarsi esclusivamente allo studio dell’infanzia e alla stesura dei suoi libri. Nel 1986 fu insignita del premio intitolato al medico e studioso polacco Janusz Korczak, direttore della “Casa degli orfani” di Varsavia e sostenitore del diritto del bambino al rispetto. Nel 1988, al termine di un sofferto percorso di allontanamento dalla pratica psicoanalitica, annuncia la sua uscita dall’Unione Internazionale degli Psicoanalisti, perché convinta che la psicoanalisi non solo non aiuti il raggiungimento della consapevolezza della propria realtà infantile, ma addirittura lo impedisca. Tra i punti fermi della contestazione milleriana vi è, infatti, il rifiuto della teoria e della pratica psicoanalitiche “tradizionali”, ma anche una profonda critica delle pratiche educative correnti e dell’intero edificio teorico di quella che chiama la “pedagogia nera”. Leggiamo ancora sul suo sito: “(…) la sua ambizione è sempre stata quella di diffondere una maggiore consapevolezza sull’impatto profondo e duraturo che qualunque forma di abuso subito nell’infanzia ha sull’intera esistenza di chi ne è stato vittima, nonché sulle possibili vie per raggiungere la guarigione (…)Secondo Alice Miller, le radici della violenza diffusa in tutto il mondo risiedono nel fatto che i bambini di tutto il mondo vengono picchiati e maltrattati, e in particolar modo nei loro primi anni della loro vita, proprio quando il loro cervello è in via di strutturazione. Per quanto i danni causati da queste pratiche siano devastanti, la società è restia a prenderne atto. E non è difficile comprendere il perché: nella misura in cui ai bambini non è consentito difendersi dalla violenza di cui sono vittime, essi non potranno che sopprimere le naturali reazioni di rabbia e angoscia. E solo più tardi, una volta divenuti adulti, essi potranno scaricare queste emozioni così intense e disturbanti sui propri figli o, in alcuni casi, su popolazioni intere. Alice Miller descrive questa dinamica nei suoi 13 libri, illustrandola non soltanto con l’ausilio delle storie cliniche dei suoi pazienti, ma anche attraverso i suoi numerosi studi sulle biografie dei dittatori e di artisti celebri. Il diffuso evitamento, in ogni società, di tale questione ha come risultato il proliferare indisturbato all’interno delle famiglie di comportamenti oltremodo irrazionali, fatti di brutalità, sadismo e altre perversioni, i cui effetti ci piace poi etichettare, negli adulti, come "geneticamente determinati". Alice Miller ritiene che soltanto accettando di prendere 5
coscienza fino in fondo di questa dinamica si possa spezzare la catena della violenza: per questa ragione ha dedicato la sua intera esistenza alla diffusione di questo messaggio. Negli scorsi anni l’autrice ha sviluppato un modello di psicoterapia che ci invita a confrontarci con la nostra storia e a riconoscere la paura, ancora straordinariamente attiva per quanto inconscia, dei bambini maltrattati che siamo stati. Solo quando finalmente riusciamo a sentire la rabbia e l’indignazione che tanto a lungo abbiamo dovuto negare possiamo crescere pienamente e diventare autonomi. Poiché è proprio la paura infantile di genitori onnipotenti e maltrattanti che porta gli adulti a maltrattare i propri figli. Pur consapevole dei tragici risvolti della sua scoperta Alice Miller è profondamente ottimista nella convinzione che questa consapevolezza possa aprire finalmente le porte a una visione più realistica della realtà dei bambini e allo stesso tempo alla liberazione dell’adulto dalla sua paura infantile e dai suoi effetti distruttivi” 3 3 Tratto da Profilo di Alice Miller. Verso la realtà dell’infanzia, www.alice-miller.com © 2008 Alice Miller. 6
I mattoni della nostra casa interna 1 di Claudio Foti Alice Miller riprende una riflessione, già presente nel movimento psicoanalitico, relativa agli atteggiamenti di cura efficaci, riflessione che diversi autori hanno elaborato attraverso concetti quali “rispecchiamento”, “capacità di risposta empatica” del genitore (Kohut 2) e “partecipazione affettiva” dell’analista (Ferenczi 3). Tali concetti, nella riflessione di Alice Miller, prendono avvio dalla clinica psicoanalitica ed arrivano successivamente ad essere utilizzati e sviluppati in una riflessione più ampia sulla relazione educativa. Il pensiero di Kohut ripreso da Alice Miller riguarda l’evoluzione della nostra mente, l’organizzazione del nostro sé, vista come il bene più importante e prezioso che ciascuno di noi possiede. Secondo questi autori la struttura della nostra casa interna è costituita da mattoni che sono le risposte interiorizzate che le figure adulte per noi significative hanno dato ai nostri bisogni affettivi ed evolutivi. Noi abbiamo fatto nostri questi mattoni, che ovviamente hanno potuto risentire del momento e della situazione in cui sono stati inseriti nella costruzione del nostro Sé. I mattoni meno solidi e peggio fabbricati sono costituiti dalle risposte carenti dei nostri genitori nei confronti dei nostri bisogni. La fragilità e la rischiosità di questi mattoni può essere stata amplificata dalle condizioni di impotenza in cui ci trovavamo quando la casa interna era in costruzione e dalle manovre difensive che abbiamo attuato per sopravvivere a situazioni di grave difficoltà. La riflessione di Alice Miller può aiutarci a chiarire due punti: • qual è la radice del nostro essere, del nostro “esserci”, quali sono le fondamenta della soggettività del bambino, che vanno protette dalla violenza, dalle strumentalizzazioni e dalle distorsioni, affinché la casa interna ed esterna, la vita psichica e la vita sociale del bambino, possano svilupparsi in modo solido e soddisfacente; • quali sono le principali risposte genitoriali ai bisogni del bambino, risposte estremamente differenziate - ma in ogni caso determinanti per la direzione di sviluppo del cucciolo dell’uomo - e quali sono i parametri che possono aiutarci ad inquadrare la grande differenziazione di queste risposte. Alice Miller chiarisce innanzitutto che il nostro essere, il nostro “esserci” è costituito essenzialmente dalla nostra vita emotiva, dalla nostra bisognosità affettiva e relazionale. 1 Dalle conclusioni del seminario “Il pensiero di Alice Miller”, Centro Studi Hansel e Gretel, 1995. 2 R. Siani, La psicologia del Sé, Boringhieri, 1993. 3 F. Borgogno (a cura di), La partecipazione affettiva dell’analista (a cura di), Angeli, 1999. 7
Il rispecchiamento è l’atteggiamento del genitore che risponde adeguatamente ai bisogni “narcisistici” dell’essere che viene al mondo, bisogni intesi non già come un fatto patologico, bensì come esigenza fondamentale ed irrinunciabile, del soggetto umano. Il Sé profondo ed articolato del bambino ha esigenza di venire rispecchiato in tutte le sue parti, ha necessità di una figura di accudimento che faccia da specchio capace di rinviare - in senso positivo e realistico e non già in senso deformante - l’interezza dei bisogni emotivi e relazionali del bambino stesso, uno specchio riflettente, capace di restituire in modo adeguato e valorizzante al soggetto in evoluzione un’immagine di sé complessivamente buona e bella ed un’immagine accettante e rispettosa delle sue diverse componenti, gioiose e sofferenti, affettive e cognitive, disposte all’adattamento o al conflitto, alla crescita o alla regressione Lo specchio deve risultare gratificante e non già suscitare frustrazione ed invidia come lo specchio della matrigna di Biancaneve. Lo specchio deve inquadrare e restituire non solo una parte, ma l’immagine completa del soggetto. Lo specchio deve fornire un’immagine realistica, capace di riflettere realisticamente non solo i limiti, ma innanzitutto il valore e l’integrità della persona che si specchia e non deve pertanto funzionare come certi specchi che, nei baracconi delle fiere, alterano la percezione dell’immagine di sé. Per Alice Miller il rispecchiamento genitoriale e, su un altro piano, il rispecchiamento terapeutico si traducono innanzitutto - sul piano della rappresentazione mentale del bambino o del paziente - in un atteggiamento di attenzione e valorizzazione e si prolungano - sul piano del comportamento - in un atteggiamento coerente di rispetto emotivo e relazionale. Per quanto riguarda l’analisi delle risposte genitoriali va innanzitutto sottolineato che tali risposte sono costituite soprattutto da comportamenti quotidiani, atteggiamenti mentali, modi di dire e soprattutto di fare, abitudini e modalità di comportamento consapevoli o inconsapevoli. Compaiono quattro parametri per comprendere l’origine e valutare la qualità delle risposte genitoriali. Un primo parametro è dato dalla capacità di accoglienza, cioè da quanto e da come i genitori desiderano che venga al mondo questa nuova soggettività con i nuovi bisogni di cui sarà portatrice e da quanto i genitori riescono a farsi un’idea, sufficientemente corrispondente alla realtà, di tali bisogni. Quindi il primo parametro è costituito dalle caratteristiche affettive e mentali del desiderio genitoriale nei confronti del bambino immaginato, dalla capacità del desiderio del genitore di rapportarsi alla propria storia di vita e alla realtà dei bisogni di un bambino, dalla disponibilità mentale e relazionale del genitore a fare spazio ad un altro essere, dalla possibilità di disporre delle risorse emotive e materiali per dare risposte adeguate a questo nuovo essere che arriva. Possiamo riscontrare su questo piano una gamma estremamente varia di atteggiamenti genitoriali. In ogni caso, per molti versi, i giochi si fanno prima della nascita. Tantissimi individui , ancora prima di nascere, vengono al mondo in una rete relazionale non predisposta all’accoglienza oppure la loro venuta al mondo è anticipata da una rappresentazione mentale distorta o distorcente della loro soggettività, una 8
rappresentazione mentale che può essere appesantita da tutti i deficit non elaborati o da tutte le aspettative compensative dei loro genitori. Un secondo parametro è quello della comprensione e valorizzazione dell’alterità del bambino, che avrà modo di esprimersi nel confronto relazionale ed educativo con il bambino reale. È fondamentale che il genitore sia consapevole che questo essere che arriva al mondo è proprio un individuo altro. In molti genitori c’è una tendenza emotiva profonda a non percepire la differenza, la soggettività originale, di cui il bambino è portatore, quindi a confondere, senza una chiara consapevolezza, i propri bisogni soggettivi con i bisogni del figlio. Il nuovo arrivato ha bisogno di essere rispecchiato, riconosciuto, valorizzato nella propria irrepetibile e straordinaria unicità: egli è portatore di una personalità individuale, caratterizzata da bisogni affettivi, relazionali, fisici, del tutto peculiari e radicalmente distinti da quelli del genitore. Un terzo parametro è rappresentato dal livello di intelligenza emotiva o di stupidità emotiva del genitore. Per esempio può esserci nel genitore un desiderio affettivo sufficientemente intenso e realistico di un figlio, può esserci una certa consapevolezza della sua alterità, ma nel contempo può risultare carente il riconoscimento che questa alterità è fondamentalmente portatrice di aspetti emotivi e di aspetti emotivi differenziati. In altri termini, questo bambino ha bisogno di sorridere, ma ha anche bisogno di arrabbiarsi; ha esigenza di essere appagato e soddisfatto nei suoi bisogni materiali, ma ha anche esigenza di piangere; ha necessità di ridere e di essere allegro, ma anche diritto ad essere triste perché deve confrontarsi con i vissuti di perdita e, viceversa, deve confrontarsi con le difficoltà della vita ed imparare a gestire la sofferenza; ma ha anche necessità di svagarsi; chiede di muoversi ma anche di essere contenuto e, viceversa, con la sua crescita deve imparare a star fermo, ma ha anche un bisogno insopprimibile di correre e giocare e non solo di stare composto secondo quelli che sono gli schemi di ordine e di efficienza dell’ambiente adulto. Il bambino in altri termini esprime bisogni estremamente differenziati che appartengono all’emotività e che non possono essere governati o manipolati da appelli alla volontà, al controllo, alla ragione, che fanno tanto comodo agli adulti, o da rappresentazioni ideologiche, che rischiano di soffocare, colpevolizzare o eliminare potenzialità vitali o intere parti del Sé del bambino. Molte modalità relazionali maltrattanti passano attraverso il non riconoscimento, da parte degli adulti, delle componenti emotive e si accompagnano ad una sopravvalutazione doveristica delle componenti intellettive, volitive, morali del bambino, esaltate in nome di valori educativi che si presumono oggettivi, che nascondono a ben vedere esigenze soggettive strumentali degli adulti. Il quarto parametro è quello legato alle capacità di rispecchiamento e di ascolto empatico. Non basta “sapere”, avere consapevolezza in senso cognitivo. Occorre poi mettersi dalla parte dell’altro, identificarsi emotivamente con il bambino, con la sua bisognosità. Rispecchiare significa fare da specchio benevolo, uno specchio che 9
riconosce che il bambino è portatore di bisogni meritevoli di essere rispettati. Non sempre, ovviamente, i bisogni dei bambini possono essere soddisfatti e spesso occorre fare i conti con gli inevitabili limiti (anche in termini di tempo) che la realtà impone, né si può garantire che tutte le frustrazioni vengano costantemente riparate. Ma se, dunque, i bisogni dei bambini non possono essere sempre soddisfatti, essi possono comunque essere riconosciuti e rispettati, ancorché spesso inevitabilmente frustrati. Fondamentali in proposito sono le riflessioni che Alice Miller fa su un’esperienza storica particolare, che è l’esperienza di generazioni che hanno conosciuto la povertà, la guerra, i bombardamenti, i campi di concentramento, e più in generale condizioni materiali oggettivamente frustranti, e capaci di penalizzare i bisogni infantili. Cosa può fare un adulto di fronte a tutto questo? Non potrà certo risparmiare al bambino i bombardamenti, con la paura che ne consegue, non potrà forse risparmiargli la povertà e talora la fame, ma quello che potrà fare è riconoscere il suo dolore, fare da eco e da specchio benevolo al suo sentimento di impotenza, ansia, avvilimento, pena. Questo atteggiamento dell’adulto, capace di mettere da parte il bisogno di autogiustificarsi per porsi nella posizione di chi può comprendere empaticamente, ha un’importante funzione riparatoria, nella misura in cui può comunicare al bambino qualcosa come: “Capisco che tu stai male, hai ragione a stare male, la tua sofferenza è legittima e io non ho saputo o non ho potuto risparmiartela - non è possibile risparmiare tutte le sofferenze - ma io mi metto dalla tua parte, riconosco che nella gamma dei tuoi bisogni c’è anche quello di essere sicuro, mentre tu avevi paura, c’era il bisogno di stare bene, mentre io ti ho visto stare male. Ti sono dunque emotivamente vicino, condivido la tua sofferenza o anche, se la sento, la tua rabbia”. Questo è il testimone consapevole. Scrive Alice Miller: “Gli individui a cui è stato possibile e consentito sin dal principio della loro infanzia di reagire in maniera adeguata, ossia con ira, ai dolori, alle offese, ai rifiuti loro inflitti in modo consapevole e inconsapevole, manterranno tale capacità di presentare reazioni adeguate anche in età più adulta. Da adulti essi riusciranno a rendersi conto che qualcuno ha fatto loro del male e a esprimere tale fatto con le parole, ma difficilmente avvertiranno il bisogno di saltare alla gola del loro interlocutore”. 4 Tutti noi, da bambini, abbiamo vissuto delle frustrazioni; tutti noi abbiamo potuto riconoscere, almeno in qualche occasione, che il comportamento dei nostri genitori era sbagliato, ingiusto. In quel momento è come se fossimo stati, in qualche misura, testimoni soccorrevoli di noi stessi: di fronte a un bisogno frustrato abbiamo saputo essere solidali con noi stessi, con il nostro bisogno, abbiamo potuto mantenere la consapevolezza del fatto che quel nostro bisogno non è stato compreso dai nostri genitori. Nei mattoni interni che hanno strutturato la nostra casa interna ci siamo dunque ritrovati una capacità straordinariamente benefica di consapevolezza e di autoriconoscimento della verità e del fondamento di nostri bisogni e del valore del 4 A. Miller, La persecuzione del bambino, Bollati, 1987, p. 56. 10
nostro Sé ferito. Evidentemente dobbiamo essere grati a qualcuno che ci ha donato quei mattoni interni o ci ha consentito di fabbricarceli. C’è qualcosa di complesso e prezioso che in quel momento ci ha consentito di essere testimoni soccorrevoli di noi stessi, di non rinnegare il nostro bisogno, di avvertirne la legittimità e di pensare per esempio: “Quando sarò grande non farò così”. Questo atteggiamento presuppone una solidarietà con noi stessi, una consapevolezza, una sensibilizzazione ai nostri stessi bisogni, che risulta un atteggiamento mentale tutt’altro che scontato e che può venir meno in situazioni di grave impotenza, stress e solitudine, come nelle situazioni traumatiche, nelle quali è stato inevitabile, se non abbiamo ricevuto un forte ed approfondito sostegno, staccare la spina del contatto emotivo e della solidarietà con la nostra condizione emotiva. Nei mattoni della nostra casa interna, nei materiali costitutivi e costruttivi della nostra mente possiamo spesso ritrovarci una capacità di autoriconoscimento di certi bisogni, ma non di tutti i bisogni; di certe sofferenze o privazioni, ma non di tutte le sofferenze o privazioni. Essere consapevoli di tutti i nostri bisogni emotivi, anche di quelli che sono risultati censurati o conflittualizzati, è cosa tutt’altro che semplice! Quanti sono i bisogni di cui noi stessi abbiamo smarrito la memoria o non abbiamo potuto acquisire la consapevolezza? È proprio a questo livello inconscio che si determina il rischio di una trasmissione intergenerazionale di comportamenti irriguardosi, inadeguati o addirittura maltrattanti. In altri termini anche se i nostri bisogni sono stati frustrati, ma abbiamo potuto garantire comprensione e solidarietà a noi stessi, siamo in grado di impegnarci nell’evitare di procurare la medesima privazione o sofferenza ai nostri figli o ad altri bambini, ma se non abbiamo potuto riconoscere la nostra ferita, se abbiamo giustificato il comportamento dei nostri genitori, se siamo stati costretti ad identificarci con il loro comportamento carente o maltrattante, con la loro mancanza di rispetto o di ascolto nei nostri confronti, è in qualche misura inevitabile il rischio di riprodurre quel comportamento o quella mancanza sui nostri figli o su altri bambini. “Nel frattempo avevo anche capito - scrive Alice Miller - che ero stata maltrattata da bambina perché i miei genitori, durante la loro infanzia, avevano sperimentato qualcosa di simile e nello stesso tempo appreso a considerare questo abuso come un’educazione impartita per il loro bene. Dal momento che non era stato concesso loro di sentire, e quindi di capire, quanto era loro capitato, non sono stati in grado di riconoscere l’abuso e me lo hanno trasmesso, senza il benché minimo turbamento di coscienza” 5. Fintanto che siamo sensibili ai nostri stessi bisogni le cose filano lisce, ma noi sappiamo che il bambino tende a desensibilizzarsi rispetto a una serie di esigenze che non sono rispecchiate dall’adulto, quindi queste esigenze il bambino continuerà ad averle ma non ne sarà affatto consapevole, e non potendo riconoscere la violenza che gli viene inflitta non sarà neppure in grado di comprenderla empaticamente negli altri, perché non l’ha imparata dentro di sé. 5 A. Miller, L’infanzia rimossa, Garzanti, 1990, p.12). 11
Ci sono certi aspetti del carattere del bambino, rispetto ai quali non siamo attrezzati ad empatizzare, non siamo in grado di accettare e accogliere, perché qualcosa è mancato nella nostra storia. di cui non ci siamo resi conto, non abbiamo potuto renderci conto. Scrive A. Miller: “Non sono solo i sentimenti belli, buoni, piacevoli che ci fanno essere vivi, che conferiscono profondità alla nostra esistenza e comprensione al nostro intelletto, ma spesso proprio quelli scomodi, non adattati, che preferiremmo evitare: impotenza, vergogna, invidia, gelosia, confusione, afflizione” 6. La pena e l’impotenza del bambino sofferente che siamo stati: questo è il “rospo” da trangugiare, questo è il “calice amaro” che siamo disponibili a bere solo in parte. La conseguenza è quella di continuare a non essere pienamente sensibili e consapevoli nei confronti di tutta la nostra esperienza emotiva. Quel che è fondamentale è fare i conti fino in fondo, almeno per quanto è possibile, con la nostra infanzia rimossa, percepire tutta la realtà emotiva, tutta l’alterità di cui siamo stati portatori, percepire tutta la gamma di bisogni emotivi (di cui in parte siamo consapevoli, in parte no) che sono stati calpestati, ricordare tutto ciò che ci è stato fatto, l’attenzione parziale di cui siamo stati oggetto, il desiderio parziale che ha accompagnato il nostro venire al mondo. Ricordare tutto ciò che ci è stato fatto, non per autocommiserarci ma per ampliare la comprensione di noi stessi e quindi la nostra capacità di comprendere gli altri. C’è una specifica resistenza in tutti noi a portare avanti questo compito; è quello che io verifico sia nella mia storia personale, sia nella mia attività di psicoterapeuta: preferiamo evitare di attraversare fino in fondo la verità della nostra storia, non contattare fino in fondo la pena e l’impotenza della nostra infanzia, mantenere una parte di rimozione, a prezzo tuttavia di rinunciare ad una parte della nostra energia vitale, ad una parte della nostra capacità di amare e di essere sensibili. In quest’ottica, ciò che è fondamentale, più ancora che fare i conti con i genitori reali - prospettiva che può risultare psicologicamente salutare o addirittura indispensabile in alcune situazioni - è fare i conti con i genitori interni, per poter prendere contatto, per quanto possibile, con tutta la nostra emotività, con tutta la gamma dei nostri bisogni, con tutta la sofferenza e la rabbia infantili, con tutte le frustrazioni che abbiamo vissuto, o almeno con una buona parte di esse. Sarebbe sbagliato cercare una ricetta valida per tutti su come comportarsi nella realtà quotidiana con i propri genitori reali: io credo che si possa concordare sul fatto che trattare bene le persone sia meglio che trattarle male, vivere in pace sia meglio che vivere in guerra, trovare dei punti di compromesso sia meglio che trovare continuamente punti di conflitto. Questo può certamente essere un orientamento generale. Ciò nondimeno ci saranno coloro che devono fare i conti in modo più aspro con i loro genitori, perché le responsabilità di questi ultimi sono state più gravi, come nel caso delle violenze, o perché i comportamenti attuali continuano ad essere lesivi. 6 A. Miller, Il dramma del bambino dotato, Boringhieri, 1985, p.70). 12
Ciascuno, in sostanza, potrà trovare la propria modalità di convivenza con le figure dei genitori reali e farci i conti. Ma il punto è un altro: il punto è distinguere i genitori reali dai nostri genitori interni, quelli che abitano la nostra mente e che possono essere associati non solo a mattoni solidi e positivi della nostra casa interna, ma anche a mattoni mal fabbricati e pericolosi. Sono i genitori interni che noi ci ostiniamo a proteggere, anche quando sono associati a schemi mentali colpevolizzanti, svalutanti, negativi, confusivi, distruttivi. È con questi genitori che noi dobbiamo fare i conti, distinguendoli in qualche misura dai genitori reali. Certamente dentro di noi esistono delle cariche attuali di idealizzazione nei confronti dei genitori reali, ma d’altra parte l’idealizzazione più nociva, quella più difficile da elaborare perché è legata alle esigenze difensive del bambino impotente che siamo stati e che doveva giustificare per sopravvivere il comportamento dei propri genitori è l’idealizzazione nei confronti dei genitori interni. Io penso che il lavoro volto a ricordare ciò che ci è stato fatto debba giocarsi innanzitutto fra noi e noi stessi, nella nostra mente, nella nostra memoria, anche se non sempre possiamo sottovalutare ciò che avviene all’esterno e la necessità di compiere fattivamente scelte importanti e salutari per difendere la nostra mente. In questo senso, nella mia esperienza, l’abbinamento dell’analisi individuale allo psicodramma psicoterapeutico si è rivelata una strategia straordinariamente efficace a livello terapeutico. Nello psicodramma si possono infatti raggiungere degli insight - cioè delle visioni interiori dei bisogni che sono stati calpestati, dei ricordi di ciò che è stato fatto - si possono contattare profonde espressioni di collera e di odio nei confronti dei genitori interni, senza che i genitori reali ne siano immediatamente coinvolti: ciò che risulta decisivo non è infatti coinvolgere i genitori reali, quel che conta è arrivare a delle forme di drammatizzazione che risultino liberanti, anche delle cariche di espressione della sofferenza, di protesta e di differenziazione nei confronti delle rappresentazioni dei genitori. Ma è a questo livello che incontriamo le resistenze più forti. Di fronte a questo tipo di impegno ci sarà qualcuno che si difenderà dicendo: “Non posso farlo, non voglio far male ai miei genitori” oppure “Non è giusto parlar male di loro, in fondo non ne erano consapevoli, hanno sofferto anche loro ”. Bisognerà rispondere che il problema non è certo quello di disprezzare i genitori reali, non comprendendo la loro pena, la loro storia o misconoscendo le loro, pur carenti, capacità di amare, ma che il compito di ciascuno è assumere una responsabilità verso il proprio Sé, la responsabilità di comprendere la verità della propria sofferenza infantile, di rispettare e di recuperare la preziosità della vita che abita in ciascun bambino e in ciascuna persona e che può essere stata lesa. Si potrà inoltre far notare, almeno in una parte dei casi, che i genitori reali non patiranno alcun male, perché non verranno necessariamente a conoscenza dell’elaborazione del figlio. Ma ciò che è fondamentale chiarire è che la paura più rilevante è quella di ferire, di danneggiare non tanto i genitori reali, quanto piuttosto i loro più temibili simulacri, le rappresentazioni interne delle figure genitoriali. Sono queste figure che desideriamo spesso mantenere in un Pantheon interno, per evitare di ricordare ciò che abbiamo 13
subito, per continuare a fuggire dal riconoscimento dell’impotenza, della confusione, della pena e della rabbia, legate a ciò che ci è stato fatto e a ciò che è mancato. Il gruppo in quest’ottica può essere dunque il contenitore capace di rispecchiare la realtà storica e psicologica degli individui, non attraverso un’operazione pietistica o di semplice sfogo emozionale ma attraverso un’operazione di consapevolezza realistica, benevola e paziente, favorendo una possibilità di comprensione reciproca e di esplicitazione delle emozioni maggiormente censurate e difficili da esprimere (protesta, impotenza, disperazione, angoscia, odio, colpa, vergogna, eccitazione…), sia delle emozioni autentiche di sollievo, di condivisione e di gioia, associate al percorso di elaborazione e di crescita individuale e di gruppo. “Chiunque riesca a comprendere e a integrare la propria collera come parte di sé non sarà mai un violento. Avverte il bisogno di colpire gli altri soltanto chi non riesca a comprendere la propria rabbia, dato che non gli è stato consentito, quand’era bambino, di acquisire familiarità con tale sentimento che egli non ha mai potuto vivere come una parte di sé, visto che nell’ambiente che lo circondava ciò era assolutamente impensabile.” 7 È dunque soltanto se torniamo indietro a sentire, a riacquistare la sensibilità che non abbiamo potuto attivare o mantenere verso la nostra vita emotiva infantile, possiamo procedere in un lungo, complesso, faticoso - ma anche liberante - cammino di consapevolezza. Soltanto migliorando la nostra capacità di riconoscere - in modo attento, tollerante e solidale verso noi stessi - le emozioni bloccate, censurate o colpevolizzate della nostra vicenda infantile ed adolescenziale, possiamo ampliare la nostra capacità di comprensione empatica dell’altro: competenza fondamentale nella relazione educativa, in famiglia o nelle istituzioni sociali ed educative. Non basta limitarsi a una consapevolezza superficiale o razionale. Ciò che è fondamentale è la possibilità di dare voce alla dimensione infantile interna che non fu ascoltata dagli adulti e neppure da noi stessi e trovare il rispecchiamento adeguato. Non possiamo dimenticare che è solo attraverso l’altro che noi possiamo giungere a legittimare fino in fondo la nostra vita emotiva. E questo può avvenire in qualsiasi momento della nostra vita, se abbiamo la possibilità di trovare lo spazio e il luogo idoneo per farlo. Questa è un’altra indicazione preziosa che il pensiero di Alice Miller ci offre: se la sofferenza, la rabbia, l’impotenza, la confusione non vennero comprese ed espresse o furono disprezzate, negate o travisate, potranno sempre trovare in seguito degli spazi e dei luoghi per poter essere riconosciute ed attraverso il ruolo di un testimone soccorrevole, attraverso l’ascolto riparativo dell’altro, di uno psicoterapeuta empatico o di un gruppo accogliente. In un’ottica psicoanalitica la psicoterapia individuale, a cui personalmente rimango legato, possibilmente abbinata al gruppo di psicodramma, può diventare il luogo di 7 A. Miller, La persecuzione …, op.cit, p.57. 14
ricostruzione consapevole e trasformativa della vicenda del paziente: di ciò è stato fatto al suo Sé e di ciò che il Sé ha fatto per reagire ai mal/trattamenti subiti. 15
16
Puoi anche leggere