IL VIRUS MISTERIOSO Paolo Rotilio - Funambolo Edizioni

Pagina creata da Jessica Martino
 
CONTINUA A LEGGERE
Paolo Rotilio

                IL VIRUS MISTERIOSO

© 2020 Funambolo s.c.

Tutti i diritti riservati/ All rights reserved
Roma, Valle Giulia, 1 marzo 1968

Un percorso impolverato ed abbandonato. Più polvere che strada. Miserevolmente solitaria in una città dai
mille e mille tentacoli dei quali, evidentemente, non era più componente. Da quando tempo, chissà. O
meglio, non vi apparteneva più fino a quel giorno, perché discendeva diritta, per la sua cinquantina di metri
di lunghezza, esattamente alle spalle della Facoltà di Architettura di Valle Giulia, appena liberata, il giorno
prima di quell’anno bisesto e strambo, dai “nostri” ed ora presidiata perché non vi fosse un nuovo colpo di
mano del movimento studentesco.

Già, gli studenti. Erano l’altra parte. Quella opposta alla polizia. Per il momento si annusavano a debita
distanza, in quella spianata circondata tutta intorno da un lieve ed educato declinare, come ogni valle che si
rispetti, fino ad uno sbalzo naturale, neanche così eccessivo, ritenuto strategico dal Comanda di Polizia che,
pensandolo appunto strategico, vi aveva posto a rigida e scrupolosa guardia ben due uomini!: il capitano di
pubblica sicurezza Mancuso Antonio ed il maresciallo di pubblica sicurezza Bonaloni Ernesto, mai come in
quel, entrambi, giorno in pieno e coscienzioso servizio.

Se quella strettoia era uno snodo chiave, perché allora solo due uomini a presidiarla? La risposta ufficiale
era custodita nelle caratteristiche di cui sopra: era impolverata ed abbandonata. Soprattutto abbandonata.
Tanto solitaria e triste che, dai rapporti ufficiali, neanche le più ardite “coppiette” ne avevano ubicazione e
tantomeno vi facevano pratica. Ergo, se quella zona non era conosciuta neanche per “limonare” e quanto
affine a quell’argomento (in quei tempi così avari di luoghi per esplicitare i richiami dell’intimità), ne
conseguiva che alcuno, o pochissimi, ne potessero sospettare l’esistenza.

A Bonaloni e Mancuso, precettati dalla non lontana e tranquilla Questura di Rieti per rinforzare i
contingenti romani, era stato così spiegato che la loro collocazione, esteriorizzata da quello che poteva
divenire il teatro degli scontri, derivasse quindi solamente da un eccesso di sicurezza. I due non l’avevano
presa proprio bene.

Il primo a passare all’attacco fu proprio Bonaloni Ernesto. L’argomento era il provincialismo di cui si
sentivano entrambi destinatari e vittime, senso del dovere a parte. “Da quando siamo qui ci trattano come
fossimo due corpi estranei! - sbottò subito il maresciallo – Sempre a retroguardia di qualche cosa o di
qualcuno. Mai un incarico di responsabilità diretta!!” Si fermò un attimo. Come per riflettere. Con il
risultato opposto. “In Caserma ci trattano come se fossimo appestati! In una stanza diversa, lontano da tutti
ci hanno messi…neanche avessimo la rogna!”

Il capitano Mancuso, operativo per naturale impeto etneo, gli intimò lo stop. “Gli ordini sono ordini! Ed io le
ordino di fare silenzio su questo argomento!” Tirò giù, quindi, un lungo e minchioso sbuffo che a Bonaloni
sembrò comunque di consenso alle sue precedenti affermazioni. Insomma di condivisa insofferenza. Quasi,
seppure in via ufficiosa, volesse rendere al suo sottufficiale l’onore delle armi.

Il problema, però, era esattamente questo: quali armi? La disposizione era, del resto, estremamente
precisa: in qualunque luogo di presidio, compreso il “guardeggiare” quella strettoia, non “possono essere
condotte con sé armi da fuoco in personale dotazione”. Quindi, niente pistola (per Bonaloni, abituato a
dimenticarla puntualmente nel proprio cassetto, non faceva granché differenza) né schioppo.

Il maresciallo tentò, comunque, l’inimmaginabile. Non sarà mica vero che non ci hanno dato le armi perché
non ci sono le munizioni?” Il riferimento era ben preciso e condiviso da moltissimi all’interno delle varie
forze dell’ordine. Dall’alto, fin su al Ministero dell’Interno, avevano sempre smentito tale voce definendola
“diffamatoria”. Però, il dubbio restava. Mancuso preferì non rispondere.

La temperatura, nel frattempo, si stava alzando. In ogni senso. Per la giornata primaverile che da tiepida si
stava facendo sempre più calda, e per i movimenti sempre più frenetici e disordinati che si potevano già
vedere in basso, con un sempre più crescente numero di studenti che discendevano le chine intorno alla
valle e lanciavano verso la polizia ogni cosa, sassi, bottiglie, ferraglie divelte chissà dove, e qualsiasi altra
cosa fosse scagliabile, prima di rinculare in maniera altrettanto rapida.

Un “mordi e fuggi” che si ripeté più volte. Ogni volta, gli studenti si avvicinavano a minor distanza. E ogni
volta, qualche poliziotto veniva colpito più o meno seriamente. Non poteva durare. Infatti, non durò. In
brevissimo tempo, tutto degenerò. Urla, cariche, corpo a corpo, camionette zeppe di poliziotti, vertiginosi
caroselli, manganellate e grida, slogan e dolore, il fuoco ed il fumo sempre più intenso dei copertoni
bruciati dai “ribelli”. I colpi sordi dei lacrimogeni lanciati verso i dimostranti, il loro effetto di lacrime e
rabbia. Nulla lasciava presagire che quella infernale sarabanda terminasse rapidamente.

Nel “privilegiato” posto della strettoia non era, però, accaduto ancora nulla. Nessun movimento sospetto,
né anima viva si era mostrata da quelle parti. Che la teoria delle “coppiette” funzionasse davvero? Quella
relativa tranquillità indusse Bonaloni a “sparare” la più imprevedibile tra le domande che mente
imprevedibile potesse concepire.

Non che cosa il suo superiore potesse prevedere sullo sviluppo della situazione o cosa dovessero fare.
Prevedibile, appunto. Piuttosto, un dubbio vero e proprio sulla loro condizione di poliziotti ”Signor
capitano, ma secondo lei siamo dei pagliacci?” Il capitano Mancuso fece fatica a capire. Bonaloni deglutì
tutta la propria saliva possibile, come se a fauci aride, la secchezza della sua riflessione ottenesse maggior
effetto.

Rincarò quindi la dose. “Sto solo immaginando cosa qualcuno di importante potrebbe scrivere, chissà
domani o non troppo distante da oggi, su questo giorno…Che magari come “pagliacci siamo vestiti, con
quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo…” E spontaneamente se la toccò, quella divisa,
effettivamente di stoffa ruvida e pesante, oltre che di una taglia abbondante in meno rispetto alle sue
dimensioni fisiche, diciamo così, robuste.

“È un bene che la sua divisa le stia stretta, maresciallo! Perché così le garantisce più dinamicità, sarà come
una molla che potrà liberare meglio energia se anche noi dovessimo scontrarci!” Bonaloni pensò che l’unico
atto eroico che almeno lui potesse fare era evitare che quella divisa “gli si sgarrasse miseramente sotto il
culo, come un pagliaccio appunto”. Tenne per sé, saggiamente, il pensiero. Non voleva mancare
apertamente di rispetto a quella stessa divisa che pure amava e rispettava sopra ogni cosa.

Quindi, anche Mancuso liberò la propria immaginazione. A modo suo. “Pensi alle Termopili! Io sarò il suo
Leonida!” Non era lontano dalla realtà. Se gli Spartani erano in trecento contro settemila persiani, a loro
non è che andasse meglio: in due contro cinquanta. Perché proprio in una cinquantina, si materializzarono
da li a poco gli studenti, rigorosamente giovani ed Immortali come la leggendaria guardia del Re Serse.
“Che venissero tutti ad amoreggiare clandestinamente in questo punto?” Ironizzò Bonaloni, maledicendo in
sé tutte le informazioni “sicure ed incontrovertibili” date ad entrambi dai loro superiori circa la verginità di
quel luogo. Quei cinquanta non erano comunque venuti per mandar loro, e dare tantomeno, baci e
abbracci, più o meno arditi e/o ardenti.

Inizialmente solo in due si fecero avanti con decisione. Avanzarono per una trentina di metri, fino a quando
ritennero che le loro parole e richieste potessero essere ben udite da quelli che per loro erano solo due
“celerini”.

Sembravano uno la fotocopia dell’altro. Stessa altezza, sull’1.80, non trascurabile per l’epoca, entrambi in
jeans, entrambi con un montgomery scuro, estremamente elegante nel vedersi. Entrambi biondastri, anche
se la luce del sole che colpiva in pieno gli occhi dei due poliziotti, poteva forse tradire nell’appurare questo
particolare. Si distinguevano però dalle bandane, appositamente calate, che ricoprivano i loro volti fino agli
occhi: una nera per il giovane che potevano individuare alla loro destra, l’altra rossa.

“Voi mi potete chiamare Frodo!” affermò con sicurezza il primo. L’altro aggiunse “Ed io Sacha!” Quindi, ad
una sola voce: “Non vogliamo farvi del male… sappiamo che siete due poveracci, quindi scansatevi, fateci
passare e non vi sarà fatto alcun male!”

Il duello era appena iniziato. Da una parte Frodo e Sacha, dall’altra Bonaloni e Mancuso, diritti in mezzo alla
strada a gambe rigorosamente divaricate, come reali pistoleri del West. Con la polvere che si alzava di
continuo da quel fondo dissestato e piccoli rametti che, staccatisi di continuo dai cespugli tutt’intorno,
strisciavano al suolo come fossero serpi, mossi a scatto sotto la spinta del vento.

Non risposero neanche a quella che sembrò una vera intimazione di resa. Il loro segnale fu quello di
“incalcarsi” ancor di più gli elmetti e di far ben vedere agli studenti, Frodo e Sacha in testa, i due sfollagenti
di cui erano in possesso e, con l’aiuto dei quali, avrebbero difeso quella posizione per evitare che i propri
colleghi venissero presi alle spalle. Intanto, ad essere presi esclusivamente di mira erano solo loro. Soli,
appunto, contro la carica dei cinquanta che non tardò a essere ordinata dai due giovanotti che sembravano
capeggiarla.

Bonaloni, da appassionato di western, indirizzò il suo pensiero al “Mucchio selvaggio”, a Sergio Leone, al
Biondo, financo a Wyatt Earp; Mancuso a una rivolta contadina sicula contro il Barone Richetti del 1894.
Sicuramente datata, ma perfettamente aderente alla situazione in quanto ad avere la meglio era stata la
“massa”. Sperava solo non nella maniera grandguignolesca di quei tempi andati quanto i fedelissimi
dell’aristocratico furono letteralmente fatti a pezzi dai braccianti infuriati. “Questi non hanno certo la panza
vòta!” si consolò e andò innanzi al proprio destino di tutore dell’ordine.

Bonaloni colse invece un altro strano particolare. Man mano che i caricanti si avvicinavano avvertiva bene,
olfattivamente “a piene frocie”, buoni odori di profumi costosi e di sofisticati dopo barba. Non voleva
crederci: “Si erano profumati per fare la guerriglia!” Ma tant’era. Si rinfrancarono entrambi quando fu lor
chiaro che “quelli” volevano solo passare. Per fare ben cosa non lo sapevano. Di certo non erano
assolutamente e minimamente interessati allo “scontro fisico”. Almeno, non in quel posto preciso.

In parte, però, fu inevitabile perché nella massa, e cinquanta persone caricanti sono pur sempre un
rispettabile gruppo, qualcuno deve pur sempre distinguersi per eccesso. In particolare a essere preso
particolarmente di mira fu proprio il maresciallo Bonaloni Ernesto, sempre in pieno e coscienzioso servizio.
Si era accorto, e con lui anche Mancuso, di non essere riuscito a piazzare neanche una manganellata,
quando sentì distintamente un colpo sull’elmetto portato da un giornale appositamente arrotolato. Colpo
accompagnato da un ben distinto grido: “Viva Carlo Marx!” prima che l’autore, dell’urlo e di quello inatteso
modo di comunicare notizie, si dileguasse con decisione verso il retro della facoltà di Architettura.

Subito dopo, subì un altro colpo, stavolta in pieno viso. O meglio, il sordo planare di uno sputo ben corposo
sulla parte alta della guancia, speditogli da un altro contendente che inneggiò immediatamente dopo al
“Duce e al suo ritorno!” Bello, tronante, irrimediabilmente secco, causa precedente espulsione dell’intera
salivazione sul malcapitato Bonaloni.

Il maresciallo di PS era davvero in confusione ideologica. Una polvere mentale e reale (quella strada bianca
ne era eccezionale produttrice, specie sotto il disordinato scalpitio dei cinquantadue contendenti) che lo
portò ad una reazione: all’ennesima mano posatasi bruscamente sulla sua spalla destra e un “Viva la Pa…”
si girò con insospettabile agilità e, stavolta senza indugi, appioppò una bella manganellata proprio sul naso
dell’incauto dimostrante!

Bonaloni aveva menato. E che botta. Non se ne sentiva però fiero, soprattutto se avesse seriamente
maltrattato proprio l’unico giovanotto che voleva esaltare i valori della pace. Mancuso, visibilmente esausto
dal suo brandeggiare nel vuoto, lo abbracciò con forza e vigore inattesi. “Bravo, maresciallo! Quando ci
vuole, ci vuole!” Mentre tutti gli altri “persiani” avevano ormai superato, chi di slancio e chi di forza, le loro
Termopili.
Questura di Rieti, 7 marzo 1968, ore 15.10

Davanti a sé l’Ufficio del Capitano Mancuso. O meglio la porta, di cui il maresciallo Bonaloni Ernesto, di
nuovo in pieno e coscienzioso servizio dopo giorni due di riposo concessi per le fatiche della missione
romana, notò un notevole cambiamento. La ricordava bene di colore marrone scuro, e non è che la sua
memoria dovesse sforzarsi così tanto nel ritrarsi all’indietro: appena nove giorni prima, alla vigilia della
partenza per Valle Giulia. Ora, invece, si era trasfigurata in un bianco lievemente avoriato, con otto pannelli
di egual misura, regolarmente squadrati da lievi sbalzi nerastri che davano a quell’ingresso un non so che di
elegante. “Alla faccia – pensò Bonaloni – del presunto grigiore degli uffici ministeriali e di tutte le loro
derivazioni periferiche, Questura di Rieti compresa”.

Quella porta così rinnovata non garantiva però ugualmente serenità a Bonaloni Ernesto. Quando Mancuso
lo chiamava a sé, era inevitabile prepararsi a un serrato confronto di diverse idee, sia investigative che di
approccio alle stesse e alle modalità di trattamento delle persone che giocoforza vi rimanevano coinvolte. E
in ogni occasione la divergenza si concludeva con “Questo è un ordine! Minchia!” gridatogli sul viso
dall’Ufficiale di polizia e con un “Obbedisco” talmente vago da non essere mai sul campo rispettato dal
sottoposto.

Non sarebbe andata così, a dispetto dei naturali e motivati timori di Bonaloni Ernesto. Lo stesso “Avanti!”
gli parve meno imperioso del solito. Alla successiva richiesta di un suo parere sulla esteticità della nuova
porta - “il Ministero l’ha mandata durante la nostra assenza!” spiegò in maniera lapidaria Mancuso - il
sottufficiale capì che, almeno quel giorno, poteva stare tranquillo. Così anch’egli fu più accomodante del
solito (non è che ci volesse molto) pur non potendo evitare il più completo stupore, quando l’ufficiale di
Pubblica Sicurezza tirò fuori da un ripiano sotto la sua scrivania due ampi fogli accuratamente arrotolati.
Solo uno di rosso infiocchettato.

“Questo col fiocco è pémmia!” Chiarì subito a scanso di equivoci. “Bene, Capitano, Comandi!” Bonaloni non
aveva intenzione di contrapporsi in alcun modo. Il suo dovere era quello di stare ad ascoltarlo. Non capiva
ancora bene di cosa stesse parlando, ma non accennò minimamente ad alcuna forzatura. Mancuso, con cui
ormai si comprendeva al volo a iniziare dai dissapori, gradì quell’atteggiamento senza alcuna dissimulazione
del volto. Lo premiò. “Questo è pèttia!” insistendo in una confidenza tutta siciliana che, straordinariamente
e solo per quel momento di solennità, escludeva il rigoroso “Lei” che i due si sarebbero sempre scambiati,
differenza gerarchica a parte.

Bonaloni ricevette quella specie di papiro nella mano destra, ma ancora non si decideva a chiedere cosa
fosse. Provvide non appena notò che la seraficità di Mancuso stava rapidamente mutando in chiaro
disappunto e nervosismo da attesa. Si decise. “Posso sapere di cosa si tratta, pèmmia e pèttia?”
Prendendosi una sottile rivincita, tutta interna a sé, visto che il capitano non mostrò alcun apparente
sintomo reattivo. “Ma è un encomio! Maresciallo. Un encomio solenne! Uno a me, col fiocco rosso – lo
sottolineò per bene a rimarcare la differenza di grado e di ruolo – uno a lei!” E sottolineò anche quel “Lei”,
dimostrando che il precedente “péttia” non gli era poi passato così inosservato né inascoltato.

Precisò: “È un encomio per il nostro comportamento a Valle Giulia!” Bonaloni trasecolò di fronte a quella
spiegazione datagli con enfasi dal capitano. Addirittura “tramilleniò” quando vide coi propri occhi che, con
la giusta dose di retorica, tanto era scritto sul foglio di carta consegnatogli dal suo superiore, non appena
opportunamente da lui srotolato con calma e delicatezza, seppure di fronte ai bruschi solleciti di Mancuso
di farlo al più presto.

L’ufficiale, quindi, proruppe in un “Ah, che onore!” condiviso da Bonaloni solo in parte, ben ricordando che
in quella stradina romana, loro le avevano più prese che date.

“So a cosa pensa, maresciallo! Che non lo meritiamo fino in fondo… ma non è così!” Ne spiegò la ragione:
“Quella manciata di minuti è stata comunque decisiva… ritardare il loro arrivo sul retro della Facoltà è stato
fondamentale, ha permesso a un reparto della Celere di schierarsi per benino e il merito è stato
riconosciuto come anche nostro! Anzi, soprattutto nostro!” E concluse con un “Leonida è sempre Leonida!”
che a Bonaloni apparve completamente stonato, visto che entrambi non avevano aggiunto proprio
alcunché di regale in quella tremenda giornata romana.

Ormai irrefrenabile, Mancuso volle chiarire anche un ultimo aspetto. “La conosco bene, maresciallo! Lei si
sta ancora intortando su quel manifestante a cui ha scrocchiato una bella manganellata in volto!” Bonaloni
non poté negare. Ebbene, si tranquillizzi! A parte il fatto che si è rotto solo il naso, quello non voleva
inneggiare ad alcuna pace, ma alla Palestina!” “La Palestina? Cosa c’entra la Palestina con Valle Giulia?”

“Lì c’entra tutto, caro maresciallo! C’entra davvero tutto… un vero calderone di rabbia politica e sociale che
esploderà ancora di più… per ora tutti insieme: neofascisti, comunisti, antiimperialisti, Medio Orientalisti,
Vietnam, studenti, classe operaia, ma non durerà… non potrà durare! È un mondo più grande di noi! Anche
di loro! Come se un virus misterioso si stesse impadronendo di tutto… e credo davvero che dovremo
preparaci a anni davvero difficili!” Proseguì. “Lei mi chiederà anche quale sarà il nostro ruolo? Lo stesso di
sempre, maresciallo, saremo al servizio dello Stato e della gente. Niente e nulla di più. Faremo il nostro
dovere… solo che lo dovremo fare con intelligenza… con scrupolo ma con intelligenza!”

Bonaloni concordò in pieno. Stava per mettersi nel doveroso sull’attenti prima dell’altrettanto doveroso
saluto di commiato, quando Mancuso lo bloccò nuovamente. “A proposito di virus misterioso, c’è una
strana segnalazione arrivata in Questura questa mattina per una casa di via Di Mezzo…”

Il maresciallo temette che neofascisti e comunisti, palestinesi, vietcong, e chissà chi altri, vi avessero
installato una base operativa ultrasegreta. “Niente di tutto quello che pensa. Non si tratta di una questione
di allarme sociale ma sanitario! Almeno così dice la signora che ci ha chiesto di intervenire: in una casa di
via di Mezzo c’è, o ci sarebbe, un morbo misterioso!”

“E noi cosa ci entriamo? Non sarebbe meglio far andare medici ed infermieri?” Ribatté il sottufficiale. “Il
fatto è che il nostro piantone ci ha segnalato che quella donna gli è parsa, diciamo così, un po’ fuori di
testa! Vada, quindi, a dare una controllata, con tutte le precauzioni del caso, mi raccomando, e poi, solo
poi, se sarà necessario, allerteremo tutto il resto! Ora vada! È un ordine!” Era proprio destino che qualsiasi
colloquio all’interno di quell’ufficio, si concludesse così.
Esterno della Questura di Rieti, Via Garibaldi, ore 15.15

“Mah! Un virus misterioso a Rieti, dove non succede mai niente, neanche nel sessantotto!” Bonaloni quasi
non voleva crederci. “E se c’è davvero – rifletté un attimo dopo – e va a finire che me lo becco io, ma – si
rinfrancò immediatamente– vorrà dire che mi daranno un altro encomio!”, incamminandosi spedito verso il
target indicatogli dal capitano Mancuso.

Obiettivo neanche distante considerato che, un centinaio di passi più in là, sarebbe stato inghiottito dalla
piccola curvatura di Santa Caterina e da qui immesso d’inerzia in via di Mezzo, così denominata proprio per
essere strada mediale tra via Garibaldi e via Nuova. “Non è che i topografi del Comune si meritino proprio
lo stipendio per la loro fantasia!” Ironizzò tra sé Bonaloni Ernesto, prima di tuffarsi nella sua nuova
avventura.

“Devi andare dalla signora Assunta!” Gli suggerì una voce femminile dall’alto, senza che egli, almeno fino a
quell’istante, si fosse dimostrato spaesato o avesse già tentato di chiedere indicazione ad anima viva. Non
ebbe, però, neanche il tempo di individuare da quale finestra provenisse il suggerimento, che la testolina si
era già dileguata.

Un altro fondamentale indizio non tardò a giungere dall’alto. Da un altro punto-finestra, comunque di
estrema importanza. “A lu numeru 14!”. Come poco prima, non ebbe il tempo di inquadrare la nuova
informatrice.

Ed eccolo il numero 14. Non ebbe però necessità di entrare in quella casa, perché Assunta era seduta sul
secondo dei tre gradini che conducevano all’interno. Teneva la testa stretta tra le mani, impossibile
vederne il volto tanto era reclinato verso il basso; le gambe erano strettissime tra di loro, con le punte dei
piedi a fare costante e crescente forza sul gradino sottostante quasi volessero proiettare in alto entrambi gli
arti inferiori. Gli sembrò una sorta di gomitolo vivente, che ad ogni sofferto respiro sembrava doversi
gonfiarsi maggiormente.

D’improvviso, vide l’intera sofferenza di quella donna. Lo poté fare quando Assunta si distese come una
imprevedibile molla. Uno scatto tanto rapido che la portò a scalciare in avanti facendo schizzare via una
ciabatta verso la strada. Bonaloni la raccolse e gliela porse con gentilezza. Poté vedere finalmente quel
volto. Vi era dipinto qualcosa di assai vicino al terrore, scavato lungo entrambe le mascelle impegnate a
comprimere la bocca serrata e tremante. Di dolcezza femminile neanche la più lontana parvenza. Gli stessi
capelli mostravano quello stato di forte agitazione, “spariati” verso l’alto, a destra, a sinistra. In tutte le
direzioni fuorché che al loro posto.

Eppure, non doveva essere una brutta donna, almeno in condizioni di normalità. Un po’ datata, sì. Ma la
regolarità del viso poteva comunque suggerirgli una piacevolezza diversa e decisamente gradevole, se
quella condizione di paura non l’avesse completamente espugnata e conquistata.

Cosa poteva esserle accaduto? Bonaloni la invitò a parlare, a raccontargli, a dirgli i motivi di quel suo stato.
Lo fece con una delicatezza di cui egli stesso si stupì che potesse scaturire da un uomo grande e grosso
come il maresciallo in effetti era. Tentò e ritentò. Nulla. Si accovacciò, quindi, vicino a lei. Le tese la propria
mano, collocandola infine sulla spalla destra della donna che non si ritrasse all’iniziale contatto.
Così incoraggiato, proseguì e l’accarezzò sulla testa, ricomponendole una parte della disordinata
capigliatura. Continuò, aggiungendo anche l’altra mano sulla parte opposta del capo, tenendolo fermo. Con
un profondo senso di umano rispetto, quasi con affetto. Anzi, con affetto.

Come lampi inattesi, le prime parole. “Ciommaniche e l’ovirus!” che lasciarono davvero esterrefatto
Bonaloni. Le lumache? L’ovirus? “Sì – riprese la donna con un filo di voce – le ciommaniche sono cattive! Ci
hanno distrutto l’orto e poi c’è l’ovirus… ancora più brutto!!! C’è e non c’è… appare e scompare… ci parla e
poi resta in silenzio…”

Bonaloni non riusciva proprio a comprendere. Passi per le lumache di cui conosceva, a dispetto della loro
lentezza, l’inesorabile propensione a distruggere piccole piantagioni, se lasciate libera di agire tra insalate.
biete e cavoli vari. Ma ‘sto Ovirus (con il postrofo, si raccomandò Assunta) che diavolo poteva essere?

“Ora ci pensa Serafino!” “E chi è Serafino?” “Maritemu!” “E dov’è suo marito? Dentro casa?” “No, è uscito,
a prendere il veleno per le ciommaniche e l’Ovino! Con il postrofo, mi raccomando!” Bonaloni, ormai, non
ci si raccapezzava proprio più. Che avessero ragione il piantone della Questura e Mancuso a ritenerla fuori
di testa? Eppure, qualcosa di vero, oltre che di strano, doveva pur esserci. Gli parve, però, davvero troppo
che una pecora potesse entrarci qualcosa in quella storia già così strampalata.

“La pecora! Ma quale pecora? L’ovino, ho detto! Quelle che se be’!” “Ah, il vino!” Bonaloni tirò un sospiro
di sollievo, di fronte a quello che gli sembrava essere, finalmente, il primo elemento di normalità di quel
surreale dialogo. Il maresciallo tentò di capirci qualcosa in più. “Ma ‘sto Ovirus, ora – lo sottolineò - si trova
dentro casa?” La risposta fu la più sorprendente che potesse attendersi. “Quello sta dormendo! Meglio non
disturbarlo, è cattivo, sai…” Cercò allora di convincerla a lasciarlo entrare e dare un’occhiata. Nulla da fare.
“Serafino mi ha detto di non far entrare nessuno. Stasera, quando starà a casa, potrai venire e anche tu
potrai parlare all’Ovirus…”

Il maresciallo non poté esimersi dall’avere qualche informazione in più. Un medico era stato chiamato?
Eventualmente, cosa aveva detto o suggerito? Soprattutto, da quando quell’Ovirus aveva manifestato la
sua inquietante presenza? Era reale o un parto della fantasia di quella donna? Non ottenne granché come
risposta alle sue domande. Capì solo, dal biascicare sempre più confuso e impaurito di Assunta, che nessun
medico aveva messo piede di recente in quella casa e, tantomeno, a causa dell’Ovirus.

Mistero anche sulla data della sua comparsa. Forse qualche giorno, più credibilmente una settimana. “Mi
parla da giovedì – specificò la donna - e da allora mi parla di continuo, specie a tarda sera…” Cadendo quel
7 marzo del 1968 proprio di giovedì, Bonaloni fu abbastanza convinto che la donna si riferisse a quello
precedente. Altro non poté sapere.

Poi, altrettanta inattesa, una sorta di preghiera. “Ti chiedo di aiutarlo, aiuta Serafino… sta male… respira
sempre più a fatica, ogni tanto mi sembra senza più forze… aiutalo, ti prego…” E reclinò di nuovo il capo
verso il basso, così invitando Bonaloni ad abbandonare la delicata stretta delle sue mani su di esso. Quindi,
un ulteriore scatto delle gambe verso l’alto a ricomporre il gomitolo iniziale. Da così non si sarebbe più
mossa, almeno fino a quando Serafino non fosse tornato.

Al maresciallo non restava altro da fare che ricollocarsi in posizione eretta. Di dare una nuova e ultima
compassionevole occhiata a quella donna stremata, di cui non sapeva neanche ben definire l’età. Forse
sulla cinquantina, sui sessanta. Chissà? Avrebbe fatto controllare nell’anagrafica del Comune, escludendo
da subito che quel nominativo comparisse in qualche schedario della Questura per precedenti di qualsiasi
tipo.
Innanzitutto, perché a Rieti non accadeva mai nulla, poi, se pure fosse accaduto qualcosa, come poliziotto,
nato, cresciuto e pasciuto in città, l’avrebbe saputo e ricordato. Non era, però, di certo questo il punto
chiave dell’indagine. Magari, solo un elemento in più per avere il quadro più possibile completo della
situazione.

Quindi, allontanandosi, e ripromettendosi che di lì a qualche ora sarebbe tornato, non poté fare a meno di
pensare, con un pizzico di naturale timore, se in effetti quella donna fosse stata realmente infettata da un
virus misterioso. Lo autoescluse. Ma non ne era poi così certo. Anzi, non riusciva proprio a scacciare
quell’inquietante tarlo dalla propria testa, fino a quando una nuova, anonima voce proveniente dall’alto gli
raccomandò “Stai attento alle padelle!!!”

Le padelle? E che diamine c’entravano ora le padelle?

Uno, due, tre, ventuno… trentadue… tornato in Questura, non si contavano più le volte in cui Bonaloni era
scappato al bagno per detergersi le mani, arrivando rapidamente a limare della metà abbondante il pur
consistente volume del lingotto di sapone disponibile. Dalla caratteristica forma a parallelepipedo, lo aveva
trasformato in un sempre più ridotto oggetto romboidale, mutandone miracolosamente, tanto era stato
robusto lo strofinio manesco, anche la coloritura, da giallo sole a un anonimo biancastro. Si autoassolse,
“Nessuna psicosi, solo che è meglio prevenire che curare!”, prima di correre per la trentatreesima volta,
lasciando di stucco Mancuso a cui stava pur meticolosamente relazionando circa l’accaduto.

Mai aveva visto Mancuso preoccupato o preoccuparsi per lui. Fu una vera sorpresa quando il capitano,
raggiuntolo in bagno, cercò di tranquillizzarlo.

“Così cuntati, critidini mità, si menu criditi, megghiu faciti!”

Non era la prima volta che Bonaloni doveva impegnarsi a tradurre il siculo stretto del proprio superiore. Lo
faceva sempre con difficoltà, sia per l’ostilità della lingua che per il disaccordo di fondo che spesso
accompagnava il significato di quelle massime.

Stavolta gradì, anche perché, a traduzione richiesta e ricevuta, ben comprese che per qualsiasi buon
poliziotto sia meglio credere solo “alla metà di quanto gli raccontano”; quindi, con un ulteriore riferimento
alla parte più oscura delle parole di quella donna, “se ci credete di meno è ancora meglio”. Così
concludendo: “Ragioni solo sulla parte che le sembra più realistica, perché del reale dobbiamo occuparci e
sul reale dobbiamo aiutare le persone… ora vada… e si prepari a capirne di più!” Che il virus misterioso
avesse contagiato anche l’ “odioso” capitano Mancuso?

Bene credere alla metà di quanto viene raccontato. Ma con la paura come si fa? La si può razionalmente
dimezzare? Impossibile. È un “regalo”, improvviso e per nulla benvenuto, che si dona nella sua interezza.
Impossibile da rifiutare. Il brutto e lo spiacevole è che quella interezza, già ovviamente paurosa, sale
sempre di più, senza verso alcuno per poterla trattenere. Si acquisisce e si alimenta. Quasi senza volerlo.
Spesso senza volerlo. Fino a toccarne l’apice.

Di quella scalata il povero Bonaloni, nonostante l’ “affettuosa” vicinanza” del capitano Mancuso, si sentiva
sempre più vittima e artefice. Era egli stesso, in altre parole, a dare linfa alla paura. Non poteva, però, farci
niente. I rimedi? Sicuramente più ridicoli che efficaci. Anche Bonaloni si stava attrezzando al riguardo.

Gli tornò alla mente l’inutilità di fronteggiare con un “pannicello caldo” qualsiasi terribile morbo. Più si
convinceva, appunto, dell’inutilità, più si arrovellava su una soluzione che si indirizzasse in tal senso. “Ma sì!
La soluzione è nella stoffa!” andò gridando per ogni corridoio, di fronte allo sguardo incredulo degli altri
poliziotti incrociati nel tortuoso percorso che dal bagno del secondo piano della Questura doveva condurlo
a pianterreno, nel guardaroba. Lì, dove era custodita la divisa da “pagliaccio” indossata negli scontri di Valle
Giulia, era anche la soluzione al suo tormento.

“Con quelle divise ruvide che odorano di rancio, fureria e popolo…” e in testa “quella cazzarola che mi
arriva fino agli occhi! Sarò bardato a dovere. Avrà due-tre centimetri di spessore! In pratica una corazza di
stoffa! Andrò così in quella casa!” Notò, quindi, in un angolo i suoi anfibi, tirati a lucido come mai aveva
visto, e si rallegrò ancora di più. “Protezione completa!” Il ridicolo non poteva più attendere.

Per sua fortuna, quella giornata del 7 marzo dell’anno del Signore 1968 non è che fosse propriamente
tiepida. Un vento gelato stava rollando sull’intera città dal mattino, cosicché quella “protezione”, seppure
decisamente fuori ordinanza, era ben utile all’esterno per fronteggiare il colpo di coda invernale che stava
anticipando la ormai sempre più vicina primavera reatina.

Solo che, così abbigliato, non gli sembrò opportuno attendere dinanzi all’ingresso della Questura. Avrebbe
fatto letteralmente ridere i passanti, dando così indiretta ragione a chi indicava i poliziotti vestiti come
fossero a carnevale o al circo. All’interno, il problema era opposto. Almeno nel senso della temperatura: i
termosifoni questurini andavano a tutta “callara” che era una bellezza, facendo sfiorare i gradi 22,
insopportabili con quegli indumenti così robusti.

Allora? Il dilemma del dentro o fuori si risolse alle ore 19,15 in punto con una telefonata che imponeva di
anticipare i tempi circa la già programmata visita in via di Mezzo, 14. Qualcosa era accaduto. Di brutto.
Davvero di brutto. In quella casa era appena stato rinvenuto un cadavere!

Se fosse stato della signora Assunta, sarebbe stato davvero un colpo micidiale per il povero Bonaloni
Ernesto che, mai e poi mai, si sarebbe perdonato di aver procrastinato di tornare in quella abitazione. Altro
che essere in pieno e coscienzioso servizio. Avrebbe potuto evitarne la morte e, invece, si era limitato a
trastullarsi in preda alle più insospettabili paranoie.

“Chi ha chiamato? Una di quelle maledette vicine, pettegole!?” Urlò Bonaloni, uscendo. “No marescià, un
operatore sanitario…” Fu come aver ricevuto una seconda frustata. “Un operatore sanitario? Ma allora…
l’Ovirus… dì al brigadiere D’Antonio di venire anch’egli… chissà con quel pilurusciu che si ritrova!”

Quindi, in un tutt’uno, il sottufficiale si strinse ancora maggiormente il fermagola del proprio elmetto, si tirò
all’insù il bavero, rischiando seriamente di strappare tutto per quanta forza utilizzò nel gesto, si serrò
all’inverosimile il cinturone d’ordinanza e le stringhe di entrambi gli anfibi. Era pronto. Iniziò a correre.
Controvento. Destinazione, via di Mezzo, 14.

“Frégate, Ernè!”

Giunto al termine dell’imbuto che collegava via Santa Caterina a via Di Mezzo, il maresciallo non poté che
rimanere esterrefatto. Tutto era illuminato praticamente a giorno, con luci bluastre provenienti da un paio
di ambulanze che davano effetti psichedelici alla scena dinanzi ai suoi occhi. Una fiat 124 bianca, con la
scritta “Ospedale Generale di Rieti” sulla fiancata a lui visibile, era stata posta di traverso sulla strada e la
sbarrava totalmente proprio nel verso da cui Bonaloni stava arrivando. Sull’altro capo, una più modesta 600
era stata deputata allo stesso incarico. Entrambe presidiate dai più nerboruti infermieri che il sottufficiale
avesse visto in vita sua.
Quello che si trovò davanti era anche stronzo. Gli piantò sulla faccia una serie di serratissime domande,
delle quali Bonaloni non intravedeva alcuna utilità. All’ultimo quesito, “da dove arrivasse”, il sottufficiale fu
colto da un moto di vero orgoglio poliziottesco. “Da Valle Giulia, arrivo! E ora scansati, se non vuoi anche tu
una bella manganellata sulla testa!” Fece effetto. L’infermiere, addirittura, abbozzò un inchino (o almeno
così parve al tronfio Bonaloni di quel momento), si scostò con la dovuta riverenza, questo sì, facendolo
passare.

Fino a quando, non si accorse che il poliziotto non aveva i guanti! “Maledizione, me li sono scordati in
ufficio!”. L’altro non fece una piega. Aprì con vigore (altrimenti non avrebbe avuto senso l’essere
nerboruto) lo sportello di guida e pescò con sicurezza sotto il sedile. “Ecco qui! Un paio di guanti in lattice.
Si metta questi!” Quindi scrutandolo da capo a piedi: “Per il resto mi sembra che sia il più protetto di
tutti…” Il tono gli parve vagamente irrisorio. Lasciò perdere e proseguì con decisione.

Dieci metri e il cuore sembrò sobbalzargli in gola per il sollievo. Sulla stessa piccola scalinata, sullo stesso
secondo gradino, c’era lei: Assunta. Dunque era viva. Era nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata
qualche ora prima. Stessa vestaglia da casa, fiorellata, stesse ciabatte, stessi capelli spaiati, se possibile
ancor di più sotto il vento che batteva implacabilmente gelido su chiunque si trovasse tutt’intorno. Sempre
più impetuoso per un misterioso incanalamento che sembrava aver prediletto proprio via di Mezzo.

Era viva! Ma se c’era un cadavere, di chi era? Come era morto? C’entrava o meno l’Ovirus? Tutte domande
lasciate puntualmente senza risposta quando le pose, nell’ordine e a raffica, all’Assunta. La donna neanche
lo guardò. Ripeteva solo “Pì…pì, pì…pì…pì…pì”.

“Mah! Dovrà andare al bagno!”

Alzò la testa e fu costretto a stupirsi ancora. Il brigadiere D’Antonio Vito era già li. Addirittura, era già
entrato in casa ed ora ne stava uscendo. In borghese. Senza protezione alcuna, se non ristrettissimi guanti
di lattice, che gli parvero giunti al limite della resistenza su quelle manone!

Le prime parole gli apparvero una sorta di immeritata frustata. La terza della serie: “Ce ne ha messo del
tempo, marescià!” “E poi, come si è vestito?” Bonaloni avrebbe voluto spedirlo in una parte corporea ben
precisa e comune a tutti. Poi notò che anche un medico, apparso sulla soglia di quell’abitazione, lo stava
scrutando da capo a piedi con curiosità divertita. “Sarà bello lui, con quella maschera da spaventapasseri
sul viso!” pensò, prima di soprassedere.

“E tu – rivolgendosi di nuovo a D’Antonio, a mo’ di ordine – accompagna questa signora da una vicina di
casa… deve andare al bagno!”

“Ancora?” ribatté il brigadiere, sinceramente sorpreso dalla richiesta.

“Come ancora?”

“Ma sì, sarà la terza, quarta volta che deve andare a fare pipì. E, puntualmente, l’ho accompagnata in quella
casa di fronte – la indicò con chiarezza per assicurarsi di essere creduto – e lo sa il bello, marescià… che non
appena uscita dal bagno, ha continuato a ripetere la stessa nenia: pipì, pipì ed ancora pipì! Così, io la
riportavo dentro e lei sempre con la stessa solfa… sarà la donna più incontinente del mondo!”

Bonaloni abbozzò la più logica delle spiegazioni: “Sarà sotto choc, povera Assunta!” ponendole una mano
sulla spalla, quasi per tranquillizzarla, come fosse per lei un buon padre. Comunque, un amico. Fu il motivo
per cui non chiese subito a D’Antonio, che pure sapeva, essendo già stato all’interno di quella casa, nulla di
ciò che vi era successo. I due poliziotti incrociarono solo silenziosamente gli sguardi. Tanto bastò a Bonaloni
per apprezzare la dovuta discrezione del sottufficiale di grado inferiore, intuendo però anche che dentro
fosse davvero avvenuto il finimondo.

Una prima avvisaglia furono i vasi di fiori, collocati all’ingresso e in buona parte frantumati sotto i suoi piedi.
Impossibile non calpestarli, anche perché letteralmente invisibili non appena la luce bluastra
dell’ambulanza numero uno, posta proprio a ridosso di quella casa, cessava ritmicamente di illuminare
l’interno nella sua ritmica, quasi istantanea intermittenza.

“Vada a sinistra, marescià!” Fu la chiara indicazione di D’Antonio. “Troverà la cucina, lì c’è Serafino…” Non
terminò la frase. Morto voleva dire. E Serafino, morto trovò. Tutto intorno una baraonda pazzesca. Sedie
rovesciate, piatti e bicchieri rotti come se fossero stati scagliati con una rabbia incontrollata, mensole
aperte con il loro intero contenuto riversato a terra, pentole ovunque, alcune visibilmente abbozzate, come
fossero state bersagliate da altri oggetti contundenti oppure avessero essi stessi colpito qualcosa o
qualcuno, fungendo in tal caso da arma d’offesa.

Questa seconda ipotesi gli apparve decisamente la più plausibile, non appena scorse la testa del povero
Serafino fracassata sulla zona parietale destra. Altro che l’Ovirus. Altro che morto per colpa di un misterioso
morbo! Una padellata in testa si era beccato, quel povero Cristo.

L’arma del delitto, perché di questo si trattava, era ad appena mezzo metro distante dal corpo. Piena di
capelli e sangue sul bordo superiore. Come se il colpitore – Bonaloni non voleva ancora contemplare la
parola assassino - l’avesse impugnata capovolta. In maniera decisamente singolare. Quasi volesse fare il più
male possibile, infierendo con il lato in grado di tagliare invece di vibrare una più classica, si fa per dire,
piattonata.

Una seconda padella, a differenza della sua “gemella”, si trovava ancora più vicina all’uomo, a strettissima
distanza della mano destra, come se l’avesse lasciata andare poco prima di morire; anch’essa piena di bozzi
e se possibile ancora maggiormente deformata. Priva, però, di segni d’impatto su essere umano. Almeno a
una prima analisi.

Non poté fare a meno di ripensare alle parole di una di “quelle maledette vicine pettegole”: attenti alle
padelle! Perché quell’avvertimento? Ma soprattutto perché era stata appioppata quella mortale? E perché
diavolo marito e moglie si stavano così singolarmente sfidando con quegli strani aggeggi? Gli sembrò
inverosimile.

“E poi - pensando ad alta voce – quel Serafino era l’esatto doppio della moglie. L’avrebbe facilmente
sopraffatta in caso di scontro fisico ravvicinato. In più, tutto lascia pensare – proseguì con sicurezza – che il
colpo gli sia arrivato da dietro. Allora, quale duellante, nel bel mezzo della sfida, darebbe di spalle al rivale?
Infine, tertium non datur (forse non c’entrava granché ma a Bonaloni piaceva ogni tanto fare sfoggio dei
suoi studi classici), perché Assunta non ha alcun segno di percossa?” Ne era sicuro. “Ci avrei fatto caso… sia
stamattina che poco fa!”

“Giusto, marescià! Ci ho pensato anch’io al Non datur!”

A Bonaloni, sicuro di essere solo in quella cucina, per poco non prese un colpo. Si girò e non vide nessuno.
Si rigirò, con lo stesso risultato. Iniziò a preoccuparsi. Infine, inquadrò l’oscuro interlocutore nella guardia
scelta Rinaldi, misteriosamente nascosto sotto il tavolo da pranzo (solo dopo, Bonaloni scoprì che stava lì
recuperando chissà quali altri indizi). Come avesse fatto anche a lui a precederlo in quella casa, lo
infastidiva non poco, a tal punto che preferì non chiedere alcun dettaglio al riguardo.

Piuttosto, la spiegazione della causa di quella morte doveva essere un’altra, seppure tutto lasciasse pensare
a un litigio in famiglia, forse l’ennesimo, e che Assunta stavolta si fosse difesa in una maniera definitiva. O
forse no, c’era di peggio: poteva anche trattarsi di un omicidio in piena regola. Scrupolosamente preparato
e attuato con relativa messinscena. Bonaloni non voleva neanche pensare a questa eventualità. Si accese
un toscanello. “Mamma mia, sembra incatramato!” Diede altre due robuste boccate. “Ora va meglio!”

Intanto, pensava e sperava. Ci sperava con tutto il cuore che non fosse andata così, cioè che Assunta avesse
volontariamente colpito il marito per ucciderlo. E lui, lui, Bonaloni Ernesto, avrebbe forse potuto fare
qualcosa per impedire che divenisse la principale, se non unica, tesi investigativa? “Posso solo cercare la
verità! Se poi dovesse incastrare Assunta, allora è giusto che paghi!” Dove, però, cercare la verità, non lo
sapeva. Semplicemente, non lo sapeva. Specie dopo aver rovistato in tutte le altre stanze, bagno compreso.
Ovunque trovando lo stesso sconquasso della cucina.

Anzi, in quel bagno la rovina pareva addirittura superiore, come fosse stato l’epicentro di un terribile
terremoto domestico, oppure che un tornado si fosse divertito ad entrarvi e a sprigionarvi tutta la propria
forza distruttrice, prima di connettersi con il resto dell’abitazione. Visto l’impetuoso vento che Eolo
continuava a spedire all’esterno, gli parve anche una spiegazione inizialmente plausibile.

“Chissà, visto come si è incanalato lì fuori… magari qui dentro avrà fatto mulinello… formato quel cerchio
particolare, quel cerchio del… del… non mi ricordo di che…” Ci pensò un po’ su, fino a quando non gli
sovvenne. “Il cerchio del diavolo, così si chiama!” Gli sembrò un’ipotesi un po’ tirata a forza. Quindi,
decisamente tirata a forza. Infine, la bollò dentro di sé come una colossale stupidaggine.

Notò, però, un particolare accanimento. Contro il lavandino, martoriato fin dalla base senza pietà, con il
marmo, quello solido e grezzo di una volta, ripetutamente scosso ed intaccato da forti colpi che gli parvero
però vibrati in modo del tutto disordinato, se non alla cieca. Sembrava fosse divenuto il bersaglio prediletto
di quella follia coniugale oppure che, chissà, nascondesse un misterioso e più razionale motivo per essere
oggetto di tanta furia. Si chinò, quindi, sotto di esso, sfidando, stavolta con studiata consapevolezza, il suo
atavico, perenne ed invalicabile confine aracnofobico.

Vide due piccoli occhi fissarlo! Si ritrasse istintivamente. Il toscanello gli volò via dalle labbra. Non solo non
cercò di bloccarne il volo, come già gli era riuscito in qualche occasione di improvviso disequilibrio del suo
sigaro, ma neanche di recuperarlo dalla mattonella dove era adagiato dopo essere rotolato a terra.

Era davvero impaurito, o meglio terrorizzato, che fosse uno di quei cosi che così tanto temeva anche di
dover incrociare; così facendo. puntualmente incrociandoli. Il destino di qualsiasi fobico. Finire per trovare
ciò che si vuole scacciare. Ragionò. Impossibile. Con quegli occhi! Neanche in Amazzonia se ne trovano di
tanto orribili! Si rassegnò a dare un nuovo sguardo. Gli parve che quel coso si muovesse! Davvero troppo
per un pover’uomo quale in quel preciso momento si sentiva di essere!

Non gridò, ricordandosi di essere in pieno e coscienzioso servizio. Non gli pareva proprio dignitoso farlo.
Doveva però chiedere urgente aiuto a qualcuno.

Escluse il dottor Barbetti, medico legale, ora impegnato nell’attenta ricognizione cadaverica. In questa,
assistito da un altro medico di cui ignorava ruolo e funzione. Entrambi intabarrati da tute che gli parvero
provenienti direttamente dallo spazio.
Solo dopo, scoprì trattarsi di un’Ovirologo ospedaliero. “Virologo. Virologo voglio dire! Mica che Assunta mi
avrà contagiato con il suo strano parlare…” Si vergognò, convinto di aver utilizzato alla leggera, se non
completamente a sproposito, il verbo contagiare dinanzi alla drammatica serietà di quei momenti.

Ben sapeva quanto Barbetti fosse scrupoloso nel proprio lavoro e che non permettesse ad alcuno di
interromperlo. Figurarsi, in presenza di un collega. Figurarsi, vestito in quel modo, così professionale.
Figurarsi, se a chiederlo era un poliziotto in tenuta antisommossa. Quindi, altro non gli restava che
appellarsi a D’Antonio, l’unico, Bonaloni se ne convinse sempre di più, che con il suo pilurusciu, avrebbe
potuto sfidare anche il demonio in persona.

Il Brigadiere arrivò in un lampo. Non capì subito granché della gravità, reale o presunta, della situazione.
Infine, accucculatosi per la bisogna, intervenne. Allungò la mano e avvertì qualcosa di solido. “Sta verticale!
Marescia’… ma ‘sto maledetto lattice non mi dà la sensibilità necessaria a capire che cosa possa essere!”
Altre due/tre tastate e l’esclamazione ferale (per Bonaloni): “Si muove! È vivo! Non so cosa sia ma è vivo!”

Il coraggio di D’Antonio trovò il suo limite qualche istante dopo, quando quel coso si staccò improvviso dal
suo rifugio oscuro, Forse perché stufatosi di sentirsi pomiciato in ogni parte del corpo. Un iniziale battito
delle ali e partì. Come un pazzo. A missile. Diritto sul viso del brigadiere che, così, perse insieme baldanza e
il già ridotto equilibrio che l’accucculo gli garantiva. Finì all’indietro, gambe all’aria.

Bonaloni non provò neanche a tentare di rimetterlo in piedi. Tanto era preso dalla folle traiettoria
dell’oggetto volante. Sembrava votato al suicidio. Sbatté per prima cosa nella parete di fronte, quindi
seguendo una traiettoria sinistra, nel senso che virò verso quella direzione, colpì in pieno lo specchio posto
sul lavandino, infine “scelse” una rotta radente al muro stesso, come un veliero ormai privo di guida,
schiantandosi in fondo sulla parte maiolicata di quel bagno. Un attimo e precipitò a terra. A piombo.
Quindi, stecchito.

Solo allora il maresciallo ed il brigadiere, finalmente rialzatosi, trovarono la forza di avvicinarsi. “È un
pipistrello!!!” esclamò Bonaloni.

“Che schifò!” fece di rimando D’Antonio, che pure poco prima, l’aveva accarezzato. E chissà dove. Si
trovarono implicitamente concordi nel non volere, mai e poi mai, studiarne l’esatta anatomia.

Ribrezzo a parte, quel pipistrello, benché defunto, poteva essere anche l’Ovirus misterioso in persona! In
questo caso, a Bonaloni sembrò decisamente prudente che la ricognizione avvenisse tramite anfibio. Quello
destro che, con estrema cautela, continuò a far agire a distanza di moderata sicurezza, infine spostando di
punta quel corpicino. Un’operazione certosina che proseguì per almeno un paio di minuti, mentre
D’Antonio, per ancora maggiore sicurezza, si era ben celato dietro la robusta stazza del suo maresciallo,
lievemente flessa all’indietro durante l’attenta azione di gamba e piede.

Aveva notato qualcosa di strano. Così, con una delicata operazione di trascinamento del cadaverino, lo
collocò con ben misurate pedate al centro di quel bagno, proprio sotto l’unica fonte di luce, una lampadina
retta da un filo quasi invisibile tanto era striminzito. Sembrò, in ogni istante, essere lì lì per cedere. Resse.
Sempre più penzolante, ma resse.

“Guardi qui, brigadie’?” Il brigadiere, in realtà, non aveva proprio alcuna voglia di guardare. Aveva
improvvisamente smarrito ogni forma di audacia. E con essa, anche quella curiosità che dovrebbe pur
essere naturale per qualsiasi poliziotto. Bonaloni continuò senza badarci più di tanto. Non per insensibilità,
Solo che, conoscendolo, era certo che D’Antonio avrebbe recuperato le proprie capacitò in ragionevole
celerità.

“Quel sangue sull’ala sinistra! Non mi sembra così fresco!” Lo confrontò, spostando accuratamente e senza
fatica la lampadina, ondeggiante già di suo, verso il pavimento, così seguendo la strisciolina ematica che il
pipistrello aveva lasciato a terra durante il pur pietoso spostamento di cui era stato oggetto. “Quello è il suo
sangue! Ancora fluido! Di chi sarà quest’altro così rappreso!”

“Ovvio, è un vampiro! Chissà a chi l’avrà succhiato…” fu la fulminante conclusione di D’Antonio. Bonaloni
non lo escluse. Solo perché contento che il brigadiere avesse ritrovato energia deduttiva. Anche se la
deduzione – ne era convinto – sarebbe risultata più una stronzata che altro di scientificamente provato.

Proprio di questo avevano bisogno. Di un conforto della scienza! Di analisi accurate, di risposte certe e
inequivocabili per sapere se il sangue rappreso fosse di essere umano o meno. In tal caso - Bonaloni ne era
ormai certo – si sarebbe potuto tracciare un quadro ben diverso degli accadimenti. Tutto sarebbe, quindi,
finito nelle sapienti mani di Barbetti e dell’Ovirologo. Sorgeva, però, un altro problema. Come fare per
consegnare il pipistrello ai due medici?

Brevi manu, da escludere. Optarono per l’incartamento. In un foglio di giornale, meglio due sovrapposti, su
cui fecero nuovamente rotolare il volatile, con adeguata nuova spinta anfibia, prima del trasporto dal bagno
alla cucina. Qui sarebbe avvenuta la donazione, con relative spiegazioni.

“Faccia prima possibile, dottore!” Si raccomandò a Barbetti. “E soprattutto…” Il dottore non lo fece
concludere: “Soprattutto confronterò il sangue di questo poveraccio di Serafino con quello rappreso sul
pipistrello! Mi voleva dire questo, no?” Bonaloni sorrise. Davvero un piacere lavorare con persone del
genere. Davvero sprecate – pensò – per una città come Rieti “dove non accade mai nulla!”

Era ora di uscire da quell’abitazione. Ripercorsero il breve corridoio, sempre acceso come un albero di
Natale dalla luce bluastra dell’ambulanza, fino all’ingresso dove Bonaloni osservò la signora Assunta seduta
sullo stesso immutabile gradino. Per fortuna, un’anima pia, che il maresciallo seppe solamente dopo
corrispondere al nerboruto infermiere del precedente confronto, le aveva collocato sulle spalle una
riscaldante coperta di lana.

Non appena li vide, sembrò scapparle di nuovo. “Pi…pì…pi…pi!” D’Antonio accolse l’ennesima richiesta con
scarsa eleganza. “Ma questa deve sempre andare a pisciare?!”

Il maresciallo si fermò, invece, a riflettere, guardando con rinnovato affetto quella povera donna. “Ho
capito!” Il volto gli si illuminò. “E anche tu – rivolgendosi a D’Antonio – potresti facilmente arrivarci!” Il
brigadiere continuava a vagolare nel più completo buio.

“Pipistrello! Ecco cosa ci ha sempre voluto dirci: pipistrello! Altro che irrefrenabile bisogno fisiologico!” Il
maresciallo cercò in automatico di intercettare gli occhi di Assunta per averne conferma. Interpretò come
una conferma il nuovo “pi…pì!” fuoriuscito dalle labbra della donna. Era sicuro che fosse un “Sì!”. Uno dei
più chiari che in vita sua avesse mai ascoltato.

Fu allora che sentì nuovamente nitida la voce della pettegola. “L’avete pigliato il pipistrello?”

Andò su tutte le furie. Quella sapeva tutto e si era ben guardata dal dare in tempo un’informazione che
magari avrebbe potuto anche salvare la vita di Serafino. L’avrebbe potuto fare tranquillamente quando,
sempre per via aerea, gli aveva comunicato di “padelle e padellate”, badando bene a ritrarsi all’interno
Puoi anche leggere