Il sapiens e le epidemie - Epidemiologia & Prevenzione
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Il sapiens e le epidemie Donato Greco con Eva Benelli Le mie epidemie dal colera a Ebola al COVID-19 mezzo secolo di emergenze sanitarie in Italia e nel mondo Trieste, Scienza Express Edizioni, 2021 319 pagine; 21,00 euro Proprio quando cominciava a soffiare forte il vento dell’epidemiologia delle malattie croniche, in particolare dei tumori, e dell’epidemia occupazionale – anche in Italia con Benedetto Terracini come pioniere – un medico napoletano (il luogo di nascita e gli anni della gioventù non sono cose banali) di 26 anni, generoso, simpatico, impegnato, buon lavoratore, Donato Greco, si vota definitivamente all’epidemiologia delle malattie infettive da svolgere “sul campo”, nonostante la famosa sentenza degli ultimi anni Sessanta del Surgeon General, la massima autorità sanitaria statunitense: «It’s time to close the book on infectious diseases [...] the war against pestilence has been won». Oggi, in una situazione da considerare opportuna a causa della pandemia in atto, Donato, confortato da una brava divulgatrice scientifica, Eva Benelli, si è trovato finalmente nelle condizioni di dover socializzare la sua esperienza di circa mezzo secolo e quindi la sua biografia nel contempo scientifica e umana. Greco scrive come parla, con schiettezza, tra il didascalico e l’affabulatorio, quasi epicamente, indagando e scoprendo, con tratti di ironia, sempre imbastendo pratiche e conoscenze tecniche, immagini di genere e nel contempo le necessarie informazioni sociali, geopolitiche e anche culinarie; cosa questa che lo può fare avvicinare a un protagonista di letteratura gialla o poliziesca, a metà strada tra Pepe Carvalho e Montalbano. Insomma, si capisce che l’autore parla da un pulpito privilegiato, perché ne ha titolo, perché ha svolto l’inchiesta in prima persona, in maniera esemplare, e perché svolgendo l’indagine ha accresciuto il suo titolo. Titolo ben testimoniato dal curriculum professionale: ha diretto il Laboratorio di epidemiologia e biostatistica dell’Istituto superiore di sanità (ISS) e, sempre all’ISS, del Centro nazionale di epidemiologia; per vent’anni è stato direttore del Centro europeo di collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per le malattie infettive; è stato direttore generale della prevenzione al Ministero della salute e direttore del Centro per il controllo delle malattie; ha partecipato alla costruzione dell’Agenzia europea per le malattie infettive Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 1
(ECDC) ed è attualmente consulente per l’OMS e per l’ECDC; è anche membro del Comitato tecnico scientifico per il contrasto al Coronavirus. Il volume ha una prefazione di Silvio Brusaferro, attuale presidente dell’ISS, il quale focalizza opportunamente il lungo training del giovane, la sua vocazione alla prevenzione e il sistema di lavoro adottato precocemente da Greco: le indagini di campo, i sistemi di sorveglianza di singole malattie infettive, i programmi di formazione in epidemiologia degli Donato Greco operatori dei sistemi sanitari regionali. Seguono due note introduttive: quella di Donato dove si mette l’accento sul primato delle “indagini di campo” che, per essere svolte, hanno bisogno di “una squadra” e si ricorda, a proposito della “tremenda” pandemia di SARS-CoV-2, ma più in generale, che «prima delle modellazioni epidemiche, delle esplorazioni di big data, delle app, dei bollettini quotidiani di numeri senza denominatori, occorre recuperare lo studio fine dei cluster epidemici in tutte le loro fasi, da quella descrittiva a quella analitica, dalla comunicazione dei risultati fino alle indicazioni operative secondo lo schema di consequential epidemiology». Nel suo breve testo, Eva Benelli ricostruisce come, grazie agli stimoli di Donato, sia nato, a partire dalla sperimentazione della terapia Di Bella, il suo interesse per la “comunicazione di crisi” e per la “comunicazione istituzionale” e, quindi, la sua collaborazione con EpiCentro, il portale informativo dell’ISS, e poi la fondazione dell’agenzia di editoria scientifica Zadig. La ricercatrice sente di dover sostenere che oggi «la percezione di quanto si potrebbe fare e non si fa lascia un po’ sgomenti». L’incipit dell’opera vede il capitolo “Facciamo pace con i germi” che, più che una posizione “buonista” («Senza germi non ci sarebbe vita umana»), propone in breve un atto di realismo, dovendo considerare che la stabilizzazione delle popolazioni con tutte le sue conseguenze ben note, come si è storicamente instaurata, rende più pressanti le influenze ambientali e gli eventi Eva Benelli stagionali e quindi la “umanizzazione” dei germi. Il cuore del lavoro è rappresentato da 16 studi di caso in un arco di tempo che va dal 1973 al 2009, connotati, oltre che da una data, da un luogo (italiano o di altri Paesi) e da un sottotitolo che alla volte può risultare un indizio per aiutare a risolvere il “giallo”: «Colera, Napoli 1973, Albania e Bari 1994 (Quando tutto ebbe inizio)»; «Botulino, Stati Uniti 1975, Campania 1996 (Principale indiziato: il mascarpone)»; «Influenza, Stati Uniti 1975 (Se la conosci la eviti)»; «Terremoto, Irpinia 1980 (Imparare a gestire i disastri)»; Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 2
«Legionella, Riviera romagnola 1980, Piattaforma petrolifera 1986 (Arrivare per restare)»; «Salmonella, Paestum 1981 (Un matrimonio sfortunato)»; «Epatite A, Sila 1982 (Il segreto delle cozze si svela in montagna)»; «Peste bubbonica, Casentino 1984 (Galeotta fu la lepre)»; «Lebbra, Italia 1987 (Tra pregiudizio e discriminazione)»; «Brucellosi alimentare, Molise 1991 (Pecore, ricotta e batteri)»; «Polio, Albania 1996 (Le ragioni geopolitica di una epidemia)»; «Ebola, Uganda 2000 (Il terrore nel nostro ospedale)»; «Indagine sul rischio obesità infantile, Cilento 2005 (Il peso del sovrappeso: una nuova epidemia)»; «Tbc, Marche 2008 (All’asilo nido con la tbc)»; «Polio, Targikistan 2010 (L’epidemia sulla vetta del mondo)». A questi – non poteva essere altrimenti – si aggiunge la disamina dei casi di pandemie- epidemie influenzali per arrivare alla pandemia attuale con aggiornamenti al marzo 2021. Sarebbe improponibile, ma anche indelicato nei confronti dei lettori – che si pensano numerosi e appassionanti (perché appassionante è la scrittura) –, trattare singolarmente i casi e svelare la fine (e gli insegnamenti, la morale) di ognuna delle storie. Verranno richiamati soltanto pochi casi di studio, quelli che, a parere di chi scrive, descrivono meglio e in maniera più chiara la metodologia epidemiologica adottata, oppure, ma l’intento potrebbe risultare sovrapponibile, mettono in evidenza i tratti caratteristici, culturali, dell’operatore, quello principale, che scende in campo, cioè di Donato Greco. La storia dell’epidemiologia italiana delle malattie infettive, e quindi di Donato Greco epidemiologo delle malattie infettive, ha una sicura data di inizio: «Sono militare da trenta giorni, soldato semplice al Car di Orvieto. Ho ventisei anni e sono quasi specializzato in malattie infettive, ma già assistente di ruolo nell’ospedale per infetti Cotugno di Napoli. Nel pomeriggio del 27 agosto 1973, nel cortile della caserma, durante una delle interminabili pause dalle marce, ascolto dalla radio di un commilitone: ‘Casi mortali di gastroenterite acuta nell’ospedale Maresca di Torre del Greco, forse in trasferimento all’ospedale Cotugno’. Mi procuro un po’ di gettoni del telefono e chiamo il mio primario Michele Castaldo in ospedale: è molto preoccupato, parla di una gravissima forma di gastroenterite, sono forse una dozzina di casi, tutti adulti, almeno due anziani morti. Mi presento al capitano e gli chiedo una licenza di due giorni per motivi personali. È titubante: non si concedono licenze ai soldati semplici prima della fine dell’addestramento Car. Gli spiego tutto. Ha letto la notizia sui giornali, mi firma la licenza. Il 28 agosto scendo dal treno alla stazione di Napoli, dove mi aspetta con la vespa il mio gemello Luigi, gli chiedo di accompagnarmi subito al Cotugno, a casa passerò più tardi. I miei familiari mi rivedranno solo diverse settimane dopo. Sono le 15, entro in ospedale in divisa e con lo zainetto militare: vado subito a cercare Michele. Lo trovo in grande allarme: sono arrivate due ambulanze da Torre del Greco con altri pazienti in gravi condizioni, li ha sistemati in stanze singole. Ne sono in arrivo altri, non solo da Torre, ma anche da Minturno: la radio ha parlato di sette morti. Dopo nemmeno mezz’ora le cose precipitano: una decina di ambulanze con gastroenteriti acute, tutte destinate al nostro reparto, sono già per strada. Improvvisamente l’ospedale chiude. Arrivano le ‘giuliette’ della polizia, in cortile compare una camionetta dell’esercito: è il cordone sanitario e nessuno può più uscire dall’ospedale». (pp. 22-23) Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 3
I due casi di Torre del Greco richiamano alla memoria Giacomo Leopardi, morto trentanovenne proprio a Torre (ma qualcuno vuole che si sia spento a Napoli) ai tempi del colera, nel 1837. Molti sono i tratti delle “sceneggiate” napoletane descritti e degni di nota in questa occasione: medici, infermieri reclusi per settimane, assieme a questi turisti stranieri e anche malati e bambini non colerosi, e il camionista che lascia nei pressi dell’ospedale un carico di pomodori che marciranno sotto il sole; i coltivatori di cozze napoletani che a fronte dell’imposta distruzione degli allevamenti (“la battaglia delle cozze”) ostentatamente le mangiano crude per dimostrare la loro innocenza; le manifestazioni popolari per ottenere la poco efficace vaccinazione; le processioni sino al Cotugno, all’epoca diretto da Ferruccio De Lorenzo che diverrà un politico famigerato, di fedeli e devoti con santi locali per implorare la guarigione dei ricoverati; i limoni venduti al mercato nero a prezzi proibitivi. L’ultimo caso di infezione viene diagnosticato il 19 settembre dello stesso anno 1973, in coincidenza con la festa di San Gennaro il cui sangue in quell’anno non fa il miracolo, non diviene liquido. Poi c’è la visita del capo dello Stato del tempo, partenopeo verace: «Arriva in gran corteo il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, bardato di tutto punto con camice, calzari, guanti, mascherina e cappello chirurgico. Eppure non si fida, un fotografo riesce a scattare la foto che farà il giro d’Italia e forse del mondo: entrando in reparto, Leone fa le corna con la mano destra dietro la schiena». (p. 26) Nei primi giorni, prevalendo l’impreparazione tecnica, viene messa in campo da parte dei medici e di tutte le altre istituzioni centrali e locali l’arte di arrangiarsi: ha la meglio il circo mediatico con le ipotesi più astruse, compresa quella del complotto, ed esperti improvvisati che evitano anche di stressare la trasmissione oro-fecale della patologia mettendo in pratica misure preventive non appropriate. «A metà settembre [a Napoli] si contano mille ricoverati, 127 casi di colera confermati con 12 decessi, una letalità del 10% che non si vedeva nemmeno in Bangladesh, patria del colera». (p. 26) Greco non ne parla, ma la cronaca del tempo riporta che la responsabilità dei mitili coltivati negli allevamenti (autorizzati e abusivi) prossimi alla linea di costa metropolitana nella genesi dell’epidemia viene esclusa dai risultati della perizia ordinata dalla autorità giudiziaria, la quale attesta “soltanto” la contaminazione delle acque marine provocata dall’inadeguatezza del sistema fognario cittadino. Alla fine, sembra prevalere l’ipotesi che l’epidemia debba essere imputata all’importazione illegale di mitili dalla Tunisia. Eduardo De Filippo scriverà un testo teatrale, L’imputata, nel quale la cozza finisce davanti a un giudice e dove si dice: «Cara còzzeca, tu staje 'nguaiata». L’epidemia, secondo l’opinione di molti, finisce per “fare del bene” a Napoli e a tutto il Paese, poiché mette sotto gli occhi di tutti la fragilità del sistema igienico e sanitario e mette in luce il bisogno urgente di interventi realmente preventivi legislativi e pratici con i cittadini e sul territorio, alimentando così positivamente il dibattito sulla Riforma sanitaria che verrà approvata nel 1978. L’occasione viene colta al volo da Donato Greco; e così, grazie alla sua conoscenza Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 4 Folla davanti all’ospedale Cotugno (Napoli, 1973)
dell’inglese, inizia la collaborazione con l’unità di ricerca medica della marina americana di stanza a Pozzuoli e poi con una delegazione scientifica dei Centers for Disease Control degli Stati Uniti e dell’OMS di Ginevra, svolgendo assieme a questi un’esemplare indagine epidemiologica sul campo. È a questo punto che si impone la missione di Donato che, investendo anzitutto su se stesso con soggiorni negli Stati Uniti, in Russia e nel Regno Unito, fissa l’obiettivo di costruire dal nulla una cultura dell’epidemiologia, in particolare delle malattie infettive, in Italia; quindi, grazie alla sensibilità di Duccio Zampieri, una struttura stabile, il Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica all’ISS. Quel Duccio Zampieri che andrebbe meglio ricordato per tanti motivi, ma anche per essere l’autore di una sentenza notevole che opportunamente Marco Geddes ripropone in una sua opera recente: L’infezione, l’epidemia, non va curata, non va inseguita, va battuta sul tempo. Bisogna arrivare in anticipo, essere più rapidi del microbo!. Nel 2004, quando Greco lascia la direzione di quello che nel frattempo è diventato il Centro Nazionale di Epidemiologia dell’ISS, i ricercatori sono più di 200; nel 2015 il Centro viene chiuso e le sue competenze distribuite in altri dipartimenti dell’Istituto. Greco si occuperà nel 1994 di un nuovo focolaio di colera a Bari e in Albania, scrivendo cose di sicuro interesse dal punto di vista sociale e politico. Affidiamo al lettore il botulismo negli Stati Uniti e in Campania, l’influenza negli Stati Uniti, il terremoto dell’Irpinia e la legionella della Riviera romagnola con un ricordo iconico: («… [io che] con una cassetta con i ferri da idraulico, salgo il tetto di un albergo di Lido di Savio, smonto le ghiere di alcun i pannelli ed estraggo le guarnizioni. Abbiamo trovato così la legionella») e della piattaforma petrolifera e arriviamo al giallo culinario del matrimonio di Paestum dove vengono contagiati di salmonella i 400 invitati; alcuni verranno ricoverati, la sposa sta male quando è già a Venezia in luna di miele, il vescovo che probabilmente aveva ufficiato è in preda ai crampi, febbre e diarrea. Sessantadue persone hanno manifestato sintomi e segni di salmonellosi e in trentotto è stato isolato lo stesso tipo di Salmonella typhimurium. In quegli anni (siamo negli Ottanta del Novecento), venivano notificati 30.000 di salmonellosi umana, oggi circa 5.000 casi all’anno. Greco si impegna a fondo, con pertinacia ma anche con soddisfazione, in un’indagine particolarmente difficoltosa, dovendo “saggiare” ognuna delle 40 portate somministrate in quel matrimonio cilentano. In sei giorni vengono individuati e intervistati 182 inviatati, inclusi 22 bambini, ai quali viene somministrato un questionario costruito ad hoc con il quale si doveva scoprire chi aveva consumato cosa. L’inchiesta porta a una conclusione soddisfacente che ovviamente in questa sede viene taciuta; volendo alleggerire la suspense, si consiglia di guardare ai primi più che ai dolci. Si sente il dovere di riportare, non senza una certa ostentazione, il menù delle nozze, anche se in maniera alquanto ridotta, utilizzato come strumento essenziale dell’inchiesta. «[…] ci si mette a pranzo alle due e mezza. Quaranta portate! Un putiferio di antipasti: valanghe di alici fritti e vassoi di cozze e cannolicchi, alici marinate e melanzane imbuttonate e carciofi all’olio, montagne di bocconcini di mozzarella di bufala e ricottine su ogni tavolo, grandi taglieri con i piccanti affettati locali, ma anche, in onore della dieta sana, vassoi di verdure grigliate con aglio, peperoncini ed origano, galleggianti su un mare Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 5
di ottimo olio di oliva. Quadrotti di frittate di ogni tipo, di cipolle, zucchine, fagiolini, bietole, spinaci. Mini bruschette a tutto spiano, coi pomodorini ‘del piennolo’ (che si appendono e restano fruibili fino a Natale), coi fagioli, con la ‘nduia’, il salame piccante calabrese. Grandi panelle di pane appena sfornato, tagliate a vista, tavolo per tavolo, da solerti camerieri. Un’ora di antipasti. Vini bianchi cilentani in abbondanza, ma Silvio [il padre della sposa], che non sopportava il vino imbottigliato, aveva fatto arrivare quattro damigiane da venticinque litri del rosso che faceva lui stesso. Le brocche di ceramica di Vietri venivano costantemente rifornite. Prima mari e monti […] Dopo un’ora di antipasti e un’ora di primi, un grande carrello gira tra i tavoli con un enorme pentolone di coccio con la rituale pasta e fagioli, irrinunciabile referenza della tradizione contadina. […] Si riprende coi secondi: su ogni tavolo arriva l’immancabile braciolona di maiale con cui era stato fatto il ragù, seguita dall’intrattieno, cioè grosse zuppiere di impepata di cozze o soutè di lupini (una vongola povera) destinate ad intrattenere lo stomaco in attesa di altri secondi. Ed ecco arrivare un grande carrello con quattro capretti al forno che vengono tagliati tavolo per tavolo, seguiti da trionfi di fritto di pesce: alici, gragaglie di triglie, porpetielli, anelli di calamaro. Non mancano i ‘tianelli di porpo affogato’. E poi i contorni vegetali. […] arrivano i carrelli dei dolci un vero trionfo cilentano: dalla pizza chiena alle pasteurelle ripiene di castagne fino ai grandi vassoi di scauratieddi appena fritti e coperti di miele. Infine l’orgoglio della pasticceria locale: i cannoli cilentani, piccoli, fatti in casa e ripieni di una tipica crema bianca». (pp. 112-114) Dal Cilento all’Uganda. Nell’aprile del 2000, Piero Corti, responsabile del St. Mary’s Lacor Hospital, distretto di Gulu, Uganda, comunica a Donato, da quattro anni direttore del Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica dell’ISS, che è scoppiata una terribile epidemia di febbre emorragica e che potrebbe trattarsi di Ebola. L’ormai manager della sanità pubblica italiana parte; il viaggio è lungo, si arriva dopo due scali a Entebbe, ma poi ci sono da percorrere i 400 chilometri di sobbalzi sino a Lacor, dove c’è un ospedale capace di accogliere e curare ogni anno più di 250.000 pazienti. Siamo effettivamente di fronte alla prima grande epidemia di Ebola che serpeggia nel tessuto urbano, non più nei villaggi della foresta. «Un’esperienza dura e complicata dal disordinato affluire di decine di ‘collaborazioni sul campo’ dalle istituzioni (OMS, CDC, Unicef) a una miriade di Organizzazioni non governative. Una svolta epocale che ha messo in prima linea il contact tracing e l’isolamento, tecniche inconsuete in Uganda, ma anche la fine del materiale sanitario riusabile (aghi, guanti, siringhe …) e la crescita di attenzione verso la sicurezza del personale operativo in ospedale». (pp. 194-195) Greco smette presto di fare l’apprendista clinico (ricorda, «Stavamo curando i malati, stavo effettuando un prelievo di sangue venoso, il dito mi entrò nella pelle di quell’uomo, ormai ridotta a una spugna imbevuta di sangue») e torna con soddisfazione nel suo ruolo di epidemiologo «dai piedi scalzi»; sono passati due mesi e rientra in Italia, «triste per gli errori commessi e felice per essere ancora vivo». Il bilancio dell’ospedale è tremendo: 25 dipendenti si ammalano e 13 non ce la fanno. Il colpo di grazia, però, arriva alla fine dell’epidemia: si ammala Simon, uno degli infermieri più apprezzati, compagno d’infanzia di Mattew Lukwiya, il brillante giovane direttore sanitario (pupillo e allievo di Piero Corti che lo vedeva come suo successore). Non passano sette giorni che Mattew si ammala a sua volta e in quattro giorni si spegne; la telefonata che annuncia la sua morte giunge a Greco a Bruxelles in una stanza d’albergo ed in lacrime mette sulla carta dei pensieri: Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 6
«La telefonata che mi annuncia la morte di Mattew mi coglie un pomeriggio del settembre 2000, mentre ero a Bruxelles per una riunione della Commissione Europea Ricerca Sanitaria: impotente e bloccato in una stanzetta d’albergo non riesco a trattenere le lacrime, prendo penna e carta e trovo sfogo scrivendo questi pensieri. ‘Mattew è morto. Sento un grido forte, alto, prorompente, un grande grido disperato. L’ultima persona che poteva morire: chiunque altro, ma non lui. Mille ragioni, tutte le logiche, ogni motivo di giustizia, di opportunità, di amore: non lui, non poteva essere lui. Era lui che insegnava come evitare la morte di Ebola, non ha commesso errori di comportamento, sapeva benissimo cosa fare. Ebola l’ha scoperta lui, Ebola lui l’ha fermata. Non fosse arrivato di corsa dal suo impegno di studio a Kampala, nessuno avrebbe identificato Ebola prima che devastasse l’ospedale e l’intera regione. Se Ebola è stata contenuta è soltanto perché Mattew ha intuito, ha sentito qualcosa di strano. Chi ha ucciso mio fratello Mattew? Non certo la sua imprudenza, né la sua incapacità di difendersi. L’ha ucciso la sua vocazione! La sua totale dedizione agli altri, il suo consapevole e razionale vivere ai bordi della sopravvivenza, sulla lama della vita, col sorriso e l’allegria che non gli sono mai mancati. La storia è nota: diversamente da tanti altri ospedali in Africa, e anche in Italia, a Lacor si ama l’ammalato, gli si vuole bene, si cura, si lava, si accudisce. Non lo si guarda da lontano in attesa che muoia come succede nel vicino ospedale governativo. Mattew non ha col personale rapporti di gerarchia, ne è fraternamente amico, ci vive insieme, ne condivide i problemi, il lavoro, i guai, secondo l’insegnamento dei Corti e delle Suore e dei Fratelli di Lacor. Il suo personale si è ammalato, sono morti dieci infermieri nell’ospedale. Non erano casi qualunque, Mattew li ha vissuti come tra fratelli, forse anche con un non motivato senso di colpa per non aver loro evitato il contagio è […]». La trattazione al solito avvincente del caso della Polio in Tagikistan conclude una prima parte del libro, quella “movimentista”, delle indagini epidemiologiche sul campo. A questa si può dire che ne segue un’altra né breve e neppure di secondaria importanza, più compilativa, riflessiva e per certi aspetti, contraddicendo gli intenti espressi dall’autore nella sua nota introduttiva, più prossima a una “dissertazione epidemiologica” o a un “manuale d’uso”; ma questa deriva non è strana e risulta benvenuta, a vantaggio del lettore. Si inizia con una disamina di lungo periodo, “Dalla Spagnola a H1N1, mondo 2009 (Fatti e misfatti delle pandemie)”. Si tratta di una sintesi molto utile del calendario delle epidemie influenzali del precedente e di questo secolo, dove sono riportate le caratteristiche più essenziali dei vari episodi. Questo capitolo, ci accompagna sino alla preparazione quasi insensibilmente, fautore il nostro autore nella sua nuova affiliazione ministeriale, del primo e per molti anni unico piano pandemico nazionale e regionale; a questo proposito Donato scrive con severità: «[…] non si trova traccia di alcun report o piano pandemico successivo a quello del 2006 né si ha notizia di aggiornamenti successivi a questa Decisione [quella del Parlamento e del Consiglio Europeo del 2013]». (p. 257) Con gli ultimi tre capitoli, “Pandemia da SARS-CoV-2: mondo 2020-2021(Il Covid domani)”, “Postfazione: Quattro domande pandemiche”, “Appendice: Perché (e come) indagare le epidemie”, l’autore non tradisce i suoi estimatori – e, si spera, i tanti lettori dell’opera – riportando la sua visione, autorevole e originale, sull’attuale epidemia, senza contraddire, almeno pare, la sua adesione, nell’estate del 2020, alla dichiarazione sulla minore infettività di SARS-CoV-2, quella nota come “il virus ha perso forza”, criticata da molti perché valutata affrettata, inopportuna e sostanzialmente errata. Le considerazioni che l’autore sente di diramare prendono le mosse da un assioma assunto Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 7
non intuitivamente, ma scientificamente, oggettivamente: «[…] L’attuale pandemia è causata da un virus nuovo che ha trovato l’intero globo suscettibile e quindi ha fatto e sta facendo gravi danni alla salute e all’economia di tutti i Paesi. Negarlo sarebbe irrazionale e irrealistico. È irrealistico, invece, pensare che la persistenza della circolazione ancora per un discreto periodo imponga di riconsiderare le misure di risposta, coscienti dell’evidenza di dover convivere col virus per tempi relativamente lunghi». (p. 263) L’autore si dice colpito, in particolare, da alcuni effetti prodotti dalle trascorse fasi pandemiche, deprecabili e da correggere con grande impegno: «La riduzione o sospensione delle attività didattiche, un danno per i nostri figli e nipoti, sia presente sia futuro, di dimensioni incalcolabili; l’espansione straordinaria dell’assistenzialismo di stato, a fronte della scomparsa di una miriade di realtà produttive, che forse non potranno risorgere mai più, e con il rischio dell’affermarsi di generazioni di assistiti deprivati di iniziativa; la trasformazione dei rapporti sociali, dalla fratellanza e solidarietà alla diffidenza e lontananza, dal prossimo fratello al prossimo nemico potenziale, al concorrente sulle risorse limitate, siano esse economiche o l’accesso ai vaccini». (p. 266) Per Greco occorre un governo della sanità pubblica che, nel contempo, eviti i drammatici effetti del lockdown e impieghi tutte le risorse umane ed economiche possibili per proteggere i deboli (sorveglianza attiva nelle Residenze sanitarie assistenziali, vaccinazione periodica contro COVID-19 e influenza, disponibilità ed elasticità di posti letti semi intensivi e intensivi), per sorvegliare il territorio (potenziando i dipartimenti di prevenzione e i servizi di epidemiologia), per la scuola (migliorando le strutture scolastiche offrendo la copertura vaccinale anche anti-COVID- 19), per la comunità (offrendo a tutti la vaccinazione contro l’influenza e il COVID-19, con campagne di comunicazione capaci di sostenere una vera cultura della preparedness, incentivando distanziamento e mascherine tra i contatti dei casi positivi). L’opera di Donato Greco è fonte di molti e importanti insegnamenti, tra i quali c’è da considerare lo stimolo a che altri epidemiologi che ne hanno titolo e sono tanti anche in Italia (e non soltanto quelli delle malattie infettive oggi necessariamente di moda) si preoccupino di illustrare, anche a futura memoria, le proprie esperienze e la propria cultura. Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 8
Frank M. Snowden Storia delle epidemie Dalla Morte Nera al COVID-19 Gorizia, Leg Edizioni, 2020 618 pagine; 24,00 euro (edizione originale: Epidemics and Society. New Haven, Yale University Press, 2019) Frank M. Snowden è professore emerito di storia e di storia della medicina alla Yale University. Come specialista di storia d’Italia del XX secolo, ha pubblicato Naples in the time of cholera, 1884-1911 (1995) e La conquista della malaria: Italia 1900- 1962 (2008). La sua più recente è una grande opera, frutto di un settennale ciclo di lezioni universitarie corredata da una buona bibliografia selezionata e, a differenza di tanti altri libri dati alle stampe di recente, da un indispensabile indice analitico. L’autore costruisce uno scenario di lungo periodo, nel quale colloca la maggioranza delle malattie epidemiche che hanno colpito il mondo: dalla tre epidemie di peste nera alla SARS e all’Ebola, dal vaiolo al colera, dalle malattie infettive veicolate dalle guerre napoleoniche alla tubercolosi e quindi all’HIV/Aids. Con una trattazione insistentemente interdisciplinare capace di valorizzare, oltre che quelle mediche e scientifiche, fonti letterarie, artistiche e in genere fenomeni e “reazioni” popolari e non, l’autore inserisce i fatti in un contesto interpretativo capace di illustrare come quelle malattie abbiano, nei diversi periodi storici, plasmato in maniera profonda la demografia e poi la società e l’economia. Nei primi mesi del 2020, Snowden, che soggiornava in Italia, ha vissuto il lockdown e si è anche ammalato di COVID-19. Occasione opportuna per scrivere da testimone e da storico un Epilogo all’edizione italiana della sua opera: “La Lombardia all’epicentro del COVID-19: gennaio-maggio 2020”, una trentina di pagine intense, ben documentate, che dovrebbero risultare di sommo interesse per coloro che amano conoscere e interpretare e per chi è chiamato ad assumere iniziative nel proprio ambito di competenze. Se ne propongono due brani di assaggio: «[…] Se ritardi e mancata prioritizzazione sono state due caratteristiche dell’iniziale risposta italiana che hanno messo in pericolo la salute della nazione, altre due decisioni hanno sostanzialmente peggiorato la situazione. Entrambe derivavano dall’arroganza e dalla volontà di uomini politici di ridurre i fondi per lo ‘stato sociale’, tagliando drasticamente i budget per la ricerca scientifica e il sistema ospedaliero pubblico». (pp. 552-553) «[…] Purtroppo, un’analisi più accurata del profilo sociale dell’epidemia lombarda non è possibile sulla base delle prove attualmente disponibili. Le statistiche ufficiali sono notevolmente fuorvianti per quanto riguarda le reali dimensioni del disastro, e non è stato fatto alcun tentativo per raccogliere dati relativi all’occupazione e alla residenza, oltre che all’età e al sesso, ma la forte impressione di giornalisti e cittadini è che, almeno a Bergamo, tutti fossero vulnerabili». (p. 558) Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 9
Siegmund Ginzberg Racconti contagiosi Milano, Feltrinelli, 2020 332 pagine; 18,00 euro Siegmund Ginzberg è una storica firma de L’Unità, che scriveva nel quotidiano fondato da Antonio Gramsci specialmente come inviato nei Paesi dell’estremo oriente; più di recente ha pubblicato un romanzo familiare, Spie e zie (2015) e Sindrome 1933 sulla tragedia hitleriana (2019). L’autore è persona coltissima e buon affabulatore e allora si può permettere di rileggere e farci rileggere con gli occhi di oggi, ai tempi del Coronavirus, classici della letteratura di tutti i tempi da Tucidide e Ovidio a Boccaccio, da Shakespeare a Defoe, da Poe a Mary Shelley, da London a Virginia Woolf, da De Amicis a Belli e a tanti altri ben rintracciabili grazie all’indice analitico. Il risultato è un’affascinante quanto ossessiva antologia che parla di sentimenti e di comportamenti che sempre ritornano o che si ripresentano con piccole varianti; si parla di lutti e paranoie, di “limitazioni di libertà”, di abbracci negati, di commissari e decreti di sanità, di quarantene, di mani da lavare, di distanziamenti fisici, di ciarlatani, di cure miracolose, di reazioni irrazionali, di odio contro i medici. Agli untori, l’autore dedica alcune pagine di grande effetto dove, tra le altre cose si legge: «Qualcuno è accusato più frequentemente di altri. Si va dalle interpretazioni a rovescio delle piaghe d’Egitto, che sono antiche quanto lo è la Bibbia (altro che fuga e liberazione dalla schiavitù, gli ebrei furono cacciati dal Faraone perché infettavano gli Egiziani!), ai massacri di ebrei durante la peste nera perché li si accusava di avvelenare i pozzi, alla parabola nazista che giustificò l’Olocausto: sono loro gli ebrei, la Peste in persona. Ben che andava gli davano dei ‘gufi’. Judenfieber, febbre giudaica veniva chiamato il tifo, e forse non è un caso che per sterminarli poi usarono il Zyklon B, che originariamente doveva servire a eliminare i pidocchi, portatori di tifo. Anche gli armeni erano indicati, durante i massacri del 1915-19, come portatori di tifo». (pp. 190-191) Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 10
Charles Kenny La danza della peste Storia dell’umanità attraverso le malattie infettive Torino, Bollati Boringhieri, 2021 272 pagine; 24,00 euro (edizione originale: The plague cycle. The unending war between humanity and infectious disease. New York, Simon & Schuster, 2021) Charles Kenny è ricercatore presso il Center for Global Development di Washington, con una lunga esperienza come economista presso la Banca mondiale. L’autore, emulando e sviluppando in qualche modo il pensiero di Jared Mason Diamond, con questo suo scritto con impronta storica, ma principalmente concettuale, intende elargire informazioni inquietanti al fine di incitare alla cooperazione globale se veramente si vuole porre l’obiettivo di contrastare le infezioni, perseguire una salute sostenibile e, quindi, consentire che l’umanità prosegua il cammino virtuoso intrapreso nel passato, specialmente nel Novecento, grazie ai progressi economici, igienici e della medicina. In un’intervista l’autore ha sostenuto: «La lotta alle malattie infettive ha dato forma alle nostre città: l’urbanistica che ha tenuto conto della salute pubblica ha prodotto fogne e cimiteri e poi ha fatto nascere le megalopoli. Ha creato posti di lavoro, ci ha resi ricchi e sani, e ci ha anche convinto a fare meno figli. Ha rimesso in piedi gli eserciti. Ed eccoci daccapo: ci ha riportato in guerra, ci ha spinto a colonizzare continenti lontani e a fondare nuovi imperialismi. Infine ha discriminato tra i ricchi e i poveri della Terra, quelli che ancora non hanno a disposizione farmaci, vaccini, ospedali, e spesso nemmeno acqua e sapone, cioè i figli di quelli che noi europei abbiamo resi schiavi. Quelli a carico dei quali va ancora la maggior parte della mortalità infantile di tutto il mondo, che per due terzi è ancora causata da malattie infettive, e quelli per cui in epoca prepandemica le infezioni causavano ancora dieci milioni di morti all’anno. Ecco come si sta fuori dalla trappola malthusiana. Bene, ma non benissimo». (Bencivelli, 2021) Il presupposto dal quale occorre partire è che il mondo globalizzato e “spensieratamente florido” diviene via via più precario a causa degli insidiosi aspetti di una prosperità apparentemente illimitata, ma nel contempo la fluttuazione della popolazione, il commercio globale e il cambiamento climatico hanno reso l’umanità vulnerabile alle epidemie. È la “danza della peste” a scandire ciclicamente nei secoli trascorsi il ritmo della crescita e del declino della civiltà umana; oggi, sotto il segno della pandemia in corso, la condizione si ripropone integralmente. Nel capitolo conclusivo del suo libro, che ha note e bibliografia non usuali, anche diversa da quelle utilizzati dagli storici della sanità e della medicina, quindi di particolare interesse, Kenny dipinge un quadro a tinte fosche: Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 11
«O forse il Covid-19 è soltanto un assaggio di qualcosa di ben peggiore. Forse torneremo indietro. Se i profeti antivaccinisti continueranno a rifilarci una disinformazione letale senza vedersi opporre una risposta adeguata, se i nostri ultimi antibiotici verranno sprecati per aggiungere qualche etto di carne bianca a un petto di pollo, se non faremo nulla per migliorare la cooperazione globale, la copertura del monitoraggio del virus e la tempestività di reazione alle epidemie, sappiamo come sarà il mondo. Un pianeta senza i nostri strumenti più efficaci contro le infezioni ripiomberebbe nella miseria malthusiana. Sarebbe un mondo in cui la nostra idea di mortalità come questione sempre più privata verrebbe sostituita dalle sepolture di massa dei giovani. Sarebbe un mondo più povero, più violento, dove tutti vivremmo più isolati: un luogo intollerante e misogeno». (pp. 211-212) Franco Carnevale BIBLIOGRAFIA o Com’era Napoli ai tempi del colera nel 1973. Le foto dall’archivio Pizzi. Disponibile all’indirizzo: https://formiche.net/gallerie/napoli-colera-pizzi/ o Marco Geddes da Filicaia. La sanità ai tempi del Coronavirus. Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, 2020. o Jared Mason Diamond. Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni. Traduzione di Luigi Cavalleri. Torino, Einaudi, 1997 [Ed. orig. in inglese 1997]. o Donato Greco. Piero Morosini: Il gentleman dell’epidemiologia. Disponibile all’indirizzo: https://www.epicentro.iss.it/archivio/pdf/Morosini_Greco.pdf o Intervista: Silvia Bencivelli. La danza della peste – Storia dell’umanità attraverso le malattie infettive. Disponibile all’indirizzo: https://ilbolive.unipd.it/it/news/danza-peste- storia-dellumanita-attraverso-malattie o Intervista: Da Napoli alle Dolomiti, in arrampicata. Disponibile all’indirizzo: https://pensiero.it/in-primo-piano/ritratti/ritratto-di-donato-greco o Intervista: Riccardo Chiaberge. Piaghe antiche e moderne. Negazionisti e cospirazionisti di oggi e di ieri nei “Racconti contagiosi” di Siegmund Ginzberg. Disponibile all’indirizzo: https://www.linkiesta.it/2020/11/untori-negazionisti-racconti- siegmund-ginzberg/ o Intervista: Coronavirus, l’epidemiologo Donato Greco: «In alcune Regioni le mascherine non servono più». Disponible all’indirizzo: https://www.corriere.it/cronache/20_giugno_24/coronavirus-l-epidemiologo-donato- greco-in-alcune-regioni-mascherine-non-servono-piu-9388c214-b647-11ea-9dea- 5ac3c9ec7c08.shtml o Intervista: Anna Meldolesi. L’umanità convive da sempre con le epidemie. Ecco come proteggersi Disponibile all’indirizzo: https://www.corriere.it/sette/attualita/20_marzo_13/umanita-convive-sempre-le- epidemie-ecco-come-proteggersi-553ef5c2-61e8-11ea-9897-5c6f48cf812d.shtml o Walter Ricciardi, Enrico Alleva, Paola De Castro, Fabiola Giuliano, Sandra Salinetti (eds)- 1978-2018: quaranta anni di scienza e sanità pubblica. La voce dell’Istituto Superiore di Sanità. Roma, Istituto Superiore di Sanità, 2018. Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 12
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