Il sapiens e le epidemie - Epidemiologia & Prevenzione

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Il sapiens e le epidemie - Epidemiologia & Prevenzione
Il sapiens e le epidemie

                                Donato Greco con Eva Benelli
                                Le mie epidemie
                                dal colera a Ebola al COVID-19
                                mezzo secolo di emergenze sanitarie in Italia e nel
                                mondo
                                Trieste, Scienza Express Edizioni, 2021
                                319 pagine; 21,00 euro

                                 Proprio quando cominciava a soffiare forte il vento
                                 dell’epidemiologia delle malattie croniche, in particolare
                                 dei tumori, e dell’epidemia occupazionale – anche in
                                 Italia con Benedetto Terracini come pioniere – un
                                 medico napoletano (il luogo di nascita e gli anni della
                                 gioventù non sono cose banali) di 26 anni, generoso,
                                 simpatico, impegnato, buon lavoratore, Donato Greco, si
                                 vota definitivamente all’epidemiologia delle malattie
                                 infettive da svolgere “sul campo”, nonostante la famosa
                                 sentenza degli ultimi anni Sessanta del Surgeon General,
la massima autorità sanitaria statunitense: «It’s time to close the book on infectious
diseases [...] the war against pestilence has been won».
Oggi, in una situazione da considerare opportuna a causa della pandemia in atto,
Donato, confortato da una brava divulgatrice scientifica, Eva Benelli, si è trovato
finalmente nelle condizioni di dover socializzare la sua esperienza di circa mezzo secolo
e quindi la sua biografia nel contempo scientifica e umana.
Greco scrive come parla, con schiettezza, tra il didascalico e l’affabulatorio, quasi
epicamente, indagando e scoprendo, con tratti di ironia, sempre imbastendo pratiche e
conoscenze tecniche, immagini di genere e nel contempo le necessarie informazioni
sociali, geopolitiche e anche culinarie; cosa questa che lo può fare avvicinare a un
protagonista di letteratura gialla o poliziesca, a metà strada tra Pepe Carvalho e
Montalbano. Insomma, si capisce che l’autore parla da un pulpito privilegiato, perché ne
ha titolo, perché ha svolto l’inchiesta in prima persona, in maniera esemplare, e perché
svolgendo l’indagine ha accresciuto il suo titolo. Titolo ben testimoniato dal curriculum
professionale: ha diretto il Laboratorio di epidemiologia e biostatistica dell’Istituto
superiore di sanità (ISS) e, sempre all’ISS, del Centro nazionale di epidemiologia; per
vent’anni è stato direttore del Centro europeo di collaborazione con l’Organizzazione
mondiale della sanità (OMS) per le malattie infettive; è stato direttore generale della
prevenzione al Ministero della salute e direttore del Centro per il controllo delle
malattie; ha partecipato alla costruzione dell’Agenzia europea per le malattie infettive

      Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 1	
  
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(ECDC) ed è attualmente consulente per l’OMS e per l’ECDC; è anche membro del
Comitato tecnico scientifico per il contrasto al Coronavirus.

                                               Il volume ha una prefazione di Silvio
                                               Brusaferro, attuale presidente dell’ISS, il
                                               quale focalizza opportunamente il lungo
                                               training del giovane, la sua vocazione alla
                                               prevenzione e il sistema di lavoro adottato
                                               precocemente da Greco: le indagini di
                                               campo, i sistemi di sorveglianza di singole
                                               malattie infettive, i programmi di
                                               formazione in epidemiologia degli
  Donato Greco                                 operatori dei sistemi sanitari regionali.
                                               Seguono due note introduttive: quella di
Donato dove si mette l’accento sul primato delle “indagini di campo” che, per essere
svolte, hanno bisogno di “una squadra” e si ricorda, a proposito della “tremenda”
pandemia di SARS-CoV-2, ma più in generale, che «prima delle modellazioni
epidemiche, delle esplorazioni di big data, delle app, dei bollettini quotidiani di numeri
senza denominatori, occorre recuperare lo studio fine dei cluster epidemici in tutte le
loro fasi, da quella descrittiva a quella analitica, dalla comunicazione dei risultati fino
alle indicazioni operative secondo lo schema di consequential epidemiology».
Nel suo breve testo, Eva Benelli ricostruisce come, grazie agli stimoli di Donato, sia
nato, a partire dalla sperimentazione della terapia Di Bella, il suo interesse per la
“comunicazione di crisi” e per la “comunicazione istituzionale” e, quindi, la sua
collaborazione con EpiCentro, il portale informativo dell’ISS, e poi la fondazione
dell’agenzia di editoria scientifica Zadig. La
ricercatrice sente di dover sostenere che oggi «la
percezione di quanto si potrebbe fare e non si fa
lascia un po’ sgomenti».

L’incipit dell’opera vede il capitolo “Facciamo
pace con i germi” che, più che una posizione
“buonista” («Senza germi non ci sarebbe vita
umana»), propone in breve un atto di realismo,
dovendo considerare che la stabilizzazione delle
popolazioni con tutte le sue conseguenze ben note,
come si è storicamente instaurata, rende più
pressanti le influenze ambientali e gli eventi
                                                                                         Eva Benelli
stagionali e quindi la “umanizzazione” dei germi.
Il cuore del lavoro è rappresentato da 16 studi di caso in un arco di tempo che va dal
1973 al 2009, connotati, oltre che da una data, da un luogo (italiano o di altri Paesi) e da
un sottotitolo che alla volte può risultare un indizio per aiutare a risolvere il “giallo”:
«Colera, Napoli 1973, Albania e Bari 1994 (Quando tutto ebbe inizio)»;
«Botulino, Stati Uniti 1975, Campania 1996 (Principale indiziato: il mascarpone)»;
«Influenza, Stati Uniti 1975 (Se la conosci la eviti)»;
«Terremoto, Irpinia 1980 (Imparare a gestire i disastri)»;

      Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 2	
  
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«Legionella, Riviera romagnola 1980, Piattaforma petrolifera 1986 (Arrivare per
restare)»;
«Salmonella, Paestum 1981 (Un matrimonio sfortunato)»;
«Epatite A, Sila 1982 (Il segreto delle cozze si svela in montagna)»;
«Peste bubbonica, Casentino 1984 (Galeotta fu la lepre)»;
«Lebbra, Italia 1987 (Tra pregiudizio e discriminazione)»;
«Brucellosi alimentare, Molise 1991 (Pecore, ricotta e batteri)»;
«Polio, Albania 1996 (Le ragioni geopolitica di una epidemia)»;
«Ebola, Uganda 2000 (Il terrore nel nostro ospedale)»;
«Indagine sul rischio obesità infantile, Cilento 2005 (Il peso del sovrappeso: una nuova
epidemia)»;
«Tbc, Marche 2008 (All’asilo nido con la tbc)»;
«Polio, Targikistan 2010 (L’epidemia sulla vetta del mondo)».
A questi – non poteva essere altrimenti – si aggiunge la disamina dei casi di pandemie-
epidemie influenzali per arrivare alla pandemia attuale con aggiornamenti al marzo
2021.
Sarebbe improponibile, ma anche indelicato nei confronti dei lettori – che si pensano
numerosi e appassionanti (perché appassionante è la scrittura) –, trattare singolarmente i
casi e svelare la fine (e gli insegnamenti, la morale) di ognuna delle storie. Verranno
richiamati soltanto pochi casi di studio, quelli che, a parere di chi scrive, descrivono
meglio e in maniera più chiara la metodologia epidemiologica adottata, oppure, ma
l’intento potrebbe risultare sovrapponibile, mettono in evidenza i tratti caratteristici,
culturali, dell’operatore, quello principale, che scende in campo, cioè di Donato Greco.
La storia dell’epidemiologia italiana delle malattie infettive, e quindi di Donato Greco
epidemiologo delle malattie infettive, ha una sicura data di inizio:

      «Sono militare da trenta giorni, soldato semplice al Car di Orvieto. Ho ventisei anni e sono
      quasi specializzato in malattie infettive, ma già assistente di ruolo nell’ospedale per infetti
      Cotugno di Napoli. Nel pomeriggio del 27 agosto 1973, nel cortile della caserma, durante
      una delle interminabili pause dalle marce, ascolto dalla radio di un commilitone: ‘Casi
      mortali di gastroenterite acuta nell’ospedale Maresca di Torre del Greco, forse in
      trasferimento all’ospedale Cotugno’. Mi procuro un po’ di gettoni del telefono e chiamo il
      mio primario Michele Castaldo in ospedale: è molto preoccupato, parla di una gravissima
      forma di gastroenterite, sono forse una dozzina di casi, tutti adulti, almeno due anziani
      morti. Mi presento al capitano e gli chiedo una licenza di due giorni per motivi personali. È
      titubante: non si concedono licenze ai soldati semplici prima della fine dell’addestramento
      Car. Gli spiego tutto. Ha letto la notizia sui giornali, mi firma la licenza. Il 28 agosto scendo
      dal treno alla stazione di Napoli, dove mi aspetta con la vespa il mio gemello Luigi, gli
      chiedo di accompagnarmi subito al Cotugno, a casa passerò più tardi. I miei familiari mi
      rivedranno solo diverse settimane dopo. Sono le 15, entro in ospedale in divisa e con lo
      zainetto militare: vado subito a cercare Michele. Lo trovo in grande allarme: sono arrivate
      due ambulanze da Torre del Greco con altri pazienti in gravi condizioni, li ha sistemati in
      stanze singole. Ne sono in arrivo altri, non solo da Torre, ma anche da Minturno: la radio ha
      parlato di sette morti. Dopo nemmeno mezz’ora le cose precipitano: una decina di
      ambulanze con gastroenteriti acute, tutte destinate al nostro reparto, sono già per strada.
      Improvvisamente l’ospedale chiude. Arrivano le ‘giuliette’ della polizia, in cortile compare
      una camionetta dell’esercito: è il cordone sanitario e nessuno può più uscire dall’ospedale».
      (pp. 22-23)

     Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 3	
  
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I due casi di Torre del Greco richiamano alla memoria Giacomo Leopardi, morto
      trentanovenne proprio a Torre (ma qualcuno vuole che si sia spento a Napoli) ai tempi
      del colera, nel 1837.
      Molti sono i tratti delle “sceneggiate” napoletane descritti e degni di nota in questa
      occasione: medici, infermieri reclusi per settimane, assieme a questi turisti stranieri e
      anche malati e bambini non colerosi, e il camionista che lascia nei pressi dell’ospedale
      un carico di pomodori che marciranno sotto il sole; i coltivatori di cozze napoletani che
      a fronte dell’imposta distruzione degli allevamenti (“la battaglia delle cozze”)
      ostentatamente le mangiano crude per dimostrare la loro innocenza; le manifestazioni
      popolari per ottenere la poco efficace vaccinazione; le processioni sino al Cotugno,
      all’epoca diretto da Ferruccio De Lorenzo che diverrà un politico famigerato, di fedeli e
      devoti con santi locali per implorare la guarigione dei ricoverati; i limoni venduti al
      mercato nero a prezzi proibitivi. L’ultimo caso di infezione viene diagnosticato il 19
      settembre dello stesso anno 1973, in coincidenza con la festa di San Gennaro il cui
      sangue in quell’anno non fa il miracolo, non diviene liquido. Poi c’è la visita del capo
      dello Stato del tempo, partenopeo verace:

               «Arriva in gran corteo il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, bardato di tutto
               punto con camice, calzari, guanti, mascherina e cappello chirurgico. Eppure non si fida, un
               fotografo riesce a scattare la foto che farà il giro d’Italia e forse del mondo: entrando in
               reparto, Leone fa le corna con la mano destra dietro la schiena». (p. 26)

      Nei primi giorni, prevalendo l’impreparazione tecnica, viene messa in campo da parte
      dei medici e di tutte le altre istituzioni centrali e locali l’arte di arrangiarsi: ha la meglio
      il circo mediatico con le ipotesi più astruse, compresa quella del complotto, ed esperti
      improvvisati che evitano anche di stressare la trasmissione oro-fecale della patologia
      mettendo in pratica misure preventive non appropriate.

               «A metà settembre [a Napoli] si contano mille ricoverati, 127 casi di colera confermati con
               12 decessi, una letalità del 10% che non si vedeva nemmeno in Bangladesh, patria del
               colera». (p. 26)

      Greco non ne parla, ma la cronaca del tempo riporta che la responsabilità dei mitili
      coltivati negli allevamenti (autorizzati e abusivi) prossimi alla linea di costa
      metropolitana nella genesi dell’epidemia viene esclusa dai risultati della perizia ordinata
      dalla autorità giudiziaria, la quale attesta “soltanto” la contaminazione delle acque
      marine provocata dall’inadeguatezza del sistema fognario cittadino. Alla fine, sembra
      prevalere l’ipotesi che l’epidemia debba essere imputata all’importazione illegale di
      mitili dalla Tunisia.
      Eduardo De Filippo scriverà un testo teatrale, L’imputata, nel quale la cozza finisce
      davanti a un giudice e dove si dice: «Cara còzzeca, tu staje 'nguaiata».
      L’epidemia, secondo l’opinione di molti, finisce per “fare del bene” a Napoli e a tutto il
      Paese, poiché mette sotto gli occhi di tutti la fragilità del sistema igienico e sanitario e
      mette in luce il bisogno urgente di interventi realmente preventivi legislativi e pratici
      con i cittadini e sul territorio, alimentando così positivamente il dibattito sulla Riforma
      sanitaria che verrà approvata nel 1978.
      L’occasione viene colta al volo da Donato Greco; e così, grazie alla sua conoscenza

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Folla davanti all’ospedale Cotugno (Napoli, 1973)
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dell’inglese, inizia la collaborazione con l’unità di ricerca medica della marina
americana di stanza a Pozzuoli e poi con una delegazione scientifica dei Centers for
Disease Control degli Stati Uniti e dell’OMS di Ginevra, svolgendo assieme a questi
un’esemplare indagine epidemiologica sul campo. È a questo punto che si impone la
missione di Donato che, investendo anzitutto su se stesso con soggiorni negli Stati
Uniti, in Russia e nel Regno Unito, fissa l’obiettivo di costruire dal nulla una cultura
dell’epidemiologia, in particolare delle malattie infettive, in Italia; quindi, grazie alla
sensibilità di Duccio Zampieri, una struttura stabile, il Laboratorio di Epidemiologia e
Biostatistica all’ISS. Quel Duccio Zampieri che andrebbe meglio ricordato per tanti
motivi, ma anche per essere l’autore di una sentenza notevole che opportunamente
Marco Geddes ripropone in una sua opera recente: L’infezione, l’epidemia, non va
curata, non va inseguita, va battuta sul tempo. Bisogna arrivare in anticipo, essere più
rapidi del microbo!.
Nel 2004, quando Greco lascia la direzione di quello che nel frattempo è diventato
il Centro Nazionale di Epidemiologia dell’ISS, i ricercatori sono più di 200; nel 2015 il
Centro viene chiuso e le sue competenze distribuite in altri dipartimenti dell’Istituto.
Greco si occuperà nel 1994 di un nuovo focolaio di colera a Bari e in Albania, scrivendo
cose di sicuro interesse dal punto di vista sociale e politico.
Affidiamo al lettore il botulismo negli Stati Uniti e in Campania, l’influenza negli Stati
Uniti, il terremoto dell’Irpinia e la legionella della Riviera romagnola con un ricordo
iconico: («… [io che] con una cassetta con i ferri da idraulico, salgo il tetto di un
albergo di Lido di Savio, smonto le ghiere di alcun i pannelli ed estraggo le guarnizioni.
Abbiamo trovato così la legionella») e della piattaforma petrolifera e arriviamo al giallo
culinario del matrimonio di Paestum dove vengono contagiati di salmonella i 400
invitati; alcuni verranno ricoverati, la sposa sta male quando è già a Venezia in luna di
miele, il vescovo che probabilmente aveva ufficiato è in preda ai crampi, febbre e
diarrea. Sessantadue persone hanno manifestato sintomi e segni di salmonellosi e in
trentotto è stato isolato lo stesso tipo di Salmonella typhimurium. In quegli anni (siamo
negli Ottanta del Novecento), venivano notificati 30.000 di salmonellosi umana, oggi
circa 5.000 casi all’anno.

Greco si impegna a fondo, con pertinacia ma anche con soddisfazione, in un’indagine
particolarmente difficoltosa, dovendo “saggiare” ognuna delle 40 portate somministrate
in quel matrimonio cilentano. In sei giorni vengono individuati e intervistati 182
inviatati, inclusi 22 bambini, ai quali viene somministrato un questionario costruito ad
hoc con il quale si doveva scoprire chi aveva consumato cosa.
L’inchiesta porta a una conclusione soddisfacente che ovviamente in questa sede viene
taciuta; volendo alleggerire la suspense, si consiglia di guardare ai primi più che ai
dolci. Si sente il dovere di riportare, non senza una certa ostentazione, il menù delle
nozze, anche se in maniera alquanto ridotta, utilizzato come strumento essenziale
dell’inchiesta.

      «[…] ci si mette a pranzo alle due e mezza. Quaranta portate! Un putiferio di antipasti:
      valanghe di alici fritti e vassoi di cozze e cannolicchi, alici marinate e melanzane
      imbuttonate e carciofi all’olio, montagne di bocconcini di mozzarella di bufala e ricottine su
      ogni tavolo, grandi taglieri con i piccanti affettati locali, ma anche, in onore della dieta
      sana, vassoi di verdure grigliate con aglio, peperoncini ed origano, galleggianti su un mare

      Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 5	
  
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di ottimo olio di oliva. Quadrotti di frittate di ogni tipo, di cipolle, zucchine, fagiolini,
      bietole, spinaci. Mini bruschette a tutto spiano, coi pomodorini ‘del piennolo’ (che si
      appendono e restano fruibili fino a Natale), coi fagioli, con la ‘nduia’, il salame piccante
      calabrese. Grandi panelle di pane appena sfornato, tagliate a vista, tavolo per tavolo, da
      solerti camerieri. Un’ora di antipasti. Vini bianchi cilentani in abbondanza, ma Silvio [il
      padre della sposa], che non sopportava il vino imbottigliato, aveva fatto arrivare quattro
      damigiane da venticinque litri del rosso che faceva lui stesso. Le brocche di ceramica di
      Vietri venivano costantemente rifornite. Prima mari e monti […] Dopo un’ora di antipasti e
      un’ora di primi, un grande carrello gira tra i tavoli con un enorme pentolone di coccio con
      la rituale pasta e fagioli, irrinunciabile referenza della tradizione contadina. […] Si riprende
      coi secondi: su ogni tavolo arriva l’immancabile braciolona di maiale con cui era stato fatto
      il ragù, seguita dall’intrattieno, cioè grosse zuppiere di impepata di cozze o soutè di lupini
      (una vongola povera) destinate ad intrattenere lo stomaco in attesa di altri secondi. Ed ecco
      arrivare un grande carrello con quattro capretti al forno che vengono tagliati tavolo per
      tavolo, seguiti da trionfi di fritto di pesce: alici, gragaglie di triglie, porpetielli, anelli di
      calamaro. Non mancano i ‘tianelli di porpo affogato’. E poi i contorni vegetali. […]
      arrivano i carrelli dei dolci un vero trionfo cilentano: dalla pizza chiena alle pasteurelle
      ripiene di castagne fino ai grandi vassoi di scauratieddi appena fritti e coperti di miele.
      Infine l’orgoglio della pasticceria locale: i cannoli cilentani, piccoli, fatti in casa e ripieni di
      una tipica crema bianca». (pp. 112-114)

Dal Cilento all’Uganda. Nell’aprile del 2000, Piero Corti, responsabile del St. Mary’s
Lacor Hospital, distretto di Gulu, Uganda, comunica a Donato, da quattro anni direttore
del Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica dell’ISS, che è scoppiata una terribile
epidemia di febbre emorragica e che potrebbe trattarsi di Ebola. L’ormai manager della
sanità pubblica italiana parte; il viaggio è lungo, si arriva dopo due scali a Entebbe, ma
poi ci sono da percorrere i 400 chilometri di sobbalzi sino a Lacor, dove c’è un ospedale
capace di accogliere e curare ogni anno più di 250.000 pazienti. Siamo effettivamente di
fronte alla prima grande epidemia di Ebola che serpeggia nel tessuto urbano, non più nei
villaggi della foresta.

      «Un’esperienza dura e complicata dal disordinato affluire di decine di ‘collaborazioni sul
      campo’ dalle istituzioni (OMS, CDC, Unicef) a una miriade di Organizzazioni non
      governative. Una svolta epocale che ha messo in prima linea il contact tracing e
      l’isolamento, tecniche inconsuete in Uganda, ma anche la fine del materiale sanitario
      riusabile (aghi, guanti, siringhe …) e la crescita di attenzione verso la sicurezza del
      personale operativo in ospedale». (pp. 194-195)

Greco smette presto di fare l’apprendista clinico (ricorda, «Stavamo curando i malati,
stavo effettuando un prelievo di sangue venoso, il dito mi entrò nella pelle di
quell’uomo, ormai ridotta a una spugna imbevuta di sangue») e torna con soddisfazione
nel suo ruolo di epidemiologo «dai piedi scalzi»; sono passati due mesi e rientra in
Italia, «triste per gli errori commessi e felice per essere ancora vivo». Il bilancio
dell’ospedale è tremendo: 25 dipendenti si ammalano e 13 non ce la fanno. Il colpo di
grazia, però, arriva alla fine dell’epidemia: si ammala Simon, uno degli infermieri più
apprezzati, compagno d’infanzia di Mattew Lukwiya, il brillante giovane direttore
sanitario (pupillo e allievo di Piero Corti che lo vedeva come suo successore). Non
passano sette giorni che Mattew si ammala a sua volta e in quattro giorni si spegne; la
telefonata che annuncia la sua morte giunge a Greco a Bruxelles in una stanza d’albergo
ed in lacrime mette sulla carta dei pensieri:

     Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 6	
  
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«La telefonata che mi annuncia la morte di Mattew mi coglie un pomeriggio del settembre
      2000, mentre ero a Bruxelles per una riunione della Commissione Europea Ricerca
      Sanitaria: impotente e bloccato in una stanzetta d’albergo non riesco a trattenere le lacrime,
      prendo penna e carta e trovo sfogo scrivendo questi pensieri.
      ‘Mattew è morto. Sento un grido forte, alto, prorompente, un grande grido disperato.
      L’ultima persona che poteva morire: chiunque altro, ma non lui. Mille ragioni, tutte le
      logiche, ogni motivo di giustizia, di opportunità, di amore: non lui, non poteva essere lui.
      Era lui che insegnava come evitare la morte di Ebola, non ha commesso errori di
      comportamento, sapeva benissimo cosa fare. Ebola l’ha scoperta lui, Ebola lui l’ha fermata.
      Non fosse arrivato di corsa dal suo impegno di studio a Kampala, nessuno avrebbe
      identificato Ebola prima che devastasse l’ospedale e l’intera regione. Se Ebola è stata
      contenuta è soltanto perché Mattew ha intuito, ha sentito qualcosa di strano. Chi ha ucciso
      mio fratello Mattew? Non certo la sua imprudenza, né la sua incapacità di difendersi. L’ha
      ucciso la sua vocazione! La sua totale dedizione agli altri, il suo consapevole e razionale
      vivere ai bordi della sopravvivenza, sulla lama della vita, col sorriso e l’allegria che non gli
      sono mai mancati. La storia è nota: diversamente da tanti altri ospedali in Africa, e anche in
      Italia, a Lacor si ama l’ammalato, gli si vuole bene, si cura, si lava, si accudisce. Non lo si
      guarda da lontano in attesa che muoia come succede nel vicino ospedale governativo.
      Mattew non ha col personale rapporti di gerarchia, ne è fraternamente amico, ci vive
      insieme, ne condivide i problemi, il lavoro, i guai, secondo l’insegnamento dei Corti e delle
      Suore e dei Fratelli di Lacor. Il suo personale si è ammalato, sono morti dieci infermieri
      nell’ospedale. Non erano casi qualunque, Mattew li ha vissuti come tra fratelli, forse anche
      con un non motivato senso di colpa per non aver loro evitato il contagio è […]».

La trattazione al solito avvincente del caso della Polio in Tagikistan conclude una prima
parte del libro, quella “movimentista”, delle indagini epidemiologiche sul campo. A
questa si può dire che ne segue un’altra né breve e neppure di secondaria importanza,
più compilativa, riflessiva e per certi aspetti, contraddicendo gli intenti espressi
dall’autore nella sua nota introduttiva, più prossima a una “dissertazione
epidemiologica” o a un “manuale d’uso”; ma questa deriva non è strana e risulta
benvenuta, a vantaggio del lettore.
Si inizia con una disamina di lungo periodo, “Dalla Spagnola a H1N1, mondo 2009
(Fatti e misfatti delle pandemie)”. Si tratta di una sintesi molto utile del calendario delle
epidemie influenzali del precedente e di questo secolo, dove sono riportate le
caratteristiche più essenziali dei vari episodi. Questo capitolo, ci accompagna sino alla
preparazione quasi insensibilmente, fautore il nostro autore nella sua nuova affiliazione
ministeriale, del primo e per molti anni unico piano pandemico nazionale e regionale; a
questo proposito Donato scrive con severità: «[…] non si trova traccia di alcun report o
piano pandemico successivo a quello del 2006 né si ha notizia di aggiornamenti
successivi a questa Decisione [quella del Parlamento e del Consiglio Europeo del
2013]». (p. 257)
Con gli ultimi tre capitoli, “Pandemia da SARS-CoV-2: mondo 2020-2021(Il Covid
domani)”, “Postfazione: Quattro domande pandemiche”, “Appendice: Perché (e come)
indagare le epidemie”, l’autore non tradisce i suoi estimatori – e, si spera, i tanti lettori
dell’opera – riportando la sua visione, autorevole e originale, sull’attuale epidemia,
senza contraddire, almeno pare, la sua adesione, nell’estate del 2020, alla dichiarazione
sulla minore infettività di SARS-CoV-2, quella nota come “il virus ha perso forza”,
criticata da molti perché valutata affrettata, inopportuna e sostanzialmente errata. Le
considerazioni che l’autore sente di diramare prendono le mosse da un assioma assunto

      Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 7	
  
non intuitivamente, ma scientificamente, oggettivamente:

     «[…] L’attuale pandemia è causata da un virus nuovo che ha trovato l’intero globo
     suscettibile e quindi ha fatto e sta facendo gravi danni alla salute e all’economia di tutti i
     Paesi. Negarlo sarebbe irrazionale e irrealistico. È irrealistico, invece, pensare che la
     persistenza della circolazione ancora per un discreto periodo imponga di riconsiderare le
     misure di risposta, coscienti dell’evidenza di dover convivere col virus per tempi
     relativamente lunghi». (p. 263)

L’autore si dice colpito, in particolare, da alcuni effetti prodotti dalle trascorse fasi
pandemiche, deprecabili e da correggere con grande impegno:

     «La riduzione o sospensione delle attività didattiche, un danno per i nostri figli e nipoti, sia
     presente sia futuro, di dimensioni incalcolabili; l’espansione straordinaria
     dell’assistenzialismo di stato, a fronte della scomparsa di una miriade di realtà produttive,
     che forse non potranno risorgere mai più, e con il rischio dell’affermarsi di generazioni di
     assistiti deprivati di iniziativa; la trasformazione dei rapporti sociali, dalla fratellanza e
     solidarietà alla diffidenza e lontananza, dal prossimo fratello al prossimo nemico
     potenziale, al concorrente sulle risorse limitate, siano esse economiche o l’accesso ai
     vaccini». (p. 266)

Per Greco occorre un governo della sanità pubblica che, nel contempo, eviti i
drammatici effetti del lockdown e impieghi tutte le risorse umane ed economiche
possibili per proteggere i deboli (sorveglianza attiva nelle Residenze sanitarie
assistenziali, vaccinazione periodica contro COVID-19 e influenza, disponibilità ed
elasticità di posti letti semi intensivi e intensivi), per sorvegliare il territorio
(potenziando i dipartimenti di prevenzione e i servizi di epidemiologia), per la scuola
(migliorando le strutture scolastiche offrendo la copertura vaccinale anche anti-COVID-
19), per la comunità (offrendo a tutti la vaccinazione contro l’influenza e il COVID-19,
con campagne di comunicazione capaci di sostenere una vera cultura della
preparedness, incentivando distanziamento e mascherine tra i contatti dei casi positivi).
L’opera di Donato Greco è fonte di molti e importanti insegnamenti, tra i quali c’è da
considerare lo stimolo a che altri epidemiologi che ne hanno titolo e sono tanti anche in
Italia (e non soltanto quelli delle malattie infettive oggi necessariamente di moda) si
preoccupino di illustrare, anche a futura memoria, le proprie esperienze e la propria
cultura.

     Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 8	
  
Frank M. Snowden
                                           Storia delle epidemie
                                           Dalla Morte Nera al COVID-19
                                           Gorizia, Leg Edizioni, 2020
                                           618 pagine; 24,00 euro
                                           (edizione originale: Epidemics and Society. New
                                           Haven, Yale University Press, 2019)

                                      Frank M. Snowden è professore emerito di storia e
                                      di storia della medicina alla Yale University. Come
                                      specialista di storia d’Italia del XX secolo, ha
                                      pubblicato Naples in the time of cholera, 1884-1911
                                      (1995) e La conquista della malaria: Italia 1900-
                                      1962 (2008).
                                      La sua più recente è una grande opera, frutto di un
                                      settennale ciclo di lezioni universitarie corredata da
                                      una buona bibliografia selezionata e, a differenza di
                                      tanti altri libri dati alle stampe di recente, da un
                                      indispensabile indice analitico. L’autore costruisce
                                      uno scenario di lungo periodo, nel quale colloca la
maggioranza delle malattie epidemiche che hanno colpito il mondo: dalla tre epidemie
di peste nera alla SARS e all’Ebola, dal vaiolo al colera, dalle malattie infettive
veicolate dalle guerre napoleoniche alla tubercolosi e quindi all’HIV/Aids. Con una
trattazione insistentemente interdisciplinare capace di valorizzare, oltre che quelle
mediche e scientifiche, fonti letterarie, artistiche e in genere fenomeni e “reazioni”
popolari e non, l’autore inserisce i fatti in un contesto interpretativo capace di illustrare
come quelle malattie abbiano, nei diversi periodi storici, plasmato in maniera profonda
la demografia e poi la società e l’economia.
Nei primi mesi del 2020, Snowden, che soggiornava in Italia, ha vissuto il lockdown e si
è anche ammalato di COVID-19. Occasione opportuna per scrivere da testimone e da
storico un Epilogo all’edizione italiana della sua opera: “La Lombardia all’epicentro del
COVID-19: gennaio-maggio 2020”, una trentina di pagine intense, ben documentate,
che dovrebbero risultare di sommo interesse per coloro che amano conoscere e
interpretare e per chi è chiamato ad assumere iniziative nel proprio ambito di
competenze. Se ne propongono due brani di assaggio:

      «[…] Se ritardi e mancata prioritizzazione sono state due caratteristiche dell’iniziale
      risposta italiana che hanno messo in pericolo la salute della nazione, altre due decisioni
      hanno sostanzialmente peggiorato la situazione. Entrambe derivavano dall’arroganza e dalla
      volontà di uomini politici di ridurre i fondi per lo ‘stato sociale’, tagliando drasticamente i
      budget per la ricerca scientifica e il sistema ospedaliero pubblico». (pp. 552-553)

      «[…] Purtroppo, un’analisi più accurata del profilo sociale dell’epidemia lombarda non è
      possibile sulla base delle prove attualmente disponibili. Le statistiche ufficiali sono
      notevolmente fuorvianti per quanto riguarda le reali dimensioni del disastro, e non è stato
      fatto alcun tentativo per raccogliere dati relativi all’occupazione e alla residenza, oltre che
      all’età e al sesso, ma la forte impressione di giornalisti e cittadini è che, almeno a Bergamo,
      tutti fossero vulnerabili». (p. 558)

      Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 9	
  
Siegmund Ginzberg
                                             Racconti contagiosi
                                             Milano, Feltrinelli, 2020
                                             332 pagine; 18,00 euro

                                             Siegmund Ginzberg è una storica firma de L’Unità, che
                                             scriveva nel quotidiano fondato da Antonio Gramsci
                                             specialmente come inviato nei Paesi dell’estremo oriente; più
                                             di recente ha pubblicato un romanzo familiare, Spie e zie
                                             (2015) e Sindrome 1933 sulla tragedia hitleriana (2019).
                                             L’autore è persona coltissima e buon affabulatore e allora si
                                             può permettere di rileggere e farci rileggere con gli occhi di
                                             oggi, ai tempi del Coronavirus, classici della letteratura di tutti
                                             i tempi da Tucidide e Ovidio a Boccaccio, da Shakespeare a
                                             Defoe, da Poe a Mary Shelley, da London a Virginia Woolf,
                                             da De Amicis a Belli e a tanti altri ben rintracciabili grazie
                                             all’indice analitico.
                                             Il risultato è un’affascinante quanto ossessiva antologia che
                                             parla di sentimenti e di comportamenti che sempre ritornano o
                                             che si ripresentano con piccole varianti; si parla di lutti e
                                             paranoie, di “limitazioni di libertà”, di abbracci negati, di
                                             commissari e decreti di sanità, di quarantene, di mani da
lavare, di distanziamenti fisici, di ciarlatani, di cure miracolose, di reazioni irrazionali, di odio contro i
medici.
Agli untori, l’autore dedica alcune pagine di grande effetto dove, tra le altre cose si legge:

       «Qualcuno è accusato più frequentemente di altri. Si va dalle interpretazioni a rovescio
       delle piaghe d’Egitto, che sono antiche quanto lo è la Bibbia (altro che fuga e liberazione
       dalla schiavitù, gli ebrei furono cacciati dal Faraone perché infettavano gli Egiziani!), ai
       massacri di ebrei durante la peste nera perché li si accusava di avvelenare i pozzi, alla
       parabola nazista che giustificò l’Olocausto: sono loro gli ebrei, la Peste in persona. Ben che
       andava gli davano dei ‘gufi’. Judenfieber, febbre giudaica veniva chiamato il tifo, e forse
       non è un caso che per sterminarli poi usarono il Zyklon B, che originariamente doveva
       servire a eliminare i pidocchi, portatori di tifo. Anche gli armeni erano indicati, durante i
       massacri del 1915-19, come portatori di tifo». (pp. 190-191)

     Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 10	
  
Charles Kenny
                                      La danza della peste
                                      Storia dell’umanità attraverso le malattie infettive
                                      Torino, Bollati Boringhieri, 2021
                                      272 pagine; 24,00 euro
                                      (edizione originale: The plague cycle. The unending
                                      war between humanity and infectious disease. New
                                      York, Simon & Schuster, 2021)

                                      Charles Kenny è ricercatore presso il Center for Global
                                      Development di Washington, con una lunga esperienza come
                                      economista presso la Banca mondiale.
                                   L’autore, emulando e sviluppando in qualche modo il
                                   pensiero di Jared Mason Diamond, con questo suo
                                   scritto con impronta storica, ma principalmente
                                   concettuale, intende elargire informazioni inquietanti
                                   al fine di incitare alla cooperazione globale se
                                   veramente si vuole porre l’obiettivo di contrastare le
                                   infezioni, perseguire una salute sostenibile e, quindi,
                                   consentire che l’umanità prosegua il cammino virtuoso
intrapreso nel passato, specialmente nel Novecento, grazie ai progressi economici,
igienici e della medicina.
In un’intervista l’autore ha sostenuto:

     «La lotta alle malattie infettive ha dato forma alle nostre città: l’urbanistica che ha tenuto
     conto della salute pubblica ha prodotto fogne e cimiteri e poi ha fatto nascere le megalopoli.
     Ha creato posti di lavoro, ci ha resi ricchi e sani, e ci ha anche convinto a fare meno figli.
     Ha rimesso in piedi gli eserciti. Ed eccoci daccapo: ci ha riportato in guerra, ci ha spinto a
     colonizzare continenti lontani e a fondare nuovi imperialismi. Infine ha discriminato tra i
     ricchi e i poveri della Terra, quelli che ancora non hanno a disposizione farmaci, vaccini,
     ospedali, e spesso nemmeno acqua e sapone, cioè i figli di quelli che noi europei abbiamo
     resi schiavi. Quelli a carico dei quali va ancora la maggior parte della mortalità infantile di
     tutto il mondo, che per due terzi è ancora causata da malattie infettive, e quelli per cui in
     epoca prepandemica le infezioni causavano ancora dieci milioni di morti all’anno. Ecco
     come si sta fuori dalla trappola malthusiana. Bene, ma non benissimo». (Bencivelli, 2021)

Il presupposto dal quale occorre partire è che il mondo globalizzato e “spensieratamente
florido” diviene via via più precario a causa degli insidiosi aspetti di una prosperità
apparentemente illimitata, ma nel contempo la fluttuazione della popolazione, il
commercio globale e il cambiamento climatico hanno reso l’umanità vulnerabile alle
epidemie. È la “danza della peste” a scandire ciclicamente nei secoli trascorsi il ritmo
della crescita e del declino della civiltà umana; oggi, sotto il segno della pandemia in
corso, la condizione si ripropone integralmente.
Nel capitolo conclusivo del suo libro, che ha note e bibliografia non usuali, anche
diversa da quelle utilizzati dagli storici della sanità e della medicina, quindi di
particolare interesse, Kenny dipinge un quadro a tinte fosche:

    Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 11	
  
«O forse il Covid-19 è soltanto un assaggio di qualcosa di ben peggiore. Forse torneremo
      indietro. Se i profeti antivaccinisti continueranno a rifilarci una disinformazione letale senza
      vedersi opporre una risposta adeguata, se i nostri ultimi antibiotici verranno sprecati per
      aggiungere qualche etto di carne bianca a un petto di pollo, se non faremo nulla per
      migliorare la cooperazione globale, la copertura del monitoraggio del virus e la tempestività
      di reazione alle epidemie, sappiamo come sarà il mondo. Un pianeta senza i nostri strumenti
      più efficaci contro le infezioni ripiomberebbe nella miseria malthusiana. Sarebbe un mondo
      in cui la nostra idea di mortalità come questione sempre più privata verrebbe sostituita dalle
      sepolture di massa dei giovani. Sarebbe un mondo più povero, più violento, dove tutti
      vivremmo più isolati: un luogo intollerante e misogeno». (pp. 211-212)

                                                                                     Franco Carnevale

BIBLIOGRAFIA

o   Com’era Napoli ai tempi del colera nel 1973. Le foto dall’archivio Pizzi. Disponibile
all’indirizzo: https://formiche.net/gallerie/napoli-colera-pizzi/
o   Marco Geddes da Filicaia. La sanità ai tempi del Coronavirus. Roma, Il Pensiero
Scientifico Editore, 2020.
o   Jared Mason Diamond. Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila
anni. Traduzione di Luigi Cavalleri. Torino, Einaudi, 1997 [Ed. orig. in inglese 1997].
o   Donato Greco. Piero Morosini: Il gentleman dell’epidemiologia. Disponibile
all’indirizzo: https://www.epicentro.iss.it/archivio/pdf/Morosini_Greco.pdf
o   Intervista: Silvia Bencivelli. La danza della peste – Storia dell’umanità attraverso le
malattie infettive. Disponibile all’indirizzo: https://ilbolive.unipd.it/it/news/danza-peste-
storia-dellumanita-attraverso-malattie
o   Intervista: Da Napoli alle Dolomiti, in arrampicata. Disponibile all’indirizzo:
https://pensiero.it/in-primo-piano/ritratti/ritratto-di-donato-greco
o   Intervista: Riccardo Chiaberge. Piaghe antiche e moderne. Negazionisti e
cospirazionisti di oggi e di ieri nei “Racconti contagiosi” di Siegmund Ginzberg.
Disponibile all’indirizzo: https://www.linkiesta.it/2020/11/untori-negazionisti-racconti-
siegmund-ginzberg/
o   Intervista: Coronavirus, l’epidemiologo Donato Greco: «In alcune Regioni le
mascherine non servono più». Disponible all’indirizzo:
https://www.corriere.it/cronache/20_giugno_24/coronavirus-l-epidemiologo-donato-
greco-in-alcune-regioni-mascherine-non-servono-piu-9388c214-b647-11ea-9dea-
5ac3c9ec7c08.shtml
o   Intervista: Anna Meldolesi. L’umanità convive da sempre con le epidemie. Ecco
come proteggersi Disponibile all’indirizzo:
https://www.corriere.it/sette/attualita/20_marzo_13/umanita-convive-sempre-le-
epidemie-ecco-come-proteggersi-553ef5c2-61e8-11ea-9897-5c6f48cf812d.shtml
o   Walter Ricciardi, Enrico Alleva, Paola De Castro, Fabiola Giuliano, Sandra Salinetti
(eds)- 1978-2018: quaranta anni di scienza e sanità pubblica. La voce dell’Istituto
Superiore di Sanità. Roma, Istituto Superiore di Sanità, 2018.

    Epidemiologia&Prevenzione n. 6; novembre-dicembre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 12	
  
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