Il libro nero del comunismo di Stéphane Courtois (cur.)
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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752 Direttore responsabile: Antonio Zama Il libro nero del comunismo di Stéphane Courtois (cur.) 1997 12 Gennaio 2022 Guglielmo Piombini Perché leggere questo libro Il libro nero del comunismo, pubblicato nel 1997 da Stéphane Courtois, Nicolas Werth e altri studiosi francesi, alcuni dei quali allievi di François Furet, è una delle prime opere che affronta in maniera globale un argomento passato per lungo tempo sotto silenzio: il costo umano dell’esperimento comunista nel Novecento. Il libro, anche per la scelta fortunata del titolo, ha riscosso fin da subito un grande successo editoriale, ma ha scatenato, com’era prevedibile, forti polemiche politiche. L’estensione e la profondità della ricerca, che si sviluppa in 770 pagine, fanno comunque di questo lavoro un imprescindibile punto di riferimento storiografico sulla materia. Riassunto I crimini del comunismo Per l’entità delle catastrofi umane il secolo breve che comincia nel 1914 e si conclude a Mosca nel 1991 sembra aver superato tutti quelli precedenti. Il comunismo, osserva Stéphane Courtois nel capitolo introduttivo, appare il vero protagonista di quest’epoca. Esso infatti è sorto prima del fascismo e del nazismo, gli è sopravvissuto e si è espanso in quattro continenti. Quale che sia il legame tra il comunismo come filosofia politica e il comunismo reale, i regimi comunisti hanno messo in atto ovunque una repressione sistematica, al punto da eleggere, nei momenti di parossismo, il terrore a sistema di governo. Anche dopo che il sistema terroristico si è affievolito, la memoria del terrore ha continuato ad assicurare la credibilità, e quindi l’efficacia, delle misure repressive. Nessuna delle esperienze comuniste è sfuggita a questa legge. Questi crimini, osserva Courtois, non sono mai stati sottoposti a una valutazione sul piano storico e morale. Il libro nero del comunismo rappresenta quindi uno dei primi tentativi di interrogarsi sulla dimensione criminale del comunismo, proprio come si è fatto col nazismo. Seguendo i criteri giuridici di valutazione dei crimini di Stato elaborati dal tribunale di Norimberga, si può sostenere che i regimi comunisti abbiano commesso tutti e tre i crimini di Stato fondamentali: crimini contro la pace (le numerose guerre d’aggressione scatenate dall’Urss, dalla Corea del Nord o da altri paesi comunisti), crimini di guerra (l’eliminazione di tutti gli ufficiali polacchi a Katyn, l’assassinio di centinaia di migliaia di prigionieri tedeschi rinchiusi nei gulag, gli stupri di massa delle donne tedesche perpetrati dai soldati dell’Armata Rossa), crimini contro l’umanità. Per ragioni ideologiche i comunisti massacrarono infatti decine di milioni di persone innocenti, solo perché appartenevano a una certa categoria: nobile, borghese, religioso, contadino, ucraino, polacco e così via. La
mania pianificatrice non si limitò all’economia, ma invase anche l’ambito del terrore, dato che queste repressioni furono eseguite talvolta seguendo il metodo delle quote: per ogni gruppo sociale le percentuali delle persone da deportare o fucilare erano fissate in anticipo dalla direzione centrale del Partito. Il sistema economico collettivistico, nel quale il governo possiede la totalità delle risorse alimentari del paese, permise ai regimi comunisti di usare in maniera sistematica l’arma della fame. Poiché il regime controlla completamente le riserve alimentari, può redistribuirle e razionarle in funzione del merito o del demerito degli uni o degli altri. Questa pratica può provocare immani carestie. Dopo il 1918 soltanto i paesi comunisti hanno conosciuto carestie tali da causare la morte di centinaia di migliaia, se non di milioni, di uomini. Ancora negli anni Ottanta due dei paesi dell’Africa che si rifacevano al marxismo-leninismo, l’Etiopia e il Mozambico, sono stati vittime di queste micidiali carestie. Occultamento e complicità Oltre alla questione della responsabilità diretta dei comunisti al potere, c’è anche quella della complicità indiretta dei sostenitori esterni. Dagli anni Venti agli anni Cinquanta moltissime persone in tutto il mondo hanno infatti applaudito la politica di Lenin e di Stalin. Dagli anni Cinquanta agli anni Settanta altre centinaia di migliaia di uomini hanno incensato Mao, il Grande Timoniere della Rivoluzione cinese, e hanno tessuto le lodi del Grande Balzo in Avanti e della Rivoluzione Culturale. Anche l’ascesa al potere di Pol Pot è stata salutata da un diffuso entusiasmo. Nell’ambito di queste operazioni di contropropaganda alcuni intellettuali si sono letteralmente prostituiti. Nel 1928 Gorkij accettò di andare in “escursione” nelle isole Soloveckie, il campo di concentramento sperimentale dal quale nascerà per “metastasi” il sistema del Gulag. Dall’esperienza nacque un libro in lode di Soloveckie e del governo sovietico. Uno scrittore francese, Henri Barbusse, premio Goncourt 1916, non esitò, dietro pagamento, a incensare il regime stalinista pubblicando un libro sulla “meravigliosa Georgia” e nel 1935 la prima biografia ufficiosa di Stalin. Più tardi, Maria Antonietta Macciocchi ha tessuto le lodi di Mao e recentemente Danielle Mitterand ha fatto lo stesso con Fidel Castro. Cupidigia, debolezza, vanità, attrazione per la forza e la violenza, passione rivoluzionaria: qualunque sia la motivazione, le dittature totalitarie hanno sempre trovato gli adulatori di cui avevano bisogno, e la dittatura comunista non ha fatto eccezione. Molti si difesero dicendo che “non sapevano”. É vero che non era sempre facile conoscere la verità, perché i regimi comunisti avevano fatto del segreto uno dei loro mezzi di difesa preferiti. Spesso però quest’ignoranza era solo il risultato di una cecità dovuta alla fede militante, dato che fin dagli Anni Quaranta molti accadimenti erano noti e inconfutabili: «E se molti di questi incensatori hanno oggi abbandonato i loro idoli di ieri – commenta Courtois – lo hanno fatto nel silenzio e nella discrezione. Ma che cosa si deve pensare dell’amoralismo innato di chi abbandona nel segreto del proprio animo un impegno pubblico senza trarne la debita lezione?» (p. 12). Perché questo silenzio imbarazzato dei politici e degli intellettuali? E per quale motivo le testimonianze sui crimini comunisti hanno avuto un’eco così debole nell’opinione pubblica? Le ragioni di questo occultamento sono molteplici. Per prima cosa, i carnefici hanno fatto di tutto per far scomparire le tracce dei loro crimini e giustificare ciò che non potevano nascondere. Non contenti di nascondere i loro misfatti, gli aguzzini hanno combattuto con tutti i mezzi, cercando di squalificali, screditarli e intimidirli, gli uomini che tentavano di informare l’opinione pubblica o di illuminare le coscienze come Viktor Kravcenko, David Rousset, Margareth Buber-Neumann, Aleksandr Solzenicyn, Valdimir Bukovskij, Aleksandr Zinovev, Andrej Sakharov. Di fronte alla propaganda comunista
l’Occidente ha dato prova a lungo di una straordinaria cecità, dovuta a ingenuità, timore della potenza sovietica e cinismo dei politici e degli affaristi. Il massimo lo si raggiunse a Yalta, quando il presidente americano Roosevelt consegnò a Stalin l’intera Europa dell’Est, sulla basa della promessa di indire libere elezioni. L’occultamento della dimensione criminale del comunismo, spiega lo storico francese, nasce però da tre ragioni più specifiche. La prima rimanda al diffuso attaccamento all’idea romantica di rivoluzione, che persiste ancora oggi. La seconda ragione riguarda la partecipazione dei sovietici alla vittoria su Hitler. Dato che il nazismo sconfitto era stato bollato dagli Alleati come il male assoluto, il comunismo è passato quasi automaticamente nel campo del bene. Infine, il genocidio degli ebrei, considerato il paradigma della barbarie moderna, ha monopolizzato lo spazio riservato alla percezione del terrore di massa nel XX secolo. Il primo colpo a questo castello di carte fondato sulla menzogna e il nascondimento si è avuto con il Rapporto Kruscev del 1956, che pur avendo come obiettivo quello di circoscrivere e minimizzare i crimini del comunismo imputandoli solamente a Stalin, ebbe un impatto enorme perché proveniva non da un dissidente o un avversario, ma dal centro dell’impero comunista. Negli anni successivi opere come Arcipelago Gulag di Solzenicyn, i Racconti di Kolyma di Varlam Salamov o la testimonianza sulla Cambogia di Pin Yathai hanno faticosamente squarciato il velo dell’opinione pubblica. Oggi gli archivi non solo confermano queste testimonianze, ma permettono di andare molto più in là, mettendo in luce il carattere massiccio e sistematico del terrore comunista. 100 milioni di morti Sulla base di un’ampia rassegna delle fonti disponibili, gli autori del Libro nero del comunismo sono stati in grado di offrire un primo bilancio delle vittime del comunismo che, pur essendo ancora approssimativo, dà l’idea della gravità del fenomeno: Urss, 20 milioni di morti, Cina, 65 milioni di morti, Vietnam, 1 milione di morti, Corea del Nord, 2 milioni di morti, Cambogia, 2 milioni di morti Europa dell’Est, 1 milione di morti, America Latina, 150.000 morti Africa, 1 milione 700.000 morti, Afghanistan, 1 milione 500.000 morti, Movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere, circa 10.000 morti. Il totale si avvicina quindi ai 100 milioni di morti. In termini relativi, il regime più sanguinario è stato senza dubbio quello della Cambogia. L’esperienza maoista della Cina colpisce invece per l’ampiezza delle masse coinvolte, mentre la Russia leninista e stalinista fa gelare il sangue per il suo carattere sperimentale, ma perfettamente calcolato e pianificato. I capitoli centrali del libro, curati da diversi autori, riportano con dovizia di dettagli gli episodi criminali più rilevanti: il terrore rosso scatenato da Lenin e Trotzky, che comportò la fucilazione di decine di migliaia di persone imprigionate senza essere state sottoposte a giudizio e il massacro di centinaia di migliaia di operai e contadini insorti fra il 1918 e il 1922; la carestia del 1922, che provocò la morte di 5 milioni di persone; la deportazione ed eliminazione dei cosacchi del Don nel 1920; l’assassinio di decine di migliaia di persone nei campi di concentramento fra il 1918 e il 1930; l’eliminazione di quasi 690.000
persone durante la Grande purga del 1937-38; la deportazione di 2 milioni di contadini “kulaki” nel 1930- 32; lo sterminio di 6 milioni di ucraini nel 1932-33 per carestia indotta e non soccorsa; la deportazione, durante gli anni della guerra, di centinaia di migliaia di polacchi, ucraini, baltici, moldavi, bessarabi, tedeschi del Volga, tatari, ceceni, ingusceti. L’avvento del comunismo in Cina portò a ecatombi ancor maggiori. La violenta riforma agraria del 1946 provocò un numero di morti compresi tra i 2 e i 5 milioni, e la deportazione nei campi di rieducazione di 4- 5 milioni di “contadini ricchi”. Le successive purghe nelle città portarono, secondo quanto dichiarato dallo stesso Mao nel 1957, alla liquidazione di 800.000 controrivoluzionari. Nel 1959-1961 l’applicazione fanatica del comunismo nelle campagne, il cosiddetto Grande Balzo in Avanti, provocò un’immane carestia in cui persero la vita dai 20 ai 43 milioni di cinesi. Il sistema dei campi di concentramento cinesi, chiamato laogai, fu il sistema carcerario più popolato di tutti i tempi: 50 milioni di persone vi furono recluse fino alla metà degli anni Ottanta, e circa 20 milioni perirono. La Rivoluzione culturale del 1966- 1976, una sorta di “totalitarismo anarchico” in cui le Guardie Rosse si scatenarono in violenze selvagge contro gli avversari indicati da Mao, provocò probabilmente un milione di vittime. Solo la morte di Mao nel 1976 pose fine ai massacri. Questi crimini si riprodussero in maniera analoga ovunque il comunismo prese il potere: Corea del Nord, Vietnam, Laos, Europa dell’Est, Cuba, Etiopia, Angola, Mozambico, Afghanistan. L’esperienza più sconcertante fu però senza dubbio quella Cambogia, dal 1975 al 1979, dove i khmer rossi di Pol Pot riuscirono a uccidere nel modo più atroce, attraverso la carestia generalizzata e la tortura, circa un quarto della popolazione. I khmer rossi non fecero altro che seguire nella maniera più implacabile la logica della rivoluzione. È come se gli ex studenti della Francia degli anni Cinquanta avessero capito che, se non applicavano immediatamente tutta la loro utopia a qualsiasi prezzo, neppure loro sarebbero riusciti a evitare di rimanere invischiati nei compromessi con il presente reale. Bisognava imporre l’anno zero a una popolazione cui non si dava tregua o finire per essere spazzati via. Il Grande balzo cinese non aveva dato i suoi frutti? La Rivoluzione culturale era fallita? Questo era successo perché ci si era fermati alle mezze misure, perché i baluardi della resistenza al servizio della controrivoluzione non erano stati tutti smantellati: le città corruttrici e incontrollabili, gli intellettuali fieri del loro sapere e con la pretesa di pensare con la propria testa, il denaro e i rapporti commerciali elementari, forieri di una rivoluzione capitalista, e i traditori che si annidavano nel Partito. Perché sterminare il nemico? Nel paragrafo conclusivo Stéphane Courtois trae le conclusioni della vasta indagine storica, cercando di dare una risposta al quesito fondamentale: perché Lenin, Trotzkij, Stalin e gli altri hanno ritenuto necessario sterminare tutti coloro che definivano nemici? Perché si sono creduti autorizzati a infrangere il codice non scritto che regola la vita dell’umanità: “Non uccidere”? Alcuni aspetti sanguinari si spiegano con ragioni storiche. Il Terrore dei giacobini, che prefigurò l’azione dei bolscevichi, aveva diffuso l’idea che una Rivoluzione necessiti di provvedimenti estremi. A questo si deve aggiungere la tradizione di violenza e dispotismo che da secoli impregnava la vita politica russa, da Ivan il Terribile in poi. Alla svolta del XX secolo, tuttavia, la Russia zarista stava mostrando notevoli segni di liberalizzazione: l’economia era entrata in una fase di robusta crescita e la società civile andava sviluppando ogni giorno la propria autonomia. Lo scoppio della prima guerra mondiale purtroppo arrestò di colpo questo processo, legittimando di nuovo la violenza e il disprezzo dell’individuo. Tutto questo però non è sufficiente a spiegare l’atteggiamento estremamente brutale assunto fin dall’inizio
dai bolscevichi, in singolare contrasto con la rivoluzione del febbraio 1917 che aveva avuto un carattere largamente pacifico e democratico. L’uomo che impose questa violenza fu Lenin, il quale instaurò una dittatura che si rivelò ben presto terrorista e sanguinaria. A differenza del Terrore di Robespierre, quello di Lenin prese di mira tutte le formazioni politiche e tutti gli strati della popolazione. Il mantenimento del potere era così importante da giustificare l’impiego di tutti i mezzi e l’abbandono dei principi morali più elementari. Il vero motore del terrore, scrive Courtois, fu l’ideologia leninista e la volontà, interamente utopistica, di applicare una dottrina in totale distonia con la realtà. La terribile guerra civile del 1818-1921 fu il crogiuolo in cui si forgiarono gli uomini che avevano portato avanti la Rivoluzione. I bolscevichi, che si credevano tanto innovatori, erano in realtà totalmente impregnati dal militarismo imperante nella loro epoca. Per i bolscevichi la guerra civile divenne una forma permanente della lotta politica, nella quale non si contrapponevano più, come negli schemi tradizionali, due gruppi politici. In questa concezione il potere costituito era ininterrottamente in guerra contro la maggior parte della società. Pur con alcune diversità locali, tutti i paesi che si sono richiamati al marxismo- leninismo hanno replicato questa matrice elaborata a Mosca nel 1917, che ha imposto una sorta di codice genetico al comunismo. Spesso si è cercato di fare un distinzione fra il progetto nazionalsocialista, strettamente nazionalista e razzista, e quello universalista del comunismo. Secondo Courtois non vi è niente di più falso. Sia nella teoria che nella pratica Lenin e i suoi successori esclusero chiaramente dall’umanità alcune categorie nemiche, come il capitalista, il borghese, il controrivoluzionario. Le persone appartenenti a queste categorie sociali dovevano essere annientate non per qualche loro colpa specifica, ma solo perché rientranti in una determinata categoria storico-sociale. Il carnefice del KGB quindi non uccideva un uomo, ma un’astrazione dannosa al genere umano. Lo stesso tentativo di creare l’uomo nuovo rappresentò una forma di eugenetica su basi sociopolitiche. Quindi, a dispetto della propaganda, il comunismo non è affatto una dottrina universalista. Cosa resta oggi di questo gigantesco esperimento? Solo un’immensa tragedia che ha pesato, e continua a pesare, sulla vita di centinaia di milioni di persone. Courtois chiude le sue riflessioni citando le parole dello scrittore Vassilij Grossman: “Tutto ciò che viene creato dalla violenza è insensato e inutile, esiste senza avvenire, non lascia tracce”. Citazioni rilevanti La carestia di Lenin «Le squadre di requisizione continuarono a setacciare le campagne … e lo “snidamento dei banditi dalle foreste” proseguì con ogni mezzo: fucilazioni in massa degli ostaggi, bombardamenti con gas asfissiante. In fin dei conti, fu la grande carestia del 1921-1922 a piegare le campagne più turbolente, quelle che le squadre di requisizione avevano spremuto maggiormente e che erano insorte per sopravvivere. La carta della carestia combacia esattamente con quella delle zone in cui negli anni precedenti erano state effettuate le requisizioni più significative e con quelle delle zone in cui si erano verificate le insurrezioni contadine più importanti» (Nicolas Werth, p. 102). La grande guerra ai contadini «Come confermano gli archivi oggi accessibili, la collettivizzazione delle campagne fu una vera e propria guerra, dichiarata dallo Stato sovietico contro un’intera nazione di piccoli produttori agricoli. Furono
deportati 2 milioni di contadini, di cui 1 milione 800.000 solo nel 1930-31; 6 milioni morirono di fame, centinaia di migliaia perirono nelle zone di deportazione: queste poche cifre danno la misura della tragedia umana provocata dal “grande attacco” contro la classe contadina. Questa guerra non finì nell’inverno 1929- 30, ma durò invece almeno fino alla metà degli anni Trenta, e culminò negli anni 1932-33: in questo periodo si verificò una terribile carestia, provocata deliberatamente dalle autorità per piegare la resistenza della classe contadina. La violenza esercitata contro i contadini permise di sperimentare metodi che in seguito furono applicati contro altri gruppi sociali» (Nicolas Werth, p. 136). Il Grande Balzo in Avanti nella carestia «Un mito è circolato a lungo in Occidente: sì, la Cina non era un modello di ogni democrazia, ma “perlomeno Mao è riuscito a dare una ciotola di riso a ogni cinese”. Non c’è, purtroppo, niente di più falso: da un lato … le più che modeste disponibilità alimentari per abitante non hanno probabilmente conosciuto alcun significativo aumento tra l’inizio e la fine del suo regno, e questo malgrado sforzi quali raramente sono stati imposti a una massa di contadini nel corso della storia; dall’altro, e soprattutto, Mao e il sistema da lui creato furono direttamente responsabili di quella che resterà (si spera…) la più mortale carestia di tutti i tempi e di tutti i paesi in senso assoluto» (Jean-Louis Margolin, p. 456). Punti da ricordare Il comunismo è il protagonista del Novecento, il secolo delle grandi catastrofi umane Ovunque i regimi comunisti hanno eletto il terrore a sistema di governo I governanti comunisti hanno commesso crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità I regimi comunisti hanno spesso tentato di occultare i loro misfatti, godendo di vaste complicità in tutto il mondo Il totale delle vittime del comunismo si aggira sui 100 milioni In Urss le vittime ammontano a circa 20 milioni Nella Cina di Mao si è verificata la più grande carestia della storia umana I khmer rossi hanno sterminato un quarto della popolazione cambogiana in quattro anni Lenin e Trotzky hanno impresso il codice genetico terroristico al comunismo Il comunismo non è una dottrina universalistica, perché designa come nemiche alcune categorie sociali Gli autori Stéphane Courtois (1947) è uno storico francese di fama internazionale, specialista nella storia dei genocidi comunisti. Nicolas Werth (1950) è uno storico francese specializzato in sovietologia. Jean-Louis Pannè (1953), storico francese, prima di partecipare alla stesura del Libro nero del comunismo aveva collaborato con François Furet per il libro Il passato di un’illusione. Andrzej Paskowski (1938) è uno storico polacco, direttore degli Studi di Storia Moderna presso l’Accademia Polacca delle Scienze. Karel Bartosek (1930-2004), storico e dissidente ceco, esiliato nel 1982 a Parigi. Jean-Louis Margolin (1952) è uno storico francese esperto della storia asiatica del XX secolo.
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Margolin, Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Mondadori, Milano, 1998, p. 770; traduttori: L. Della Fontana, T. Gargiulo, V. Guani, A. Benabbi, M. Parizzi, D. Comerlati, M. Basile. Titolo originale: Le livre noir du communisme TAG: Comunismo, Novecento, storia, Recensione Avvertenza La pubblicazione di contributi, approfondimenti, articoli e in genere di tutte le opere dottrinarie e di commento (ivi comprese le news) presenti su Filodiritto è stata concessa (e richiesta) dai rispettivi autori, titolari di tutti i diritti morali e patrimoniali ai sensi della legge sul diritto d'autore e sui diritti connessi (Legge 633/1941). La riproduzione ed ogni altra forma di diffusione al pubblico delle predette opere (anche in parte), in difetto di autorizzazione dell'autore, è punita a norma degli articoli 171, 171-bis, 171- ter, 174-bis e 174-ter della menzionata Legge 633/1941. È consentito scaricare, prendere visione, estrarre copia o stampare i documenti pubblicati su Filodiritto nella sezione Dottrina per ragioni esclusivamente personali, a scopo informativo-culturale e non commerciale, esclusa ogni modifica o alterazione. Sono parimenti consentite le citazioni a titolo di cronaca, studio, critica o recensione, purché accompagnate dal nome dell'autore dell'articolo e dall'indicazione della fonte, ad esempio: Luca Martini, La discrezionalità del sanitario nella qualificazione di reato perseguibile d'ufficio ai fini dell'obbligo di referto ex. art 365 cod. pen., in "Filodiritto" (https://www.filodiritto.com), con relativo collegamento ipertestuale. Se l'autore non è altrimenti indicato i diritti sono di Inforomatica S.r.l. e la riproduzione è vietata senza il consenso esplicito della stessa. È sempre gradita la comunicazione del testo, telematico o cartaceo, ove è avvenuta la citazione. Filodiritto(Filodiritto.com) un marchio di InFOROmatica S.r.l
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