Il community manager come occasione per il re-design organizzativo

Pagina creata da Lucia Perini
 
CONTINUA A LEGGERE
Il community manager come occasione per il
re-design organizzativo

Pubblichiamo il secondo di 3 articoli sul tema del community management nei processi di
innovazione aperta. L’assunto di base è che serve passare da un approccio per competenze volto a
definire profilo e ruolo del community manager ad un approccio per pratiche indirizzato
all’apprendimento in corso d’opera e alle capacità di mettere in campo determinati saperi di volta in
volta. Nel primo articolo abbiamo spiegato perché è necessario questo passaggio, in questo secondo
pezzo racconteremo alcune storie di community management e nel prossimo parleremo delle sfide
interessanti che questa figura pone al design organizzativo.

Nel primo articolo dedicato alla scoperta di chi è e cosa fa un community manager, abbiamo
proposto di cambiare prospettiva e di osservare come lavorano queste nuove figure adottando un
approccio di pratiche, più che uno per competenze. L’approccio che definiamo di “pratiche” guarda
all’intelligenza collaborativa dei soggetti che interagiscono facendo qualcosa assieme per risolvere
un problema comune e/o condividendo valori. Ciò è di fatto quanto viene richiesto ad un community
manager nell’attività di costruzione con la comunità di riferimento di progetti innovativi.Per questo
ci sembra utile ridefinire il senso della leadership che un community manager possiede partendo
dalle pratiche: se l’approccio per competenze troppo spesso orientato alla costruzione del “profilo”
serve per “formare” un leader (o manager) più basato sul modello guida-seguace, è nelle pratiche
che si “dà senso” alla leadership utile a innescare processi, progetti e apprendimenti delle comunità
(sense-making). Indagando le pratiche, si possono trovare suggerimenti su come agire da community
manager e su come è opportuno formarsi man mano.

È il lavoro stesso dei community manager ad averci suggerito questa prospettiva e quali strumenti
operativi sono adatti ad un ruolo ibrido, che è sottoposto a sfide rispetto ai ruoli tradizionali dei
progettisti e operatori sociali. In questo articolo vi raccontiamo le storie e le riflessioni di due di
loro, che operano nella Cooperativa Sociale Ippogrifo di Tirano, in Valtellina.

Una sperimentazione del community management: i local coach della Cooperativa
Ippogrifo

Ippogrifo è una cooperativa sociale di tipo A che opera da più di vent’anni nel territorio della
provincia di Sondrio, nella progettazione e gestione di servizi alla persona nei settori dell’educazione
e della cura dei bambini, dei ragazzi e delle famiglie, dell’autonomia delle persone disabili e
dell’inclusione dei migranti e degli adulti in difficoltà. Nel 2006-2008 si apre una fase di innovazione
interna, in seguito ad un passaggio generazionale. Ippogrifo sceglie di dare avvio a nuovi progetti e
servizi rivolti ad una domanda privata (la cooperativa fino al 2014 si occupava della progettazione e
gestione di servizi esclusivamente in qualità di fornitore per la pubblica amministrazione), e di
operare in servizi e settori non tradizionalmente sociali cercando di contaminare gli stessi attraverso
una componente sociale. La cooperativa diventa quindi incubatore di progetti di imprenditorialità
sociale, favoriti da un clima e un ambiente lavorativo caratterizzato dall’ascolto e all’emersione dei
talenti e delle aspirazioni dei lavoratori della cooperativa, e tramite dei dispositivi di ascolto della
base sociale, sceglie di scommettere su alcuni cantieri di produzione. Nascono così: Strashare,
un’azienda che si occupa di agricoltura sociale; Tiralistori, una libreria di comunità; Valfamily, un
servizio collaborativo tra famiglie; SoCare, un centro multiprofessionale per la salute e il benessere
della persona e Pastificio 1908, un pastificio che produce pasta senza glutine all’interno del Carcere.
Un’altra scommessa di Ippogrifo è stata la figura dei “local coach”, una declinazione di community
manager che la cooperativa sta sperimentando, assieme al Comune di Tirano e alle cooperative
sociali Ardesia, San Michele, Intrecci e ad una rete di partner pubblici e del privato sociale,
 all’interno del Bando promosso e finanziato da Fondazione Cariplo “Welfare in azione” con il
progetto “Sbrighes-Prenditi la briga di…”. Il progetto ha l’obiettivo di promuovere lo sviluppo del
territorio valtellinese innescando un processo di riattivazione della comunità, attraverso lo sviluppo
di micro-progetti locali.

Cosa fanno i local coach: due modalità di approcciare il lavoro con la comunità di
riferimento

M. – uno dei local coach di Ippogrifo – ci racconta che all’inizio del progetto si immaginavano di
svolgere un ruolo più definito e lineare nel progettare nuovi servizi o attività per le comunità di
riferimento. Soprattutto, si aspettavano che il loro ruolo fosse da “protagonista” e leader di
processo, come forse la loro formazione di progettisti e/o operatori sociali portava a pensare.

Le comunità però non erano soggetti passivi, bensì organismi che proponevano le loro soluzioni.
“Bisogna tirarsi in dietro” – ci dice M., riflettendo sulla loro esperienza. Il lavoro del local coach
come community manager è per M. diventato più leggero, ovvero quello di creare e mantenere i
legami nelle “comunità di progetto” (Manzini, 2018), perché anche in quelle più autonome e
autogestite i processi non si formano spontaneamente, ma intenzionalmente e necessitano di essere
curati. Per esempio è successo che, pensando alla riqualificazione di un parco giochi, le mamme
abbiano invece proposto il progetto di un pedibus per bambini, a loro più utile: il local coach ha
imparato che la soluzione ce l’aveva la comunità di beneficiari, non lui.

Lo spostamento radicale è stato quindi quello di concentrarsi dal prodotto al processo e di
conseguenza quello dall’avere un ruolo prestabilito all’agire in base alle situazioni. Il local coach
crea le occasioni o le coglie, se esistenti, sostiene la progettualità e l’organizzazione della comunità
(temporanea o stabile) che vuole iniziare qualche nuova attività, favorisce legami e modi di lavorare
assieme per rispondere al meglio ai bisogni espressi o latenti della stessa comunità. Si fa
accompagnatore e co-progettista non per, ma all’interno e con la comunità che progetta. “Non ci
fermiamo lì, solo ad incontrare la gente per capire le loro esigenze e bisogni, ma facciamo lo step
successivo, portiamo la comunità alla co-progettazione, per farli realizzare microprogetti.”.

In parte diverso è il racconto di V. – referente per l’azione lavoro di Ippogrifo – local coach che si
occupa di far da ponte tra il mondo del lavoro, scuola e giovani. I referenti del mondo aziendale e gli
stakeholder di settore – che sono un altro ecosistema, pur nello stesso territorio – rispondono in
modo diverso e richiedono più proattività e capacità di controproposta, o di adattamento a servizi o
progettualità predefinite (ad esempio l’alternanza scuola-lavoro). Più difficilmente si aprono alla
coprogettazione – che resta una sfida comunque. Contano di più, in questo caso la capacità negoziale
(un po’ più “commerciale”, apparentemente) e progettuale tradizionale, perché nel settore le
richieste sono più indirizzate alla logica domanda/offerta di servizi che a proporre uno scambio
collaborativo – è poi difficile mettere insieme più aziende, più facile trattare singolarmente.
Tuttavia, gestire questi progetti come local coach vuol dire non rinunciare a rilanciare su sfide, con
strumenti che stimolino l’attivazione di comunità, come le call for ideas.

Quanto incide il local coach sulle idee che si producono?

A differenza del progettista interno all’organizzazione, il local coach di Ippogrifo non preconfeziona
un progetto per poi portarlo alla comunità: progetta con la comunità stessa: “Noi lanciamo il
processo, non andiamo mai con una nostra idea, le facciamo emergere e le raccogliamo” – continua
M. E questo presuppone due cose: la prima è che si deve accettare una progettazione “aperta,
continua”, basata su revisioni e aggiustamenti che si scoprono lavorando con la comunità. È il lavoro
di chi fa bricolage con le risorse a disposizione ricombinandole man mano e scoprendo così quale
può essere la direzione migliore (Weick; Hambleton, De Certeau). La seconda è che serve essere
dotati non di risposte, bensì di strumenti di co-progettazione, come una cassetta degli attrezzi utili
all’innesco di processi, azioni e riflessioni. L’aspetto interessante del loro lavoro diventa la capacità
di conoscere e attivare l’ecosistema affinché produca le proprie risposte. Il local coach non ha una
mappa a disposizione su cui muoversi, ma – come ci suggerisce Weick – una bussola con cui sapere
dove si è e ritarare la direzione da prendere.

Anche V. ci racconta che ha trovato occasioni di progettazioni più aperte e condivise nel suo settore,
seppur in modo diverso da M.. Un caso è stato quello di un rilancio di proposta ad un’azienda di
autotrasporti che ha accettato di rivedere la sua richiesta di manodopera scoprendo un nuovo
bisogno: rivedere la piattaforma gestionale interna. Grazie ad una call, alcuni giovani informatici
stanno ora lavorando alla sua progettazione.

Per quanto i progetti possano essere a volte di dimensione micro (da un evento da organizzare, al
taglio dell’erba), il local coach impara a “pensare in grande”, uscendo dagli schemi in cui il progetto
era strutturato per azioni previste. È l’impatto che cambia: la co-progettazione può partire da una
dimensione progettuale piccola, ma ha un “effetto domino” che porta ad estendere la progettualità
come capacità. M. ci ricorda che essere local coach è un “osare in termini non utopici”, proprio
grazie al fatto che è la comunità che progetta e produce innovazione.

Quanto, quando e come intervenire, dunque?

La risposta è: dipende. Sono le interazioni specifiche legate all’occasione, al contesto e ai bisogni
della comunità a suggerirlo – il lavoro di local coach è una pratica che si impara facendo e
riflettendo su cosa è opportuno “fare” ed “essere” di volta in volta”. M., ad esempio, che lavora più a
contatto con comunità legate a famiglie, giovani o gruppi di cittadini, sottolinea che è opportuno
differenziare i modi di leadership. Con i più giovani può servire serve una maggiore capacità di
guida e qualche intervento diretto, mentre con gli adulti già consapevoli di bisogni si diventa più
accompagnatori, registi di processi, suggeritori di strumenti di lavoro per trovare soluzioni (come
nel caso delle mamme sopra citato).

Anche il tempo è una dimensione che fa riflettere un local coach: se all’inizio i processi hanno
bisogno di un certo tipo di accompagnamento, in fase successiva forse – riflette M. – serve un ruolo
più da “professionista tradizionale” per il mantenimento del progetto. È un’osservazione
interessante, che ci fa capire come la co-progettazione non sia semplicemente un metodo opposto
agli interventi più “direttivi”, ma semplicemente più attenta (sense-making) a capire
collaborativamente cosa serve e in quale momento per trovare soluzioni a bisogni e valori espressi.

C’è, insomma, un tempo opportuno per accompagnare e uno per tirare le fila del processo, e un altro
ancora per ancorare alcuni risultati e stabilizzarli: momenti che implicano modi diversi di praticare il
community management e la leadership. E questo incide, dice M. , su molti fronti, non da ultimo su
quello del budget, perché lavorare accompagnando un progetto consente di capire su cosa è più
utile investire di volta in volta.

Come capita nelle organizzazioni aperte, è la comunità che opera, progetta e suggerisce i tempi, non
il suo leader, che spesso anzi viene sorpreso dalla risposte prodotte. Le due modalità di M. e di V.
costituiscono una sorta di due “estremi ideali”, in mezzo ai quali vi sono gradi diversi di azione. In un
caso, il local coach si “toglie il vestito del supereroe”, e cerca la via migliore per ricalibrarsi di
occasione in occasione (questa è la perizia che serve per collaborare bene).

Nell’altro caso, diventa più importante avere capacità di leadership più forti, essere attrattivi, anche
se V. aggiunge che il local coach “deve comunque saper mediare, cogliere l’interesse di chi sta
parlando, capire il punto su cui poter convergere e costruire qualcosa assieme”. C’è una cosa che
accomuna le due modalità di community management: “ci siamo resi conti che siamo tutti local
coach, perché tutti costruiamo legami nel territorio”.

La competenza personale più “carismatica” del leader, quindi, tende ad essere di fatto superata per
entrambi gli estremi e a trasformarsi nella capacità di “farsi promotore di sviluppo” e di occasioni
sociali, interne ed esterne contemporaneamente. “La leadership come pratica riguarda molto di più
dove, come e perché il lavoro della leadership è organizzato e svolto, che non chi offre la visione agli
altri per svolgere il lavoro. .. la pratica è inglobata nella situazione in cui ha luogo. (J. Raelin, 2010)

Apprendere facendo e imparare dagli effetti: una “learning leadership”

Uno dei principali effetti del fare il local coach è che si impara ad imparare: lavorando “senza niente
di pronto” (ma dotati di strumenti ed attenzione), in costante attesa di scoperte ed ideazioni che
variano da comunità a comunità, il local coach è chiamato ad affinare strumenti, capacità di
osservazione e scoperta collettiva dei bisogni. Di volta in volta, deve saper adattare il suo agire alla
situazione, usando una leadership non direttiva, ma in grado di capacitare la comunità.

È una figura che produce anche contaminazione: il suo stare “tra” il dentro e il fuori
dell’organizzazione, crea stimoli per rivedere i processi progettuali e organizzativi, come una
maggiore collaborazione fra aree usualmente separate – per questo è utile, ci raccontano, non
lavorare da soli. Allo stesso tempo, però, queste pratiche incontrano anche diffidenze con cui
doversi confrontare, soprattutto con stakeholder più istituzionali come le pubbliche amministrazioni
(poco abituate a pensare a progetti aperti che si autogestiscono), ma anche con le comunità già
costituite (con ruoli di leadership interni) e/o con singoli da ingaggiare (cui si chiede un impegno che
abbisogna di motivazioni). Un’altra lezione che impariamo dal loro lavoro è che per produrre
innovazione serve un un investimento di tempo, necessario a far emergere bisogni, aspirazioni e
soluzioni non dati per scontati.

Il local coach scuote i modi tradizionali di lavorare assieme, anche rispetto ai partner di progetto e
spinge verso forme di innovazione aperta: “Lavorare come local coach ha abbattuto diffidenze che
potevano esserci in fase iniziale e ha creato un modo di lavorare più integrato e più vero rispetto a
quelli che sono i soliti partenariati (in cui anche nella parte operativa io faccio la mia, tu fai la tua e
non ti dico tutti i servizi che ho, le strategie che ho) […] Anche la condivisione del fare direttamente
è strumento essenziale, perché fa uscire dai modelli tradizionali di lavoro ( l’equipe, le riunioni), e
porta a snellimento dei processi. Si parte da alcune esperienze, non da luoghi e strumenti più
formali, il che ci porta a doverci reimmaginare il nostro ruolo e ad allineare il nostro metodo di
pensiero e di lavoro: ci permette di gestire i rapporti fra di noi, comprenderci in pochi secondi… nel
laboratorio ci si scambia. Spesso siamo in coppia a fare il lancio con la comunità, poi ognuno segue
lo sviluppo.”
È stato grazie al lavoro fatto con loro e alle loro pratiche che abbiamo avuto modo di ripensare agli
strumenti di lavoro e agli approcci alla progettazione utili al community manager per come si sta
delineando la loro figura professionale e alle ricadute organizzative che questo approccio comporta.
Nel prossimo articolo parleremo delle sfide interessanti che questa figura pone al design
organizzativo.

  Riferimenti

De certeau M., 2001, L’invenzione del quotidiano, trad. M. Baccianini, Edizioni Lavoro

Manzini E., 2018, Politiche del quotidiano, Edizioni di Comunità

Hambleton R. 2015, Leading the inclusive city. Place-based innovation for a bounded planet, Policy
Press University of Bristol

Raelin J, 2010, Leadership as practice, Routledge

Weick K. E. (1997), Senso e significato nell’organizzazione. Alla ricerca delle ambiguità e delle
contraddizioni nei processi organizzativi, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Immagine di copertina: ph. Josh Calabrese da Unsplash
Puoi anche leggere