Educare nel tempo della post-modernità - Giuseppe Savagnone
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Giuseppe Savagnone Educare nel tempo della post-modernità
Collana LA SFIDA EDUCATIVA Giuseppe Savagnone - Alfio Briguglia, Il coraggio di educare Sandro Ferraroli, Educare si può Giuseppe Belotti - Salvatore Palazzo, Genitori, la sfida educativa Autori vari, Educare ai tempi di Internet Roberto Pasolini (a cura di Luigi Meani), Emergenza educazione Marianna Pacucci, Educare in famiglia Luciano Tallarico, Educare alla responsabilità Zbigniew Formella - Alessandro Ricci, Educare insieme Domenico Cravero, Organizzare la speranza Vito Orlando - Marianna Pacucci, La paura di volare Giuseppe Savagnone, Educare oggi alle virtù Alessandro Ricci, Famiglia tra risorse ed emergenza Marisa Musaio (cur.), Dentro la relazione educativa Guido Crocetti, I bambini vogliono la coppia Sandro Ferraroli, Educare si deve Giuseppe Savagnone, Educare nel tempo della post-modernità © 2013 Editrice ELLEDICI - 10142 Torino E-mail: mail@elledici.org ISBN 978-88-01-05370-8
Introduzione Qualcuno la chiama «iper-moderna», qualcun altro «tardo- moderna», altri ancora «post-moderna»: ma su una cosa quasi tutti convergono, ed è che la cultura della nostra epoca presenta alcune caratteristiche che non sono riducibili a quella di un pas- sato, anche recente, che si soleva chiamare «moderna». E poiché l’essere umano è un animale storico e culturale, identificato dai suoi universi simbolici – entro cui acquistano significato, per lui, le sue scelte e il suo stesso esistere –, tenere conto di questa tra- sformazione è fondamentale per intercettarne i problemi, le rea- zioni, gli interessi. Questo è vero anche – e forse soprattutto – quando si affronta il problema educativo. Non si può pensare di accompagnare i gio- vani nel loro percorso di crescita se non se ne comprendono la mentalità e l’approccio alla realtà. Eppure, proprio su questo pia- no, si registrano oggi dei gravi ritardi da parte delle tradizionali comunità educative – la famiglia, la scuola, la Chiesa. La cosid- detta «emergenza educativa» non è tanto determinata da uno scarso investimento di risorse materiali e umane, quanto dal fat- to che queste risorse finiscono spesso per indirizzarsi a interlocu- tori inesistenti, a ragazzi e ragazze che non «abitano più» là dove ci si illude di raggiungerli. Così, molti dei «predicozzi» di genito- ri, insegnanti, parroci o catechisti cadono nel vuoto, perché riflet- tono un linguaggio, una sensibilità, dei modelli etici, che oggi so- no assolutamente estranei ai loro destinatari. Ai limiti degli educatori si aggiunge l’influenza di nuove agen- zie comunicative – Tv, cellulari, Internet – che, a differenza di quelle istituzionali, non sono comunitarie, o lo sono solo in senso virtuale (gli «amici» di Facebook), ma che hanno, grazie alle nuove tecnologie, una capacità di penetrazione immensamente supe- riore. E questi nuovi strumenti di comunicazione non sono neu- trali, come qualcuno crede, ma veicolano stili di pensiero e di 3
comportamento che contribuiscono in modo decisivo alla tra- sformazione culturale in atto. Non per nulla, per definire i ragaz- zi di oggi, si parla di «nativi digitali»! Educare nella post-modernità significa prendere atto di questa situazione e affrontarla creativamente, invece di arroccarsi sulla difensiva. La scelta è tra ignorare i nuovi codici simbolici, oppu- re entrare fino in fondo in essi, cercando di capirli, per valutarli e aiutare i propri figli, alunni, parrocchiani a utilizzarli corretta- mente. Questo libro è nato dalla convinzione che non abbia senso chiudersi al nuovo, sottovalutandolo o, peggio ancora, demoniz- zandolo. Credenti e non credenti possono trovarsi d’accordo con i vescovi italiani quando, negli Orientamenti pastorali per il 2010- 2020, scrivono che si deve «prendere coscienza, insieme a tutti gli educatori, di alcuni aspetti problematici della cultura contempo- ranea (...) cercando di riconoscere anche in essi le domande ine- spresse e le potenzialità nascoste, e di far leva sulle risorse offer- te dalla cultura stessa» (Educare alla vita buona del Vangelo, n. 7). Perciò, in queste pagine, si è preferita, alla categoria dell’«emer- genza», che ha una connotazione prevalentemente negativa, quel- la della «sfida», che indica una difficoltà da affrontare ma, al tem- po stesso, un’opportunità da cogliere. Ciò però suppone uno sforzo di pensiero che la grande mag- gioranza degli educatori elude, anche perché li costringerebbe a prendere coscienza delle loro stesse contraddizioni. Figli o nipo- ti del Sessantotto, essi si trovano oggi a riproporre ai loro ragazzi «punti fermi» che, da giovani, avevano contestato e di cui ora per- cepiscono confusamente l’irrinunciabilità, senza però saperli giu- stificare ed esserne fino in fondo convinti. Ne viene fuori una perversa oscillazione tra il rigorismo di cer- ti comportamenti repressivi e la sottile complicità di chi in fondo resta legato a logiche sessantottine. Ne è un perfetto esempio, in un film di successo – La notte prima degli esami (del 2006, anche se ambientato nel 1989), di Fausto Brizzi – l’arcigno professor Mar- tinelli (Giorgi Faletti), soprannominato dai propri alunni «la ca- rogna», per la sua spietata rigidezza come docente. Un suo alunno, Luca (Nicola Vaporidis), che lo detesta come tutti i suoi compagni, si trova però quasi costretto a frequentarlo, 4
prima per ricevere le ultime ripetizioni in vista degli esami di ma- turità, poi perché è il padre della ragazza di cui è innamorato. Con immenso stupore scoprirà che l’inflessibile, anziano insegnante è in realtà un nostalgico delle trasgressioni più estreme del Ses- santotto. Sarà lo stesso professor Martinelli che, dismessa la co- razza dietro cui si nasconde, rievoca con patetico entusiasmo se- nile le proprie esperienze di droga e di sesso selvaggi, spingen- dosi fino a domandare a Luca di procurargli uno spinello, per riassaporare il gusto degli antichi stili di vita «alternativi». Met- tendo in imbarazzo lo studente, perché, come dice la sua voce fuori campo, lui lo spinello lo aveva provato solo una volta in vi- ta sua e si era pure sentito male! La perplessità di Luca è quella di tanti ragazzi e ragazze che percepiscono l’inconsistenza di messaggi educativi sclerotici (a cui non credono, in fondo, neppure coloro che li proclamano), ma che non si trovano a proprio agio neppure nel nulla etico che og- gi sembra costituirne, di fatto, l’inevitabile alternativa. Per un educatore fare i conti con la post-modernità significa andare oltre questa perversa oscillazione, prendendo coscienza delle trasformazioni in atto, valorizzandone le istanze positive e al tempo stesso evidenziandone gli aspetti problematici e con- traddittori, per elaborare un nuovo progetto educativo che inclu- da le prime, purificandole però da quanto presentano di unilate- rale. Perciò in ogni capitolo, dopo un paragrafo dedicato a trat- teggiare i cambiamenti culturali in corso, ce ne sarà uno volto a mostrare l’arricchimento che essi comportano rispetto al passato (e questo è forse il passaggio più originale della riflessione!), se- guito da un altro che, viceversa, insisterà sulle ombre e da uno conclusivo che, infine, abbozzerà delle prospettive di sintesi in chiave educativa.1 È appena il caso di dire che il nostro discorso non pretende di essere esaustivo. Abbiamo solo cercato di individuare alcuni temi – che peraltro si richiamano a vicenda, a volte sovrapponendosi – 1 Per un tentativo analogo nell’ambito dell’evangelizzazione, cf G. SAVA- GNONE, Evangelizzare nella postmodernità. Istruzioni brevi per una navigazione a vista, Elledici, Torino (Leumann) 1996 (seconda ristampa 2003). 5
particolarmente significativi per evidenziare il passaggio dalla cultura moderna a quella post-moderna. Ma sono aspetti di una realtà più ampia e complessa, che altri potranno continuare ad esplorare per conto proprio, magari, se lo vorranno, utilizzando il metodo qui prospettato. Soprattutto, però, va precisato subito che questo libro non è un elenco di risposte da consultare per risolvere questa o quella difficoltà pratica a cui si può andare incontro nel proprio ruolo di educatori. Chi si aspetta delle «ricette» farà meglio a non perdere il proprio tempo leggendolo. Ciò che abbiamo voluto offrire è una panoramica dei problemi nuovi che si pongono nell’attuale con- testo culturale e di cui spesso non si è chiaramente consapevoli, additando alcune prospettive di fondo, alternative alla prassi educativa vigente, per cercare di affrontarli adeguatamente. Non ci proponevamo – né saremmo stati in grado di farlo – di dare so- luzioni, ma solo di aiutare a cercarle. Un’ultima considerazione riguarda un altro limite di questo libro – che poi è proprio di ogni libro e, più in generale, di ogni tentativo di trasmissione del proprio pensiero. Rivolto ai suoi di- scepoli, il Profeta di Gibran diceva: «Nessuno può insegnarvi nul- la, se non ciò che in dormiveglia giace nell’erba della vostra co- noscenza (...). E se egli è saggio non vi invita a entrare nella casa della sua scienza, ma vi conduce alla soglia della vostra mente» (Gibran 1983, p. 97). Negli anni, dopo tanti messaggi lanciati per- ché perforassero le corazze dell’indifferenza, ci si rende conto che a poter veramente colpire l’interlocutore sono solo quelli che oscuramente già premevano nella sua anima per vedere la luce e che, nelle parole dell’altro, trovano finalmente una forma. Chi non è in alcun modo aperto a quanto si cerca di esprimere in queste pagine, le troverà astratte e noiose. Chi le accosterà senza nulla cercare, non vi troverà nulla. Chi, invece, le metterà in relazione con le proprie esperienze e le utilizzerà per capire meglio ciò che oscuramente già intuiva, sappia che il frutto che ne trae scaturisce dalla sua ricerca, più che dai modesti spunti che qui abbiamo cer- cato di offrire. 6
La sfida della frammentazione dell’io Da Piero della Francesca a Picasso C’era una volta l’io. Questa parola, breve quanto carica di si- gnificato, veniva pronunziata con fiera sicurezza. Di tutto si po- teva dubitare, tranne che del proprio essere se stessi. La cultura moderna, a partire dal Rinascimento, si è costruita su questa cer- tezza. I filosofi hanno esaltato il soggetto, ponendolo al centro della realtà e facendone la misura di tutte le cose. I pittori ne han- no raffigurato il volto facendone sprigionare la personalità. I poe- ti l’hanno posto come protagonista delle loro liriche e dei loro ro- manzi. I musicisti ne hanno espresso in note gli stati d’animo. L’immagine che ne emergeva era quella di una realtà unitaria, consapevole di sé, artefice, o comunque protagonista del proprio destino. Poi è venuto Nietzsche, che già sul finire dell’Ottocento di- chiarava che l’io è soltanto «una favola, una finzione, un gioco di parole» (Nietzsche 1975, p. 72), dietro cui si nasconde un flusso caotico di cieche pulsioni e di percezioni frammentarie. Un mes- saggio che ha trovato immediato riscontro negli studi, di poco po- steriori, di Sigmund Freud sulla psiche umana. Là dove l’età mo- derna vedeva, come caratteri peculiari del soggetto, l’autoco- scienza e la libertà, il medico austriaco smascherava l’oscura pre- senza di un inconscio, a cui non si addice il nome di «Ich» («Io»), bensì quello di «Es» («Esso»), terza persona neutra, perché del tutto inconsapevole e soggetto a meccanismi incontrollabili. La coscienza, tanto esaltata fino ad allora dai filosofi e dai letterati, al- tro non è, per Freud, che una sottile crosta superficiale, impegna- ta a reprimere e ricacciare nel buio i mostri emergenti dall’incon- scio, sotto il controllo spietato di un tirannico Super-Io a sua vol- ta frutto di processi inesorabili. L’antica immagine monolitica e auto-trasparente del soggetto si disgregava, così, in una molte- 7
plicità conflittuale, in perenne squilibrio, le cui contorte dinami- che si possono parzialmente portare alla luce solo sottoponendo- si a un lungo e faticoso lavoro di analisi. Uno sconvolgimento inquietante, motivato dalla volontà di vedere più a fondo, senza retorica, la verità dell’essere umano. Si potrebbe trovare una efficace parabola di questo passaggio nella descrizione della città di Eudossia, fatta da Italo Calvino ne Le cit- tà invisibili: «A Eudossia, che si estende in alto e in basso, con vi- coli tortuosi, scale, angiporti, catapecchie, si conserva un tappeto in cui puoi contemplare la vera forma della città. A prima vista nulla sembra assomigliare meno a Eudossia che il disegno del tappeto, ordinato in figure simmetriche che ripetono i loro moti- vi lungo linee rette e circolari, intessuto di gugliate dai colori splendenti, l’alternarsi delle cui trame puoi seguire lungo tutto l’ordito. Ma se ti fermi a osservarlo con attenzione, ti persuadi che a ogni luogo del tappeto corrisponde un luogo della città e che tutte le cose contenute nella città sono comprese nel disegno, disposte secondo i loro veri rapporti, quali sfuggono al tuo oc- chio distratto dall’andirivieni dal brulichio dal pigia-pigia. Tutta la confusione di Eudossia, i ragli dei muli, le macchie di nerofu- mo, l’odore di pesce, è quanto appare nella prospettiva parziale che tu cogli; ma il tappeto prova che c’è un punto dal quale la cit- tà mostra le sue vere proporzioni, lo schema geometrico implica- to in ogni suo minimo dettaglio (...). Sul rapporto misterioso di due oggetti così diversi come il tappeto e la città fu interrogato un oracolo. Uno dei due oggetti, – fu il responso, – ha la forma che gli dei diedero al cielo stellato e alle orbite su cui ruotano i mondi; l’altro ne è un approssimativo riflesso, come ogni opera umana (...). Ma allo stesso modo tu puoi trarne la conclusione op- posta: che la vera mappa dell’universo sia la città d’Eudossia co- si com’è, una macchia che dilaga senza forma, con vie tutte a zig- zag, case che franano una sull’altra nel polverone, incendi, urla nel buio» (Calvino 1977, pp. 103-104). Così, da un’età moderna che aveva tracciato con sicurezza la fisionomia ideale dell’io, la post-modernità contrappone la sua effettiva realtà, piena di anfratti oscuri e di contraddizioni. Al di- segno geometrico della sua unità si è sostituita la mappa incerta della sua complessità. Dove complessità non vuol dire solo mol- 8
teplicità di aspetti, ma impossibilità di ricondurli a un ordine sta- bile e armonico. Quelle di Nietzsche e di Freud non erano posizioni isolate. Dalla fine dell’Ottocento, lungo tutto il corso del Novecento, fino ad oggi, la vicenda dell’io è una storia di progressiva dissoluzio- ne. Certo, come in ogni passaggio epocale, non si può fissare uni- vocamente una data in cui alla visione moderna è subentrata quella post-moderna. Ma basta confrontare la trama lineare dei romanzi ottocenteschi, costruiti su una coerente, articolata psico- logia del protagonista, con l’Ulisse di Joyce, attraversato da un ininterrotto e frammentario flusso di coscienza, oppure le melo- die romantiche con la musica dodecafonica, per cogliere la di- stanza tra due universi culturali. Ancora più emblematica la differenza tra un ritratto di Piero della Francesca o di Tiziano e un dipinto di Picasso che raffigura il volto umano. Nel primo si trova una prospettiva armoniosa, uni- ficante, una descrizione coerente e fedele a ciò che lo sguardo uma- no vede. Guardiamo ora il quadro di Picasso. Anch’esso vuole rap- presentare i lineamenti di una persona. A prima vista, se ne po- trebbe dubitare. Poi, cercando bene, si scopre che gli elementi del viso – occhi, naso, bocca – ci sono tutti. Ma è come se ognuno fos- se riprodotto all’interno di una prospettiva diversa e contraddit- toria rispetto agli altri elementi. L’io che sta dietro quel volto ap- pare disgregato, irriconoscibile agli altri e forse anche a se stesso. Siamo davanti a un processo che non riguarda solo l’arte e la filosofia, ma coinvolge la vita di ogni giorno. Guardiamo la sfera relazionale. Prima le persone si muovevano all’interno di am- bienti rigorosamente circoscritti che ne definivano in modo uni- voco la fisionomia e il ruolo. In primo piano – e per le donne in modo quasi esclusivo – c’era la famiglia. Per gli uomini contava molto anche il mondo del lavoro. Più deboli, altri tipi di relazioni: con la parrocchia (soprattutto per le donne), con il circolo o il par- tito (soprattutto per gli uomini). In tutti questi ambiti, la cerchia era limitata sia dal punto di vista quantitativo che da quello qua- litativo. Si procedeva su binari precostituiti, che favorivano l’iden- tificazione dei singoli con modelli altrettanto precostituiti. Oggi la personalità degli individui di entrambi i generi è sol- lecitata da una miriade di scambi con colleghi, conoscenti e «ami- 9
ci» di vario livello e continuamente mutevoli. Le famiglie hanno perso la loro compattezza centripeta e ognuno dei due coniugi è al centro di una rete relazionale estremamente variegata. Non so- lo anche le donne ormai lavorano, ma la profonda trasformazio- ne del modo di lavorare comporta per tutti – e forse per loro, più ancora che per gli uomini – la compresenza in ambienti diversi, a ciascuno dei quali bisogna adeguarsi. «Esiste un nesso tra la di- sgregazione del lavoro e la frammentazione della vita delle per- sone (Salmieri 2006, p. 77). Per non parlare della pressione dei mezzi di comunicazione – prima limitata a quella dei giornali e della radio –, che inva- dono da ogni parte gli spazi personali con immagini, slogan, sug- gestioni di ogni genere, sollecitando la psiche degli individui e condizionando la loro vita emotiva a partire alla più tenera età. Anche sotto questo profilo, l’io è sottoposto alla pressione di una piena a cui non è in grado di far fronte con un’adeguata ope- ra di sintesi e che suscita in lui stati d’animo incontrollati e con- trastanti. Non c’è bisogno di essere degli specialisti per rendersi conto che un’educazione incapace di tener conto di questa nuova real- tà è destinata in partenza all’insuccesso. Oltre la maschera Certo, il quadro che abbiamo delineato mette in crisi i model- li monolitici che la tradizione moderna ci ha consegnato e che da- vano comunque sicurezza. Ma possiamo davvero essere così cer- ti che dietro quelle costruzioni culturali ci fosse la realtà del sog- getto in carne ed ossa, e non un fantasma? Pirandello ha bollato questi volti precostituiti, perfettamente coerenti, socialmente ga- rantiti, come maschere. Aveva del tutto torto? Perché, dobbiamo pur dirlo, anche nel passato l’univocità e la solidità dei modelli spesso soffocava la ricchezza e l’autenticità dei volti. L’io era compatto, ma solo al prezzo di una pesante re- pressione di tanti suoi aspetti, di tante sue potenzialità, di tanti suoi desideri. L’alternativa a questo punto si poneva tra un con- formismo soffocante e una trasgressione il cui prezzo era il ripu- dio da parte del proprio ambiente sociale. 10
Commentando la tendenza della letteratura post-moderna a valorizzare la molteplicità rispetto all’unità, Italo Calvino con- cludeva: «Qualcuno potrà obiettare che più l’opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s’allontana da quell’unicum che è il self di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della pro- pria verità. Al contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinazione d’esperienze, d’informazioni, di let- ture, d’immaginazioni?» (Calvino 1988, p. 120). Si può discutere il fondamento filosofico di questa afferma- zione. Ma è riconoscibile anche una parte di verità, quando l’au- tore insiste sull’importanza delle diverse modalità di approccio alla realtà per la realizzazione della persona. Da questo punto di vista bisogna dare atto alla post-modernità di avere aperto nuove prospettive. Particolarmente evidente è stato il fenomeno nel mondo femminile. Qui i modelli in cui identificarsi erano parti- colarmente rigidi. Si poteva essere «angelo del focolare», oppure amante segreta, o addirittura sgualdrina. Tranne che nel caso di una vocazione monastica, che sottraeva a questa gamma di de- stini per aprirne uno diverso, ma anch’esso rigorosamente codi- ficato. L’educazione indirizzava a uno di questi percorsi. La potenza della cultura è di modellare le persone senza bisogno di ricorre- re alla violenza. La scarsa presenza di nomi femminili negli elen- chi di filosofi, poeti, letterati, pittori, scienziati, musicisti, esplo- ratori, la dice lunga sotto questo profilo. Non che le donne non abbiano avuto un’influenza importante sulla storia: ma quasi sempre passando attraverso le forche caudine di uno dei cliché appena elencati. Non c’è da stupirsi che il femminismo abbia fatto saltare, con una specie di rabbiosa reazione, questi modelli, sganciando dra- sticamente la donna dalla nicchia troppo stretta in cui era stata collocata e, in particolare, da una dipendenza dall’uomo che la rendeva funzionale e complementare al suo ruolo dominante. Non è questa la sede per ripercorrere le tappe del movimento femminista, le sue conquiste e i suoi errori. Ma quante donne, oggi, pur soffrendo della complessità e della disgregazione deri- vanti dalle loro molteplici identità – di moglie, di madre, ma an- che di professionista o funzionaria o imprenditrice, sempre di 11
corsa, sempre in debito con uno di questi ruoli –, vorrebbero tor- nare a specchiarsi nell’immagine univoca, semplice, compatta del passato? Anche gli uomini, sia pure meno vistosamente, hanno pagato il prezzo di questa costrizione. Quante vocazioni artistiche, filosofi- che, religiose soffocate da famiglie e ambienti sociali che non le ri- tenevano compatibili con i loro modelli! Ritorna alla mente l’anti- co mito greco di Procuste, un crudele brigante che attendeva al varco i viandanti e, dopo averli catturati, li costringeva a stender- si su un letto e ad assumerne le dimensioni, stirandone le membra se troppo bassi e corti, amputandole se troppo alti e lunghi. Oggi non si vuole più essere sottoposti a questo trattamento. È significativo il rigetto verso tutte le divise, dall’abito talare dei preti a quello, tradizionalmente sobrio e compassato, di magi- strati e insegnanti. Dobbiamo riconoscere che, al di là delle forme che assume, questa reazione alla logica repressiva di tante esperienze del pas- sato è in perfetta linea con una idea essenziale della tradizione cristiana, un’idea mai del tutto dimenticata, anche se a lungo oscurata: la persona umana, immagine di Dio, partecipa di qual- cosa dell’Infinito e non può essere imprigionata in nessuno sche- ma. L’educazione, che spesso era utilizzata per vietare e costrin- gere, per delimitare e comprimere, oggi deve imparare a tener conto di questa apertura sconfinata, a rispettarla, a promuoverla. Per questo essa, in una società in cui si parla tanto di «crisi dei valori», deve tener conto di un valore che per i giovani rap- presenta un punto di riferimento fondamentale, quello dell’au- tenticità, in cui si esprime la fedeltà di ciascuno, nel suo essere unico e irripetibile, al proprio volto, alla propria verità, al proprio mistero. Un posto importante, nella prospettiva dell’autenticità, han- no, con la loro indefinita varietà e perfino con la loro contraddit- torietà, le emozioni, tante volte represse, misconosciute, masche- rate (perciò l’autenticità viene spesso identificata con la sincerità!) in nome di una ragione tirannica, che Freud ha denunziato come espressione del Super-Io. Costituisce una specie di manifesto di questa visione della per- sona e della vita una famosa canzone di Lucio Battisti intitolata, 12
appunto, Emozioni: «Domandarsi perché, quando cade la tristez- za/ in fondo al cuore,/ come la neve, non fa rumore;/ e guidare come un pazzo a fari spenti nella notte/ per vedere/ se poi è tan- to difficile morire;/ e stringere le mani per fermare/ qualcosa che/ è dentro me,/ ma nella mente tua non c’è:/ capire tu non puoi,/ tu chiamale, se vuoi,/ emozioni./ Uscir nella brughiera di mattina/ dove non si vede ad un passo/ per ritrovar se stesso;/ parlar del più e del meno con un pescatore/ per ore ed ore,/ per non sentir che dentro qualcosa muore;/ (...) e prendere a pugni un uomo solo/ perché è stato un po’ scortese,/ sapendo che quel che brucia non son le offese;/ e chiudere gli occhi per fermare/ qual- cosa che/ è dentro me,/ ma nella mente tua non c’è:/ capire tu non puoi,/ tu chiamale, se vuoi,/ emozioni». Non è una posizione isolata. «Il mio pensiero, per lo più de- bole, è sempre stato oscurato dalla forza dei sentimenti»: sono le parole conclusive dell’esergo posto da Fabrizio De André – un altro cantautore di cui non si deve sottovalutare l’influsso sul- la nostra cultura e su quella giovanile in particolare – al volu- me dove sono raccolti i testi di tutte le sue canzoni (De André 2006, p. 11). E anche su questo punto bisogna riconoscere che gli stili edu- cativi tradizionali devono essere rimessi in discussione. Troppo spesso il perbenismo borghese si è impadronito della razionalità per piegarla alle logiche di un mediocre utilitarismo o di un an- gusto moralismo. Da questo punto di vista il richiamo alla com- plessità dell’io, che include a pieno titolo la sfera emotiva e la po- ne in primo piano, è un contributo importante che la post-mo- dernità dà all’educazione. Il gioco dello zapping Non si può minimizzare, tuttavia, ciò che di unilaterale e di distruttivo vi è in tutto questo. La valorizzazione della ricchezza della personalità assume oggi la forma di una disgregazione che le rende impossibile, in molti casi, avere un centro interiore. Se l’io concepisce se stesso – e diventa effettivamente, per il peso che la cultura ha nella costruzione della soggettività umana – quello che qualcuno ha definito «una società per azioni a maggioranza 13
variabile», non riesce più a sapere chi veramente è e che cosa vuo- le dalla vita. In realtà oggi questo accade spesso (almeno in Occi- dente) anche agli adulti che, nel venir meno di strutture sociali forti a cui affidare l’elaborazione della propria fisionomia inte- riore, stentano a costruirsene una. Ovviamente tra i giovani – im- pegnati in un delicato processo di costruzione dell’identità – que- sta difficoltà è resa ancora maggiore proprio dalla mancanza di punti di riferimento convincenti. È impressionante che questo sia l’esito della scoperta di un va- lore come l’autenticità, che dovrebbe garantire una maggiore ca- pacità di essere se stessi. Il punto è che questo concetto viene spes- so ridotto unilateralmente all’abbandono incondizionato ai propri stati d’animo e alle proprie pulsioni immediate, sganciandoli da ogni forma di riflessione. Soprattutto nel mondo giovanile si constata, secondo un luci- do osservatore come Galimberti, «un’emotività molto più incon- trollata e uno spazio di riflessione molto più modesto». Ma que- sto, invece di potenziare la ricchezza dei sentimenti del soggetto, ha spesso l’effetto paradossale di indebolirli e anestetizzarli: «L’eccesso emozionale e la mancanza del raffreddamento rifles- sivo» producono infatti, secondo l’autore, «1) lo stordimento del- l’apparato emotivo attraverso quelle pratiche rituali che sono le not- ti in discoteca o i percorsi della droga; 2) il disinteresse per tutto, messo in atto per assopire le emozioni attraverso i percorsi del- l’ignavia e della non partecipazione (...); 3) il gesto violento, quan- do non omicida, per scaricare le emozioni e per ottenere un’over- dose che superi il livello di assuefazione come nella droga» (Ga- limberti 2007, pp. 41-42). Si può cercare di andare più a fondo. Il fatto è che una solleci- tazione unilaterale della sfera pulsionale degli individui li spinge ad abolire la distanza tra l’impulso dell’attrazione e la sua realiz- zazione, impedendo al soggetto di identificarsi di fronte agli og- getti e portandolo piuttosto a proiettarsi ciecamente su di essi. Un meccanismo che viene esaltato dalla logica consumistica oggi im- perante. Lo evidenzia un noto esponente della psicoanalisi laca- niana, Massimo Recalcati, quando osserva che la cultura del con- sumismo «rigetta il limite, la mancanza, il desiderio (...). Il godi- mento deborda senza argine, senza freni, non si aggancia al desi- 14
derio, sospinge verso la consumazione dissipativa della vita». In- fatti, spiega l’autore utilizzando il linguaggio freudiano, «se non c’è distanza da questo godimento assoluto (....) non si dà possibi- lità alcuna che vi sia desiderio. È necessaria una perdita origina- ria, una differenziazione, un limite, una lontananza dalla Cosa materna perché vi sia desiderio». Così, le dinamiche largamente dominanti impediscono «di umanizzare il desiderio», favorendo una «pulsione che conduce la vita verso un godimento tanto illi- mitato quanto distruttivo», che perciò diventa «pulsione di mor- te» (Recalcati 2011, pp. 47 e 55). Non c’è bisogno di condividere le premesse teoriche di queste riflessioni per essere d’accordo sulla loro sostanza. Del resto, la caduta della tensione delle passioni nella nostra società è sotto i nostri occhi. Nel 44° Rapporto Censis, del 2010, troviamo, da que- sto punto di vista, una diagnosi spietata della situazione: «Sembra avvenire ogni giorno di più che il desiderio diventi esangue, sen- za forza, indebolito da una realtà socioeconomica che da un lato ha appagato la maggior parte delle psicologie individuali attra- verso una lunga cavalcata di soddisfazione dei desideri (...) e che dall’altro è basata sul primato dell’offerta che garantisce il godi- mento di oggetti e di relazioni mai desiderati, o almeno non ab- bastanza desiderati» (n. 13). Siamo davanti al paradosso di una cultura che ha posto in pri- mo piano la liberazione del desiderio, anzi dei desideri, e che al- la fine si ritrova a constatare il fallimento proprio della capacità di desiderare. Tutto ciò ha una ricaduta devastante sul modo di vivere la pro- pria complessità da parte del soggetto. La ricchezza delle poten- zialità dell’io scade in una caotica proliferazione di pulsioni su- perficiali. Le passioni non riescono neppure a mettere radici e a svilupparsi, e si riducono a banali preferenze consumistiche. Nul- la di grande, nulla di profondo.1 Si spiega così anche la crisi di quella che un tempo si chiama- va «vocazione». Spesso si denuncia la diminuzione di quelle al 1 Un ampio sviluppo del tema delle passioni e del loro ruolo nella vita mo- rale si trova nel mio Educare oggi alle virtù, Elledici, Torino (Leumann) 2011 (pri- ma ristampa 2012). 15
sacerdozio o alla vita religiosa. Ma le statistiche dicono che sono in crisi anche quelle al matrimonio. Il motivo è lo stesso: un indi- viduo che si considera una società per azioni a maggioranza va- riabile non può fare scelte irreversibili o comunque a lunga sca- denza. Così viene colpita al cuore proprio quella libertà che, agli occhi dell’individuo post-moderno, costituisce, insieme all’autenticità, il bene supremo. Una società dove «le persone (...) cercano sempre di mantenere aperte tutte le opzioni possibili», tanto da far definire questi nostri come «gli anni del possibile» (David Brooks, La gene- razione «self». Pochi vincoli, libertà e la porta sempre aperta, New York Times – la Repubblica, in «la Repubblica» del 29 novembre 2012, p. 35), assume come modello ispiratore delle esistenze individuali il gioco dello zapping, il cui esito è spesso, dopo aver trascorso la se- rata a vagare da un canale all’altro, senza essere capaci di decider- si per uno, di ritrovarsi alla fine a non aver visto nulla. In passato era la necessità monolitica dei destini che talora li spingeva alla disperazione. Oggi si registra l’estremo opposto. Nessuno meglio di Kierkegaard ha descritto, profeticamente, que- sta oscillazione: «Ora, se la possibilità va tant’oltre da rovesciare la necessità, l’io fugge via da se stesso nelle possibilità, senza aver più nulla di necessario a cui poter ritornare: questa è la dispera- zione della possibilità. Quest’io diventa una possibilità astratta, si dimena fino alla stanchezza nella possibilità, ma non si muove dal posto e non arriva in alcun posto (...). La possibilità sembra co- sì all’io sempre più grande, sempre più diventa possibile, perché niente diventa reale. Alla fine è come se tutto fosse possibile, ma è proprio questo il momento in cui l’abisso ha ingoiato l’io. In un momento qualcosa si presenta come possibile, poi si presenta una nuova possibilità e alla fine queste fantasmagorie si susseguono così rapidamente che tutto sembra possibile; e questo è l’ultimo momento in cui l’individuo tutto intero è diventato esso stesso un miraggio» (Kierkegaard 1965, pp. 243-244). Siamo davanti a uno snodo fondamentale dell’attuale crisi educativa: «Come vi può essere educazione – e dunque forma- zione – se l’imperativo che orienta il discorso sociale s’intona per- versamente come un “Perché no?”» che rende insensata ogni espe- rienza del limite? (...) Se tutto tende a sospingere verso l’apologia 16
cinica del consumo e dell’appagamento senza differimenti?» (Re- calcati 2011, p. 104). Educare oggi è possibile solo se si prende co- scienza del problema rappresentato da questo dissolversi del cen- tro interiore nel gioco illimitato delle pulsioni e nella fantasma- goria delle possibili esperienze. Educare all’unità interiore In questo contesto la risposta più urgente che l’educazione de- ve dare alla sfida della post-modernità consiste nell’aiutare i gio- vani a trovare la propria unità, passando attraverso la liberazione dei loro desideri (che non si riducono alle pulsioni!) e la riscoper- ta della loro capacità di fare delle scelte. Oggi molti genitori si preoccupano di dotare i figli di tutte le abilità e le opportunità che potranno aiutarli ad affermarsi pro- fessionalmente e socialmente: la conoscenza delle lingue, un fisi- co sportivo, una scuola e una facoltà universitaria qualificate. Ra- ramente badano alla cosa più importante, che ha a che fare non con ciò che il loro ragazzo o la loro ragazza possono «avere» e «fa- re», ma con ciò che devono cercare di «essere». Si spiega così lo strano paradosso di una gioventù assai più at- trezzata da tutti i punti di vista rispetto a quella di altre epoche, ma al tempo stesso immensamente più fragile e incapace di af- frontare la vita. Abbiamo visto che la perdita di unità interiore e la conse- guente paralisi del soggetto derivano da una specie di corto-cir- cuito tra la pulsione e il suo appagamento, per cui viene aggirata l’esperienza del limite che circoscrive l’identità dell’io e ne ali- menta la tensione vitale. Se è verissimo che «le emozioni dise- gnano il paesaggio della nostra vita spirituale e sociale» (Nus- sbaum 2004, p. 17), è altrettanto vero, però, che esse devono esse- re condotte «per mano» a trasformarsi da mere pulsioni in desi- deri umani. Altrimenti diventano una minaccia con cui al massi- mo si può stringere un «patto di non aggressione» come quello di cui parla Vasco Rossi in una sua canzone: «Ho fatto un patto sai con le mie emozioni./ Le lascio vivere e loro non mi fanno fuori» (Manifesto futurista della nuova umanità). Per andare oltre questo traguardo, già significativo, ma certo 17
non soddisfacente, esse devono passare dallo stato di schegge im- pazzite, proiettate, in un devastante moto centrifugo, verso la «consumazione dissipativa della vita» e una inconscia «pulsione di morte», per usare le parole di Recalcati, a quello di espressioni diverse dell’ identità profonda dell’io, che soltanto attraverso la loro varietà (talora anche conflittuale) può diventare pienamente se stesso. Ad accompagnare il giovane in questo percorso di unità attra- verso la molteplicità può essere solo «la parola del padre» (Recal- cati 2011, p. 69), che può ben essere anche quella del «maestro» e, in generale, dell’educatore. Si potrebbe identificare questa «paro- la» con quel logos che, nel suo significato originario, è molto di più che l’emissione di un suono e si identifica con la razionalità. L’umanizzazione delle pulsioni comporta, allora, la loro circola- rità con la ragione, non intesa come raziocinio, vale a dire come pura e semplice argomentazione logica, ma come sguardo intelli- gente che coglie il senso e la verità delle cose. Perciò correttamente il Profeta di Gibran ammonisce i suoi discepoli: «La ragione e la passione sono il timone e la vela di quel navigante che è l’anima vostra. Se il timone o la vela si spezzano, sbandati, andrete alla de- riva e resterete fermi in mezzo al mare» (Gibran 1983, p. 87). Già su questa linea si muoveva Aristotele, ripreso oggi con grande forza da una pensatrice americana contemporanea: «Una tipica emozione aristotelica è composta da un sentimento di pia- cere o dolore e da una particolare convinzione sul mondo (...). La convinzione è il fondamento del sentimento» (Nussbaum 1996, p. 687). Questo significa che, mentre le pulsioni sono immediate e non modificabili, i desideri e i sentimenti sono il frutto di un processo di maturazione che vede al tempo stesso protagoniste la sfera emotiva e quella razionale. È dunque possibile che i nostri senti- menti siano gradualmente modificati attraverso la riflessione con- sapevole. «Ciò significa che la nostra emotività può essere educata e, se vogliamo una società migliore, deve essere educata» (Galim- berti 2007, p. 44). Dove però è evidente che è vero anche il reci- proco: e cioè che la ragione può essere, a sua volta, influenzata ed educata dalle emozioni. Infatti, «la passione non è fuori o contro la ragione, ma dentro, la ragione è per sua natura (anche) passio- 18
nale» (Ventimiglia 2012, p. 10). È l’abisso che separa la razionali- tà delle intelligenze artificiali da quella umana. «Per reagire cor- rettamente ad un caso pratico (...) che ci stia davanti, è necessaria non soltanto la valutazione dell’intelletto, ma anche un’appro- priata risposta emozionale» (Nussbaum 1996, pp. 160-161). Nella nostra prospettiva, acquista un singolare significato il fatto che il termine logos possa significare, in greco, anche l’unio- ne di elementi diversi che, senza fondersi, si articolano tra di loro. Il pensare unifica. Unifica il mondo, perché non si riduce alla co- noscenza dei particolari, ma mira a collegarli scoprendo i loro se- greti rapporti, così da individuarne il senso complessivo. Soprat- tutto, però, unifica il soggetto, perché gli consente di andare oltre le singole, frammentarie reazioni emotive alle diverse situazioni e gli consente di guardarsi come centro unitario e responsabile delle sue diverse esperienze. È il prezzo che bisogna pagare per essere un «io». E, conseguentemente, per essere liberi. A questo deve mirare, perciò, l’educazione in famiglia, a scuo- la, nella Chiesa, se vuole seriamente fare i conti con la sfida della molteplicità. Per riconciliare unità e molteplicità dell’io, si tratta di riattivare il dialogo spesso atrofizzato tra sensibilità e intelligen- za, di liberare l’autenticità dalla pretesa di essere irresponsabile, la spontaneità umana (che include la riflessione e la convinzione) dallo spontaneismo animalesco, la pulsione dal facile appaga- mento che la rende incapace di misurarsi col limite e di diventa- re desiderio. Il lavoro dell’educatore, oggi, non può dunque prescindere dalla varietà delle esperienze dei giovani, con la loro carica emo- tiva, tanto meno deve mirare a un estrinseco «controllo» su di esse. Ciò che egli deve riuscire a trasmettere è, piuttosto, che le stesse esperienze ed emozioni perdono il loro significato senza una adeguata capacità di «raccoglimento» – nel senso letterale del termine – con cui l’io possa gradualmente unificarsi, attra- verso preziosi momenti di silenziosa e solitaria riflessione che bisogna imparare a conquistarsi nella frenetica corsa di ogni giorno. Ciò suppone, però, la scoperta del proprio centro interiore da parte dell’educatore. Questi «può non essere capace di destare, incontrare e riconoscere la persona dell’educando; e ciò probabil- 19
mente in ragione del fatto che lui stesso non si è destato a sé come presenza personale viva e interessante» (Bellingreri 2010, p. 76). Se si vuole sperare di vincere la sfida della frammentazione del- l’io, accompagnando i più giovani nell’arduo impegno di riunifi- carsi, bisogna cominciare dal prendersi cura innanzitutto del pro- prio.2 2 Sul ruolo decisivo dell’educatore e sulle condizioni per la sua rivalutazio- ne cf G. SAVAGNONE - A. BRIGUGLIA, Il coraggio di educare. Costruire il dialogo edu- cativo con le nuove generazioni, Elledici, Torino (Leumann) 2009 (terza ristampa 2010). 20
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