Due ondate di globalizzazione: somiglianze superficiali, differenze fondamentali
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Due ondate di globalizzazione: somiglianze superficiali, differenze fondamentali* di Richard E. Baldwin e Philippe Martin 1. Introduzione La globalizzazione sta creando un “nuovo mondo coraggioso”, secondo il titolo del best-seller di William Greider “One World, Ready or Not”. Pagina dopo pagina questo libro rivela le novità sorprendenti della nuova era, ma il primo capitolo esemplifica al meglio il tono e la prospettiva del volume: «La logica del commercio e del capitale ha sopraffatto l’inerzia della politica e ha iniziato un’epoca di grandi trasformazioni sociali; infatti, commercio e finanza internazionale hanno superato ogni ordine e consapevolezza esistente di popoli e società». Questa è chiaramente una esagerazione. Il mondo ha visto due ondate di globalizzazione negli ultimi 150 anni e, per alcuni aspetti, il mondo del 1914 era integrato più strettamente di quanto non sia quello odierno. Nel 1919 Keynes scriveva infatti: «Che straordinaria stagione nel progresso dell’uomo fu quella che terminò bruscamente nell’agosto del 1914! (…) L’abitante di Londra poteva ordinare per telefono, mentre sorseggiava il suo tè del mattino a letto, una quantità di prodotti provenienti dall’intero globo e nello stesso modo poteva investire la sua ricchezza nelle risorse naturali e nelle nuove imprese di ogni angolo del globo (…) poteva inoltre utilizzare mezzi di trasporto rapidi e a buon mercato per recarsi in ogni nazione e clima senza bisogno di passaporto o di altre formalità.» (Keynes, 1919, p.6, citato in Sachs e Warner, 1995). La globalizzazione dunque, a differenza di quanto sostengono alcuni, non appare come un fenomeno completamente nuovo. Effettivamente, molti studi recenti sulla globalizzazione sono tanto poco originali quanto i fatti che esaminano, dato che le loro analisi riecheggiano quelle condotte negli anni * Questo saggio si basa su una traduzione parziale del saggio “Two Waves of Globalisation: Superficial Similarities, Fundamental Differences” e sulla relazione tenuta da R. E. Baldwin alla XXI Conferenza AISRe di Palermo. La redazione del presente testo è stata curata da Mario A. Maggioni. 1
Sessanta sotto il titolo di “analisi del processo di interdipendenza e internazionalizzazione”1. Tuttavia, l’affermazione che non ci sia nulla di nuovo è altrettanto sbagliata quanto quella che sostiene che il processo di globalizzazione sia senza precedenti. La prima ondata di globalizzazione (dal 1870 al 1914) e la seconda (dal 1960 fino ad ora) sono infatti superficialmente simili ma tuttavia differiscono per alcuni aspetti molto importanti. Questo lavoro raccoglie alcune evidenze empiriche sulle due ondate concentrandosi in particolare su due2 aspetti chiave del processo di globalizzazione: 1) industrializzazione e convergenza/divergenza del reddito; 2) commercio internazionale, investimenti, migrazioni e prezzo dei fattori. La conclusione principale che deriviamo da questo esercizio è che le due ondate di globalizzazione, pur avendo molte somiglianze superficiali, sono fondamentalmente due fenomeni diversi. Le somiglianze principali riguardano l’aumento del rapporto commercio internazionale/PIL e flussi di capitale/PIL. Questi due rapporti registrano oggi un livello simile a quello che avevano già raggiunto alla fine del XIX secolo. Inoltre, entrambe le ondate di globalizzazione furono generate da forti riduzioni delle barriere “sia tecnologiche che politiche” alle transazioni internazionali3. Ad un livello molto alto di astrazione, e facendo un po’ di violenza sulla realtà, noi crediamo che una differenza fondamentale consista nell’impatto che queste riduzioni hanno avuto sul commercio di beni rispetto al commercio di idee. Mentre entrambe le ondate videro riduzioni di entrambi i costi, l’ondata più recente è determinata pesantemente dalla drammatica riduzione nei costi di comunicazione, talvolta definita anche come “morte della distanza”. Una seconda differenza fondamentale riguarda le condizioni iniziali. All’inizio della prima ondata il mondo era equamente ed omogeneamente povero ed agrario. All’inizio della seconda ondata, il mondo era diviso radicalmente in due gruppi: nazioni industriali ricche e paesi poveri produttori di materie prime. 1 Si veda Cooper (1968) e Lindbeck (1973, 1975 e 1978); un tema importante di questa letteratura è la gestione dei cambi fissi in presenza di una crescita del commercio internazionale e della mobilità dei capitali. Da notare che Cooper negli anni Sessanta così come Greider negli anni Novanta sostennero che l’internazionalizzazione superò le capacità di tenuta del sistema. Inoltre Cooper (1968, p. 273), così come Rodrick (1996, p. 63 e 1997, p. 78) e Goldsmith (1994), raccomanda il protezionismo come estremo rimedio, in alcuni casi. 2 Per ragioni di spazio e di coerenza tematica, la sezione dedicata all’analisi dei flussi e dei mercati dei capitali, presente nel paper originale, è stata omessa. 3 Le ondate furono separate da periodi caratterizzati dalla ricostruzione di barriere protezionistiche al commercio internazionale e dall’imposizione di vincoli e controlli sui movimenti di capitale e sull’ emigrazione. 2
2. Industrializzazione e diseguaglianze di reddito 2.1 Industrializzazione e de-industrializzazione 2.1.1 La Rivoluzione industriale L’ondata di globalizzazione della fine del XX secolo ebbe inizio quando la divergenza di reddito Nord-Sud era molto grande e de-industrializzò il Nord mentre industrializzò il Sud (o almeno una buona parte di esso). L’ondata di globalizzazione della fine del XIX secolo industrializzò il Nord, de- industrializzò il Sud, e produsse un’enorme divergenza di reddito tra gruppi di nazioni che inizialmente non erano molto dissimili. Questa sezione documenta questi fatti, analizzando dapprima la Rivoluzione industriale (che guidò la prima ondata della globalizzazione), studiando poi la de-industrializzazione del Terzo Mondo e soffermandosi infine sul problema della convergenza/divergenza del reddito. Il paragrafo si conclude con un accenno ad una struttura analitica che suggerisce una possibile spiegazione di questi curiosi contrasti empirici. La conseguenza della Rivoluzione industriale fu rivoluzionaria ma il processo fu evolutivo. Quella che cominciò in Gran Bretagna fu una sequenza di cento anni di cambiamenti incrementali di tipo organizzativo, sociale ed istituzionale. Questi cambiamenti gradualmente si amalgamarono in una grandiosa trasformazione dell’intera economia britannica. La data iniziale di questo processo può essere fissata nel decennio intorno al 1720 ma raggiunse la massima velocità mentre il XVIII secolo stava per finire ed il XIX secolo stava per iniziare. Fissare un anno preciso per la Rivoluzione industriale è fuorviante; l’accelerazione della crescita fu il frutto di molte piccole trasformazioni, non il risultato di una politica economica decisa o di un singolo cambiamento tecnologico. Ciò nonostante il 1776 sembra essere una buona data di demarcazione dato che Crafts (1995) trova un cambiamento strutturale nella crescita della produzione industriale britannica in quell’anno che, convenientemente, coincide anche con la data di pubblicazione de “La Ricchezza delle Nazioni” di Adam Smith. I settori tessile e siderurgico ebbero ruoli decisivi nella Rivoluzione industriale, con invenzioni fondamentali nel tessile che vennero introdotte nel periodo 1730-1780. Gli anni successivi al 1780 videro anche avanzamenti notevoli nella tecnologia della macchina a vapore. Avanzamenti importanti nella siderurgia divennero molto estesi nel periodo 1760-1780. Tra il 1770 ed il 1840, vi furono anche progressi significativi nell’industria britannica delle macchine utensili, che migliorarono di molto la precisione e abbassarono il 3
costo di trasformazione del ferro in beni strumentali come macchine a vapore, binari e telai. Il miglioramento del sistema di trasporti fu importante per la Rivoluzione industriale. Miglioramenti memorabili nelle reti di trasporto fluviale e stradale apparvero negli ultimi decenni del XVIII secolo. Questi espansero il mercato interno per i beni manufatti ed abbassarono il costo di reperimento delle materie prime. Per esempio, il viaggio Londra-Birmingham, che durava due giorni nel 1740, sarebbe durato “solamente” diciannove ore negli anni successivi al 1780. Gli avanzamenti chiave nei mezzi di trasporto generarono la prima ondata di globalizzazione intorno al 1820. Le innovazioni più importanti furono l’espansione rapida delle reti ferroviarie nel periodo 1820-1860, e l’uso esteso di navi a vapore sia sulla rete fluviale interna che nei percorsi oceanici nel periodo 1840-1880, secondo quanto riportato da Hugill (1993). Le ferrovie rinnovarono radicalmente il trasporto via terra esponendo al commercio mondiale numerose aree geografiche, prima isolate (le prime forme di trasporto via terra erano così costose da essere economiche soltanto per beni con un rapporto valore/peso molto elevato). Allo stesso modo, l’uso del piroscafo rinnovò radicalmente il viaggio trans-oceanico. Sul finire degli anni Trenta del XIX secolo, una nave a vela di prima classe impiegava 48 giorni per giungere a New York da Liverpool e 36 giorni per ritornarvi. Dieci anni più tardi, i piroscafi avevano ridotto il viaggio normale a 14 giorni in entrambe le direzioni. Gli anni Settanta del XIX secolo videro ulteriori miglioramenti della navigazione con l’intro-duzione di scafi in acciaio che erano più leggeri, più resistenti e richiedevano meno combustibile. Infine, l’intero processo fu supportato dal rapido sviluppo del settore dell’intermediazione finanziaria (concentrata a Londra) durante l’ultima metà del XVIII secolo. Questi cambiamenti trasformarono radicalmente l’economia britannica. La quota della forza lavoro occupata nel manifatturiero crebbe dal 19% (1700) al 24% (1760) e successivamente al 30% (1800) e al 47% (1840), per raggiungere un massimo del 49% nel 1870 (Crafts, 1989, p. 417). L’Inghilterra si trasformò da una società prevalentemente rurale ad una urbana, con circa due terzi della popolazione residente in aree urbane. Anche se la crescita della produttività totale dei fattori non fu straordinaria, secondo Nick Crafts, la produttività del lavoro crebbe rapidamente in alcuni settori. Dal 1830 al 1860, la produzione oraria crebbe del 270% nella filature e del 708% nella tessitura del cotone (Crafts, 1989, p. 426). Durante lo stesso periodo, la Gran Bretagna divenne un paese grande importatore di beni alimentari e grande esportatore di beni industriali. 4
Gli effetti della Rivoluzione industriale in termini di tassi di crescita sembrano modesti rispetto ai tassi a due cifre che possono essere osservati oggi in paesi che attraversano un periodo di rapida industrializzazione. Il tasso di crescita del reddito pro-capite crebbe dalla cifra vicina allo zero della prima metà del XVIII secolo a qualcosa meno del 2-3% all’anno negli anni centrali del XIX secolo. Nondimeno queste basse percentuali erano rivoluzionarie per l’epoca. La crescita continua aprì la porta a miglioramenti stabili nelle condizioni di benessere materiali dell’umanità. In misura ancor più rilevante, l’industrializza- zione alterò il carattere fondamentale dei rapporti internazionali. Dall’inizio della storia fino alla Rivoluzione industriale, il reddito fu derivato principalmente dalla terra. La ricchezza basata sulla terra è un gioco a somma zero. Perciò, violenti conflitti territoriali erano inevitabili. La ricchezza basata sull’industria, è invece un gioco a somma positiva, nonostante il fatto che le nozioni mercantiliste e marxiste sulla concorrenza di mercato abbiano offuscato questo messaggio per oltre un secolo. Furono necessarie due guerre mondiali per insegnare la lezione ma il concetto che “più territorio uguale più potere” è stato fermamente demandato alla storia intellettuale, almeno nelle nazioni industrializzate. 2.1.2 La diffusione e la penetrazione dell’industrializzazione La Rivoluzione francese (1789) e le Guerre Napoleoniche (1805-1815) dominarono gli eventi sul continente europeo durante il ventennio a cavallo della fine del XVIII secolo. Questi due eventi rimandarono anche l’espansione dell’industrializzazione a causa della «distruzione di capitale e perdite di manodopera; dell’instabilità politica e di una diffusa ansia sociale; della decimazione dei gruppi imprenditoriali più ricchi, della presenza di ogni tipo di interruzione al commercio; di inflazioni violente e di crisi valutarie» (trad. da Landes 1969, p. 142). Il Belgio fu il primo a seguire la Gran Bretagna nella nuova era, sviluppandosi rapidamente tra il 1820 ed il 1870. Francia, Svizzera, Prussia e Stati Uniti seguirono negli anni 1830 e 1840. L’industrializzazione si estese fino alla Russia, all’Impero Austro-ungarico, all’Italia, alla Svezia, al Canada e a gran parte dell’Europa prima della fine del 1800. Rostow (1960), coraggiosamente, e controversamente, osa fissare alcune date per i “decolli” dei vari paesi (Tab. 1). Verso la seconda metà del XIX secolo, nuove industrie e nuovi metodi di produzione cominciarono ad emergere. In questo modo si originò quella che fu poi definita la seconda rivoluzione industriale. In settori come il siderurgico, il 5
chimico, le macchine elettriche ed i mezzi di trasporto, la Germania e gli Stati Uniti scavalcarono il Regno Unito. Tab. 1 – Periodi dei “decolli” secondo Rostow Periodi dei decolli Regno Unito 1783-1802 Francia 1830-60 Belgio 1833-60 Stati Uniti 1843-60 Germania 1850-73 Svezia 1868-90 Giappone 1878-1900 Russia 1890-1914 Canada 1896-1914 Fonte: Rostow (1960) Il costo del trasporto via mare e via terra continuò a precipitare con ulteriori avanzamenti nelle costruzioni navali e nelle ferrovie. Entro il 1860 la maggior parte delle grandi città era connessa dalla rete telegrafica. Il primo cavo telegrafico transatlantico (1866) ed il susseguente cablaggio di tutti gli oceani rinnovò radicalmente le comunicazioni, abbassando il tempo della comunicazione intercontinentale da alcune settimane a pochi minuti. Comunicazioni più veloci e più affidabili spronarono commercio ed investimenti. Tali mutamenti furono anche fondamentali per lo sviluppo delle imprese multinazionali (Dunning 1983). 2.1.3 La de-industrializazione del Terzo Mondo nel XIX secolo È spesso dimenticato che le ricchezze dell’Oriente comprendevano molto più delle spezie. «Prima del XIX secolo, e forse non molto prima, alcuni paesi attualmente sottosviluppati, come la Cina ed alcuni parti dell’India, erano ritenuti dagli europei estremamente più sviluppati dell’Europa» (trad. da Kuznets 1965, p. 20). Braudel (1984) e Chaudhuri (1966) mostrano che, 6
durante il XVIII secolo, l’industria tessile cotoniera indiana era leader globale in termini di qualità, produzione ed esportazioni. L’India e la Cina del XVIII secolo producevano anche la seta e la porcellana di qualità più elevata del mondo. Prima del XVIII secolo, questi beni manufatti venivano esportati in Europa in cambio di argento perché i prodotti europei non erano considerati all’altezza del mercato orientale (Barraclough, 1978). Appare evidente, dunque, che le civiltà che hanno inventato la polvere da sparo, la carta e gli strumenti di navigazione oceanici non erano, sotto nessun punto di vista, società primitive che aspettavano l’Europa per potersi sviluppare. Alla fine del XIX secolo, invece, più del 70% del consumo tessile indiano viene importato (principalmente dalla Gran Bretagna) mentre l’India era diventata, invece, un paese esportatore netto di cotone (Braudel, 1984). Una storia simile, anche se meno drammatica, può essere raccontata per il settore della cantieristica navale e della siderurgia indiana. Altri casi simili possono essere ritrovati in tutta l’America Latina ed il Medio Oriente (Batou, 1990). Alcuni autori, come Bairoch (1993), Braudel (1984) e Bairoch e Kozul- Wright (1996) mostrano che l’industrializzazione settentrionale causò la de- industrializzazione meridionale e questo amplificò la divergenza di reddito. «Sembrano esserci pochi dubbi circa il fatto che la deindustrializzazione del Sud è stata il risultato di un afflusso massiccio di importazioni manifatturiere europee. Questo fu particolarmente vero nei settore tessile e abbigliamento, dove il libero scambio internazionale espose gli artigiani ed i piccoli produttori locali al forte vento competitivo e distruttivo dei produttori settentrionali che possedevano una più elevata intensità di capitale e produttività» (trad. da Kozul-Wright e Bairoch, 1996, p. 16). La tab. 2 mostra l’evoluzione dei livelli di industrializzazione e deindu- strializzazione pro-capite. Si noti che tutte le nazioni ed aree sovranazionali hanno livelli iniziali molto simili. Nel 1750, tutte le nazioni europee possedevano un livello di industrializzazione compreso tra 6 ed 10 (fatto pari a 100 il livello del Regno Unito nel 1900); tutte le nazioni non-europee registravano un livello di industrializzazione compreso tra 7 e 8, fatta eccezione per gli Stati Uniti, che registravano soltanto 4. Cina e India, le principali nazioni del Terzo Mondo, seguono percorsi molto simili con una riduzione da un livello di 8 ad uno di circa 3. In tab. 2 è anche facile seguire la spettacolare performance del Regno Unito e la successiva “rincorsa” degli Stati Uniti. L’industrializzazione del Giappone segue invece l’andamento della media mondiale. Chiaramente, l’uguaglianza iniziale del livello di industrializzazione pro- capite unito alla ridotta popolazione dell’Europa significa che l’“industria” del Terzo Mondo dominò la produzione mondiale nel XVIII secolo (Bairoch, 1982, Tavola 10). Nel 1750 il Terzo Mondo deteneva il 73% della produzione 7
manifatturiera mondiale e continuò a detenere una percentuale superiore al 50% fino al 1830. Entro il 1913, tuttavia, la quota del Terzo Mondo era crollata ad un mero 7,5%. Tab. 2 – Livelli di industrializzazione pro-capite (1759 – 1813) (valore del Regno Unito nel 1900 = 100) 1750 1800 1830 1860 1880 1900 1913 Paesi industrializzati 8 8 11 16 24 35 55 Europa 8 8 11 17 23 33 45 Europa 7 8 9 14 21 36 57 (senza il Regno Unito) Austria-Ungheria 7 7 8 11 15 23 32 Belgio 9 10 14 28 43 56 88 Francia 9 9 12 20 28 39 59 Germania 8 8 9 15 25 52 85 Italia 8 8 8 10 12 17 26 Russia 6 6 7 8 10 15 20 Spagna 7 7 8 11 14 19 22 Svezia 7 8 9 15 24 41 67 Svizzera 7 10 16 26 39 67 87 Regno Unito 10 16 25 64 87 100 115 Paesi extraeuropei 7 7 11 17 33 63 116 Canada 5 6 7 10 24 46 Stati Uniti 4 9 14 21 38 69 126 Giappone 7 7 8 7 9 12 20 Paesi del Terzo Mondo 7 6 6 4 3 2 2 Cina 8 6 6 4 4 3 3 India-Pakistan 7 6 6 3 2 1 2 Brasile 4 4 5 7 Messico 5 4 5 7 Media mondiale 7 6 7 7 9 14 21 Fonte: Table 9, Bairoch (1982). Questa deindustrializzazione dell’era coloniale aiuta a spiegare perché molti paesi del Terzo Mondo sono stati molto diffidenti riguardo al libero commercio internazionale fino ad un periodo recente. 8
2.1.4 L’industrializzazione/deindustrializzazione del XX secolo Mentre la crescita del reddito dei precursori nella prima ondata di globalizzazione fu chiaramente basata sull’industrializzazione, l’opposto sembra invece succedere per la seconda ondata. Effettivamente, se si esclude una manciata di nazioni di recente industrializzazione (NICs), la convergenza fra i paesi ad alto reddito è stata accompagnata da una marcata de- industrializzazione. La tab. 3 presenta, su questo tema, alcuni dati. Come si può notare, la quota di forza lavoro occupata nell’industria si è ridotta per la maggior parte delle nazioni OCSE tra il 1950 ed il 1990. Infatti, il tasso annuo di de-industrializzazione si è accresciuto bruscamente mentre la globalizzazione è aumentata negli anni Ottanta. Tab. 3 – Quota di occupazione nel settore industriale (Nazioni OCSE, 1950 -1990 % di forza lavoro 1950 1980 1990 Australia 36 32 26 Stati Uniti 36 31 28 Canada 33 33 25 Austria 35 41 37 Belgio 47 35 28 Danimarca 33 31 28 Finlandia 28 35 31 Francia 35 35 29 Germania 43 45 38 Italia 29 38 32 Olanda 40 31 26 Norvegia 33 29 25 Svezia 41 32 n.d. Svizzera 46 39 35 Regno Unito 47 38 29 Giappone 23 35 34 Fonte: Maddison (1989), Tabella C-10; World Bank (1997). 2.2 Divergenza del reddito mondiale nella prima e nella seconda ondata 9
2.2.1 La globalizzazione del XX secolo Nel contesto dell’intera storia dell’umanità, l’attuale vasta disparità di reddito tra Paesi ricchi e poveri è un fenomeno abbastanza recente. Fino alla Rivoluzione industriale, il mondo intero era povero e la logica di Malthus lo tenne in quello stato. Le globalizzazioni dei secoli XIX e XX produssero divergenza di reddito a livello del mondo intero così come convergenza fra un piccolo gruppo di nazioni ricche. In altre parole, l’andamento “twin peaks” della convergenza che molto è stato discusso negli anni recenti (si veda Quah, 1996), si verificò anche durante la prima ondata di globalizzazione. La letteratura sulla convergenza di club e sugli andamenti “twin peaks”, è talmente sviluppata e nota che noi possiamo solo riprendere alcuni fatti di base ed offrire alcune referenze bibliografiche. Secondo Jones (1997) e Pritchett (1997), il livello del reddito delle nazioni capitaliste ed avanzate converge sostanzialmente verso quello degli Stati Uniti mentre il reddito degli Stati Uniti avanza ad un tasso annuo di circa il 2%. Inoltre, il reddito di alcuni paesi di nuova industrializzazione (NIC) è cresciuto ad un ritmo veramente straordinario, permettendo loro di raggiungere le nazioni più ricche del mondo. Al contrario, il reddito di molte nazioni africane, latino-americane e asiatiche - tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta - è cresciuto ad un tasso molto più basso di quello degli Stati Uniti. Fig. 1 – Distribuzione dei Paesi secondo il PIL per occupato Densità di paesi 1960 1993 0.01 0.04 0.16 0.64 1 PIL per occupato in rapporto agli Stati Uniti (Scala logaritmica) La fig. 1 illustra questa storia di convergenza e divergenza. La distribuzione approssimativamente campanulare del 1960 diventa una distribuzione bimodale (“twin peaks”), con le nazioni ricche che diventano più ricche (relativamente 10
agli Stati Uniti) e le nazioni povere che diventano più povere (sempre rela- tivamente agli Stati Uniti). Jones (1997) mostra che le cose sembrano leggermente più rosee quando i redditi nazionali vengono ponderati per la popolazione (principalmente perché India e Cina sono cresciute più velocemente degli Stati Uniti). 2.2.2 La globalizzazione del XIX secolo L’insufficienza di dati rende più difficile documentare i cambiamenti nella distribuzione del reddito mondiale durante la prima ondata di globalizzazione. Ciononostante, molti autori - Braudel, Kuznets, Baumol, Pritchett e Maddison fra gli altri - sostengono che una grande divergenza di reddito Nord-Sud è apparsa con la prima Rivoluzione industriale. La tab. 4, sulla base dei dati sul reddito pro-capite, presenta alcune informazioni sull’allargamento della distribuzione del reddito in Europa durante la prima ondata di globalizzazione. Le prime due colonne mostrano, per ogni nazione, il reddito pro-capite a confronto con quello della Gran Bretagna, rispettivamente nel 1860 e 1910. Poco meno della metà dei paesi ridusse le distanze con il Regno Unito. Per alcune nazioni - Canada, Germania, Belgio, Danimarca, Francia, Svezia, Svizzera, e Argentina - questa ondata marcò una fase di rincorsa veramente straordinaria e addirittura gli Stati Uniti superarono la propria precedente dominatrice coloniale. Ma undici delle venti nazioni europee, nel campione di Bairoch, e tutte le nazioni asiatiche, nel campione di Maddison, persero terreno. Per alcuni paesi, come il Portogallo, la caduta fu drammatica. Le ultime due colonne mostrano calcoli simili effettuati utilizzando i dati di Maddison (1995). Se la tab. 4 venisse rappresentata graficamente si potrebbe notare che la distribuzione del reddito nel 1910 è qualcosa di simile ad una espansione che preserva la media della distribuzione del 1850. Lo spostamento verso sinistra dei paesi con redditi più bassi è particolarmente marcato. I dati di Maddison producono conclusioni simili4. In breve, le due ondate di globalizzazione diedero luogo, nello stesso momento, ad una divergenza di reddito complessiva con una convergenza tra paesi più ricchi. Le forze della storia aiutano a plasmare questi sviluppi dei redditi pro- capite, e noi ora accenneremo ad una semplice struttura analitica che permette lo studio di queste forze. Tuttavia, è importante riconoscere che questi cambiamenti furono anche pesantemente influenzati dalle scelte dei policymakers. 4 Il declino relativo della Russia e delle nazioni popolose dell’Asia, insieme con la rincorsa di Stati Uniti, Germania, Benelux e delle nazioni scandinave, assicura un andamento bi-modale. 11
Tab. 4 – Convergenza/divergenza del reddito (1850-1910) - numeri indice del PIL pro- capite, Regno Unito = 100 Dati di Bairoch Dati di Maddison 1860 1910 1850 1913 Danimarca 56 78 Canada 54 84 Germania 61 77 Stati Uniti 77 105 Svizzera 72 85 Argentina (b) 56 75 Svezia 52 64 Irlanda (b) 40 54 Belgio 70 80 Germania 62 76 Finlandia 43 47 Finlandia (a) 32 41 Francia 66 69 Svezia 55 62 Olanda 71 72 Belgio 77 82 Regno Unito 100 100 Italia (a) 46 50 Norvegia 57 56 Danimarca 72 75 Romania 37 35 Messico 28 29 Russia 35 31 Regno Unito 100 100 Italia 49 44 Norvegia 46 45 Austro-Ungheria 51 46 Austria 70 69 Bulgaria 37 31 Olanda 80 78 Grecia 41 35 Francia 71 69 Spagna 49 41 Russia (a) 32 30 Serbia 39 29 Giappone (a) 30 27 Portogallo 50 33 Cecoslovacchia 45 42 Spagna 49 45 Pakistan (a) 22 14 Svizzera 92 84 Cina (a) 22 14 Indonesia 28 18 India 23 13 Bangladesh (a) 22 12 Ungheria (b) 54 42 Brasile 30 17 Thailandia (b) 30 17 Portogallo 47 27 Australia 130 109 12
Nota: (a) dato del 1820; (b) dato del 1870 Fonte: Maddison (1995), Tabella C16 e D1, Bairoch (1989), Tabelle 1 e 4. 2.2.3 Una formulazione analitica Le evidenze empiriche sulla convergenza/divergenza e quelle sull’industria- lizzazione/deindustrializzazione sono di interpretazione difficile5. Riassumendo, si è visto in precedenza che la prima ondata di globalizzazione industrializzò il Nord e de-industrializzò il Sud. Questo, a sua volta, generò una vasta divergenza di reddito tra gruppi di paesi che, inizialmente, non erano molto distanti. La seconda ondata cominciò da una differenza di reddito molto grande e de-industrializzò il Nord mentre industrializzò il Sud (o almeno una buona parte di esso). Perché mai dunque la globalizzazione dovrebbe prima aumentare e poi ridurre le differenze di reddito? E perché mai questa convergenza “ad U” dovrebbe essere associata con le de-industrializzazione delle nazioni ricche? Sembrerebbe che le intuizioni della teoria della crescita endogena di Romer e quelle della nuova geografia economica di Krugman possano fornire un rigoroso, anche se estremamente astratto, contesto per organizzare le nostre riflessioni circa le spiegazioni economiche di questi eventi6. La struttura è quella di un modello di “stadi di crescita” con quattro fasi e due regioni (Nord e Sud) che sono inizialmente identiche. Nel primo stadio, quello della pre-globalizzazione, i costi di trasporto sono alti. C’è poco commercio internazionale e l’industria è primitiva, poco diffusa e stagnante. A causa degli alti costi di trasporto, l’industria è dispersa tra il Nord e il Sud. Questa stessa dispersione geografica contribuisce alla stagnazione industriale nel modo seguente. La dispersione impedisce le interazioni fra imprenditori. Ciò ostacola la diffusione dell’innovazione che potrebbe sorgere dal cambiamento tecnologico generato in un luogo o in un altro. La riduzione degli spillover ostacola l’innovazione e il progresso tecnologico ed, in questo modo, la crescita dell’economia mondiale viene ritardata. 5 I primi contributi accademici su questo argomento, come quello di Barro e Sala-i-Martin (1995) suggerivano che la convergenza del reddito fosse dimostrazione delle validità dei modelli neo-classici di crescita e la divergenza dei modelli di crescita endogena. La nitidezza di questa predizione è diventata molto più sfumata più recentemente con esempi di modelli di nuova teoria della crescita che producono convergenza (Leung e Quah, 1996) e di modelli neo-classici che producono divergenza (Baldwin, 1998). Questa letteratura, tuttavia, è di poca utilità nello spiegare l’inversione della convergenza che si osserva nei dati storici. 6 Si veda Baldwin, Martin e Ottaviano (1997) per una rigorosa presentazione analitica. 13
Nel secondo stadio, quando i costi di trasporto sono sufficientemente diminuiti, le forze agglomerative (del tipo accennato in Krugman, 1991) rendono la distribuzione equanime dell’industria un equilibrio instabile. In questo mondo estremamente stilizzato, le regioni sono inizialmente identiche, così sono le circostanze a determinare la regione che si sviluppa. Qualsiasi regione (ad esempio il Nord) che abbia un vantaggio pur piccolo, viene a trovarsi in un circolo virtuoso. Il reddito più elevato produce un più vasto mercato locale nel Nord e questo a sua volta attira relativamente più investimento al Nord. Chiaramente, i tassi di investimento più elevati conducono ad una crescente divergenza nelle dimensioni del mercato ed il ciclo ricomincia. La spirale è anche favorita dalla natura localizzata degli spillovers tecnologici. In altre parole, l’industria e gli innovatori settentrionali beneficiano proporzionalmente più di quelli del Sud della crescente industrializzazione del Nord. Mentre il Nord sperimenta questa stilizzata Rivoluzione industriale, l’industria meridionale scompare rapidamente di fronte alla concorrenza delle esportazioni settentrionali. In un processo che si autosostiene, il Nord si specializza nei beni manufatti ed il Sud in beni primari. In breve, la prima ondata di globalizzazione, che è provocata da costi più bassi di trasporto dei beni, genera un processo di netta specializzazione che nello stesso tempo promuove ed è promosso dal crescente commercio internazionale. La divergenza di reddito Nord-Sud, l’industrializzazione settentrionale e la de-industrializzazione del Sud appaiono tutti come risultati spontanei del modello. Durante questa prima ondata di globalizzazione (secondo stadio del modello), il costo del commercio internazionale di beni cala più velocemente del costo del commercio di idee e di innovazioni. Dal 1910 a tutti gli anni ’60 la struttura Nord-ricco / Sud-povero rimase immutata. Durante questo stadio, che riflette alcuni importanti elementi della seconda ondata di globalizzazione, il costo di trasporto di beni raggiunse lentamente il limite naturale più basso possibile, mentre il costo di scambio delle idee continuò a crollare a causa del calo nel costo delle telecomunicazioni. Questo fatto stilizzato, che chiaramente è mostrato nella sezione 3.2.2, introduce il quarto stadio in cui si assistette al decollo di una serie di nazioni in via di sviluppo. Quando il costo di “trasporto delle idee” si riduce sufficientemente, la configurazione alla “centro-periferia” diviene instabile, questa volta a causa delle forze centrifughe alla Krugman. Innovatori e industriali meridionali che ora hanno accesso facile alla tecnologia del Nord e costo del lavoro ridotto, cominciano a ridurre la divergenza del reddito. Quando gli investimenti industriali crescono nel Sud, cresce anche il reddito, stimolando l’investimento locale, l’industrializzazione meridionale e l’ulteriore crescita del reddito. Ora sono i paesi meridionali a porsi sulla spirale virtuosa crescita- 14
industrializzazione-crescita. L’industria settentrionale soffre a causa della nuova concorrenza. Il Nord sperimenta la de-industrializzazione e tende a specializzarsi maggiormente nei servizi. In quest’ultimo stadio, le due regioni convergono verso livelli di reddito e di industrializzazione simili. A prima vista, questa struttura analitica sembra sostenere le tesi strutturaliste del “commercio internazionale come creatore di diseguaglianze”. In questo mondo astratto, la grande divergenza tra paesi ricchi e poveri è invece un’implicazione necessaria della Rivoluzione industriale dell’Europa e l’espansione del commercio internazionale è la causa di entrambe le dinamiche. Il modello si differenzia dalle posizioni strutturaliste su un punto chiave. Mentre la globalizzazione genera dapprima la divergenza massiccia di redditi reali, esso diviene poi la forza trainante dell’industrializzazione e dello sviluppo del Sud, generando la convergenza del reddito. 3. Commercio internazionale, investimenti esteri, migrazione e prezzi dei fattori 3.1 Premessa Fino alle recenti crisi finanziarie asiatiche, la crescita rapida del commercio internazionale e degli investimenti esteri era il sintomo di globalizzazione più citato e temuto. In molti ambienti (specialmente negli Stati Uniti) vi è ancora la convinzione che il livello attuale di apertura internazionale sia senza precedenti e che questa apertura conduca i policy-makers in acque sconosciute. È facile capire questo atteggiamento: il commercio estero degli Stati Uniti incideva meno del 5% del PIL nel 1960 ed ora tale livello è più che raddoppiato. La crescita del rapporto commercio/PIL per la media OCSE è di circa il 50%, ma anche questo dato è molto rilevante. Per gli esperti, la convinzione popolare che questa ondata di globalizzazione sia senza precedenti ed abbia cambiato completamente la scena internazionale è del tutto sbagliata, o quantomeno esagerata. Come sostiene Krugman (1995, p.327) «l’economia americana odierna non è, e non potrà mai essere, dipendente dalle esportazioni come lo era quella della Gran Bretagna durante il regno della Regina Victoria». La citazione storica di Krugman è corretta ma non dice tutto. In termini di flussi commerciali, la prima e la seconda ondata di globalizzazione sono superficialmente simili ma fondamentalmente diverse. Questa sezione confronta le due ondate in termini di commercio internazionale, investimenti diretti all’estero, migrazioni e movimenti dei prezzi dei fattori di produzione. 15
3.2 Commercio internazionale 3.2.1 Evoluzione Il commercio internazionale su larga scala nacque nel XIX secolo. Tra la sconfitta di Napoleone e la prima guerra mondiale, il commercio europeo era cresciuto di quasi quaranta volte, mentre nei cento anni precedenti era solamente raddoppiato (Bairoch, 1989). Dalla fine del XIX secolo, un complesso ma sbilanciato sistema di commercio internazionale aveva preso forma. Harley lo descrive in questi termini. «Gli Stati Uniti esportavano in misura considerevole verso l’Europa ed importavano, dalle economie meno sviluppate della periferia, materie prime tropicali, come iuta, zucchero e caffè. Le nazioni europee continentali, considerate come gruppo, equilibravano le importazioni di generi alimentari dei climi temperati e tropicali e di materie prime esportando beni manufatti verso la Gran Bretagna. La Gran Bretagna, a sua volta, ricavava dei surplus vendendo beni manufatti alla periferia, gestendo servizi finanziari e di trasporto navale, e promuovendo vasti investimenti esteri» (Harley, 1996, p.xii). Il Regno Unito esportava beni manufatti agli Stati Uniti ed all’Europa continentale, ma questi beni erano diversi dai beni industriali che la stessa nazione importava da quelle regioni. In parole povere, secondo Harley (1996), il Regno Unito esportò “vecchi” beni industriali (tessili, abbigliamento, ferro, materiale navale e ferroviario) mentre gli Stati Uniti e i paesi continentali si concentrarono sui “nuovi” beni industriali (chimica, acciaio e meccanica). Il contrasto con l’odierna struttura del commercio internazionale è straordinario. Le nazioni in via di sviluppo sono molto meno importanti nel sistema di oggi e la composizione merceologica delle esportazioni fra le nazioni sviluppate è molto più simmetrica. In particolare, la maggior parte del commercio internazionale del mondo (circa i due terzi) si genera fra nazioni ricche, che hanno simili dotazioni di fattori. Inoltre, la maggior parte di questo commercio (circa i tre quarti) è commercio bilaterale di beni manufatti. Anche quando si scenda ad un livello più fine di disaggregazione settoriale e ci si concentri su nazioni molto simili, si può notare come il commercio mondiale sia dominato da commercio intra-industriale di prodotti simili. 16
Diamo ora un’occhiata da vicino agli sviluppi sopra descritti. Iniziamo l’analisi dai costi di trasporto e dalle barriere commerciali, per poi soffermarci sul rapporto commercio internazionale-PIL, ed esaminare infine la direzione geografica e la composizione settoriale del commercio internazionale. 3.2.2 Barriere commerciali 3.2.2.1. I costi di trasporto nella prima ondata L’innovazione tecnologica e gli investimenti in infrastrutture abbassarono radicalmente i costi di trasporto alla fine del XIX secolo. Trasporti oceanici più veloci e più convenienti facilitarono il commercio fra città costiere come Londra, Calcutta e New York. Per esempio, Harley (1980) stima che il costo di trasporto di uno staio di grano da New York a Liverpool si dimezzò (da 0,25 dollari) tra il 1870 ed il 1880, e si dimezzò di nuovo tra il 1880 ed il 1914. Ma ciò è solamente un aspetto del problema. Secondo le sue stime, trasportare grano da Chicago a New York nel 1880 costava tanto quanto trasportarlo da New York a Liverpool. Harley mostra anche che i costi di trasporto via terra si dimezzarono nei periodi tra il 1870 e il 1880 e tra il 1880 e il 1914. Siccome il grano era venduto a Chicago per circa un dollaro allo staio in tutto il periodo fra il 1870 e il 1914, la riduzione dei costi di trasporto ebbe un impatto enorme sul commercio mondiale di grano. Storie simili possono essere raccontate per altri prodotti di base come ferro e carbone. Treni e navi, evidentemente, fanno viaggi di andata e ritorno, così i miglioramenti nei trasporti facilitarono la globalizzazione espandendo mercati per i centri urbani industriali e per le località che producevano beni alimentari. Tutto questo produsse dei cambiamenti quantitativi per le economie atlantiche, ma per nazioni con vasti territori interni - come il Nord America, l’America Latina, e l’Europa Centrale - i miglioramenti nel trasporto costituirono una vera e propria rivoluzione, aprendo nuove frontiere all’insediamento della popolazione. Questo, a sua volta, facilitò la migrazione massiccia di persone e capitale nel tardo XIX secolo7. La tab. 5, basata su Bairoch (1989), illustra l’impatto radicale di queste innovazioni sui costi di trasporto. Essa mostra anche chiaramente come le riduzioni dei costi di trasporto furono sistematicamente più importanti per il commercio di materie prime e per le commodities. 7 A questo specifico argomento è dedicata la sezione 3.4. 17
Tab. 5 – Costi di trasporto per un’ipotetica spedizione di km 1830-1910 (beni diversi, in % del costo di produzione) 1830 1850 1880 1910 Grano 79,0 76,0 41,0 27,5 Ferro (lingotti) 91,5 71,0 33,0 19,0 Prodotti in ferro 27,0 21,0 10,0 6,0 Cotone (in filiali) 11,0 8,5 3,5 2,5 Cotone (tessuti) 9,5 8,0 4,5 2,0 Fonte: Bairoch (1989) Il primo cavo di telegrafo transatlantico fu posato nel 1866 e già all’inizio del XX secolo, il mondo intero era cablato. Questo fu un cambiamento radicale che ridusse il tempo di comunicazione da mesi a minuti. 3.2.2.2 I costi di trasporto e di comunicazione nella seconda ondata Nel secondo dopoguerra, i costi di spedizione oceanici continuarono a declinare notevolmente fino al 1960. Anche i costi del trasporto aereo si ridussero drammaticamente, ma l’andamento si appiattì negli anni Ottanta. Nello stesso periodo i costi di comunicazione continuarono invece a calare, come mostra la fig. 2. Fig.2 – Costi di trasporto e di comunicazione (1920 –1950) 18
Frances Cairncross documenta ulterioriormente il ribasso straordinario nel costo di commercio delle idee nel suo libro “La morte della distanza”. I costi di una telefonata di 3 minuti da New York a Londra calano approssimativamente da 250 dollari nel 1930 ad alcuni penny oggi. Tale riduzione è molto recente: anche nel 1960, questa chiamata sarebbe costata circa 50 dollari. L’espansione molto recente di capacità telefonica è ugualmente impressionante, come mostra la tab. 6. L’ultima colonna nella tabella presenta anche cifre sulla crescita esponenziale della più recente forma di comunicazione e cioè Internet. Tab. 6 – Capacità telefonica e internet host Transatlantico Transpacifico Internet host 1986 100,0 41,0 5,1 1991 504,0 141,2 517,0 1996 2021,6 1098,6 12881,0 2000* 2048,3 1889,1 29670,0 Nota: *proiezione della capacità minima Fonte: Cairncross (1997) Comunicazioni così convenienti hanno modificato la natura del commercio internazionale e dell’investimento. Cairncross (1997) è ricco di aneddoti del tipo seguente. Usando Internet, una ditta di contabilità (Dyer Partnership) dell’Inghilterra meridionale gestisce il reparto contabilità, bilancio e finanza di un produttore ucraino di turbine. Dyer si occupa della redazione del bilancio e dello stato patrimoniale dell’impresa ucraina. Oltre a cambiamenti nei costi di trasporto e di comunicazione, le due ondate hanno causato anche importanti modifiche nelle politiche commerciali. Nonostante sia difficile da documentare, l’aumentata facilità ed affidabilità ed il più basso costo delle telecomunicazioni hanno promosso indubbiamente l’esplosione degli investimenti diretto all’estero (IDE). Questo è specialmente vero per gli IDE nel settore dei servizi nel quale filiali estere straniere vendono spesso informazioni o expertise. 3.2.2.3 – Le tariffe di allora e di adesso Il XIX secolo vide sia la crescita della liberalizzazione del commercio internazionale sia lo sviluppo del protezionismo moderno. Bairoch (1989) e Harley (1996) distinguono quattro periodi: l’ascesa del liberalismo britannico (1815-1846), la diffusione del libero scambio europeo (1846-1860), il periodo liberale (1860-1879), ed il ritorno del protezionismo nel continente mentre la Gran Bretagna rimaneva aperta (1879-1914). Nonostante alcuni brevi periodi di 19
libero scambio, le nazioni avanzate non-europee, specialmente gli Stati Uniti, rimasero protezionisti fino a dopo la seconda guerra mondiale. Le nazioni coloniali, che non godevano di autonomia politica, avevano politiche liberali di scambio (almeno con le rispettive madri–patria) per la maggior parte di questo periodo (Bairoch, 1989). Il periodo dal 1815 al 1846 vide l’affermazione della supremazia economica della Gran Bretagna ed il suo abbraccio con il libero scambio; la liberalizzazione delle importazioni di grano (abrogazione delle “Corn Laws”) fu l’evento principale nel 1846. Anche le altre potenze europee si mossero verso il libero scambio durante questo periodo. Questo tuttavia comportò uno spostamento da un rigido mercantilismo e da mercati interni frammentati al protezionismo moderno. La Germania stabilì il libero commercio al proprio interno nello Zollverein ma elevò le tariffe esterne. L’Austria-Ungheria, la Francia, la Russia ed altri paesi abbassarono i dazi doganali e le tasse dell’esportazione all’interno e passarono dalla proibizione all’importazione di beni manufatti esteri all’imposizione di tariffe molto alte. Tab. 7 – Tariffe sui beni manufatti 1820, 1875 e 1913 (in percentuale) circa 1820 1875 1913 Austria-Ungheria proibizione 15-20 13-20 Belgio (a) 9-10 9 Danimarca 30 15-20 14 Francia proibizione 12-15 20-21 Germania (b) n.d. 4-6 13 Italia n.d. 8-10 18-20 Portogallo n.d. 20-25 na Russia proibizione 15-20 84 Spagna proibizione 15-20 34-41 Svezia (Norvegia) proibizione 3-5 20-25 Svizzera 10 4-6 8-9 Paesi Bassi (a) 7 3-5 4 Regno Unito 50 0 0 USA 40-50 44 Argentina n.d. n.d. 28 Brasile n.d. n.d. 50-70 Colombia n.d. n.d. 40-60 Messico n.d. n.d. 40-50 Cina n.d. n.d. 4-5 Iran n.d. n.d. 3-4 Siam n.d. n.d. 2-3 20
Turchia n.d. n.d. 5-10 Note: (a) il Belgio era parte dei Paesi Bassi nel 1820; (b) dati prussiani per al Germania nel 1820. Fonte: Bairoch (1989); Bairoch e Wright-Kozul (1996). La tab. 7 mostra come anche se le barriere commerciali del tardo XIX secolo erano più basse di quelle della prima parte del secolo, il periodo tra il 1875 e il 1914 fu segnato dappertutto – ad eccezione del Regno Unito e dei paesi del Benelux – da barriere doganali elevate o crescenti. La più recente ondata di globalizzazione è contrassegnata anche dalla liberalizzazione delle tariffe. Fin dalla firma del GATT alla fine degli anni ’40, tutte le nazioni sviluppate hanno liberalizzato progressivamente le tariffe e le altre misure sull’importazione di beni industriali. La tab. 8 mostra che, a parte il caso dell’abbigliamento e di altri pochi settori in cui vi sono importanti protezioni specifiche (principalmente misure anti-dumping su chimica ed acciaio), le nazioni ricche odierne sono tanto aperte oggi quanto lo erano le nazioni europee più liberali negli anni 1870. La tabella mostra anche che le protezioni al commercio nel mondo (almeno le forme più facilmente quantificabili di protezione) sono limitate a due categorie: beni industriali nelle nazioni in via di sviluppo e beni agricoli nelle nazioni sviluppate. Tab. 8 – Protezione del commercio di beni dopo l’Uruguay Round (in percentuale di equivalenti tariffari). Africa sub Mediterraneo e saharia America NAFTA EU15 Giappone Medio Oriente na del Sud Asia granaglie 2 71 184 18 20 2 17 altri prodotti agricoli 38 52 39 6 6 3 20 cibo trasformato 5 13 73 6 5 2 17 legname 1 0 0 17 10 7 5 pesca 1 5 3 42 8 19 11 minerali 1 0 0 17 10 4 4 tesssile 8 7 5 35 16 15 29 abbigliamento 19 10 9 39 20 23 21 cellulosa, carta 1 0 1 24 12 9 9 beni petroliferi 1 1 1 17 5 12 12 chimica, plastica, gomma 7 12 2 20 8 13 12 acciaio 7 3 1 17 12 11 9 metalli non ferrosi 3 1 1 24 14 7 9 prodotti in metallo 6 2 1 30 13 16 19 21
mezzi di trasporto 3 5 0 25 10 19 23 macchine utensili 13 7 0 24 6 19 11 altri beni manufatti 5 3 6 28 14 18 17 Fonte: Global Trade Analysis Project dataset, versione 3,1996. Le politiche di libero scambio si diffusero lentamente e sporadicamente nelle economie continentali dal 1846 al 1860. Dopo il 1860, le politiche commerciali liberali si diffusero rapidamente in Europa attraverso un sistema di trattati bilaterali (i cosiddetti trattati di Cobden-Chevalier). Siccome questi trattati includevano generalmente la clausola della nazione più favorita, essi stabilirono di fatto il libero scambio multilaterale in Europa. Queste politiche liberali - che durarono fino alla fine del 1870 - furono amplificate dalla liberalizzazione “naturale”, cioè dalla forte riduzione dei costi di trasporto (vedi sopra). Il protezionismo ritornò nell’Europa continentale dopo il 1878. Per gli agricoltori, la rinnovata protezione riuscì appena a compensare la brusca caduta del prezzo del grano dovuta alle riduzioni nei costi di trasporto (Bairoch, 1989). Per i beni manufatti, al contrario, le nuove tariffe ridussero bruscamente o prevennero aumenti nelle importazioni industriali, specialmente dalla Gran Bretagna. La tab. 9 offre una prospettiva di lungo periodo sulle politiche tariffarie degli Stati Uniti. Essa mostra chiaramente come la posizione libero-scambista degli Stati Uniti sia un evento molto recente (se si eccettuano alcuni brevi episodi del liberalismo intorno al 1850 e negli anni Venti). Le cifre mostrano anche chiaramente l’aumento del protezionismo negli Stati Uniti nel periodo interbellico. Tab 9 – Tariffe U.S.A. (1823 – 1988) % delle % delle importazioni esportazioni totali tassabili 1823 43,4 45,8 1829 50,8 54,4 1842 25,3 31,9 1857 16,3 20,6 1867 44,3 46,7 1891 22,9 48,9 1908 20,1 41,3 22
1914 14,9 37,6 1923 14,1 37,7 1931 19 55,3 1935 16,4 39,8 1944 9,5 28,3 1968 6,5 10,1 1978 3,5 5,8 1988 3,6 5,4 Fonte: Bairoch (1993) 3.2.3 Flussi commerciali 3.2.3.1 Il rapporto commercio internazionale-PIL La tab. 10 mostra i rapporti fra commercio internazionale totale (importazioni più esportazioni) e PIL per 11 nazioni sviluppate negli anni 1870, 1910, 1950 e 1995 (le date esatte per le prime tre colonne variano leggermente a seconda delle nazioni a causa della disponibilità di dati). Le prime due colonne mostrano che la maggior parte delle nazioni sperimentò un’aumentata apertura durante la prima ondata di globalizzazione. Gli aumenti di Giappone, Svezia e Danimarca furono piuttosto sostenuti, mentre quelli di altre nazioni furono più modesti. Il Regno Unito e la Germania, per esempio, avevano già sperimentato la maggior parte della loro apertura entro il 1860. Le quote di Stati Uniti, Australia e Canada al contrario, si ridussero durante questo periodo. Una parte di questo andamento deriva dai cambiamenti nei prezzi relativi tra le esportazioni tipiche di questi paesi (principalmente beni agricoli, e specialmente grano) e la produzione interna; ma una gran parte è dovuta al fatto che essi non liberalizzarono interamente le loro tariffe. Queste nazioni furono cambiate profondamente dalla prima ondata di globalizzazione e per loro i flussi internazionali di persone, capitale e tecnologia furono di gran lunga più rilevanti del commercio internazionale. Tab. 10 – Rapporto commercio internazionale/PIL in diversi anni (%) 1870 1910 1950 1995 Regno Unito 41 44 30 57 Francia 33 35 23 43 Germania 37 38 27 46 Italia 21 28 21 49 Danimarca 52 69 53 64 23
Norvegia 56 69 77 71 Svezia 28 40 30 77 U.S.A. 14 11 9 24 Canada 30 30 37 71 Australia 40 39 37 40 Giappone 10 30 19 17 Note: Le date esatte variano per ogni nazione, Fonte: Kuznets (1967), World Bank (1997). Tutti i paesi tranne il Canada videro calare significativamente i propri tassi di apertura tra il 1910 ed il 1950. Tutti inoltre, ad eccezione del Giappone, hanno oggi raggiunto o superato i precedenti livelli di apertura. A questo livello di disaggregazione e ad un livello superficiale vi è poco di nuovo nella seconda ondata di globalizzazione. Tuttavia, come ha notato Lindbeck (1973), i denominatori di questi rapporti nel XIX secolo consistevano principalmente di attività economica privata. Nelle moderne economie, invece, il settore pubblico incide per una quota che varia tra il 30% e il 50% del PIL. Per questo motivo, la quota dell’attività economica privata esposta alla concorrenza internazionale è ora molto più grande di quanto non lo fosse nell’ondata di globalizzazione dell’epoca vittoriana. La fig. 3 presenta una serie temporale più dettagliata per Stati Uniti e Regno Unito. Essa mostra che gli Stati Uniti non sono ancora più aperti di quanto fosse il Regno Unito nel 1850; la figura mostra anche che il picco di apertura nel Regno Unito precedette la prima ondata di globalizzazione e che gli Stati Uniti contrastarono il trend di apertura divenendo progressivamente più chiusi durante il periodo 1870-1910. Dalla seconda guerra mondiale, tuttavia, gli Stati Uniti si sono aperti notevolmente. Questo può forse aiutare a spiegare perché la scuola di pensiero “la globalizzazione è senza precedenti” è così forte negli Stati Uniti. Fig. 3 – Rapporto tra commercio internazionale e reddito nazionale lordo (Stati Uniti e Regno Unito, 1797 – 1985) 24
3.2.3.2 La direzione del commercio internazionale Come mostra la tab. 11, la direzione del commercio internazionale per i paesi continentali è straordinariamente stabile da circa 150 anni. Nonostante l’integrazione profonda dell’Europa Occidentale, tra il 1910 ed il 1996, abbia aumentato la regionalizzazione del commercio in Europa, il suo impatto non è stato poi così rilevante. Le esportazioni dell’Europa verso l’Europa crebbero da circa due terzi nel 1860 a circa tre quarti nel 1996. Le esportazioni europee verso l’Asia si sono allontanate di poco dalla cifra del 10% e le esportazioni europee verso il Nord America sono rimaste immutate tra il 1910 ed il 19968. La regionalizzazione è cresciuta maggiormente dal lato delle importazioni tra il 1910 ed oggi, ma molto di questo ha a che fare con l’aumentata importanza dei prodotti manifatturieri nel paniere delle importazione europee. Tab. 11 – Direzione del commercio internazionale, (Regno Unito ed Europa - 1860, 1910, 1996) % Nord Sud del totale Europa America America Asia Africa Altri Esportazioni 8 Si veda Anderson e Norheim (1933) per un’analisi di lungo periodo della regionalizzazione del commercio mondiale. 25
1860 Regno Unito 46,7 25,5 11,5 12,8 2,5 1 Europa 67,5 9,1 7,7 10 3,2 2,5 1910 Regno Unito 35,2 11,6 12,6 24,5 7,4 8,6 Europa 67,9 7,6 4,2 9,8 4,8 2,4 1996 Regno Unito 59,7 13,3 1,8 11,2 2,6 11,4 Europa 76,2 7,2 2,1 10,7 2,5 1,3 Importazioni 1860 Regno Unito 31 26,7 10,1 23,2 4,5 4,5 Europa 61 14,3 7,8 12,1 3,2 1,7 1910 Regno Unito 45,1 23,8 9,1 10,3 4,8 6,9 Europa 60 14 8,2 10 4,5 3,4 1996 Regno Unito 57 14 1,9 16,9 1,9 8,1 Europa 70,7 8,5 2,9 10,5 2,7 4,7 Nota: L' Europa diventa UE 15 nel 1996 Fonte: Bairoch (1974); IMF (1997). Il messaggio di fondo delle quote di commercio immutate non vale per il Regno Unito. Mentre si affermava la prima ondata di globalizzazione, le esportazioni del Regno Unito si dirigevano in modo crescente verso le proprie colonie (ed in particolare verso l’India). La quota di esportazioni britanniche verso il continente calò da metà a circa un terzo. Questo è dovuto, in parte, alle crescenti barriere tariffarie continentali, ma anche alla rapida industrializzazione dell’Europa occidentale. L’aumentata importanza dei mercati asiatici e africani è ben visibile: le esportazioni verso l’Asia raddoppiano e quelle verso l’Africa crescono di una volta e mezza. 3.2.3.3 La composizione del commercio internazionale I beni manufatti dominano oggi il commercio mondiale. Nel 1996, per esempio, tali prodotti contavano per il 73% del commercio mondiale (WTO, 1997). Sebbene i bassi prezzi di combustibile e beni alimentari abbiano accresciuto ulteriormente la quota dei beni manufatti negli anni recenti, l’importanza del settore manifatturiero è cresciuta stabilmente dal 1950. Inoltre, il dominio dei prodotti manifatturieri è confermato sia dalle importazioni che dalle esportazioni nelle nazioni sviluppate, che incidono per due terzi sul commercio mondiale. Per esempio, secondo il WTO (1997), i prodotti manufatti costituiscono il 77,6% delle esportazioni europee e il 72,7% delle importazioni europee. Per il Nord America, le cifre sono del 73,8% per le esportazioni e del 78,2% per le importazioni. Il Giappone, le cui cifre corrispondenti sono il 94,9% e il 54,3%, rappresenta una eccezione, ma questo paese incide appena il 10% sul commercio mondiale. 26
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