Dossier. Aborto "libero", da Malta al Perù il pressing è globale
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Dossier. Aborto «libero», da Malta al Perù il pressing è globale Sono 56 milioni gli aborti nel mondo ogni anno. In Italia 84.926, 6 milioni dal 1978. Lo stop in Argentina non ferma la campagna per allargare il ricorso nel mondo. Cinquantasei milioni. Sono gli aborti che si consumano ogni anno nel mondo, con un aumento progressivo nel tempo (erano 50,2 milioni in media tra il 1990 e il 1994). Malgrado questa cifra spaventosa, documentata dal recente rapporto del Guttmacher Institute, sono note le insistite azioni di istituzioni sovranazionali, ong, media e partiti politici per allargare le maglie delle leggi che ancora limitano il ricorso all’interruzione di gravidanza in molti Paesi sottoponendolo a condizioni più o meno stringenti. Risuonano le parole del Papa di ritorno domenica 26 agosto da Dublino: «Il problema dell’aborto non è religioso. No. È un problema umano, e va studiato dall’antropologia», a partire dall’«eticità di far fuori un essere vivente per risolvere un problema». La marcia per sancire invece che l’aborto è un 'diritto', e come tale non può essere soggetto a criteri restrittivi e approvazioni, passa attraverso leggi che rimuovano i limiti vigenti, com’è accaduto in Irlanda col recente referendum. Non sempre questa strategia avanza con successo: il recente voto contrario del Senato argentino a una legge che estendesse i casi in cui poter abortire ha mostrato che il confronto sarà ancora molto lungo e sofferto. Ma la pressione continua, come nei Paesi di cui diamo conto in questo dossier. Corea del Sud - Per fermare il declino demografico occorre raddoppiare i bebè. Ma la spinta è per non farli nascere (di Stefano Vecchia) Prosegue il crollo delle nascite in Corea del Sud e a colpire, oltre ai dati statistici, è la rapidità del fenomeno. Con 1,05 nascite per donna fertile nel 2017, il Paese è sceso al livello più basso dal 2005, lontanissimo dal dato necessario anche solo per garantire la popolazione sugli attuali 51 milioni. Negli anni ’70 e ’80 la Corea del Sud cercò con ogni mezzo di limitare le nascite che accompagnavano il boom economico con la distribuzione di profilattici e di pillole anticoncezionali, oltre a una strategia pressante di sterilizzazione tubarica e vasectomie portata quasi casa per casa col motto «Due sono troppi». Oggi, discriminazione delle donne a livello sociale e nel mondo del lavoro, selezione prenatale del sesso a favore dei maschi, crescente difficoltà ad accedere a impieghi qualificati, scarsi incentivi a una prole che pesa su bilanci familiari non sempre floridi alimentano l’ampia casistica di aborti. Oggi sarebbero il 20% le donne sudcoreane che hanno interrotto almeno una gravidanza, anche se le cifre ufficiali parlano dell’1%. Si fa strada la richiesta di depenalizzazione, con una petizione al presidente firmata da 235mila cittadini. I sondaggi mostrano come almeno la metà dei sudcoreani siano favorevoli, ma molti continuano a considerare l’aborto come «una forma di omicidio». Resta in sospeso dallo scorso maggio un giudizio della Corte suprema riguardo la colpevolezza di un medico responsabile di 70 aborti illegali. Una decisione, quella dei giudici supremi, che potrebbe tardare a lungo, forse in attesa di una revisione della legge che diverse parti hanno chiesto col sostegno di una crescente pressione favorevole. La vicenda risente della necessità di emancipazione delle donne coreane, legalmente soggette al marito in ogni aspetto, che si indirizza però verso obiettivi proposti più per
l’aspetto simbolico e per l’emotività che suscitano. Per combattere questa situazione che rischia di diventare esplosiva, l’amministrazione del presidente cattolico Moon Jae-in ha approvato una serie di misure destinate a promuovere le nascite e l’uguaglianza. Misure che entreranno in vigore dal 2019, finanziate con l’equivalente di 703 milioni di euro. Stati Uniti - La California vuole la Ru486 gratis per le universitarie (di Lorenzo Schoepfil) In California è giunto alle fasi finali il percorso di approvazione di una legge che prevede l’inserimento della pillola abortiva Ru486 tra i servizi forniti gratuitamente o a prezzi vantaggiosi dalle università ai propri studenti. A gennaio il testo fu approvato dal Senato californiano, mentre ora è atteso all’esame della Commissione chiamata a esprimersi sui provvedimenti con impatto sul bilancio statale: le coperture, infatti, andrebbero cercate nelle casse pubbliche. L’agenda prevede poi l’approdo della legge sulla scrivania del governatore, il democratico Jerry Brown. Nei campus californiani già adesso sono previsti servizi per gli studenti riguardanti la cosiddetta contraccezione d’emergenza, ovvero la pillola del giorno dopo di cui sono noti i potenziali effetti abortivi. Secondo i promotori della nuova iniziativa, capeggiati dalla senatrice democratica Connie Leyva, autrice del testo, anche la Ru486 dovrebbe essere garantita per evitare il ricorso all’aborto chirurgico. Il mondo pro life sta sollevando obiezioni sulla liceità di uccidere la vita nascente e fortissimi dubbi sulla capacità delle strutture sanitarie universitarie di garantire l’adeguata sicurezza per le donne sottoposte al trauma fisico e psicologico legato all’uso della Ru486. Spinte abortiste negli Stati Uniti si stanno registrando anche in Massachusetts e Kentucky. A Boston si stanno facendo i primi passi per evitare che possano venire a crearsi restrizioni in tema di aborto legale. I timori sono legati alla nuova composizione della Corte Suprema con la nomina di Brett Kavanaugh a inizio luglio, che secondo alcuni potrebbe addirittura prefigurare una revisione della celebre sentenza Roe vs. Wade con la quale nel 1973 fu legalizzato l’aborto negli Usa. In Massachusetts è ancora in vigore un vecchio bando all’aborto, che senza più la Roe vs. Wade tornerebbe in vigore. Per questo, la lobby abortista si è attivata per cancellare la legge, risalente a un secolo fa. In Kentucky nel mirino è finito l’obbligo per le donne che chiedono di abortire di sottoporsi a una ecografia durante la quale vengono mostrate immagini del feto. Con un ricorso alla Corte distrettuale, la Aclu, nota sigla del mondo pro-aborto, ha chiesto che tale obbligo venga rimosso poiché veicolerebbe un messaggio ideologico. Perù - In Parlamento e nelle farmacie, la strategia per cambiare il Codice (di Angela Napoletano) Per anni Lima, capitale del Perù, è stata la città che ha fatto da cornice alle più imponenti marce per la vita di tutta l’America Latina. I manifestanti scesi in piazza ancora a maggio per dire no all’aborto sono stati più di 800mila. La resistenza del fronte per la vita oggi sembra tuttavia essere messa a dura prova da un attivismo abortista sempre più massiccio e agguerrito.
Al momento, l’interruzione volontaria della gravidanza in Perù è regolata da un articolo del Codice penale del 1924 che ne legittima il ricorso solo in caso di pericolo per la salute della madre. La battaglia che, da anni, le associazioni femministe portano avanti per allargare le maglie della legge punta a ottenere la depenalizzazione dell’aborto almeno in caso di stupro. Nel 2014 il Congresso è stato a un passo dall’approvazione di un provvedimento che, forte dell’appoggio delle Nazioni Unite, avrebbe aperto a tale possibilità ma, contro ogni previsione, l’atto è stato poi respinto dalla maggioranza. L’azione dei fautori dell’aborto da allora sembra essersi concentrata sul piano culturale più che su quello formale, traducendosi, per esempio, in sontuose campagne di comunicazione (la più famosa è Déjala decidir, ovvero «Lasciala decidere») finanziate, a quanto sembra, da Ong tra cui la peruviana Promsex, riconducibili a una internazionale per la promozione dell’aborto come Planned Parenthood. L’ambito in cui la presenza dei movimenti pro choice è sicuramente più ingombrante è tuttavia quello a sostegno dell’aborto farmacologico, facilmente procurabile a casa con l’assunzione di una semplice compressa contro l’ulcera come il misoprostol. La rete costruita attraverso il web o personale medico compiacente è estesa ed efficiente non solo nella capitale ma anche in alcune zone rurali. Ciò non basterà di certo a cambiare la legge ma, avvertono gli osservatori, «di sicuro aiuterà a creare le giuste premesse perché prima o poi ciò possa avvenire». Irlanda - Incertezza dopo il referendum, i ricorsi frenano la nuova legge (di Francesca Lozito) Trecentoquarantadue donne in tre mesi sono andate ad abortire in Inghilterra dal Nord Irlanda da marzo a maggio 2018, un vero e proprio boom se si pensa che lo scorso anno nello stesso periodo erano state 190 in meno. Questa impennata viene usata dalle attiviste pro aborto per chiedere anche a nord una legislazione simile a quella che verrà introdotta in Repubblica di Irlanda dopo la vittoria del sì al referendum del 25 maggio. Tanto che lo stesso ministro della Salute nella parte sud dell’isola, il liberale del Fine Gael Simon Harris, ha detto che ora l’impegno è quello di uniformare la legislazione su tutto il territorio. Peccato però che al di là dei proclami in Nord Irlanda ci siano oggettivi ostacoli dettati anche dalla situazione contingente: da gennaio 2017 non c’è un governo a causa del mancato accordo tra le due componenti, gli unionisti di Dup e i repubblicani di Sinn Fein. Questi ultimi, anche se non in tutto il partito, si sono dichiarati a favore della legalizzazione dell’aborto: le due leader Mary Lou Mc Donald e Michelle O’Neill erano a Dublino il giorno della vittoria del sì. Decisamente contrario il Dup e dunque con la clausola del veto voluto dagli accordi di pace la prospettiva di un via libera è poco verosimile. Westminster, che in questa situazione ha assunto i poteri devoluti del Nord Irlanda, ha già fatto sapere che non affronterà la questione. Intanto c’è da registrare lo stallo della nuova legge sull’aborto nella Repubblica di Irlanda più di tre mesi dopo il referendum: nonostante l’intenzione del governo fosse quella di approvare la bozza entro l’estate e sottoporla al presidente della Repubblica in autunno, prima delle elezioni, i lavori sono fermi a causa di tre ricorsi alla Corte di giustizia da parte dei pro life: avevano promesso all’indomani della sconfitta referendaria che avrebbero dato
battaglia, e così è stato. Per questo, nonostante sia ancora in vigore il «Protection of life during pregnancy act» che permette l’aborto in casi di rischio della vita di madre e bambino, il ministro Harris ha avanzato l’ipotesi di un provvedimento-tampone in attesa dell’entrata in vigore della legge che verrà. Malta - Dal divieto si passa al «diritto»? Pressioni dall'Europa per svoltare (di Simona Verrazzo) A Malta il dibattito per la legalizzazione dell’aborto è sempre presente sulla scena politica e sociale. L’isola è l’unico Paese dell’Unione Europea dove l’interruzione volontaria di gravidanza è del tutto illegale. Le iniziative che spingono per l’introduzione di una legge aperturista puntano sull’assunto che l’aborto 'sicuro' sia un «diritto delle donne». Su questa scia si è inserita la presentazione, a marzo, del documento dell’associazione locale «Women’s Rights Foundation» ( Wrf) che, come scritto in un editoriale di Raphael Vassallo sul bisettimanale Malta Today, «ha scatenato un vespaio ». Nel corso di una conferenza stampa è stato letto un rapporto in cui, tra i vari punti, si chiede la legalizzazione dell’aborto quando ricorre almeno uno di questi quattro obiettivi: salvare la vita della donna; preservare la sua salute fisica e mentale; stupro o incesto; danno fetale mortale. Dietro il documento ci sono Lara Dimitrijevic, avvocata dei diritti umani (che fa rientrare l’aborto all’interno di questi ultimi) e direttrice di Wrf, l’accademica Andreana Dibben e la consulente legale Stephanie Caruana. Il quotidiano Times of Malta riferisce che quando è stata posta loro la domanda su come intendano far cambiare idea alla popolazione maltese e agli stessi politici in merito a questa materia le attiviste hanno risposto spiegando che organizzeranno «workshop chiarificatori». Di tutt’altra idea è il neonato gruppo «Catholic Voices of Malta», sezione locale dell’associazione nata in Inghilterra e presente in 37 Paesi, Italia inclusa. «Siamo sostenuti dall’arcivescovo Charles Scicluna e dalla Chiesa, vincolati ai suoi insegnamenti – ha dichiarato Tonio Fenech, ex ministro delle Finanze – ma prendiamo le nostre autonome iniziative». Nel dibattito in corso il movimento in difesa della vita denuncia da tempo indebite ingerenze dall’estero. Così vengono lette le dichiarazioni del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, sulla necessità di una nuova legislazione in materia di aborto. Buenos Aires - Il progetto di depenalizzazione non prima di fine anno Riforma del Codice penale, dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte Suprema, referendum popolare: sono le tre strategie individuate in Argentina dai sostenitori della nuova legge sull’aborto, bocciata il 9 agosto dal Senato di Buenos Aires con 38 voti contrari e 31 favorevoli rovesciando il verdetto della Camera dove la discussa riforma era stata invece approvata il 14 giugno con 131 sì contro 123 no. Il fronte favorevole all’ampliamento dei criteri per accedere all’interruzione di gravidanza non si è di arreso e punta sul progetto di riforma del Codice penale annunciato dal governo. La revisione, che includerebbe la depenalizzazione dell’aborto, sarà presentata però non prima di fine anno. Il presidente Macri vorrebbe in questo modo far placare gli animi,
accesi dal duplice passaggio parlamentare degli ultimi mesi, per evitare nuove contestazioni di piazza, inopportune in questo periodo di grave crisi finanziaria. S. Vecchia, L. Schoepflin, A. Napoletano, F. Lozito, S. Verrazzo Avvenire.it, 1 settembre 2018
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