Dl crescita: Mise, "Arcelor Mittal già informata" - Il Corriere del Giorno

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Dl crescita: Mise, "Arcelor Mittal già informata" - Il Corriere del Giorno
Dl crescita:
Mise, "Arcelor Mittal già
informata".

                                           ROMA – “Sorprende la
comunicazione diffusa quest’oggi dalla società Arcelor Mittal, visto
che la medesima era stata informata già a febbraio 2019 degli sviluppi
circa la possibile revoca dell’immunità penale introdotta nel decreto-
crescita, alla luce della questione di legittimità costituzionale
sollevata dal Gip ( dr. Ruberto ndr) di Taranto l’8 febbraio scorso
sui diversi provvedimenti (tra cui proprio l’immunita’ penale) emessi
dai Governi precedenti per salvare lo stabilimento siderurgico”
comunica il Mise in una nota.

“In vista dunque della prossima decisione della Consulta e della
sentenza adottata nel gennaio 2019 dalla Cedu (Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo) di condanna dell’Italia sempre sulla vicenda Ilva,
– continua la nota – il Mise aveva preventivamente informato Arcelor
Mittal della questione, rappresentando allo stesso gestore che si
sarebbe individuata una soluzione equilibrata volta alla salvaguardia
dello stabilimento e dell’indotto occupazionale, nonché al rispetto,
ovviamente, delle decisioni adottate dai giudici. A tal proposito, il
Mise e tutto il Governo sono al lavoro affinché l’azienda continui ad
operare nel rispetto dei parametri ambientali“.

ArcelorMittal Italia ieri con una nota era tornata a mettere in
discussione la possibilità di raggiungere secondo i termini stabiliti
gli obiettivi del piano di rilancio sull’ex Ilva di Taranto, rilevata
dall’amministrazione straordinaria l’anno scorso e gestita in affitto
in attesa dell’acquisto a titolo definitivo. Ma in questo caso non
dipende dal mercato , ma dalle decisioni politiche. La nuova proprietà
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non condivide il testo del futuro decreto crescita, nella parte in cui
ha eliminato (giustamente secondo noi) le tutele legali cioè la
cosiddettà “immunità” connessa all’adempimento del piano ambientale.

Secondo ArcelorMittal il Governo, cambia le regole del gioco iniziali,
e a suo dire tutto ciò può condizionare il raggiungimento degli
obiettivi accordati alla firma del contratto. “Il decreto crescita,
nella sua formulazione attuale – commenta una nota del gruppo –
cancella le tutele legali esistenti quando ArcelorMittal ha accettato
di investire nello stabilimento di Taranto. Tutele che è necessario
restino in vigore fino a quando non sarà completato il piano
ambientale, per evitare di incorrere in responsabilità relative a
problematiche che gli attuali gestori non hanno causato”.

Forse è il caso la multinazionale franco -indiana si renda conto che
la Legge è e deve essere uguale per tutti, e spieghi loro che
l’applicazione delle norme non è mai retroattiva, quindi non si
capisce come possa preoccuparsi di problematiche del passato di cui
non sono responsabili. E peraltro Arcelor Mittal non ha accettato di
investire, ma bensì ha chiesto di investire a Taranto affrontando una
gara con un competitor. Una differenza non da poco…

Missione compiuta. Parlamento
umiliato
di Alessandro De Angelis*

Missione compiuta: 167 sì, 78 no, 3 astenuti. Parlamento umiliato, o,
se preferite, sfregiato, violentato, chiuso come una scatola di tonno,
altro che trasparenza. Chiamato a votare la manovra in tarda notte,
senza neanche il tempo di leggerla. Un “marchettificio del
cambiamento”, degno di Gava e Pomicino, con soldi sparsi qua e là, tra
una mancia a Crotone, una a Reggio Calabria e un bel condono di
Natale, su misura per i finti poveri che frodano il fisco, altra tomba
dell'”onestà, onestà”. Cifre coperte fino all’ultimo minuto utile,
come in un gioco delle tre carte in cui con l’indebitamento futuro si
pagano quota cento e reddito di cittadinanza, misure buone per mietere
voti alle Europee, anche se sforbiciate di quattro miliardi, dopo la
grande sottomissione a Bruxelles.

È l’arroganza di un potere che si sente onnipotente, comprimendo
tempi, discussione, diritti delle minoranze, con lo strafottente
pressappochismo di conti che arrivano tardi e pure scritti con
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sciatteria. La scena è surreale, quando a metà pomeriggio, in
commissione bilancio, arriva finalmente il maxi- emendamento e si
scopre la manovra “nascosta”, con quattro commi sbagliati nei numeri,
altri ripetuti tre volte, come una brutta copia scritta in fretta.
Surreale come il governo che scompare per un’ora, per la bella copia e
qualche fotocopia, con i parlamentari del Pd che urlano fuori dalla
porta della presidenza, “fuori il testo”, “ma la trasparenza dov’è?”.
A un certo punto viene stralciato il comma sugli Ncc, la cui
variazione è affidata a un consiglio dei ministri notturno, il che può
apparire un dettaglio ma un dettaglio non è, anzi è una clamorosa
violazione delle regole, perché non si può togliere un comma, se già
c’è stata la bollinatura della ragioneria. Scelta politica,
giustificata come regolamentare, come politico era il rogo delle
bandiere pentastallate bruciate dai lavoratori degli Ncc.

  “Dateci un testo, vergogna, siete dei buffoni”, urlano i senatori
delle opposizioni davanti all’ufficio del presidente della Commissione
      Bilancio Daniele Pesco poco prima che riprenda l’esame del
                           maxiemendamento.

     “Il sottosegretario Garavaglia – spiega il capogruppo Pd in
 commissione Antonio Misiani – ci ha detto un’ora e mezzo e fa che ci
  sono delle correzioni formali, di drafting, ma ancora non sappiamo
                                niente“

Ma, in fondo, chissenefrega: è il cambiamento bellezza. Chissenefrega
se questo lavoro di riscrittura il 22 dicembre – ripetiamo: il 22
dicembre – si protrae fino a alle sette di sera. E il testo arriva in
Aula solo in tarda sera, in un clima da bolgia: “C’è vita, c’è vita”,
dice Alberto Bagnai, uno dei pochi parlamentari che si vede in giro.
Mentre alcuni dei suoi colleghi della Lega sono in sala Cadorna a
brindare sul finanziamento della metro Milano-Brescia, comunque una
soddisfazione nella Caporetto di una manovra dettata da Bruxelles.
Aula sospesa, più volte, rissa quasi sfiorata, più volte, parlamentari
dalla maggioranza che non intervengono in discussione, perché il loro
compito non è intervenire, ma ratificare, obbedire, eseguire.
Dettaglio che dice tutto. Matteo Renzi lo coglie, provocando: “Voi
siete stati trattati come il pubblico dei talk show, capaci di
applaudire, non di dire alcunché”.
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La forma è sostanza. E l’annullamento del processo democratico è quasi
peggio della manovra stessa. Istituzioni vissute come un impiccio da
cui liberarsi, luogo da cui tenersi lontano, perché la politica
populista è altrove, affidata alla comunicazione del “fatto, fatto,
fatto” di Luigi Di Maio che, nell’ansia da social, posta anche la
tabella sbagliata e viene criticato dai suoi su facebook, perché il
grafico pubblicato dimostra che l’occupazione era salita ai tempi in
cui Renzi aveva dato gli sgravi fiscali alle imprese. Affidata alla
superficialità dello spin per cui anche i pastrocchi odierni sono
colpa dei soliti tecnici, capri espiatori della politica
dell’improvvisazione, che comunica tanto ma governa poco. È il
leitmotiv pentastellato di questi mesi, le perfide burocrazie che
ostacolano il cambiamento, eccessivo anche per la Lega. Davanti a un
bianchino, Roberto Calderoli, uno che le cose le sa e le sa fare, dice
a un collega: “Non farmi parlare. Quando non tornano i conti, è la
politica che lo deve dire ai tecnici, mica il ragioniere generale
dello Stato. Quello ti dice ciò che è fuori bilancio, ma le scelte le
devi fare tu politico“. Parole che, fino a qualche tempo fa, sarebbero
state ovvie, banali. Quando il processo di governo era istituzionale,
non extra-istituzionale, tutto proiettato solo “fuori” e rivolto
all’opinione pubblica da conquistare.

Le foto, si sa, rendono talvolta più delle analisi. Danno il senso
degli eventi. Come l’immagine dei banchi del governo vuoti, quando
inizia la discussione sulla manovra, col solo ministro Tria seduto ad
ascoltare. I due grandi dioscuri del governo, sono altrove, perché
concepiscono questo altrove come il luogo della politica, sia essa una
curva o un talk show, che parli al paese più delle fastidiose
istituzioni. L’imbarazzo dei pentastellati è palpabile, in una
giornata che certifica ciò che non sono più. Alla buvette Nicola Morra
è avvicinato da qualche collega: “Certo che a parti invertite… Cosa
avremmo fatto?”. Morra fa il vago, visibilmente imbarazzato: “Faccio a
tutti gli auguri di Natale”. Andrea Cioffi, attualmente
sottosegretario, gli sussurra: “A parti invertite stavamo già sui
banchi del governo. In fondo dove stiamo adesso” (vuole essere una
battuta, ndr).

Perché la storia di un testo votato al buio, di notte, con una diretta
tv che fa concorrenza a Marzullo, non certo un’ora di punta, è la
storia di una clamorosa smentita si sé dell’M5s, che solo qualche anno
fa invocava l’apertura della scatola di tonno e la sacralità del
Parlamento profanata da canguri ed emendamenti killer. A un certo
punto nel Pd qualcuno suggerisce un gesto ad effetto: “Chiediamo di
essere ricevuti da Mattarella, perché quel che sta accadendo è
inaudito”. Dopo attenta riflessione i più saggi valutano che è
inutile, visto che il suo appello al pluralismo, al rispetto delle
regole e delle istituzioni, è stato baldanzosamente ignorato. E poi,
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in fondo, quel che sta accadendo lo vede da solo, senza bisogno che
venga chiamato in causa. Se ha deciso di rimanere in silenzio, magari
affidando al discorso di Capodanno qualche considerazione a bocce
ferme, sarebbe stato inutile. Magari ha realisticamente valutato che
Parigi val bene una messa, e cioè la resa all’Europa sulla manovra
giustifica l’indulgenza sull’odierno sfregio delle istituzioni. E
comunque avrebbe compromesso quel ruolo di “angelo custode” che Di
Maio gli ha riconosciuto, utile in futuro per mantenere
un’interlocuzione. Perché una presa di posizione in una giornata che
segna uno spartiacque nella vita democratica segna un discrimine, come
segna un discrimine la chiusura sostanziale del Parlamento. Perché poi
è difficile riaprirlo.

*vicedirettore del quotidiano online HuffingtonPost

Povero Conte, povera Italia
di Gianni Pittella*

Palazzo Chigi

Ieri è stata la giornata più difficile di Conte da quando è a Palazzo
Chigi. Al centro di una tempesta perfetta, mentre a Bruxelles era
impegnato a convincere gli altri leader europei della “bellezza” della
manovra italiana, continuando a ricevere solo critiche dai colleghi e
dalle istituzioni europee, in Italia i suoi colleghi vicepremier
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litigavano e annichilivano la credibilità di tutto il governo
italiano.

Stanno venendo al pettine tutti i problemi di una maggioranza tenuta
insieme solamente da una sete di poltrone, in disaccordo su tutto e
quindi incapace anche di formare coalizioni europee che possono essere
utili ai propri scopi sovranisti.

Ieri tutti, ma proprio tutti hanno criticato la manovra di Conte. Non
solo la Commissione, ma anche gli Stati membri hanno espresso la loro
forte preoccupazione per quanto ha proposto il governo italiano.
Critiche dalla Finlandia, critiche dall’Austria, critiche pure dal
premier olandese Rutte, che per sicurezza ha organizzato anche un
bilaterale con Conte per esprimere la sua preoccupazione sui conti
italiani.

Gli “amici” di Visegrad? Muti. Non una parola di sostegno dalla
Polonia, non una dall’Ungheria. Isolamento totale per l’Italia.

Poi in serata è arrivato il carico tanto atteso da parte della
Commissione: una lettera recapitata da Moscovici al ministro Tria che
chiedeva come mai l’Italia avesse presentato una proposta di manovra
finanziaria in contrasto non solo con le regole europee, ma anche con
le regole che lo stesso governo Conte aveva approvato al Consiglio
Europeo di fine giugno. Il colmo.
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Eppure, non è in corso un accanimento contro l’Italia. Quello che sta
succedendo è logica conseguenza di un governo che non è riuscito a
proporre misure per la crescita e incapace di fare alleanze in Europa
in grado di garantire flessibilità.

Io condivido con la maggioranza gialloverde che il problema
dell’Italia non sia tanto il debito quanto la scarsa crescita; che non
ci possiamo impiccare sui decimali e sugli algoritmi. Conte avrebbe
però dovuto fare quello che hanno fatto i governi Renzi e Gentiloni:
negoziare con l’Europa flessibilità per fare una manovra a debito per
fare le infrastrutture, l’alta velocità da Salerno alla Sicilia, il
cablaggio del Mezzogiorno, una politica per le piccole medie imprese
per la sostenibilità ambientale.

Questa è politica per la crescita, ma di questo non c’è nulla nel
documento economico e finanziario, dove si parla di condoni fiscali,
di abbassare le tasse ai ricchi e di una riforma delle pensioni il cui
peso cadrà totalmente sulle spalle dei giovani.

Intanto è finito un altro Consiglio Europeo in cui è stato deciso poco
o niente. Ancora nessun passo avanti sulla Brexit, troppo poco sulla
riforma dell’eurozona. Dalle conclusioni del Consiglio è addirittura
sparito qualsiasi riferimento ai ricollocamenti dei richiedenti asilo
e alla riforma di Dublino. Non è rimasto nemmeno più un generico
accenno alla solidarietà tra i Paesi membri sul tema
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dell’immigrazione.

Conte torna a casa per sedare gli animi dei litiganti, ma in valigia
si porterà tanta amarezza e nessuna buona notizia per l’Italia e gli
italiani.

*Senatore della Repubblica (Pd)

Genova per noi.
di Michele Laforgia

Decine di morti e feriti, centinaia di sfollati, una città intera,
Genova, in ginocchio. E la scoperta che siamo tutti in pericolo,
perchè in Italia – e forse in Europa – esistono migliaia di ponti e
viadotti costruiti quaranta e cinquant’anni fa, con tecniche obsolete,
che avrebbero bisogno di immediati interventi di verifica e
manutenzione straordinaria. Per non parlare degli immobili, Tribunali
compresi.

Il crollo del ponte Morandi ha rivelato come il nostro modello di vita
riposi su fondamenta fragilissime. Perchè ognuno di noi è
bizzarramente disposto a rischiare la propria e l’altrui incolumità
ogni volta che prende un’auto, guida a 180 all’ora, magari di notte,
magari dopo aver bevuto, magari chattando in contemporanea con il
proprio telefono cellulare. Ma nessuno, compreso chi scrive, può
accettare l’idea di precipitare nel vuoto per il cedimento di un
ponte, in autostrada. Anche se la probabilità che accada è
infinitamente minore, perchè quando accade può diventare un disastro.
Come a Genova.

Quello della società del rischio globale e dell’incertezza è un tema
di enorme complessità, che coinvolge direttamente la sfera della
politica. Per molti anni incapace di dare risposte, la politica, da
noi e in quasi tutto l’occidente, ha finito con il delegare la
gestione del rischio al mercato, alle leggi dell’economia e
all’iniziativa privata. Chi governa stabilisce le regole del gioco, la
partita la disputano le imprese in base al rapporto tra costi e
benefici e alla realizzazione degli utili. Così, chi costruisce
autovetture si preoccupa di renderle relativamente sicure, ma senza
rinunciare alla velocità, al comfort, al design, sapendo in anticipo
che ogni anno si verificheranno un certo numero di sinistri con morti
e feriti. Se circolassero solo vetture corazzate a 40 km orari avremmo
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un numero irrisorio di incidenti. Per non parlare del commercio di
tabacco e del libero consumo di alcolici. Nel calcolo dei profitti
entrano anche i morti. Da sempre.

Che questo schema fosse destinato a non funzionare, sul piano teorico,
lo hanno scritto già 170 anni fa. Non è questo a sorprendere. Semmai,
sorprende che se ne accorgano solo oggi i teorici del neoliberismo, i
pasdaran delle privatizzazioni e gli epigoni dell’anarchia d’impresa,
evidentemente immemori di quanto hanno sostenuto e praticato sino a
poco tempo fa. Che i rimedi non siano semplici, atteso il precario
stato di salute degli apparati pubblici – smantellati e mortificati da
decenni di sottrazione di fondi e risorse – è altrettanto evidente. Ma
che lo Stato debba tornare ad occuparsi in prima persona
dell’economia, della gestione dei beni comuni e della tutela della
collettività, non sembra più discutibile. Non lo era neppure prima di
Genova, come qualcuno ha detto e scritto, anche in campagna
elettorale.

Dopo Genova è accaduto, tuttavia, qualcosa di inedito. A poche ore di
distanza dal crollo, i vertici istituzionali hanno tuonato contro la
società concessionaria e l’azionista di maggioranza delle Autostrade,
additandolo all’opinione pubblica come responsabile del disastro. Il
dibattito, nelle stesse ore, ha rapidamente abbandonato il cedimento
del ponte, i morti, i feriti, gli sfollati, la città di Genova, e si è
trasformato in un referendum globale sulle responsabilità della
famiglia Benetton, sulla revoca, rescissione, risoluzione o decadenza
del contratto di concessione e, alla fine, anche sul pagamento dei
pedaggi (con un passaggio logico quantomeno oscuro, nella sbilenca
grammatica istituzionale del Ministro dell’Interno).

Chi si occupa di politica politicante troverà la mossa del governo
‘geniale’. Aver individuato un nemico pubblico allontana le
responsabilità e pone le forze di maggioranza nella condizione per
loro più favorevole, che è quella della semplificazione e della
campagna elettorale permanente, accanto alla “gente”, “senza se e
senza ma”, contro i “poteri forti” (ieri Soros e Big Pharma, oggi
Autostrade e i Benetton). Chiunque obietta è automaticamente – e
militarmente – additato come connivente e servo dei potenti. Chi è di
sinistra non può, per statuto, difendere capitalisti e imprenditori.
Chi si occupa di diritto, deve metterlo da parte di fronte ai morti e
ai feriti. Il solo, timido barlume di unità nazionale si legge
nell’abbraccio bipartisan disegnato tra i tifosi del Genoa e della
Sampdoria, idealmente uniti dal crollo del ponte. Solo loro, però: che
sugli altri campi di calcio si giocherà, con il lutto al braccio e
dopo un minuto di silenzio. The show must go on.

La tentazione di tacere davanti a questo spettacolo imbelle,
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indecoroso e vile è forte, quasi irresistibile. Ma chi si occupa di
politica e di giustizia non può farlo, neppure di fronte alle
tragedie: anzi, soprattutto di fronte alle tragedie. E allora non si
può non dire che il Governo deve fare il suo mestiere, che è quello di
occuparsi dei vivi, delle famiglie delle vittime, degli sfollati,
della ricostruzione. E dell’immediata messa in sicurezza di tutta le
rete stradale, in concessione e non. Questo spetta al potere
esecutivo, in uno Stato di diritto: non blaterare davanti alle
telecamere, anticipare condanne e cambiare linea ogni mezzora, man
mano che ci si rende conto dell’entità dei problemi, non solo
giuridici, scatenati dall’improvvida caccia all’assassino.

Dovrebbe essere addirittura ovvio che solo dopo aver accertato le
cause del crollo, possono e devono essere individuate le
responsabilità politiche, civili e penali di chi ha reso possibile
questa immane tragedia. Ma con i tempi e nei modi previsti dalle leggi
– amministrative, civili e penali – sapendo che la ghigliottina
mediatica non resuscita i morti e non risarcisce i vivi: aggiunge
soltanto dolore a dolore, ingiustizia a ingiustizia, pena alle pene.
Chi si occupa quotidianamente di processi lo sa: i diritti sono per
tutti o per nessuno, l’eccezione che oggi vale per gli altri domani
riguarderà anche te, o chi per te. E senza regole, da sempre, i più
deboli, non i più forti, soccombono.

Questo dovrebbe fare, oggi, una forza di sinistra. Censurare “senza se
e senza ma” ogni tentativo di giustizia sommaria, invitare il governo
ad assumere le proprie responsabilità, monitorare quanto è stato fatto
e quanto si dovrà fare da subito per garantire l’incolumità dei
cittadini sulle strade e sulle autostrade. Naturalmente senza
declinare dal proprio compito, che è quello di combattere le
diseguaglianze anche quando si annidano nelle clausole dei contratti
miliardari – e originariamente secretati – delle concessioni di Stato.

Fare politica, insomma, anche per ripristinare il sacrosanto primato
dell’interesse pubblico in economia. Ma senza confondere i piani e
senza cedere di un solo millimetro sul piano dei principi e dei
diritti. Perchè oltre c’è solo la barbarie e l’ombra, minacciosa, di
un nuovo totalitarismo.

Crisi di governo. Lo spread a quota
320, poi scende. Crolla la Borsa
ROMA – Alle 12.15 di oggi una raffica di vendite sui titoli di Stato
italiani, con lo spread Btp/Bund che continua a schizzare e tocca 320
punti (ieri era a 235), con un balzo di oltre 80 punti rispetto alla
chiusura di ieri, tornando ai livelli di primavera 2013, salvo poi
ripiegare fino a quota 277 Il rischio per il nostro Paese è quello di
superare il tetto dei 63,5 miliardi di spesa per interessi fissato dal
Def, con conseguenze immediate per i nostri conti pubblici.

In forte calo anche la Borsa: in apertura Piazza Affari perdeva
l’1,8%, per affondare fino al -3%. Male soprattutto i titoli bancari,
con lo scivolone di Unicredit (-3,6%) e Mps (-3,4%). Sotto pressione
anche Poste (-3,3%).        L’incertezza politica in Italia ha
avuto conseguenze anche sui mercati valutari asiatici.

Poco dopo le 12:00 locali (le 5:00 in Italia) l’euro è sceso sotto i
127 yen, ai minimi in 11 mesi, ripiegando subito dopo intorno a
126,85. La moneta unica europea si deprezza anche sul dollaro a quota
1,16.23. I principali trader a Tokyo, riferiscono le agenzie,
giudicano “la situazione troppo intricata” per fare previsioni sul
medio e lungo termine.
Non diminuisce quindi la tensione sul mercato, in attesa che questo
pomeriggio alle 16.30 il presidente incaricato Carlo Cottarelli salirà
al Colle per presentare al presidente Sergio Mattarella la lista dei
ministri del governo neutrale, sui cui è tornato al lavoro da questa
mattina alla Camera. L’obiettivo è presentare entro venerdì il nuovo
esecutivo al Parlamento per la fiducia che, stando alle dichiarazioni
delle forze politiche, al momento sembra molto difficile da
raggiungere.
Il nuovo esecutivo nasce quindi in tempi record, e con altrettanta
velocità potrebbe non ottenere la fiducia dai due rami del Parlamento,
considerando che al momento nessuna forza politica in Parlamento,
oltre il Partito Democratico è disposta a concederla l. A quel punto
l’Italia tornerà al voto, magari ai primi di settembre, con una
campagna elettorale sotto gli ombrelloni., con lo stesso sistema
elettorale, gli stessi partiti, e probabilmente gli stessi candidati.

Con l’operazione Rete Magica la
Casaleggio entra a Palazzo Chigi
di Giovanna Vitale*

                                           Il prestanome. Non è
esattamente lusinghiero l’ultimo appellativo affibbiato al premier
incaricato Giuseppe Conte. È quello che però rende meglio l’idea
coltivata con tenacia alla Casaleggio Associati. Dove – dopo aver
concepito in laboratorio il capo politico dei 5S – si avviano a
realizzare un progetto ancor più ambizioso: trasformare un anonimo
professore di diritto nel perfetto esecutore del contratto
pentaleghista, volto del Movimento ma senza voce propria, interprete
di una linea dettata per interposto staff e decisa altrove. A Milano.
Nel quartier generale della Srl dove si è già insediata la cabina di
regia del nuovo primo ministro.

È solo una questione di tempo. Poi, appena il governo nascerà, il
Giglio ormai appassito che per quattro anni ha dettato legge a Palazzo
Chigi verrà sostituito dalla “Rete Magica”, in omaggio al totem
dell’azienda informatica da cui tutto discende e al tramaglio
congegnato per imbrigliare “l’avvocato del popolo“. Un poker di
pretoriani che dovrà misurarne i passi e le parole, curarne l’immagine
pubblica e i profili social, scriverne i discorsi e smistarne le
telefonate. Hai visto mai che anziché Macron chiami l’ex amica Maria
Elena Boschi.

                                            Capo indiscusso della Rete
e finora al servizio di Luigi Di Maio sarà Rocco Casalino, già al
vertice della Comunicazione 5S, scalata in cinque anni partendo dal
basso, come vice al Senato di Claudio Messora: per meriti acquisiti
sul campo sarà lui il portavoce di Conte, più voce che porta, in
realtà. Di lui si sa pressoché tutto. Classe ’72, una laurea in
ingegneria, comincia la sua “carriera” come concorrente del Grande
Fratello, che tuttavia non riesce a garantirgli la ribalta sperata:
uscito dalla Casa, Rocco entra nella controversa cerchia di Lele Mora,
fa l’opinionista in trasmissioni di intrattenimento, facendosi notare
per le litigate spesso furiose e alcune esternazioni razziste (“I
poveri hanno un diverso odore della pelle”, disse alle Iene).

                                           La classica storia di
meteora tv. A cui lui tuttavia non si arrende: per quattro anni
conduce un programma mattutino su TeleLombardia finché, nel 2011,
spedisce un video-messaggio caricato su Youtube a Grillo e Casaleggio
padre che lo accolgono a braccia aperte, anche se nel 2013 la sua
candidatura alle regionali viene bocciata dai militanti storici che
non lo accettano. Nel frattempo, però, il M5S vince il Parlamento e
per Casalino inizia l’ascesa alla vetta del potere. Esercitato in modo
inflessibile: è lui a decidere chi deve andare in tv, apparire e
dunque esistere. Imponendo a tutti i talk il “codice Rocco“: gli
ospiti grillini non devono mischiarsi, interloquire con altri
politici, l’unico contraddittorio ammesso è coi giornalisti, meglio se
clementi, sennò addio per sempre.

Quando Di Maio scala il Movimento, lui diventa la sua ombra.
Scivolando alle spalle di Conte – con cui condivide un incidente di
curriculum: il vantato master americano in Economia è stato smentito
dall’università di Winchester – appena l’asse pentaleghista si salda
sul nome del professore. A cui Casalino scrive il suo primo discorso
da capo del governo incaricato. Vergato poco prima di salire al
Quirinale nella sede romana della Casaleggio, dove ha il domicilio
l’altro dioscuro del futuro premier: Pietro Dettori (sopra nella foto
con Luigi Di Maio) . Destinato, lui, alla guida dell’Ufficio di
Presidenza: nessun atto, decreto, mail o missiva potrà entrare o
uscire senza che l’ex dipendente della srl meneghina lo veda.
Figlio di un imprenditore sardo amico di Casaleggio senior, entra in
azienda grazie alla sua abilità coi social. Il passaggio al blog di
Grillo viene naturale: è Dettori a scrivere i post più virulenti. Alla
morte di Gianroberto, il figlio Davide lo vuole con sé
nell’Associazione Rousseau, ma sarà l’uscita dell’eurodeputato David
Borrelli a consentirgli la promozione a socio della piattaforma che
gestisce le votazioni più importanti (da ultimo, l’accordo Lega-5S), i
dati degli iscritti, le leggi condivise con i cittadini. Un fortino di
dati e informazioni che dà un grande potere a chi lo controlla. E che
ora si trasferisce armi e bagagli nel cuore dello Stato. Dove
approderà anche Maria Chiara Ricciuti, altra pedina fondamentale dello
staff di Di Maio, che di Conte sarà il capo dell’ufficio stampa.
Maria Chiara Ricciuti

Trentenne romana ma di origini abruzzesi, “giornalista fuori tempo e
fuori epoca” si definisce lei, ha lavorato per anni per l’Italia dei
Valori, la prima forza politica ad avvalersi dei servigi della
Casaleggio Associati. Con lei, vestale dell’agenda di Conte, sbarcherà
a Palazzo Chigi pure un’altra fedelissima del capo politico: Cristina
Belotti, 29 anni, già responsabile Comunicazione del M5S in Europa
(abbandonata dopo lo scandalo sui rimborsi truccati) e già in prima
linea nel tour per le Regionali siciliane. La Rete del premier è
pronta. Dalla regia di Milano è tutto, a voi la linea.

*opinione tratta da Rep:

Di Maio-Salvini: “Il nostro premier
è Conte. Nessuno ha nulla da
temere”
ROMA – Uscendo dal colloquio con il presidente della Repubblica
Sergio Mattarella il leader di M5S Luigi Di Maio ha dichiarato “Credo
che oggi possiamo dire che siamo di fronte a un momento
storico. Abbiamo indicato il nome al presidente della Repubblica che
può portare avanti il contratto di governo. Ovviamente il nostro
obiettivo era ed è migliorare la qualità della vita degli italiani e
in questi 80 giorni abbiamo imposto un metodo: prima si discuteva di
temi e poi di nomi“.

“Le questioni degli italiani vengono prima di ogni cosa – ha aggiunto
il capo politico di M5S – Sono orgoglioso di aver portato al governo
il nostro programma elettorale, ci sono i 5 stelle, ci sono i nostri
20 punti. Siamo pienamente soddisfatti del lavoro nei prossimi giorni
speriamo che si possa iniziare questo nuovo percorso per la
Repubblica. Sono stati 80 giorni in cui ne è valsa la pena prendere
tempo perché finalmente nasce la terza Repubblica“.

“Nel contratto di governo ci sono le Cinque stelle, i venti punti
indicati in campagna elettorale e tante soluzioni alle sofferenze
degli italiani, dal reddito di cittadinanza alla legge Fornero – ha
spiegato ancora Di Maio -, a più spazi di bilancio in Europa, dalla
lotta al gioco d’azzardo, al superamento della buona scuola, alla
sanità, con la meritocrazia per chi è a capo degli ospedali. Ci sono
le grandi battaglie storiche del M5s, come l’acqua pubblica“.
Il capo politico del Movimento Cinque Stelle parla di “una grande
occasione per l’Italia“. Di più, “un momento storico“. E sottolinea:
“Abbiamo lavorato notte e giorno per portare a casa questo
risultato. Abbiamo indicato al capo dello Stato il nome il migliore,
che può portare avanti con una leadership solida, il contratto di
governo. Qualora il presidente dovesse valutare il nostro nome come un
nome giusto, sarà un governo che non si basa sui cambi di casacca”.
Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti al Quirinale

Subito dopo è stata la volta di Matteo Salvini: “Noi ci siamo, siamo
pronti, abbiamo fatto il nome e indicato la squadra, vogliosi di far
crescere l’economia del Paese. Il governo di cui vogliamo far parte
vuole aumentare il lavoro – ha detto il leader leghista -. Nessuno ha
niente da temere, anzi. Ovviamente vogliamo un governo che metta
l’interesse italiano al centro, prima gli italiani, rispettando
tutti”. Il segretario della Lega ha insistito sul fatto che il governo
che nasce “è un governo di speranza. Le nostre politiche saranno
diverse da quelle che ci hanno preceduto“. Salvini ha mandato un
messaggio “fuoriconfine”: “Qualcuno all’estero cambi prospettiva. Il
nostro sarà un governo di speranza e di futuro, ma non remissivo“.
Come già prima di lui Di Maio, che ha ripetuto più volte l’aggettivo
“politico”riferito a Conte, anche Salvini si è affrettato a difendere
la scelta del candidato: “Tutti i premier sono politici”, ha risposto
a chi gli chiedeva se Giuseppe Conte fosse un premier “tecnico”.

Sia Di Maio sia Salvini hanno commentato le critiche internazionali di
questi giorni – ultimo dei quali quello del Ppe all’Europarlamento – e
l’allarme lanciato dall’agenzia di rating Fitch che hanno condizionato
i mercati portando anche lo spread BTp-Bund a toccare 187 punti su
massimi da ottobre scorso e il rendimento dei decennali italiani al
2,41%, top dal novembre 2014. Il leader della Lega ha detto: “Leggiamo
con interesse e stupore dichiarazioni che arrivano da ministri e
commissari che non hanno nulla di cui preoccuparsi: il governo che
vogliamo formare vuole far crescere l’Italia e aumentare il lavoro,
renderlo più stabile, e riportare le aziende in Italia“.

il professor Giuseppe Conte
Giuseppe Conte il presidente “indicato” da Di Maio e Salvini, (non
eletto dagli elettori ) aveva mandato un curriculum di 18 pagine per
la propria candidatura a membro del Consiglio di presidenza della
giustizia amministrativa, in pratica l’organo di autogoverno della
magistratura amministrativa di cui è vicepresidente. Nato 54 anni fa
a Volturara Appula, paesino nella provincia di Foggia, Conte dopo la
laurea in Legge all’ Università La Sapienza di Roma, è stato borsista
del Cnr e poi ha “approfondito” gli studi giuridici nelle facoltà più
in vista del mondo occidentale: dall’ Università di Yale in America
alla Sorbonne di Parigi , Dalla Duquesne a Cambridge,
dall’International Kulture Institute di Vienna alla New York
University.

Grazie a questo percorso di studio Giuseppe Conte non poteva che
diventare professore universitario: attualmente insegna a Firenze e
alla Luiss di Roma come docente di Diritto privato. Oltre a essere
avvocato patrocinante in Cassazione, condirettore della collana
Laterza dedicata ai “Maestri dei diritto” e componente della
commissione cultura di Confindustria. Ma è anche ritenuto un esperto
di “gestione di grandi imprese in crisi“, che potrebbe essere utile
nelle spinose vicende come Ilva ed Alitalia.

il presidente Mattarella

Domani molto probabilmente il prof. Conte potrebbe ricevere l’incarico
di “premier”. Prima, in mattinata, è in programma l’incontro di
Mattarella con i presidenti di Senato e Camera      Alberti Casellati
e Fico. Ma è bene ricordare che il presidente della Repubblica, in
base a poteri che la Costituzione gli assegna, può anche dire no
all’indicazione di un premier che arriva dai partiti. Anche quando
quel nome viene dalla maggioranza, e perfino dal partito di
maggioranza relativa. È già successo. Ed è stato proprio Sergio
Mattarella,    lo scorso 12 maggio nel pieno delle polemiche, intese,
per il nuovo governo, a rievocare il clamoroso precedente. Un modo per
avvertire i partiti in guerra, e mentre ancora non si era profilata
l’intesa fra grillini e leghisti, che si sarebbe avvalso “in pieno” di
tutte le prerogative che la Carta costituzionale gli concede
all’articolo 92, poche ma esplicite righe: conferiscono solo e
soltanto al presidente della Repubblica “la nomina del presidente del
Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, dei ministri“. Un
“caso illuminante“, come lo ha definito Mattarella, “del potere di
nomina del Presidente del Consiglio dei ministri, nomina per la quale
non ritenne di avvalersi delle indicazioni espresse dal principale
gruppo parlamentare, quello della Democrazia Cristiana”.

L’articolo 95 della Costituzione in primo luogo, che recita così. “Il
presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del
governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed
amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”.
Cioè, un signor nessuno, senza curriculum, una figura frutto di una
mediazione al ribasso e che siede a Palazzo Chigi ma è solo
“eterodiretta” dai leader politici, potrebbe anche non superare
quell’asticella…

Contratto di governo M5S-Lega, ecco il documento definitivo

contratto_governo

Le menzogne di Travaglio per
attaccare Renzi e difendere i suoi
amati “grillini”
Stroppa con il Direttore del The Wall Street
Journal

ROMA – Andrea Stroppa è nato a Roma nel 1994 e un curriculum da fare
invidia a chiunque. Infatti. ad appena 23 anni è ritenuto tra gli
esperti di cyber sicurezza più autorevoli in Italia. Anche se lui con
grande umiltà dice: “Non credo di essere un esperto – ha scritto in un
lungo post sulla sua pagina Facebook – ma credo di saperne qualcosa in
tema di cyber security“. Entrato giovanissimo nelle file di Anonymous
Italia, il gruppo di hackers etici, è stato lui l’autore del report
pubblicato alcuni giorni fa dal ‘New York Times‘ nel quale è stato
dimostrato come la pagina ufficiale di ‘Noi con Salvini‘ condivida gli
stessi codici Google con siti di disinformazione e con una pagina non
ufficiale di propaganda del Movimento 5 Stelle.

Stroppa fa parte di un team di ricercatori che lavorano tra Italia,
Gran Bretagna e Stati Uniti. Ricercatore di Ghost Data e consulente
di Matteo Renzi sulla cyber security, Dopo aver pubblicato numerosi
dossier e ricerche in tema di contraffazione online, malaware e
botnet,    il 23enne romana nel suo curriculum annovera anche
collaborazioni con i quotidiani ‘La Stampa’ e la Repubblica‘. I suoi
report sono stati pubblicati e diffusi oltre che sui prestigiosi
quotidiani americani New York Times, Washington Post, Wall Street
Journal   anche sulla Cnn, sui magazines americani ‘Vanity Fair‘ e
Forbes noti e letti in tutto il mondo solo per citarne alcuni.
Nei giorni scorsi, è stato
indicato come uno dei “Carrai boys” e il “pupillo di Marco Carrai“, il
manager e imprenditore tra i più noti esperti italiani di cyber
sicurezza, amico e stretto collaboratore del segretario del Pd. Ed è
per questo motivo che Stroppa è finito nel mirino del solito Marco
Travaglio, che sabato scorso in un suo editoriale su “Il Fatto
Quotidiano”, come sempre poco attendibile,         l’ha definito “uno
smanettone di 23 anni che da minorenne faceva l’hacker per Anonymous
Italia durante gli attacchi ai siti di Polizia, Carabinieri, governo,
Viminale, Guardia costiere e al blog di Grillo”.

Sul Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, l’altro giorno si
occupavano di Stroppa alle pagine 1,2,3 compreso nell’editoriale dello
stesso direttore, scrivendo “[…] Del suo amico Marco Carrai, che s’è
messo in società con uno smanettone di 23 anni, Andrea Stroppa, che da
minorenne faceva l’hacker per Anonymous Italia durante gli attacchi ai
siti di Polizia, Carabinieri, governo, Viminale, Guardia costiera e –
pensate un po’ – al blog di Grillo; perciò fu imputato e ottenne il
perdono giudiziale dal Tribunale dei minori”. Non contenti quelli del
Fatto, a pagina 2, pubblicavano un articolo su Stroppa a firma di
Virginia della Sala e Carlo di Foggia, sostenendo che “Non è un
tecnico ma può contare su una notevole rete di relazioni “, mentre a
pagina 3, a firma di Wanda Marra viene definito “esperto di cyber
security“. Basta tutto ciò per capire come sia crollata
l’autorevolezza (e le copie vendute in edicola) sotto la direzione di
Travaglio.
Stroppa non ha esitato un solo attimo a smentire Travaglio e ieri gli
ha dedicato indirizzandogli un lungo post di replica via Facebook
scrivendogli . “Caro direttore Travaglio, sì ho fatto parte di
Anonymous. Avevo 17 anni, ho fatto degli errori, ho commesso dei reati
e ne ho risposto di fronte la legge – si legge nel post – di fronte un
tribunale, quello dei minorenni. Ho ottenuto il perdono giudiziale e
ho ricominciato la mia vita facendo volontariato, costruendo la mia
carriera con un lavoro lungo e appassionato. Nessuna scorciatoia, mi
hanno proposto libri e interviste ‘sull’hacker di Anonymous’, potevo
prendere la strada della notorietà, ho scelto quella del sacrificio“.

“Non ne ho mai parlato pubblicamente, non per vergogna, ma perché io
penso che dei miei errori sia stato corretto rispondere di fronte la
legge, non di fronte a lei, a voi – prosegue Stroppa -. Come forse
saprà, i minori sono tutelati dalla legge sulla privacy e tutto quello
che riguarda i loro processi non devono diventare di dominio pubblico.
Lo sono diventati, prima con il libro di Belpietro ‘I segreti di
Renzi‘, poi con un articolo di Fittipaldi su ‘L’Espresso‘ e ancora
oggi sul suo giornale. Io non contesto ‘i guai giudiziari’ e guardi,
non contesto in questa sede, nemmeno il fatto di aver violato
nuovamente la mia privacy, ma contesto le falsità. Non ho mai
attaccato i siti di Polizia, Carabinieri, Governo, Viminale e il blog
di Grillo come lei scrive. E nemmeno il sito di D’Alema come ha
scritto Fittipaldi. Sono andato di fronte il tribunale a rispondere
alla legge italiana, per altri fatti. E questo come può intuire si
chiama diffamazione“.
In merito ai suoi rapporti con Marco
Carrai, Stroppa ha smentito di essere in società con l’imprenditore
toscano. Circostanza confermata da Carrai lo scorso 27 novembre sulle
pagine del ‘Corriere della Sera‘ “Stroppa lo conosco e per un periodo
ha collaborato con una mia società - ha detto l’imprenditore -.
Chiunque può andare al registro delle Camere di commercio e vedere che
non ho mai avuto società con lui“. Nella lettera aperta a Travaglio,
il cyber esperto rimarca di aver “sempre lavorato con persone più
brave di me e sono orgoglioso di aver avuto accanto persone che mi
hanno insegnato molto, non soltanto dal punto di vista professionale“.

Stroppa contesta le affermazioni pubblicate da Travaglio nel suo
articolo dove afferma inoltre: “Del resto Renzi sospetta l’intervento
di una ‘ mano’ russa. E chi gliel’ha detto? Una società di
sorveglianza informatica. E di chi è? Del suo amico Marco Carrai, che
s’è messo in società con uno smanettone di 23 anni, Andrea Stroppa“.
Non c’è nessuna società con Marco Carrai e io personalmente non ho mai
parlato di “mano russa”. Anzi, le dirò di più: durante le elezioni
americane ho pubblicato un report in esclusiva con Forbes dove
documentavo che un importante numero di russi seguivano il candidato
Trump e lo sostenevano attivamente, ma che non era possibile
documentare nessun legame ufficiale con il governo russo. Altroché i
suoi giochini linguistici”
Stroppa ed il vicepresidente di
Google

“Non cerco da voi né dagli esperti che consultate per attaccarmi i
vostri applausi, agli ‘esperti‘ che continuano da mesi ad insultarmi
dico solo: se siete più bravi sono contento per voi – sottolinea
Stroppa -. Vi auguro tanta felicità e gioia nella vostra vita. Su una
cosa però voglio essere chiaro: non mettete in dubbio la mia onestà,
il mio onore, non permettetevi di infangare la mia persona“.

Stroppa chiude quindi il suo post con una dura “stoccata” a Travaglio:
“Non ho bisogno della sua stima – scrive – penso che il mondo sia
molto più grande de ‘Il Fatto Quotidiano’ e non credo sia un caso se
le mie ultime ricerche sono state pubblicate con il ‘Washington Post‘,
‘Associated Press‘, ‘Wall Street Journal‘ e non con il suo giornale. E
le assicuro che non è un caso nemmeno il fatto che quando voglio
capire di economia, tecnologia, cultura, geo politica non leggo il suo
quotidiano (…) Caro direttore Travaglio la coscienza è quella cosa che
quando siamo soli ci guarda e non possiamo nasconderci. Mi auguro che
lei possa affrontarla a testa alta”.

Primarie Pd, il punto del direttore
dell’ANSA
Ecco un opinione equilibrata, seria, ragionata e riflessiva. Poche
parole, ma serie e sopratutto non “schierate”. Da ascoltare bene.
Capitale Italiana della cultura
2018. Franceschini: “importante
strumento per promozione territori
e Italia museo diffuso”

nella foto il Ministro Dario Franceschini

Sono 21 le città in corsa per il titolo “Capitale Italiana della
Cultura 2018”. Lo ha reso noto il Ministero dei Beni e della Attività
Culturali e del Turismo, che ha trasmesso al presidente della
Conferenza Unificata l’elenco delle città candidate per avviare la
procedura di valutazione che si concluderà entro il 31 gennaio 2017.
Come nelle precedenti edizioni, la Capitale Italiana della Cultura
2018 riceverà dal Governo un contributo pari ad un milione di euro per
la realizzazione del progetto.

La giuria, chiamata ad esaminare i 21 progetti, sarà composta da sette
esperti di chiara fama nel settore della cultura, delle arti, della
valorizzazione territoriale e turistica. Entro la metà di novembre
verrà definita una short list delle 10 città finaliste, tra queste
sarà selezionata la vincitrice entro il 31 gennaio 2017. “Le
esperienze finora realizzate, da quella in corso a Mantova fino alla
prossima di Pistoia, dimostrano – dice il Ministro dei Beni e delle
Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini – come il titolo
di Capitale Italiana della Cultura sia in grado di mettere in moto un
meccanismo di progettazione virtuosa e di promozione delle città,
coinvolgendo tutte le realtà economiche e sociali dei territori e
rafforzando il concetto di Italia museo diffuso”.

nella foto un angolo panoramico di Altamura

L’iniziativa “Capitale Italiana della Cultura” è volta a sostenere,
incoraggiare e valorizzare la autonoma capacità progettuale e
attuativa delle città italiane nel campo della cultura, affinché venga
recepito in maniera sempre più diffusa il valore della leva culturale
per la coesione sociale, l’integrazione senza conflitti, la
creatività, l’innovazione, la crescita e infine lo sviluppo economico
e il benessere individuale e collettivo.

Il conferimento del titolo “Capitale Italiana della Cultura”, in linea
con l’Azione UE “Capitale Europea della Cultura 2007-2019”, si propone
i seguenti obiettivi: il miglioramento dell’offerta culturale; il
rafforzamento della coesione e dell’inclusione sociale, nonché dello
sviluppo della partecipazione pubblica; l’incremento dell’attrattività
turistica; l’utilizzo delle nuove tecnologie; la promozione
dell’innovazione e dell’imprenditorialità nei settori culturali e
creativi; il conseguimento di risultati sostenibili nell’ambito
dell’innovazione culturale.

Ecco l’elenco delle 21 città in corsa per il titolo di Capitale
italiana della cultura 2018:

 1. Alghero
 2. Aliano
3.   Altamura
 4.   Aquileia
 5.   Candidatura congiunta Viterbo – Orvieto – Chiusi
 6.   Caserta
 7.   Comacchio
 8.   Cosenza
 9.   Ercolano
10.   Iglesias
11.   Montebelluna
12.   La Spezia
13.   Ostuni
14.   Palermo
15.   Piazza Armerina
16.   Recanati
17.   Settimo Torinese
18.   Spoleto
19.   Trento
20.   Unione dei Comuni Elimo Ericini
21.   Vittorio Veneto

Palazzo Chigi : si procede per il
prestito di 400milioni per l’ ILVA
 (ADGNEWS24 ) – Si e’ tenuto ieri a Palazzo Chigi un vertice
sull’ILVA,   presieduto dal premier Matteo Renzi a cui erano presenti
il consigliere economico, Andrea Guerra, i commissari straordinari
nominati dal Governo, Pietro Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba,
Franco Bassanini presidente e Giovanni Gorno Tempini, amministratore
delegato della Cassa depositi Prestiti , ed i ministri Piercarlo
Padoan (Economia), Federica Guidi (Sviluppo Economico) ed
i sottosegretari Claudio De Vincenti (Presidenza del Consiglio) Teresa
Bellanova (Welfare), Sandro Gozi (Affari europei) in cui è stata
analizzata la questione in merito al finanziamento da 400 milioni di
euro che i commissari potranno ricevere dalla Cassa Depositi e
Prestiti si accollerà la maggior parte del prestito: 300 dei 400
milioni. Gli altri 100 saranno invece suddivisi in parte uguali tra
due banche, grazie alla garanzia fornita dallo Stato, che era atteso
da diverse settimane, secondo quanto previsto dall’ultima Legge
sull’Ilva, (numero 20 del 4 marzo scorso).

Quindi dopo i 156 milioni svincolati ed ottenuti nelle settimane
scorse da Fintecna secondo quanto previsto dalla legge , è arrivato il
via libera al prestito da 400 milioni che l’ ILVA dovrà utilizzare
per gli investimenti industriali. Sempre secondo fonti di Palazzo
Chigi, nella riunione sono state approfondire le procedure per la
costituzione della societa’ che dovrebbe entrare nel capitale della
nuova ILVA per risanarla e sopratutto rilanciarla sul mercato.

I commissari dell’ILVA stanno definendo con i legali il testo relativo
al patteggiamento per il processo “Ambiente Svenduto”, da porre al
vaglio della Procura di Taranto che aveva richiesto il rinvio a
giudizio della società siderurgica quale “soggetto giuridico”.
Poichè l’ ILVA si trova come ben noto,           in amministrazione
straordinaria,        la     richiesta       di      patteggiamento
necessita dell’ autorizzazione del Ministero dello Sviluppo
Economico che dovrebbe arrivare per la fine della prossima settimana
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