Dl crescita: Mise, "Arcelor Mittal già informata" - Il Corriere del Giorno
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Dl crescita: Mise, "Arcelor Mittal già informata". ROMA – “Sorprende la comunicazione diffusa quest’oggi dalla società Arcelor Mittal, visto che la medesima era stata informata già a febbraio 2019 degli sviluppi circa la possibile revoca dell’immunità penale introdotta nel decreto- crescita, alla luce della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Gip ( dr. Ruberto ndr) di Taranto l’8 febbraio scorso sui diversi provvedimenti (tra cui proprio l’immunita’ penale) emessi dai Governi precedenti per salvare lo stabilimento siderurgico” comunica il Mise in una nota. “In vista dunque della prossima decisione della Consulta e della sentenza adottata nel gennaio 2019 dalla Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) di condanna dell’Italia sempre sulla vicenda Ilva, – continua la nota – il Mise aveva preventivamente informato Arcelor Mittal della questione, rappresentando allo stesso gestore che si sarebbe individuata una soluzione equilibrata volta alla salvaguardia dello stabilimento e dell’indotto occupazionale, nonché al rispetto, ovviamente, delle decisioni adottate dai giudici. A tal proposito, il Mise e tutto il Governo sono al lavoro affinché l’azienda continui ad operare nel rispetto dei parametri ambientali“. ArcelorMittal Italia ieri con una nota era tornata a mettere in discussione la possibilità di raggiungere secondo i termini stabiliti gli obiettivi del piano di rilancio sull’ex Ilva di Taranto, rilevata dall’amministrazione straordinaria l’anno scorso e gestita in affitto in attesa dell’acquisto a titolo definitivo. Ma in questo caso non dipende dal mercato , ma dalle decisioni politiche. La nuova proprietà
non condivide il testo del futuro decreto crescita, nella parte in cui ha eliminato (giustamente secondo noi) le tutele legali cioè la cosiddettà “immunità” connessa all’adempimento del piano ambientale. Secondo ArcelorMittal il Governo, cambia le regole del gioco iniziali, e a suo dire tutto ciò può condizionare il raggiungimento degli obiettivi accordati alla firma del contratto. “Il decreto crescita, nella sua formulazione attuale – commenta una nota del gruppo – cancella le tutele legali esistenti quando ArcelorMittal ha accettato di investire nello stabilimento di Taranto. Tutele che è necessario restino in vigore fino a quando non sarà completato il piano ambientale, per evitare di incorrere in responsabilità relative a problematiche che gli attuali gestori non hanno causato”. Forse è il caso la multinazionale franco -indiana si renda conto che la Legge è e deve essere uguale per tutti, e spieghi loro che l’applicazione delle norme non è mai retroattiva, quindi non si capisce come possa preoccuparsi di problematiche del passato di cui non sono responsabili. E peraltro Arcelor Mittal non ha accettato di investire, ma bensì ha chiesto di investire a Taranto affrontando una gara con un competitor. Una differenza non da poco… Missione compiuta. Parlamento umiliato di Alessandro De Angelis* Missione compiuta: 167 sì, 78 no, 3 astenuti. Parlamento umiliato, o, se preferite, sfregiato, violentato, chiuso come una scatola di tonno, altro che trasparenza. Chiamato a votare la manovra in tarda notte, senza neanche il tempo di leggerla. Un “marchettificio del cambiamento”, degno di Gava e Pomicino, con soldi sparsi qua e là, tra una mancia a Crotone, una a Reggio Calabria e un bel condono di Natale, su misura per i finti poveri che frodano il fisco, altra tomba dell'”onestà, onestà”. Cifre coperte fino all’ultimo minuto utile, come in un gioco delle tre carte in cui con l’indebitamento futuro si pagano quota cento e reddito di cittadinanza, misure buone per mietere voti alle Europee, anche se sforbiciate di quattro miliardi, dopo la grande sottomissione a Bruxelles. È l’arroganza di un potere che si sente onnipotente, comprimendo tempi, discussione, diritti delle minoranze, con lo strafottente pressappochismo di conti che arrivano tardi e pure scritti con
sciatteria. La scena è surreale, quando a metà pomeriggio, in commissione bilancio, arriva finalmente il maxi- emendamento e si scopre la manovra “nascosta”, con quattro commi sbagliati nei numeri, altri ripetuti tre volte, come una brutta copia scritta in fretta. Surreale come il governo che scompare per un’ora, per la bella copia e qualche fotocopia, con i parlamentari del Pd che urlano fuori dalla porta della presidenza, “fuori il testo”, “ma la trasparenza dov’è?”. A un certo punto viene stralciato il comma sugli Ncc, la cui variazione è affidata a un consiglio dei ministri notturno, il che può apparire un dettaglio ma un dettaglio non è, anzi è una clamorosa violazione delle regole, perché non si può togliere un comma, se già c’è stata la bollinatura della ragioneria. Scelta politica, giustificata come regolamentare, come politico era il rogo delle bandiere pentastallate bruciate dai lavoratori degli Ncc. “Dateci un testo, vergogna, siete dei buffoni”, urlano i senatori delle opposizioni davanti all’ufficio del presidente della Commissione Bilancio Daniele Pesco poco prima che riprenda l’esame del maxiemendamento. “Il sottosegretario Garavaglia – spiega il capogruppo Pd in commissione Antonio Misiani – ci ha detto un’ora e mezzo e fa che ci sono delle correzioni formali, di drafting, ma ancora non sappiamo niente“ Ma, in fondo, chissenefrega: è il cambiamento bellezza. Chissenefrega se questo lavoro di riscrittura il 22 dicembre – ripetiamo: il 22 dicembre – si protrae fino a alle sette di sera. E il testo arriva in Aula solo in tarda sera, in un clima da bolgia: “C’è vita, c’è vita”, dice Alberto Bagnai, uno dei pochi parlamentari che si vede in giro. Mentre alcuni dei suoi colleghi della Lega sono in sala Cadorna a brindare sul finanziamento della metro Milano-Brescia, comunque una soddisfazione nella Caporetto di una manovra dettata da Bruxelles. Aula sospesa, più volte, rissa quasi sfiorata, più volte, parlamentari dalla maggioranza che non intervengono in discussione, perché il loro compito non è intervenire, ma ratificare, obbedire, eseguire. Dettaglio che dice tutto. Matteo Renzi lo coglie, provocando: “Voi siete stati trattati come il pubblico dei talk show, capaci di applaudire, non di dire alcunché”.
La forma è sostanza. E l’annullamento del processo democratico è quasi peggio della manovra stessa. Istituzioni vissute come un impiccio da cui liberarsi, luogo da cui tenersi lontano, perché la politica populista è altrove, affidata alla comunicazione del “fatto, fatto, fatto” di Luigi Di Maio che, nell’ansia da social, posta anche la tabella sbagliata e viene criticato dai suoi su facebook, perché il grafico pubblicato dimostra che l’occupazione era salita ai tempi in cui Renzi aveva dato gli sgravi fiscali alle imprese. Affidata alla superficialità dello spin per cui anche i pastrocchi odierni sono colpa dei soliti tecnici, capri espiatori della politica dell’improvvisazione, che comunica tanto ma governa poco. È il leitmotiv pentastellato di questi mesi, le perfide burocrazie che ostacolano il cambiamento, eccessivo anche per la Lega. Davanti a un bianchino, Roberto Calderoli, uno che le cose le sa e le sa fare, dice a un collega: “Non farmi parlare. Quando non tornano i conti, è la politica che lo deve dire ai tecnici, mica il ragioniere generale dello Stato. Quello ti dice ciò che è fuori bilancio, ma le scelte le devi fare tu politico“. Parole che, fino a qualche tempo fa, sarebbero state ovvie, banali. Quando il processo di governo era istituzionale, non extra-istituzionale, tutto proiettato solo “fuori” e rivolto all’opinione pubblica da conquistare. Le foto, si sa, rendono talvolta più delle analisi. Danno il senso degli eventi. Come l’immagine dei banchi del governo vuoti, quando inizia la discussione sulla manovra, col solo ministro Tria seduto ad ascoltare. I due grandi dioscuri del governo, sono altrove, perché concepiscono questo altrove come il luogo della politica, sia essa una curva o un talk show, che parli al paese più delle fastidiose istituzioni. L’imbarazzo dei pentastellati è palpabile, in una giornata che certifica ciò che non sono più. Alla buvette Nicola Morra è avvicinato da qualche collega: “Certo che a parti invertite… Cosa avremmo fatto?”. Morra fa il vago, visibilmente imbarazzato: “Faccio a tutti gli auguri di Natale”. Andrea Cioffi, attualmente sottosegretario, gli sussurra: “A parti invertite stavamo già sui banchi del governo. In fondo dove stiamo adesso” (vuole essere una battuta, ndr). Perché la storia di un testo votato al buio, di notte, con una diretta tv che fa concorrenza a Marzullo, non certo un’ora di punta, è la storia di una clamorosa smentita si sé dell’M5s, che solo qualche anno fa invocava l’apertura della scatola di tonno e la sacralità del Parlamento profanata da canguri ed emendamenti killer. A un certo punto nel Pd qualcuno suggerisce un gesto ad effetto: “Chiediamo di essere ricevuti da Mattarella, perché quel che sta accadendo è inaudito”. Dopo attenta riflessione i più saggi valutano che è inutile, visto che il suo appello al pluralismo, al rispetto delle regole e delle istituzioni, è stato baldanzosamente ignorato. E poi,
in fondo, quel che sta accadendo lo vede da solo, senza bisogno che venga chiamato in causa. Se ha deciso di rimanere in silenzio, magari affidando al discorso di Capodanno qualche considerazione a bocce ferme, sarebbe stato inutile. Magari ha realisticamente valutato che Parigi val bene una messa, e cioè la resa all’Europa sulla manovra giustifica l’indulgenza sull’odierno sfregio delle istituzioni. E comunque avrebbe compromesso quel ruolo di “angelo custode” che Di Maio gli ha riconosciuto, utile in futuro per mantenere un’interlocuzione. Perché una presa di posizione in una giornata che segna uno spartiacque nella vita democratica segna un discrimine, come segna un discrimine la chiusura sostanziale del Parlamento. Perché poi è difficile riaprirlo. *vicedirettore del quotidiano online HuffingtonPost Povero Conte, povera Italia di Gianni Pittella* Palazzo Chigi Ieri è stata la giornata più difficile di Conte da quando è a Palazzo Chigi. Al centro di una tempesta perfetta, mentre a Bruxelles era impegnato a convincere gli altri leader europei della “bellezza” della manovra italiana, continuando a ricevere solo critiche dai colleghi e dalle istituzioni europee, in Italia i suoi colleghi vicepremier
litigavano e annichilivano la credibilità di tutto il governo italiano. Stanno venendo al pettine tutti i problemi di una maggioranza tenuta insieme solamente da una sete di poltrone, in disaccordo su tutto e quindi incapace anche di formare coalizioni europee che possono essere utili ai propri scopi sovranisti. Ieri tutti, ma proprio tutti hanno criticato la manovra di Conte. Non solo la Commissione, ma anche gli Stati membri hanno espresso la loro forte preoccupazione per quanto ha proposto il governo italiano. Critiche dalla Finlandia, critiche dall’Austria, critiche pure dal premier olandese Rutte, che per sicurezza ha organizzato anche un bilaterale con Conte per esprimere la sua preoccupazione sui conti italiani. Gli “amici” di Visegrad? Muti. Non una parola di sostegno dalla Polonia, non una dall’Ungheria. Isolamento totale per l’Italia. Poi in serata è arrivato il carico tanto atteso da parte della Commissione: una lettera recapitata da Moscovici al ministro Tria che chiedeva come mai l’Italia avesse presentato una proposta di manovra finanziaria in contrasto non solo con le regole europee, ma anche con le regole che lo stesso governo Conte aveva approvato al Consiglio Europeo di fine giugno. Il colmo.
Eppure, non è in corso un accanimento contro l’Italia. Quello che sta succedendo è logica conseguenza di un governo che non è riuscito a proporre misure per la crescita e incapace di fare alleanze in Europa in grado di garantire flessibilità. Io condivido con la maggioranza gialloverde che il problema dell’Italia non sia tanto il debito quanto la scarsa crescita; che non ci possiamo impiccare sui decimali e sugli algoritmi. Conte avrebbe però dovuto fare quello che hanno fatto i governi Renzi e Gentiloni: negoziare con l’Europa flessibilità per fare una manovra a debito per fare le infrastrutture, l’alta velocità da Salerno alla Sicilia, il cablaggio del Mezzogiorno, una politica per le piccole medie imprese per la sostenibilità ambientale. Questa è politica per la crescita, ma di questo non c’è nulla nel documento economico e finanziario, dove si parla di condoni fiscali, di abbassare le tasse ai ricchi e di una riforma delle pensioni il cui peso cadrà totalmente sulle spalle dei giovani. Intanto è finito un altro Consiglio Europeo in cui è stato deciso poco o niente. Ancora nessun passo avanti sulla Brexit, troppo poco sulla riforma dell’eurozona. Dalle conclusioni del Consiglio è addirittura sparito qualsiasi riferimento ai ricollocamenti dei richiedenti asilo e alla riforma di Dublino. Non è rimasto nemmeno più un generico accenno alla solidarietà tra i Paesi membri sul tema
dell’immigrazione. Conte torna a casa per sedare gli animi dei litiganti, ma in valigia si porterà tanta amarezza e nessuna buona notizia per l’Italia e gli italiani. *Senatore della Repubblica (Pd) Genova per noi. di Michele Laforgia Decine di morti e feriti, centinaia di sfollati, una città intera, Genova, in ginocchio. E la scoperta che siamo tutti in pericolo, perchè in Italia – e forse in Europa – esistono migliaia di ponti e viadotti costruiti quaranta e cinquant’anni fa, con tecniche obsolete, che avrebbero bisogno di immediati interventi di verifica e manutenzione straordinaria. Per non parlare degli immobili, Tribunali compresi. Il crollo del ponte Morandi ha rivelato come il nostro modello di vita riposi su fondamenta fragilissime. Perchè ognuno di noi è bizzarramente disposto a rischiare la propria e l’altrui incolumità ogni volta che prende un’auto, guida a 180 all’ora, magari di notte, magari dopo aver bevuto, magari chattando in contemporanea con il proprio telefono cellulare. Ma nessuno, compreso chi scrive, può accettare l’idea di precipitare nel vuoto per il cedimento di un ponte, in autostrada. Anche se la probabilità che accada è infinitamente minore, perchè quando accade può diventare un disastro. Come a Genova. Quello della società del rischio globale e dell’incertezza è un tema di enorme complessità, che coinvolge direttamente la sfera della politica. Per molti anni incapace di dare risposte, la politica, da noi e in quasi tutto l’occidente, ha finito con il delegare la gestione del rischio al mercato, alle leggi dell’economia e all’iniziativa privata. Chi governa stabilisce le regole del gioco, la partita la disputano le imprese in base al rapporto tra costi e benefici e alla realizzazione degli utili. Così, chi costruisce autovetture si preoccupa di renderle relativamente sicure, ma senza rinunciare alla velocità, al comfort, al design, sapendo in anticipo che ogni anno si verificheranno un certo numero di sinistri con morti e feriti. Se circolassero solo vetture corazzate a 40 km orari avremmo
un numero irrisorio di incidenti. Per non parlare del commercio di tabacco e del libero consumo di alcolici. Nel calcolo dei profitti entrano anche i morti. Da sempre. Che questo schema fosse destinato a non funzionare, sul piano teorico, lo hanno scritto già 170 anni fa. Non è questo a sorprendere. Semmai, sorprende che se ne accorgano solo oggi i teorici del neoliberismo, i pasdaran delle privatizzazioni e gli epigoni dell’anarchia d’impresa, evidentemente immemori di quanto hanno sostenuto e praticato sino a poco tempo fa. Che i rimedi non siano semplici, atteso il precario stato di salute degli apparati pubblici – smantellati e mortificati da decenni di sottrazione di fondi e risorse – è altrettanto evidente. Ma che lo Stato debba tornare ad occuparsi in prima persona dell’economia, della gestione dei beni comuni e della tutela della collettività, non sembra più discutibile. Non lo era neppure prima di Genova, come qualcuno ha detto e scritto, anche in campagna elettorale. Dopo Genova è accaduto, tuttavia, qualcosa di inedito. A poche ore di distanza dal crollo, i vertici istituzionali hanno tuonato contro la società concessionaria e l’azionista di maggioranza delle Autostrade, additandolo all’opinione pubblica come responsabile del disastro. Il dibattito, nelle stesse ore, ha rapidamente abbandonato il cedimento del ponte, i morti, i feriti, gli sfollati, la città di Genova, e si è trasformato in un referendum globale sulle responsabilità della famiglia Benetton, sulla revoca, rescissione, risoluzione o decadenza del contratto di concessione e, alla fine, anche sul pagamento dei pedaggi (con un passaggio logico quantomeno oscuro, nella sbilenca grammatica istituzionale del Ministro dell’Interno). Chi si occupa di politica politicante troverà la mossa del governo ‘geniale’. Aver individuato un nemico pubblico allontana le responsabilità e pone le forze di maggioranza nella condizione per loro più favorevole, che è quella della semplificazione e della campagna elettorale permanente, accanto alla “gente”, “senza se e senza ma”, contro i “poteri forti” (ieri Soros e Big Pharma, oggi Autostrade e i Benetton). Chiunque obietta è automaticamente – e militarmente – additato come connivente e servo dei potenti. Chi è di sinistra non può, per statuto, difendere capitalisti e imprenditori. Chi si occupa di diritto, deve metterlo da parte di fronte ai morti e ai feriti. Il solo, timido barlume di unità nazionale si legge nell’abbraccio bipartisan disegnato tra i tifosi del Genoa e della Sampdoria, idealmente uniti dal crollo del ponte. Solo loro, però: che sugli altri campi di calcio si giocherà, con il lutto al braccio e dopo un minuto di silenzio. The show must go on. La tentazione di tacere davanti a questo spettacolo imbelle,
indecoroso e vile è forte, quasi irresistibile. Ma chi si occupa di politica e di giustizia non può farlo, neppure di fronte alle tragedie: anzi, soprattutto di fronte alle tragedie. E allora non si può non dire che il Governo deve fare il suo mestiere, che è quello di occuparsi dei vivi, delle famiglie delle vittime, degli sfollati, della ricostruzione. E dell’immediata messa in sicurezza di tutta le rete stradale, in concessione e non. Questo spetta al potere esecutivo, in uno Stato di diritto: non blaterare davanti alle telecamere, anticipare condanne e cambiare linea ogni mezzora, man mano che ci si rende conto dell’entità dei problemi, non solo giuridici, scatenati dall’improvvida caccia all’assassino. Dovrebbe essere addirittura ovvio che solo dopo aver accertato le cause del crollo, possono e devono essere individuate le responsabilità politiche, civili e penali di chi ha reso possibile questa immane tragedia. Ma con i tempi e nei modi previsti dalle leggi – amministrative, civili e penali – sapendo che la ghigliottina mediatica non resuscita i morti e non risarcisce i vivi: aggiunge soltanto dolore a dolore, ingiustizia a ingiustizia, pena alle pene. Chi si occupa quotidianamente di processi lo sa: i diritti sono per tutti o per nessuno, l’eccezione che oggi vale per gli altri domani riguarderà anche te, o chi per te. E senza regole, da sempre, i più deboli, non i più forti, soccombono. Questo dovrebbe fare, oggi, una forza di sinistra. Censurare “senza se e senza ma” ogni tentativo di giustizia sommaria, invitare il governo ad assumere le proprie responsabilità, monitorare quanto è stato fatto e quanto si dovrà fare da subito per garantire l’incolumità dei cittadini sulle strade e sulle autostrade. Naturalmente senza declinare dal proprio compito, che è quello di combattere le diseguaglianze anche quando si annidano nelle clausole dei contratti miliardari – e originariamente secretati – delle concessioni di Stato. Fare politica, insomma, anche per ripristinare il sacrosanto primato dell’interesse pubblico in economia. Ma senza confondere i piani e senza cedere di un solo millimetro sul piano dei principi e dei diritti. Perchè oltre c’è solo la barbarie e l’ombra, minacciosa, di un nuovo totalitarismo. Crisi di governo. Lo spread a quota
320, poi scende. Crolla la Borsa ROMA – Alle 12.15 di oggi una raffica di vendite sui titoli di Stato italiani, con lo spread Btp/Bund che continua a schizzare e tocca 320 punti (ieri era a 235), con un balzo di oltre 80 punti rispetto alla chiusura di ieri, tornando ai livelli di primavera 2013, salvo poi ripiegare fino a quota 277 Il rischio per il nostro Paese è quello di superare il tetto dei 63,5 miliardi di spesa per interessi fissato dal Def, con conseguenze immediate per i nostri conti pubblici. In forte calo anche la Borsa: in apertura Piazza Affari perdeva l’1,8%, per affondare fino al -3%. Male soprattutto i titoli bancari, con lo scivolone di Unicredit (-3,6%) e Mps (-3,4%). Sotto pressione anche Poste (-3,3%). L’incertezza politica in Italia ha avuto conseguenze anche sui mercati valutari asiatici. Poco dopo le 12:00 locali (le 5:00 in Italia) l’euro è sceso sotto i 127 yen, ai minimi in 11 mesi, ripiegando subito dopo intorno a 126,85. La moneta unica europea si deprezza anche sul dollaro a quota 1,16.23. I principali trader a Tokyo, riferiscono le agenzie, giudicano “la situazione troppo intricata” per fare previsioni sul medio e lungo termine. Non diminuisce quindi la tensione sul mercato, in attesa che questo pomeriggio alle 16.30 il presidente incaricato Carlo Cottarelli salirà al Colle per presentare al presidente Sergio Mattarella la lista dei ministri del governo neutrale, sui cui è tornato al lavoro da questa mattina alla Camera. L’obiettivo è presentare entro venerdì il nuovo esecutivo al Parlamento per la fiducia che, stando alle dichiarazioni delle forze politiche, al momento sembra molto difficile da
raggiungere. Il nuovo esecutivo nasce quindi in tempi record, e con altrettanta velocità potrebbe non ottenere la fiducia dai due rami del Parlamento, considerando che al momento nessuna forza politica in Parlamento, oltre il Partito Democratico è disposta a concederla l. A quel punto l’Italia tornerà al voto, magari ai primi di settembre, con una campagna elettorale sotto gli ombrelloni., con lo stesso sistema elettorale, gli stessi partiti, e probabilmente gli stessi candidati. Con l’operazione Rete Magica la Casaleggio entra a Palazzo Chigi di Giovanna Vitale* Il prestanome. Non è esattamente lusinghiero l’ultimo appellativo affibbiato al premier incaricato Giuseppe Conte. È quello che però rende meglio l’idea coltivata con tenacia alla Casaleggio Associati. Dove – dopo aver concepito in laboratorio il capo politico dei 5S – si avviano a realizzare un progetto ancor più ambizioso: trasformare un anonimo professore di diritto nel perfetto esecutore del contratto pentaleghista, volto del Movimento ma senza voce propria, interprete di una linea dettata per interposto staff e decisa altrove. A Milano. Nel quartier generale della Srl dove si è già insediata la cabina di regia del nuovo primo ministro. È solo una questione di tempo. Poi, appena il governo nascerà, il Giglio ormai appassito che per quattro anni ha dettato legge a Palazzo Chigi verrà sostituito dalla “Rete Magica”, in omaggio al totem dell’azienda informatica da cui tutto discende e al tramaglio congegnato per imbrigliare “l’avvocato del popolo“. Un poker di pretoriani che dovrà misurarne i passi e le parole, curarne l’immagine
pubblica e i profili social, scriverne i discorsi e smistarne le telefonate. Hai visto mai che anziché Macron chiami l’ex amica Maria Elena Boschi. Capo indiscusso della Rete e finora al servizio di Luigi Di Maio sarà Rocco Casalino, già al vertice della Comunicazione 5S, scalata in cinque anni partendo dal basso, come vice al Senato di Claudio Messora: per meriti acquisiti sul campo sarà lui il portavoce di Conte, più voce che porta, in realtà. Di lui si sa pressoché tutto. Classe ’72, una laurea in ingegneria, comincia la sua “carriera” come concorrente del Grande Fratello, che tuttavia non riesce a garantirgli la ribalta sperata: uscito dalla Casa, Rocco entra nella controversa cerchia di Lele Mora, fa l’opinionista in trasmissioni di intrattenimento, facendosi notare per le litigate spesso furiose e alcune esternazioni razziste (“I poveri hanno un diverso odore della pelle”, disse alle Iene). La classica storia di meteora tv. A cui lui tuttavia non si arrende: per quattro anni conduce un programma mattutino su TeleLombardia finché, nel 2011, spedisce un video-messaggio caricato su Youtube a Grillo e Casaleggio
padre che lo accolgono a braccia aperte, anche se nel 2013 la sua candidatura alle regionali viene bocciata dai militanti storici che non lo accettano. Nel frattempo, però, il M5S vince il Parlamento e per Casalino inizia l’ascesa alla vetta del potere. Esercitato in modo inflessibile: è lui a decidere chi deve andare in tv, apparire e dunque esistere. Imponendo a tutti i talk il “codice Rocco“: gli ospiti grillini non devono mischiarsi, interloquire con altri politici, l’unico contraddittorio ammesso è coi giornalisti, meglio se clementi, sennò addio per sempre. Quando Di Maio scala il Movimento, lui diventa la sua ombra. Scivolando alle spalle di Conte – con cui condivide un incidente di curriculum: il vantato master americano in Economia è stato smentito dall’università di Winchester – appena l’asse pentaleghista si salda sul nome del professore. A cui Casalino scrive il suo primo discorso da capo del governo incaricato. Vergato poco prima di salire al Quirinale nella sede romana della Casaleggio, dove ha il domicilio l’altro dioscuro del futuro premier: Pietro Dettori (sopra nella foto con Luigi Di Maio) . Destinato, lui, alla guida dell’Ufficio di Presidenza: nessun atto, decreto, mail o missiva potrà entrare o uscire senza che l’ex dipendente della srl meneghina lo veda.
Figlio di un imprenditore sardo amico di Casaleggio senior, entra in azienda grazie alla sua abilità coi social. Il passaggio al blog di Grillo viene naturale: è Dettori a scrivere i post più virulenti. Alla morte di Gianroberto, il figlio Davide lo vuole con sé nell’Associazione Rousseau, ma sarà l’uscita dell’eurodeputato David Borrelli a consentirgli la promozione a socio della piattaforma che gestisce le votazioni più importanti (da ultimo, l’accordo Lega-5S), i dati degli iscritti, le leggi condivise con i cittadini. Un fortino di dati e informazioni che dà un grande potere a chi lo controlla. E che ora si trasferisce armi e bagagli nel cuore dello Stato. Dove approderà anche Maria Chiara Ricciuti, altra pedina fondamentale dello staff di Di Maio, che di Conte sarà il capo dell’ufficio stampa.
Maria Chiara Ricciuti Trentenne romana ma di origini abruzzesi, “giornalista fuori tempo e fuori epoca” si definisce lei, ha lavorato per anni per l’Italia dei Valori, la prima forza politica ad avvalersi dei servigi della Casaleggio Associati. Con lei, vestale dell’agenda di Conte, sbarcherà a Palazzo Chigi pure un’altra fedelissima del capo politico: Cristina Belotti, 29 anni, già responsabile Comunicazione del M5S in Europa (abbandonata dopo lo scandalo sui rimborsi truccati) e già in prima linea nel tour per le Regionali siciliane. La Rete del premier è pronta. Dalla regia di Milano è tutto, a voi la linea. *opinione tratta da Rep: Di Maio-Salvini: “Il nostro premier è Conte. Nessuno ha nulla da temere” ROMA – Uscendo dal colloquio con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella il leader di M5S Luigi Di Maio ha dichiarato “Credo
che oggi possiamo dire che siamo di fronte a un momento storico. Abbiamo indicato il nome al presidente della Repubblica che può portare avanti il contratto di governo. Ovviamente il nostro obiettivo era ed è migliorare la qualità della vita degli italiani e in questi 80 giorni abbiamo imposto un metodo: prima si discuteva di temi e poi di nomi“. “Le questioni degli italiani vengono prima di ogni cosa – ha aggiunto il capo politico di M5S – Sono orgoglioso di aver portato al governo il nostro programma elettorale, ci sono i 5 stelle, ci sono i nostri 20 punti. Siamo pienamente soddisfatti del lavoro nei prossimi giorni speriamo che si possa iniziare questo nuovo percorso per la Repubblica. Sono stati 80 giorni in cui ne è valsa la pena prendere tempo perché finalmente nasce la terza Repubblica“. “Nel contratto di governo ci sono le Cinque stelle, i venti punti indicati in campagna elettorale e tante soluzioni alle sofferenze degli italiani, dal reddito di cittadinanza alla legge Fornero – ha spiegato ancora Di Maio -, a più spazi di bilancio in Europa, dalla lotta al gioco d’azzardo, al superamento della buona scuola, alla sanità, con la meritocrazia per chi è a capo degli ospedali. Ci sono le grandi battaglie storiche del M5s, come l’acqua pubblica“.
Il capo politico del Movimento Cinque Stelle parla di “una grande occasione per l’Italia“. Di più, “un momento storico“. E sottolinea: “Abbiamo lavorato notte e giorno per portare a casa questo risultato. Abbiamo indicato al capo dello Stato il nome il migliore, che può portare avanti con una leadership solida, il contratto di governo. Qualora il presidente dovesse valutare il nostro nome come un nome giusto, sarà un governo che non si basa sui cambi di casacca”.
Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti al Quirinale Subito dopo è stata la volta di Matteo Salvini: “Noi ci siamo, siamo pronti, abbiamo fatto il nome e indicato la squadra, vogliosi di far crescere l’economia del Paese. Il governo di cui vogliamo far parte vuole aumentare il lavoro – ha detto il leader leghista -. Nessuno ha niente da temere, anzi. Ovviamente vogliamo un governo che metta l’interesse italiano al centro, prima gli italiani, rispettando tutti”. Il segretario della Lega ha insistito sul fatto che il governo che nasce “è un governo di speranza. Le nostre politiche saranno diverse da quelle che ci hanno preceduto“. Salvini ha mandato un messaggio “fuoriconfine”: “Qualcuno all’estero cambi prospettiva. Il nostro sarà un governo di speranza e di futuro, ma non remissivo“. Come già prima di lui Di Maio, che ha ripetuto più volte l’aggettivo “politico”riferito a Conte, anche Salvini si è affrettato a difendere la scelta del candidato: “Tutti i premier sono politici”, ha risposto a chi gli chiedeva se Giuseppe Conte fosse un premier “tecnico”. Sia Di Maio sia Salvini hanno commentato le critiche internazionali di questi giorni – ultimo dei quali quello del Ppe all’Europarlamento – e l’allarme lanciato dall’agenzia di rating Fitch che hanno condizionato i mercati portando anche lo spread BTp-Bund a toccare 187 punti su massimi da ottobre scorso e il rendimento dei decennali italiani al 2,41%, top dal novembre 2014. Il leader della Lega ha detto: “Leggiamo con interesse e stupore dichiarazioni che arrivano da ministri e commissari che non hanno nulla di cui preoccuparsi: il governo che vogliamo formare vuole far crescere l’Italia e aumentare il lavoro, renderlo più stabile, e riportare le aziende in Italia“. il professor Giuseppe Conte
Giuseppe Conte il presidente “indicato” da Di Maio e Salvini, (non eletto dagli elettori ) aveva mandato un curriculum di 18 pagine per la propria candidatura a membro del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, in pratica l’organo di autogoverno della magistratura amministrativa di cui è vicepresidente. Nato 54 anni fa a Volturara Appula, paesino nella provincia di Foggia, Conte dopo la laurea in Legge all’ Università La Sapienza di Roma, è stato borsista del Cnr e poi ha “approfondito” gli studi giuridici nelle facoltà più in vista del mondo occidentale: dall’ Università di Yale in America alla Sorbonne di Parigi , Dalla Duquesne a Cambridge, dall’International Kulture Institute di Vienna alla New York University. Grazie a questo percorso di studio Giuseppe Conte non poteva che diventare professore universitario: attualmente insegna a Firenze e alla Luiss di Roma come docente di Diritto privato. Oltre a essere avvocato patrocinante in Cassazione, condirettore della collana Laterza dedicata ai “Maestri dei diritto” e componente della commissione cultura di Confindustria. Ma è anche ritenuto un esperto di “gestione di grandi imprese in crisi“, che potrebbe essere utile nelle spinose vicende come Ilva ed Alitalia. il presidente Mattarella Domani molto probabilmente il prof. Conte potrebbe ricevere l’incarico di “premier”. Prima, in mattinata, è in programma l’incontro di Mattarella con i presidenti di Senato e Camera Alberti Casellati e Fico. Ma è bene ricordare che il presidente della Repubblica, in base a poteri che la Costituzione gli assegna, può anche dire no
all’indicazione di un premier che arriva dai partiti. Anche quando quel nome viene dalla maggioranza, e perfino dal partito di maggioranza relativa. È già successo. Ed è stato proprio Sergio Mattarella, lo scorso 12 maggio nel pieno delle polemiche, intese, per il nuovo governo, a rievocare il clamoroso precedente. Un modo per avvertire i partiti in guerra, e mentre ancora non si era profilata l’intesa fra grillini e leghisti, che si sarebbe avvalso “in pieno” di tutte le prerogative che la Carta costituzionale gli concede all’articolo 92, poche ma esplicite righe: conferiscono solo e soltanto al presidente della Repubblica “la nomina del presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, dei ministri“. Un “caso illuminante“, come lo ha definito Mattarella, “del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri, nomina per la quale non ritenne di avvalersi delle indicazioni espresse dal principale gruppo parlamentare, quello della Democrazia Cristiana”. L’articolo 95 della Costituzione in primo luogo, che recita così. “Il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Cioè, un signor nessuno, senza curriculum, una figura frutto di una mediazione al ribasso e che siede a Palazzo Chigi ma è solo “eterodiretta” dai leader politici, potrebbe anche non superare quell’asticella… Contratto di governo M5S-Lega, ecco il documento definitivo contratto_governo Le menzogne di Travaglio per attaccare Renzi e difendere i suoi amati “grillini”
Stroppa con il Direttore del The Wall Street Journal ROMA – Andrea Stroppa è nato a Roma nel 1994 e un curriculum da fare invidia a chiunque. Infatti. ad appena 23 anni è ritenuto tra gli esperti di cyber sicurezza più autorevoli in Italia. Anche se lui con grande umiltà dice: “Non credo di essere un esperto – ha scritto in un lungo post sulla sua pagina Facebook – ma credo di saperne qualcosa in tema di cyber security“. Entrato giovanissimo nelle file di Anonymous Italia, il gruppo di hackers etici, è stato lui l’autore del report pubblicato alcuni giorni fa dal ‘New York Times‘ nel quale è stato dimostrato come la pagina ufficiale di ‘Noi con Salvini‘ condivida gli stessi codici Google con siti di disinformazione e con una pagina non ufficiale di propaganda del Movimento 5 Stelle. Stroppa fa parte di un team di ricercatori che lavorano tra Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Ricercatore di Ghost Data e consulente di Matteo Renzi sulla cyber security, Dopo aver pubblicato numerosi dossier e ricerche in tema di contraffazione online, malaware e botnet, il 23enne romana nel suo curriculum annovera anche collaborazioni con i quotidiani ‘La Stampa’ e la Repubblica‘. I suoi report sono stati pubblicati e diffusi oltre che sui prestigiosi quotidiani americani New York Times, Washington Post, Wall Street Journal anche sulla Cnn, sui magazines americani ‘Vanity Fair‘ e Forbes noti e letti in tutto il mondo solo per citarne alcuni.
Nei giorni scorsi, è stato indicato come uno dei “Carrai boys” e il “pupillo di Marco Carrai“, il manager e imprenditore tra i più noti esperti italiani di cyber sicurezza, amico e stretto collaboratore del segretario del Pd. Ed è per questo motivo che Stroppa è finito nel mirino del solito Marco Travaglio, che sabato scorso in un suo editoriale su “Il Fatto Quotidiano”, come sempre poco attendibile, l’ha definito “uno smanettone di 23 anni che da minorenne faceva l’hacker per Anonymous Italia durante gli attacchi ai siti di Polizia, Carabinieri, governo, Viminale, Guardia costiere e al blog di Grillo”. Sul Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, l’altro giorno si occupavano di Stroppa alle pagine 1,2,3 compreso nell’editoriale dello stesso direttore, scrivendo “[…] Del suo amico Marco Carrai, che s’è messo in società con uno smanettone di 23 anni, Andrea Stroppa, che da minorenne faceva l’hacker per Anonymous Italia durante gli attacchi ai siti di Polizia, Carabinieri, governo, Viminale, Guardia costiera e – pensate un po’ – al blog di Grillo; perciò fu imputato e ottenne il perdono giudiziale dal Tribunale dei minori”. Non contenti quelli del Fatto, a pagina 2, pubblicavano un articolo su Stroppa a firma di Virginia della Sala e Carlo di Foggia, sostenendo che “Non è un tecnico ma può contare su una notevole rete di relazioni “, mentre a pagina 3, a firma di Wanda Marra viene definito “esperto di cyber security“. Basta tutto ciò per capire come sia crollata l’autorevolezza (e le copie vendute in edicola) sotto la direzione di Travaglio.
Stroppa non ha esitato un solo attimo a smentire Travaglio e ieri gli ha dedicato indirizzandogli un lungo post di replica via Facebook scrivendogli . “Caro direttore Travaglio, sì ho fatto parte di Anonymous. Avevo 17 anni, ho fatto degli errori, ho commesso dei reati e ne ho risposto di fronte la legge – si legge nel post – di fronte un tribunale, quello dei minorenni. Ho ottenuto il perdono giudiziale e ho ricominciato la mia vita facendo volontariato, costruendo la mia carriera con un lavoro lungo e appassionato. Nessuna scorciatoia, mi hanno proposto libri e interviste ‘sull’hacker di Anonymous’, potevo prendere la strada della notorietà, ho scelto quella del sacrificio“. “Non ne ho mai parlato pubblicamente, non per vergogna, ma perché io penso che dei miei errori sia stato corretto rispondere di fronte la legge, non di fronte a lei, a voi – prosegue Stroppa -. Come forse saprà, i minori sono tutelati dalla legge sulla privacy e tutto quello che riguarda i loro processi non devono diventare di dominio pubblico. Lo sono diventati, prima con il libro di Belpietro ‘I segreti di Renzi‘, poi con un articolo di Fittipaldi su ‘L’Espresso‘ e ancora oggi sul suo giornale. Io non contesto ‘i guai giudiziari’ e guardi, non contesto in questa sede, nemmeno il fatto di aver violato nuovamente la mia privacy, ma contesto le falsità. Non ho mai attaccato i siti di Polizia, Carabinieri, Governo, Viminale e il blog di Grillo come lei scrive. E nemmeno il sito di D’Alema come ha scritto Fittipaldi. Sono andato di fronte il tribunale a rispondere alla legge italiana, per altri fatti. E questo come può intuire si chiama diffamazione“.
In merito ai suoi rapporti con Marco Carrai, Stroppa ha smentito di essere in società con l’imprenditore toscano. Circostanza confermata da Carrai lo scorso 27 novembre sulle pagine del ‘Corriere della Sera‘ “Stroppa lo conosco e per un periodo ha collaborato con una mia società - ha detto l’imprenditore -. Chiunque può andare al registro delle Camere di commercio e vedere che non ho mai avuto società con lui“. Nella lettera aperta a Travaglio, il cyber esperto rimarca di aver “sempre lavorato con persone più brave di me e sono orgoglioso di aver avuto accanto persone che mi hanno insegnato molto, non soltanto dal punto di vista professionale“. Stroppa contesta le affermazioni pubblicate da Travaglio nel suo articolo dove afferma inoltre: “Del resto Renzi sospetta l’intervento di una ‘ mano’ russa. E chi gliel’ha detto? Una società di sorveglianza informatica. E di chi è? Del suo amico Marco Carrai, che s’è messo in società con uno smanettone di 23 anni, Andrea Stroppa“. Non c’è nessuna società con Marco Carrai e io personalmente non ho mai parlato di “mano russa”. Anzi, le dirò di più: durante le elezioni americane ho pubblicato un report in esclusiva con Forbes dove documentavo che un importante numero di russi seguivano il candidato Trump e lo sostenevano attivamente, ma che non era possibile documentare nessun legame ufficiale con il governo russo. Altroché i suoi giochini linguistici”
Stroppa ed il vicepresidente di Google “Non cerco da voi né dagli esperti che consultate per attaccarmi i vostri applausi, agli ‘esperti‘ che continuano da mesi ad insultarmi dico solo: se siete più bravi sono contento per voi – sottolinea Stroppa -. Vi auguro tanta felicità e gioia nella vostra vita. Su una cosa però voglio essere chiaro: non mettete in dubbio la mia onestà, il mio onore, non permettetevi di infangare la mia persona“. Stroppa chiude quindi il suo post con una dura “stoccata” a Travaglio: “Non ho bisogno della sua stima – scrive – penso che il mondo sia molto più grande de ‘Il Fatto Quotidiano’ e non credo sia un caso se le mie ultime ricerche sono state pubblicate con il ‘Washington Post‘, ‘Associated Press‘, ‘Wall Street Journal‘ e non con il suo giornale. E le assicuro che non è un caso nemmeno il fatto che quando voglio capire di economia, tecnologia, cultura, geo politica non leggo il suo quotidiano (…) Caro direttore Travaglio la coscienza è quella cosa che quando siamo soli ci guarda e non possiamo nasconderci. Mi auguro che lei possa affrontarla a testa alta”. Primarie Pd, il punto del direttore dell’ANSA Ecco un opinione equilibrata, seria, ragionata e riflessiva. Poche parole, ma serie e sopratutto non “schierate”. Da ascoltare bene.
Capitale Italiana della cultura 2018. Franceschini: “importante strumento per promozione territori e Italia museo diffuso” nella foto il Ministro Dario Franceschini Sono 21 le città in corsa per il titolo “Capitale Italiana della Cultura 2018”. Lo ha reso noto il Ministero dei Beni e della Attività Culturali e del Turismo, che ha trasmesso al presidente della Conferenza Unificata l’elenco delle città candidate per avviare la procedura di valutazione che si concluderà entro il 31 gennaio 2017. Come nelle precedenti edizioni, la Capitale Italiana della Cultura 2018 riceverà dal Governo un contributo pari ad un milione di euro per la realizzazione del progetto. La giuria, chiamata ad esaminare i 21 progetti, sarà composta da sette esperti di chiara fama nel settore della cultura, delle arti, della valorizzazione territoriale e turistica. Entro la metà di novembre verrà definita una short list delle 10 città finaliste, tra queste sarà selezionata la vincitrice entro il 31 gennaio 2017. “Le esperienze finora realizzate, da quella in corso a Mantova fino alla prossima di Pistoia, dimostrano – dice il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini – come il titolo di Capitale Italiana della Cultura sia in grado di mettere in moto un meccanismo di progettazione virtuosa e di promozione delle città, coinvolgendo tutte le realtà economiche e sociali dei territori e
rafforzando il concetto di Italia museo diffuso”. nella foto un angolo panoramico di Altamura L’iniziativa “Capitale Italiana della Cultura” è volta a sostenere, incoraggiare e valorizzare la autonoma capacità progettuale e attuativa delle città italiane nel campo della cultura, affinché venga recepito in maniera sempre più diffusa il valore della leva culturale per la coesione sociale, l’integrazione senza conflitti, la creatività, l’innovazione, la crescita e infine lo sviluppo economico e il benessere individuale e collettivo. Il conferimento del titolo “Capitale Italiana della Cultura”, in linea con l’Azione UE “Capitale Europea della Cultura 2007-2019”, si propone i seguenti obiettivi: il miglioramento dell’offerta culturale; il rafforzamento della coesione e dell’inclusione sociale, nonché dello sviluppo della partecipazione pubblica; l’incremento dell’attrattività turistica; l’utilizzo delle nuove tecnologie; la promozione dell’innovazione e dell’imprenditorialità nei settori culturali e creativi; il conseguimento di risultati sostenibili nell’ambito dell’innovazione culturale. Ecco l’elenco delle 21 città in corsa per il titolo di Capitale italiana della cultura 2018: 1. Alghero 2. Aliano
3. Altamura 4. Aquileia 5. Candidatura congiunta Viterbo – Orvieto – Chiusi 6. Caserta 7. Comacchio 8. Cosenza 9. Ercolano 10. Iglesias 11. Montebelluna 12. La Spezia 13. Ostuni 14. Palermo 15. Piazza Armerina 16. Recanati 17. Settimo Torinese 18. Spoleto 19. Trento 20. Unione dei Comuni Elimo Ericini 21. Vittorio Veneto Palazzo Chigi : si procede per il prestito di 400milioni per l’ ILVA (ADGNEWS24 ) – Si e’ tenuto ieri a Palazzo Chigi un vertice sull’ILVA, presieduto dal premier Matteo Renzi a cui erano presenti il consigliere economico, Andrea Guerra, i commissari straordinari nominati dal Governo, Pietro Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba, Franco Bassanini presidente e Giovanni Gorno Tempini, amministratore delegato della Cassa depositi Prestiti , ed i ministri Piercarlo Padoan (Economia), Federica Guidi (Sviluppo Economico) ed i sottosegretari Claudio De Vincenti (Presidenza del Consiglio) Teresa Bellanova (Welfare), Sandro Gozi (Affari europei) in cui è stata analizzata la questione in merito al finanziamento da 400 milioni di euro che i commissari potranno ricevere dalla Cassa Depositi e Prestiti si accollerà la maggior parte del prestito: 300 dei 400 milioni. Gli altri 100 saranno invece suddivisi in parte uguali tra due banche, grazie alla garanzia fornita dallo Stato, che era atteso da diverse settimane, secondo quanto previsto dall’ultima Legge sull’Ilva, (numero 20 del 4 marzo scorso). Quindi dopo i 156 milioni svincolati ed ottenuti nelle settimane scorse da Fintecna secondo quanto previsto dalla legge , è arrivato il
via libera al prestito da 400 milioni che l’ ILVA dovrà utilizzare per gli investimenti industriali. Sempre secondo fonti di Palazzo Chigi, nella riunione sono state approfondire le procedure per la costituzione della societa’ che dovrebbe entrare nel capitale della nuova ILVA per risanarla e sopratutto rilanciarla sul mercato. I commissari dell’ILVA stanno definendo con i legali il testo relativo al patteggiamento per il processo “Ambiente Svenduto”, da porre al vaglio della Procura di Taranto che aveva richiesto il rinvio a giudizio della società siderurgica quale “soggetto giuridico”. Poichè l’ ILVA si trova come ben noto, in amministrazione straordinaria, la richiesta di patteggiamento necessita dell’ autorizzazione del Ministero dello Sviluppo Economico che dovrebbe arrivare per la fine della prossima settimana
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