Legal Indicators for Social Inclusion of New Minorities Generated by Immigration - LISI - Eurac

Pagina creata da Marco Sacchi
 
CONTINUA A LEGGERE
Legal Indicators for Social Inclusion of New
Minorities
Generated by Immigration – LISI
Project funded by the European Commission - DG Employment and Social Affairs and the European Academy of
Bolzano/Bozen

Partners of the Project are : EURAC (European Academy of Bolzano Bozen), the AIRE Centre (Advice on
Individual Rights in Europe – London) and the ETC (European Training and Research Centre for Human Rights
and Democracy – Graz)

            Rapporto su Problematiche Comuni
                            e
                      Migliori Prassi
                Documento di lavoro per i seminari locali di Bolzano, Londra e Graz

                                                        a cura di Roberta Medda-Windischer
                                                             Accademia Europea di Bolzano

The present Report reflects the authors’ views. The European Commission is not liable for any use that may
be made of the information contained therein.
INDICE

Prefazione                                                                  4

I. Introduzione                                                             5

          i. Definizione di Minoranze: “vecchie” contro “nuove” Minoranze
          ii. Modelli di analisi delle politiche di integrazione

II. Problematiche comuni

          A. Diritti civili e politici

   1) Effettiva partecipazione alla vita pubblica                           10

   i.         Diritti politici                                              10

   ii.        Partecipazione alla vita pubblica                             11

   iii.       Diritti alla libertà di associazione                          12

   2) Giustizia                                                             14
          i. Legislazione contro la discriminazione
          ii. Detenzione

   3) Diritto di cittadinanza                                               18

   4) Residenza                                                             21

   5) Diritto alla vita familiare                                           22

   6) Diritto all’identità                                                  23

          B. Diritti economici, sociali e culturali

   1) Occupazione                                                           24
      i. Azioni positive e occupazione
      ii. Accesso e condizioni di lavoro
      iii. Formazione professionale
      iv. Lavoro autonomo
      v. Lavoratori stagionali
      vi. Disoccupazione

   2) Alloggi                                                               28

   3) Previdenza sociale                                                    29
      i. Sanità
      ii. Assistenza sociale

                                                                                 2
4) Istruzione                                                                   31

   5) Media                                                                        33

III. Migliori prassi

   1) Sistemi decentrati contro sistemi centralizzati - Effettiva partecipazione
      alla vita pubblica                                                           34
      i. Consigli territoriali (I)
      ii. Mediatori culturali (I)
      iii. Comitato consultivo per gli stranieri (A)
      iv. Comitato consultivo per i diritti umani(A)

   2) Giustizia                                                                    36
        i. Rispetto del diritto di culto dei detenuti
       ii. Assistenza legale

   3) Osservatorio sull’Immigrazione                                               36

    4) Istruzione                                                                  36

    5) Media                                                                       37

    6) Ruolo delle ONG                                                             37

IV. Conclusioni                                                                    39

                                                                                        3
Prefazione
Il Rapporto sulle problematiche comuni e migliori prassi fa parte del progetto LISI (Indicatori
Giuridici per l’Inclusione Sociale delle Nuove Minoranze create dall’Immigrazione), finanziato
dalla Commissione europea (Direzione Generale Occupazione e Affari Sociali) e dall’Accademia
Europea di Bolzano. Si tratta di una raccolta delle principali problematiche comuni e delle migliori
prassi, così come emersi dall’analisi di tre rapporti regionali, redatti dai partner che partecipano al
progetto LISI (Eurac, Accademia Europea di Bolzano; il centro AIRE, Advice on Individual Rights
in Europe – London; ed ETC, European Training and Research Centre for Human Rights and
Democracy – Graz). Le aree geografiche prese in esame sono la Provincia di Bolzano (I), la Stiria
(A) e Londra (UK).

Obiettivo principale dei tre rapporti è stato quello di approfondire la conoscenza e la comprensione
delle dimensioni, caratteristiche, cause e tendenze della marginalizzazione e dell’esclusione sociale
dei componenti delle nuove minoranze generate dall’immigrazione; così come dell’emergere di
nuove forme di disuguaglianza e differenziazione sociale nelle tre società di accoglienza.

In funzione dell’area presa in esame, i rapporti regionali si sono basati sull’analisi e la
comparazione delle legislazioni nazionali, regionali e/o locali relative ai vari aspetti
dell’integrazione sociale, come ad es. il lavoro, le politiche sociali, l’istruzione e la formazione, la
sanità e gli alloggi. Particolare attenzione è stata posta ai problemi delle donne.

Inoltre, è stata dedicata un’analisi approfondita alle buone prassi emerse in questi contesti e al ruolo
delle autorità locali nella lotta all’esclusione sociale.

Per inquadrare meglio la situazione locale nel più ampio contesto nazionale si sono, inoltre, presi in
considerazione i Programmi Nazionali sull’inclusione sociale, disponibili al momento della
redazione dei rapporti regionali.

I tre rapporti regionali sono stati riesaminati e discussi dai tre partner nel corso di un workshop, che
si è tenuto a Bolzano l’8 maggio 2002. Obiettivo dell’incontro è stato quello di gettare le basi per
l’attuazione delle successive fasi previste nell’ambito del progetto LISI, in particolare, della
preparazione del presente rapporto.

Il Rapporto sulle problematiche comuni e migliori prassi sarà la base per la discussione di tre
workshop organizzati rispettivamente a Bolzano, Londra e Graz ed aperti ad una molteplicità di
operatori locali. L’obiettivo di questi workshop è quello di organizzare un forum locale su vasta
scala in ognuna delle aree prese in esame con l’intento di approfondire la discussione sulle varie
questioni emerse nelle precedenti attività del progetto LISI. La lista dei partecipanti ai vari
workshop includerà una serie molto ampia di attori, che spazierà dai rappresentanti dei gruppi
interessati, alle ONG, agli enti di governo locali ed ad altri soggetti della societá civile. Questi
ultimi valuteranno e apporteranno il loro contributo critico ai risultati del progetto LISI, fino ad
allora realizzati, alla luce delle loro conoscenze e della loro esperienza nella lotta e nella
prevenzione dell’esclusione sociale.

                                                                                                      4
I. Introduzione

Negli ultimi decenni la maggior parte degli Stati dell’Unione europea ha registrato un notevole
incremento del numero di cittadini stranieri residenti nel proprio territorio. Ragioni politiche,
umanitarie ed economiche, unite alla libertà di circolazione risultante dalla crescente integrazione
europea, hanno infatti spinto un numero sempre crescente di persone a stabilirsi, seppur con periodi
di soggiorno molto differenziati, in Paesi diversi dal proprio.

Da questa situazione è sorta, per i governi e per le autorità pubbliche colpite da questo fenomeno, la
necessità di integrare i cittadini stranieri nelle comunità in cui vivono – necessità resa ancor più
evidente da alcuni fenomeni di intolleranza e discriminazione verificatisi nelle comunitá di
accoglienza.

A questo proposito la Commissione europea ha dichiarato che: "L’integrazione dei migranti è un
imperativo dettato dalla tradizione democratica e umanitaria degli Stati membri e costituisce un aspetto fondamentale
della politica d’immigrazione. L’integrazione degli immigrati è fondamentale per preservare l’equilibrio delle nostre
società. 1

Secondo le conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Tampere2 sull’equo trattamento di
cittadini di Paesi terzi:

L'Unione europea deve garantire l'equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi, che soggiornano legalmente nel
territorio degli Stati membri. Una politica di integrazione più incisiva dovrebbe mirare a garantire loro diritti e
obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell'UE. Essa dovrebbe inoltre rafforzare la non discriminazione nella vita
economica, sociale e culturale e prevedere l'elaborazione di misure contro il razzismo e la xenofobia. (...). Occorre
ravvicinare lo status giuridico dei cittadini dei paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri. Alle persone, che
hanno soggiornato legalmente in uno Stato membro per un periodo di tempo da definire e che sono in possesso di un
permesso di soggiorno di lunga durata, dovrebbe essere garantita, in tale Stato membro, una serie di diritti uniformi il
più possibile simili a quelli di cui beneficiano i cittadini dell'UE, ad esempio il diritto a ottenere la residenza, ricevere
un'istruzione, esercitare un'attività in qualità di lavoratore dipendente o autonomo; va, inoltre, riconosciuto il principio
della non discriminazione rispetto ai cittadini dello Stato di soggiorno. Il Consiglio europeo approva l'obiettivo di
offrire ai cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente in maniera prolungata, l'opportunità di ottenere la
cittadinanza dello Stato membro in cui risiedono.

In diverse occasioni la Commissione ha, inoltre, riconosciuto il rapporto che intercorre tra il
trattamento di cittadini di Paesi terzi e la lotta al razzismo. Quest’ultima rappresenta un elemento
fondamentale nella promozione dell’integrazione degli stranieri; allo stesso modo, la promozione
dell’integrazione degli stranieri contribuisce alla lotta contro il razzismo.

Ancora, l’Assemblea Parlamentare di un’altra organizzazione regionale, il Consiglio d’Europa, ha
dichiarato: “L’Assemblea riconosce che le popolazioni migranti, i cui membri sono cittadini dello Stato in cui
risiedono, costituiscono categorie speciali di minoranze e raccomanda per essi l’applicazione di uno specifico
strumento del Consiglio” 3.

Sebbene i componenti delle nuove minoranze originate dall’immigrazione possiedano
caratteristiche etniche, religiose, culturali e/o linguistiche diverse da quelle del resto della

1
  Commissione europea, “Proposta di atto del Consiglio che stabilisce la convenzione relativa alle norme di
ammissione dei cittadini di paesi terzi negli Stati membri” , COM (97) 387, 30.7.97, p. 5.
2
  Consiglio europeo di Tampere, 15 -16 ottobre 1999.
3
  “I diritti delle minoranze nazionali”, Raccomandazione 1492 (2000), Assemblea Parlamentare – Consiglio d’Europa

                                                                                                                           5
popolazione della comunità di accoglienza, essi sono generalmente, esclusi dalle tradizionali
definizioni di “minoranze”. Le definizioni di minoranza più comunemente impiegate possono
essere, infatti, divise in due gruppi: quelle secondo cui le minoranze sono composte esclusivamente
dai cittadini di un determinato Paese (le cd. “vecchie” minoranze nazionali) e quelle secondo cui la
cittadinanza del Paese in cui si trovano non è un requisito per la costituzione di una minoranza.

         i. Definizione di minoranze: “vecchie”contro “nuove” minoranze

Nella redazione di strumenti internazionali, tutti gli sforzi compiuti per definire il termine
“minoranza” sono rimasti vani. Negli ultimi cinquant’anni numerose organizzazioni internazionali,
soprattutto per esigenze di codificazione, hanno dedicato tempo ed energia alla ricerca di una
definizione del termine minoranza che potesse essere generalmente accettata, ma, finora, non si è
giunti ad alcun risultato definitivo. Nel caso della Dichiarazione ONU sui Diritti della Persona
Appartenente a Minoranze Nazionali, Etniche, Religiose e Linguistiche come pure nel caso della
Convenzione Quadro del Consiglio d’Europa per la Protezione delle Minoranze Nazionali, si è
esplicitamente evitato di dare una definizione del termine “minoranze”, lasciando tale compito ai
tribunali o ad altri organismi preposti all’interpretazione della legge.

I motivi di questi fallimenti sono molteplici. Innanzitutto, sulla questione non vi è consenso né in
seno alle Nazioni Unite, né in altre organizzazioni regionali. In secondo luogo, la questione non si
può risolvere in astratto, poiché alcune categorie di “non-citizen”, cioè di individui non aventi la
cittadinanza dello Stato in cui risiedono, potrebbero evidentemente godere di molti dei diritti
riservati alle tradizionali minoranze nazionali ed elencati negli strumenti ad essi dedicati, ma,
ovviamente ad essi non possono essere estesi tutti i diritti relativi a tali minoranze.

La definizione di minoranza più citata è quella, risalente al 1977, contenuta nel rapporto di
Francesco Capotorti, Rapporteur speciale della Sotto-Commissione ONU sulla Prevenzione della
Discriminazione e Protezione delle Minoranze. Nel 1977 Capotorti preparò uno studio nel quale
propose la seguente definizione del termine minoranza, così come citata nell’art. 27 della
Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici4:

Gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione di uno Stato, in una posizione non dominante, i cui membri, essendo
cittadini dello stato (passo enfatizzato), possiedono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche, che differiscono da quelle del
resto della popolazione e mostrano, quanto meno implicitamente, un senso di solidarietà inteso a preservare la propria cultura, le
tradizioni religiose o la lingua

Uno degli elementi della definizione risulta, pertanto, la cittadinanza o nazionalità. La Commissione
dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, tuttavia, è andata ben oltre questa definizione affermando5:

L’articolo 27 conferisce diritti a persone appartenenti a minoranze “esistenti” nel territorio di uno Stato membro.
Considerata la natura e la portata dei diritti previsti dall’articolo, non è rilevante determinare il grado di permanenza
sotteso al termine “esistente”. Si tratta di una serie di diritti in base ai quali, gli individui, che appartengono a tali
minoranze non devono essere privati del diritto di godere della propria cultura, di praticare la propria religione e di
parlare la propria lingua insieme al resto della loro comunità. Così come non è necessario che siano cittadini, allo
stesso modo non è necessario che abbiano un permesso di soggiorno permanente. In tal modo ai lavoratori migranti e
perfino ai turisti che si trovano nel territorio di uno Stato membro e che costituiscono una minoranza non può essere
negato l’esercizio di tali diritti. Per lo stesso motivo, ogni altro individuo, che si trova nel territorio di uno Stato

4
  L’art. 27 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (1966) è la disposizione principale del diritto internazionale in
tema di diritti delle minoranze: “Negli Stati con minoranze etniche, religiose e linguistiche, gli appartenenti a queste
minoranze hanno il diritto di coltivare collettivamente la propria vita culturale, di esercitare la propria religione, di usare la
propria lingua” E’ da notare che l’art. 27 ICCPR parla di "minoranze etniche, religiose e linguistiche", mentre la Convenzione
Quadro del Consiglio d’Europa fa riferimento a "minoranze nazionali".
5
  Commissione dei Diriti Umani (50a sessione, 1994), Commento Generale 23, paras. 5.1-5.2.

                                                                                                                                     6
membro godrebbe dei diritti fondamentali, come per es. il diritto di libertà di associazione, di assemblea e di
espressione. L’esistenza di una minoranza etnica, religiosa o linguistica in uno Stato membro non dipende da una
decisione dello Stato in questione, ma da una serie di criteri oggettivi da stabilire.”

Alla luce delle considerazioni espresse dalla Commissione dei Diritti Umani, si può affermare che
le persone, che non sono (ancora) cittadini dello Stato in cui risiedono, possono appartenere ad una
minoranza di quel determinato Paese.

A questo riguardo, il Presidente del Gruppo di Lavoro ONU sulle Minoranze, Asbjorn Eide6, ha
dichiarato: “ll miglior approccio sembra esser quello di evitare una distinzione assoluta tra minoranze “nuove” e
“vecchie”, in cui si escludano le prime ed includano le seconde, riconoscendo, piuttosto, che nell’applicazione della
Dichiarazione ONU (sui Diritti delle Persone Appartenenti a Minoranze Nazionali o Etniche, Religiose e Linguistiche)
le” vecchie” minoranze hanno maggiori diritti acquisiti rispetto alle “nuove”.

Proseguendo, egli afferma che “Mentre la cittadinanza in quanto tale non deve rappresentare un criterio
distintivo che esclude alcune persone o gruppi dal godimento di diritti riservati alle minoranze, in base alla
Dichiarazione ONU, altri fattori possono essere rilevanti nella distinzione delle categorie di diritti di cui possono
godere le diverse minoranze. A differenza di coloro che vivono dispersi nel territorio di uno Stato, coloro che vivono in
modo compatto in una parte di questo territorio possono godere di una serie di diritti sull’uso della lingua, la
toponomastica e, in alcuni casi, possono anche godere di un certo grado di autonomia. Coloro che risiedono da lungo
tempo nel territorio possono inoltre godere di maggiori diritti rispetto a coloro che sono, invece, arrivati più
recentemente.”

Val la pena ricordare che nel 1999, nel corso della sua 5ª sessione, il Gruppo di Lavoro ONU sulle
Minoranze, ha discusso la possibilità di definire il concetto di “minoranza” in modo conciso,
piuttosto che inclusivo di una serie di criteri e caratteristiche e che fosse accettabile dal maggior
numero di Stati. Questo, secondo alcuni, doveva essere il primo passo verso una convenzione
universale sulla tutela di tutti i soggetti membri di una minoranza. Le opinioni a tal riguardo furono
molto divise, sia all’interno del Gruppo che tra gli osservatori. Si obiettò che le possibilità di
giungere ad una definizione erano molto ridotte, dato che negli ultimi cinquant’anni ciò non era
stato possibile né a livello globale, né a livello regionale. Inoltre, osservatori e accademici furono
concordi nel sostenere che, per progredire nel campo della tutela delle minoranze, non vi era alcun
bisogno specifico di definire il concetto di minoranza, né di inquadrarlo in una determinata
categoria.

Oltre a generali considerazioni di natura giuridica, nel dibattito sulla questione della definizione di
minoranza, devono essere considerati anche aspetti politici di ordine pratico. Attualmente gli Stati
europei ricorrono a definizioni ad hoc di minoranza molto diversificate fra loro, il cui campo di
applicazione varia da molto ampio e generoso a estremamente restrittivo. Pertanto, l’introduzione di
una definizione di minoranza comunemente accettata significherebbe, inevitabilmente, allinearsi su
un minimo comune denominatore.

Se nel diritto internazionale non esiste una definizione universalmente valida del termine
“minoranza”, lo stesso può dirsi per i termini “nuove minoranze” e “migranti”. Secondo il
Rapporteur speciale dell’ONU per i diritti umani dei migranti7, Gabriela Rodríguez Pizarro, poiché

6
  Commento alla Dichiarazione ONU sui Diritti delle Persone Appartenenti a Minoranze Nazionali o Etniche, Religiose
e Linguistiche, Working paper presentato da Asbjørn Eide - Commissione per i Diritti Umani, Sotto-commissione per la
Tutela e la Promozione dei Diritti Umani, Gruppo di Lavoro sulle Minoranze, Sesta sessione, 22-26 Maggio 2000
(E/CN.4/Sub.2/AC.5/2000/WP.1).
7
  Durante la sua 55a sessione, la Commissione dei Diritti Umani ha adottato la risoluzione 1999/44, in cui è stata
approvata la nomina, per un periodo di tre anni, di un Rapporteur speciale dei Diritti Umani dei Migranti incaricato di
esaminare modi e strumenti per superare gli ostacoli che impediscono la piena ed efficace protezione dei diritti umani di
questo gruppo così vulnerabile, ivi compresi gli ostacoli e le difficoltà per il rientro di quei migranti privi di documenti

                                                                                                                          7
il termine generico di „migrante“ non è ancora stato specificamente definito nel diritto o nella prassi
internazionale, è necessario trovare una definizione ad hoc che renda possibile individuare le
fattispecie in cui i diritti di questi individui sono tutelati nell’ambito di un sistema giuridico, sociale
o politico8.

Secondo quanto indicato dalla Pizarro, una definizione di base del termine migrante potrebbe
includere i seguenti elementi:

(a) individui che si trovano al di fuori del territorio del proprio Stato di cittadinanza, di cui non
godono protezione giuridica, e che si trovano nel territorio di un altro Stato;
(b) individui che non godono del riconoscimento giuridico inerente allo status di rifugiato, siano
essi in possesso di un permesso di soggiorno temporaneo, naturalizzati o aventi un qualsiasi altro
status garantito dal Paese ospitante;
(c) individui, i cui diritti, ugualmente, non sono garantiti in virtù di accordi diplomatici, di visti o di
altri accordi.

Ai fini del progetto LISI, i partner si sono accordati su una definizione ad hoc di nuove minoranze
create dall’immigrazione. Tale definizione include: cittadini di Paesi terzi legalmente presenti nel
territorio di uno Stato membro dell’Unione, con diritto di residenza permanente o temporaneo per
ragioni economiche, di ricongiungimento familiare, politiche e/o umanitarie, o sulla base di un
contratto di lavoro a lungo o a breve termine; lavoratori stagionali, lavoratori professionisti,
cittadini di Paesi-canditati e persone provenienti da Paesi con cui l’UE intrattiene rapporti di
cooperazione e/o associazione. In considerazione dello speciale status di cui godono i rifugiati e i
richiedenti asilo politico e della legislazione ad essi applicabile, queste categorie di individui
saranno prese in considerazione solo laddove i problemi di integrazione sociale, che ad esse si
riferiscono, sono del tutto analoghi a quelli delle categorie sopra menzionate e/o quando l’analisi
della loro situazione è rilevante ai fini di una maggiore conoscenza e comprensione del fenomeno,
oggetto di analisi del Progetto LISI, oltre che per verificare i risultati delle attività svolte. Durante
tutta la fase operativa del Progetto, sarà posta particolare enfasi sulla condizione femminile
all’interno delle categorie sopra riportate.

        iii. Modelli di analisi delle politiche di integrazione

Prima di analizzare le problematiche comuni e le buone prassi in tema di inclusione sociale dei
soggetti che compongono le nuove minoranze generate dall’immigrazione, val la pena ricordare i
principali modelli di analisi delle politiche per l’integrazione.

I modelli fondamentali, con cui si confrontano le dinamiche legate alla diversità culturale sono
almeno tre: il modello dei “Gastarbeiter”, il modello delle minoranze etniche ed il modello di
assimilazione.

Secondo il primo modello, l’immigrazione è determinata dalle esigenze del mercato del lavoro e la
presenza di immigrati è considerata dunque temporanea; non c’è alcun bisogno di consolidare il
loro status giuridico né di analizzare le ripercussioni di una maggiore eterogeneità culturale (tale

o che si trovano in uno stato di irregolarità. Compito del Rapporteur speciale è quello di formulare strategie e
raccomandazioni per la promozione e l’attuazione di politiche per la tutela dei diritti dei migranti.
8
  Relazione del Rapporteur Speciale, Gabriela Rodríguez Pizarro, “Diritti Umani dei Migranti”, Gruppi Specifici e
Singoli Lavoratori Migranti E/CN.4/2000/82 – Commissione dei Diritti Umani, 56a sessione (6 gennaio 2000).

                                                                                                               8
modello, si ritiene sia stato adottato in passato da Austria e Germania). In base al secondo modello,
gli immigrati vengono definiti membri della nuova società di accoglienza, ma prima di tutto sulla
base delle loro origini etniche o nazionali. Il “modello delle minoranze etniche” considera gli
immigrati come nuove comunità, culturalmente diverse dalle comunità autoctone (modello che ha
ispirato le politiche di immigrazione del Regno Unito, dei Paesi Bassi e dei Paesi nordici). Infine,
nel modello di assimilazione, è previsto che gli immigrati finiscano per assimilarsi alla società che li
accoglie. L’enfasi è posta sul rapporto individuale del singolo cittadino con lo Stato, senza
l’intervento di intermediari. In base a questo modello, gli immigrati sono dunque visti prima di tutto
come individui e i concetti di immigrato o di comunità minoritarie le sono estranei (Francia).

Altri modelli d’integrazione basati sulla partecipazione degli immigrati al processo politico sono:

   Il modello dei diritti individuali: gli immigrati, come tutti gli altri cittadini residenti, sono visti
    come individui che interagiscono direttamente con gli Stati. Il riconoscimento di diritti
    individuali nei confronti degli immigrati è considerato il principale strumento di inclusione (le
    politiche di Francia, Portogallo e Italia presentano alcuni elementi di questo modello);
   Il modello multiculturale: il singolo immigrato, e non tanto il gruppo, è considerato il primo
    soggetto da integrare. Rispetto al modello precedente si ammette, comunque, che
    l’immigrazione ha portato alla costituzione di nuove comunità all’interno della società di
    accoglienza, che si possono distinguere culturalmente, anche rispetto alle comunità già esistenti
    nel territorio (Regno Unito, Norvegia);
   Modello corporativo: si basa sull’appartenenza a gruppi di corporazioni. In questo modello gli
    immigrati sono definiti in termini di appartenenza ad un gruppo e non tanto come individui
    (modello adottato in passato dai Paesi Bassi).

                                                                                                         9
III. Problematiche comuni

    A. Diritti civili e politici

    1) Effettiva partecipazione alla vita pubblica e politica
Un elemento particolarmente importante per l’integrazione dei membri delle nuove minoranze è il
diritto alla partecipazione ad alcuni aspetti della vita della più ampia società nazionale. Si tratta,
infatti, di un diritto fondamentale, che consente ai membri delle nuove minoranze di promuovere i
propri interessi e valori, creando una società integrata e pluralista basata sulla tolleranza e sul
dialogo. Nella ‘vita pubblica’ sono compresi, tra gli altri, il diritto ad eleggere ed essere eletti, a
ricoprire cariche pubbliche e altri diritti in ambito politico ed amministrativo. La partecipazione può
essere assicurata in molti modi, usufruendo di associazioni di migranti o di altri tipi di associazioni.

Per quanto riguarda la legislazione europea, è importante far riferimento alla Convenzione del
Consiglio d’Europa sulla Partecipazione degli Stranieri alla Vita Pubblica Locale9. La Convenzione
mira ad un miglioramento dell’integrazione degli stranieri nella vita della società ospitante. Essa si
estende a tutti gli individui, che non sono cittadini dello Stato membro, ma che risiedono legalmente
nel suo territorio. Oltre a garantire i “diritti classici” quali la libertà di espressione, di assemblea e di
associazione, compreso il diritto alla costituzione di sindacati, diritti che vengono riconosciuti ai
residenti stranieri nella stessa misura in cui lo sono ai cittadini dello Stato di accoglienza, la
Convenzione sancisce l’impegno degli Stati membri di coinvolgere i residenti stranieri nei processi
di consultazione sulle questioni locali. La Convenzione prevede, infatti, la possibilità di creare
organi consultivi a livello locale eletti dagli stranieri nelle aree di competenza locale o nominati da
associazioni di stranieri.

Il Preambolo della Convenzione è particolarmente interessante poiché pone l’accento sul fatto che i
residenti stranieri partecipano economicamente e culturalmente alla vita della comunità locale e,
generalmente, a livello locale, hanno gli stessi doveri degli altri cittadini. Queste considerazioni
sono, pertanto, sufficienti a giustificare un impegno comune per rafforzare le possibilità di
partecipazione alla vita pubblica concesse ai residenti stranieri.

La Convenzione è divisa in tre capitoli: il primo riguarda la libertà d’opinione, di assemblea ed il
diritto di aderire ad associazioni, oltre al coinvolgimento dei residenti stranieri nelle procedure per
la consultazione dei cittadini locali; il secondo capitolo è dedicato alla creazione di organi
consultivi volti a rappresentare i residenti stranieri a livello locale; infine, il terzo capitolo concerne
il diritto dei residenti stranieri all’elettorato attivo e passivo, sempre a livello locale.

La Convenzione ha lasciato alla discrezionalità delle Parti contraenti la facoltà di non adottare le
disposizioni del secondo e del terzo capitolo o di posticiparne la ratifica. L’Italia, ad esempio, ha
ratificato solo i primi due capitoli escludendo le disposizioni sul diritto di voto.

                  i. Diritti politici

9
 Al 18.05.02 la Convenzione era stata ratificata da 6 Stati (Danimarca, Finlandia, Italia, Paesi Bassi, Norvegia e
Svezia). E’ da notare comunque che Finlandia, Italia e Paesi Bassi hanno introdotto, nei loro strumenti di ratifica, delle
dichiarazioni restrittive.

                                                                                                                         10
L’integrazione politica delle “nuove minoranze” si riferisce sia alla presa di coscienza dei problemi,
delle esigenze e degli interessi specifici di una data minoranza da parte delle autorità locali e degli
altri cittadini, e sia alla loro effettiva partecipazione alle istituzioni pubbliche.

Il riconoscimento del diritto di voto agli individui non cittadini dello Stato nel quale risiedono è
stato considerato un elemento fondamentale per l’integrazione dei membri delle nuove minoranze.

In questo contesto è stata elaborata la nozione di "denizen"; essa si estende a tutti coloro che, pur
essendo, dal punto di vista formale, cittadini stranieri, hanno con il Paese d’immigrazione una serie
di vincoli, familiari, di lavoro, di proprietà, ecc, derivati dalla lunga permanenza. Si tratta di persone
residenti nel Paese di accoglienza, che godono del diritto di stabilirsi permanentemente e di tanti
altri diritti sociali ed economici, anche se non sono loro riconosciuti i pieni diritti politici.

Di seguito sono riportate le problematiche che, tra tutte quelle prese in esame, destano maggior
interesse:

    Requisiti necessari, come la cittadinanza o un certo numero di anni di residenza, per il
     riconoscimento dei diritti di elettorato attivo e passivo nelle consultazioni a livello nazionale,
     provinciale o regionale e locale;
    Particolare importanza del diritto di voto a livello locale ai fini dell’integrazione;
    Diritto di voto in occasione di referendum e di petizioni.

                 ii. Partecipazione alla vita pubblica

Forme di rappresentanza sono necessarie per l’integrazione soprattutto nella sue prime fasi, quando
il processo di integrazione degli stranieri all’interno delle società d’accoglienza e delle loro
istituzioni non si è ancora completato; grazie a tale processo è possibile superare lo status di
“Gastarbeiter” che caratterizza a tutt’oggi l’immagine dell’immigrato nella nostra società,
riducendo così il divario tra cittadini stranieri e comunità locale. Tale distanza, se da un lato umilia
gli immigrati e ne impedisce l’integrazione, dall’altro ostacola lo sviluppo civile e democratico
della società di accoglienza.

La varietà di composizione, di bisogni e di aspirazioni dei diversi gruppi, che costituiscono le nuove
minoranze richiede, di volta in volta, l’individuazione e l’adozione dei metodi più idonei per la
creazione di condizioni di effettiva partecipazione. Nella scelta dei meccanismi di partecipazione si
deve valutare se le persone, che appartengono ad una determinata minoranza vivono disperse o in
gruppi compatti e se la minoranza è numericamente grande o piccola.

Per quanto riguarda la Pubblica Amministrazione, le Raccomandazioni di Lund sull’effettiva
partecipazione delle minoranze nazionali alla vita pubblica10 dispongono che: “Gli Stati dovrebbero
garantire alle minoranze nazionali l’opportunità di avere voce effettiva a livello di governo
centrale, anche a mezzo di disposizioni speciali, ove necessario. A seconda delle circostanze, ciò
può comprendere: (…) misure speciali per la partecipazione delle minoranze all’amministrazione
pubblica, nonché la disponibilità di servizi pubblici nella lingua della minoranza nazionale.11
Secondo quanto contenuto nella Relazione Illustrativa sulle Raccomandazioni, per esercitare tutti i
diritti riservati alle minoranze sono necessarie iniziative concrete da parte del servizio pubblico, ivi
10
   OSCE – Raccomandazioni di Lund sull’Effettiva Partecipazione delle Minoranze Nazionali alla Vita Pubblica e al
Processo Decisionale – Accordi a livello di governo centrale, Settembre 1999.
11
   Ibidem, Raccomandazione 6.

                                                                                                                    11
compreso " il diritto di accedere, a condizioni di parità alle cariche pubbliche" così come formulato
all’Articolo 5(c) della Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Tutte le Forme di
Discriminazione Razziale12.

I seguenti punti suscitano particolare attenzione:
 Possibilità di impiego nel servizio pubblico e limitazioni legate all’esercizio di poteri pubblici,
    come nel caso delle forze di polizia;
 Contratti specifici (a breve termine, sostituzioni temporanee, ecc.) per impiegati pubblici.

                  iii. Diritti alla libertà di associazione
I percorsi, che conducono alla costituzione di associazioni di immigrati, non sono tutti uguali, ma
rispecchiano le caratteristiche di ciascun gruppo. Le forme iniziali di aggregazione tra immigrati
nascono spontaneamente per rispondere al bisogno di incontrarsi e di creare una rete sociale per
sostenersi reciprocamente. Il passaggio dall’ aggregazione spontanea all’ associazione avviene
quando si avverte la necessità di dare al gruppo una continuità e una struttura che gli consente di
rispondere meglio alla crescente complessità dei bisogni e degli interessi dei suoi componenti.

A livello politico, il passaggio dalla rete di relazioni personali all’associazione, ma soprattutto dall’
associazione informale a quella formale ha un significato di rilievo nell’ottica della rappresentanza
politica degli immigrati. In effetti, si rafforza la funzione rivolta a gestire i rapporti esterni del
gruppo, in particolare con la popolazione locale e con le sue istituzioni. Pertanto si rendono
necessarie, da una parte, una conoscenza delle dinamiche politico-istituzionali locali e, dall’altra,
una legittimazione, ovvero una delega del gruppo, che garantisca un minimo di rappresentatività.

Gli organismi sindacali, anche rispetto alle stesse associazioni di immigrati, sono considerate le
associazioni che meglio rappresentano gli immigrati. La presenza degli immigrati nei posti di lavoro
ha aperto nuovi spazi per l’esercizio della loro rappresentanza tramite adesioni ed il coinvolgimento
nelle attività sindacali sia nell’ambiente lavorativo, sia con l’assunzione di incarichi sindacali
all’interno del sindacato stesso.

Secondo il diritto internazionale, il diritto ad aderire o a costituire associazioni può essere limitato
solo per legge, e le limitazioni devono essere le stesse che valgono per le associazioni dei gruppi di
maggioranza: in una società democratica tali limitazioni sono considerate necessarie solo
nell’interesse della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della tutela della salute e della
moralità pubblica o della salvaguardia di diritti e libertà.

Le problematiche emergenti nell’ambito della libertà di assemblea e di associazione sono:

12
   Articolo 5 (c) della Convenzione Internazionale dell’ONU sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione
Razziale: “ In base agli obblighi fondamentali di cui all'articolo 2 della presente Convenzione, gli Stati contraenti si
impegnano a vietare e ad eliminare la discriminazione razziale in tutte le sue forme ed a garantire a ciascuno il diritto
alla eguaglianza dinanzi alla legge senza distinzione di razza, colore od origine nazionale o etnica, nel pieno godimento
dei seguenti diritti: (…) (c) Diritti politici, ed in particolare il diritto di partecipare alle elezioni, di votare e di
presentarsi quale candidato in base al sistema del suffragio universale ed eguale per tutti, il diritto di partecipare al
governo ed alla direzione degli affari pubblici, a tutti i livelli, nonché il diritto di accedere, a condizioni di parità, alle
cariche pubbliche ”.

                                                                                                                            12
   Limitazioni basate sul pubblico interesse; nel Regno Unito, ad esempio, limitazioni possono
    essere imposte in base alla legislazione anti-terrorismo; l’applicazione delle restrizioni di cui
    sopra, da parte della autorità pubbliche, è una questione spinosa che può dar vita a forme di
    discriminazione nei confronti delle associazioni, soprattutto di quelle degli immigrati;
   La partecipazione a vari livelli attraverso organi quali le assemblee consultive, consigli e
    associazioni ;
   La contrapposizione tra potere consultivo e potere decisionale di questi organi o dei singoli
    immigrati;
   I partiti politici: agli stranieri possono essere imposte alcune restrizioni; l’art. 16 della
    Convenzione europea dei diritti dell’uomo fa esplicito riferimento a restrizioni nell’attività
    politica esercitata da stranieri.

                                                                                                  13
2) Giustizia
Il principio di uguaglianza da una parte e la tutela di gruppi specifici come le minoranze, le donne,
ecc., dall’altra, sono concetti distinti perché l’uguaglianza e la non-discriminazione implicano una
garanzia formale di trattamento uniforme per tutti gli individui, mentre il concetto di tutela di
gruppi particolari implica misure speciali a favore di un gruppo specifico.

La Commissione ONU dei Diritti Umani13 ha specificato che: La protezione dell’identità di una minoranza
e dei diritti dei suoi componenti di godere e sviluppare la loro cultura e la loro lingua e di praticare la loro religione
all’interno del gruppo potrebbe richiedere l’adozione di misure positive da parte degli Stati. A tal proposito si osservi
che tali misure positive devono rispettare le disposizioni degli artt. 2.1 e 26 del Patto Internazionale sui diritti civili e
politici 14 relativi al trattamento delle diverse minoranze e al trattamento dei loro componenti rispetto al resto della
popolazione. Comunque, fintanto che dette misure sono volte a migliorare condizioni che impediscono o limitano il
godimento dei diritti garantiti dall’art. 27 (ICCPR), esse possono costituire una legittima differenziazione rispetto alla
Convenzione, posto che si basino su criteri ragionevoli ed obiettivi ”.

La Convenzione ONU sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale consente
inoltre la cd. “discriminazione positiva”, ovvero la diversità di trattamento a favore di un gruppo
razziale, con l’obiettivo di compensare le conseguenze di un trattamento discriminatorio di cui sono
stati vittime i componenti di un determinato gruppo, a condizione che dette misure non intacchino
in modo sproporzionato i diritti di altri soggetti15. Il medesimo principio si ritrova nella Direttiva
2000/43/CE del Consiglio (Direttiva sull’uguaglianza razziale) che attua il principio della parità di
trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica16. L’articolo 5 della
Direttiva sancisce : “Allo scopo di assicurare l'effettiva e completa parità, il principio della parità di trattamento
non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure specifiche dirette a evitare o compensare svantaggi
connessi con una determinata razza o origine etnica.”.

La distinzione, sulla quale si basa una determinata azione positiva, deve quindi essere in qualche
modo giustificabile. E’ comunque importante notare che i redattori del Patto Internazionale sui
Diritti Civili e Politici forniscono esempi di ciò che essi ritengono giustificabile; tra le tante
compaiono le distinzioni basate sulla cittadinanza nell’ambito dell’immigrazione, dell’estradizione,
dell’accesso alle cariche pubbliche o l’acquisto di proprietà. Agli occhi dei redattori, tale distinzione
non costituisce un caso di discriminazione.

A livello regionale, il diritto comunitario prevede il principio di non-discriminazione attraverso la
garanzia della parità di trattamento per tutti gli individui, a prescindere dalla nazionalità, dal sesso,
dalla razza o dall’origine etnica, dalla religione e dal credo, dagli handicap, dall’età o
dall’orientamento sessuale. L’articolo 12 del Trattato CE (ex articolo 6) proibisce ogni
discriminazione in base alla nazionalità17. I governi degli Stati membri hanno tuttavia accettato che
quest’articolo trova applicazione solo limitatamente alla nazionalità di uno Stato membro. Anche
13
   Commissione dei Diritti Umani (50a sessione, 1994), Commento Generale 23, para 6.2.
14
   L’articolo 2 (1) prevede che ciascuno degli Stati parti del Patto si impegna a rispettare ed a garantire a tutti gli
individui che si trovano sul suo territorio e sono sottoposti alla sua giurisdizione, i diritti riconosciuti nel Patto, senza
distinzione alcuna, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la religione, l'opinione politica o qualsiasi altra
opinione, l'origine nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione. L’articolo 26
sancisce l’uguaglianza e la parità di tutela di fronte alla legge; proibisce inoltre qualsisi forma di discriminazione e
garantisce a tutti gli individui l’equa ed efficace protezione dalle forme di discriminazione fondata sulle ragioni di cui
all’art. 2.
15
   Artt. 1(4) e 2(2) della Convenzione ONU sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale.
16
   Direttiva 2000/43/CE del Consiglio del 29 Giugno 2000 che attua il principio della parità di trattamento fra le persone
indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica - Gazzetta Ufficiale L 180 19/07/2000 p. 0022-0026.
17
    Articolo 12 (1) del Trattato CE: “ Nel campo di applicazione del presente trattato, e senza pregiudizio alle
disposizioni particolari dallo stesso previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità ”.

                                                                                                                          14
dopo l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, che ha emendato il Trattato che istituiva la
Comunità europea e il Trattato sull’UE, non è ben chiaro se l’articolo 12 sia estendibile anche
all’ammissione, alla residenza e alla parità di trattamento di cittadini di Paesi terzi. Ricordando che
l’articolo 12 è applicabile ai soli diritti previsti dal Trattato CE, sembrerebbe che l’articolo 12
significhi che la discriminazione tra i vari gruppi, provenienti da Paesi terzi, sia proibita e che alle
persone, cui è stato riservato un trattamento meno favorevole, venga garantito un equo trattamento
al pari dei cittadini di Paesi terzi, trattati più favorevolmente18.

Con il Trattato di Amsterdam è stato inserito, nel Trattato CE, un nuovo articolo 13, che rafforza la
garanzia di non-discriminazione sancita nei Trattati. L’articolo 13 del Trattato CE conferisce alle
istituzioni europee la facoltà di adottare i provvedimenti opportuni per combattere le
discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali,
gli handicap, l’età e le tendenze sessuali. L’articolo 13 non include tuttavia la nazionalità come
motivo di discriminazione; in altre parole, i cittadini di Paesi terzi non possono essere discriminati
in base alla razza o all’origine etnica, alla religione o olle convinzioni personali, ma possono esserlo
in base alla nazionalità19.

La Direttiva sull’uguaglianza razziale20, di cui sopra, proibisce qualsiasi forma di discriminazione,
diretta o indiretta, basata sulla razza o l’origine etnica in una serie di ambiti, quali il lavoro e la
formazione, la previdenza sociale e la sanità, l’istruzione, gli alloggi, ecc. L’art. 3 (2) della direttiva
stabilisce tuttavia che: “La presente direttiva non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e
non pregiudica le disposizioni e le condizioni relative all'ingresso e alla residenza di cittadini di paesi terzi e di apolidi
nel territorio degli Stati membri, né qualsiasi trattamento derivante dalla condizione giuridica dei cittadini dei paesi
terzi o degli apolidi interessati”. Questa disposizione mira a proteggere gli strumenti giuridici di cui
dispongono gli Stati membri in materia di immigrazione per regolare l’accesso al lavoro di cittadini
di Paesi terzi; essa mantiene poi, in particolare, le differenze di trattamento basate sulla
cittadinanza/residenza che in tal modo non possono essere considerate discriminatorie e contrarie
alla legge21.

La Direttiva sull’uguaglianza razziale è entrata in vigore il 19 Luglio 2000; gli Stati membri
avranno tempo fino al 19 Luglio 2003 per recepire la Direttiva nell’ordinamento nazionale22. A
questa direttiva è poi seguita quella sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro contro la discriminazione sul lavoro in base a religione o convinzione
personale, handicap, età o tendenza sessuale23.

Nel settore giustizia le problematiche più significative riguardano:

18
    Migrant Policy Group/Commission for Racial Equality “The Starting Line and the Incorporation of the Racial
Equality Directive into National Laws of the EU Members States and Accessions States”, edit. by Isabelle Chopin and
Jan Niessen, 2000, p. 9.
19
   Ibidem, p. 10.
20
   Direttiva 2000/43/CE del Consiglio del 29 Giugno 2000 - Gazzetta Ufficiale L 180 19/07/2000 p. 0022-0026.
21
   Migrant Policy Group/Commission for Racial Equality, “The Starting Line and the Incorporation of the Racial
Equality Directive into National Laws of the EU Members States and Accessions States”, edit. by Isabelle Chopin and
Jan Niessen, 2000, p. 31.
22
   Cfr. art. 16, Direttiva 2000/43/CE.
23
   Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di lavoro – Gazzetta Ufficiale L 303 02/12/2000 p. 0016-0022. Per maggiori
dettagli su questa Direttiva si rimanda al capitolo dedicato all’occupazione

                                                                                                                           15
Legislazione contro la discriminazione:

   Inversione dell’onere della prova nei casi di discriminazione prima facie: la legislazione italiana
    prevede che, in caso di discriminazione sul posto di lavoro, in base alla razza, alla religione, alla
    lingua, alla cittadinanza o all’origine etnica, il giudice competente può obbligare l’accusato a
    fornire le prove di non aver commesso il reato di discriminazione contestato (il cd.
    capovolgimento dell’onere della prova). Questo avviene comunque solo dopo che il ricorrente
    ha fornito una serie di elementi (ivi incluse le informazioni statistiche sull’occupazione, i
    contributi, l’assegnazione dei compiti e delle qualifiche, le promozioni e le dimissioni)
    comprovanti la discriminazione per motivi di razza o di appartenenza ad una comunità etnica o
    linguistica. In tal caso, se il giudice considera le motivazioni addotte “serie, precise e
    concordanti”, l’onere della prova spetta alla parte accusata. In base alla disposizione, l’onere
    della prova non ricade dunque sul convenuto fintanto che il querelante non ha fornito le prove
    della presenza di un atto di discriminazione prima facie;
   Nel Regno Unito alcune categorie di stranieri sono escluse dall’applicazione della legislazione
    contro la discriminazione. Il “Race Relations Act” (emendato) prevede espressamente la
    possibilità, per il Governo, nel controllo sull’immigrazione, di autorizzare differenze di
    trattamento sulla base dell’appartenenza etnica e della cittadinanza e nazionalità.

Detenzione:

   Detenzione preventiva e misure alternative e sostitutive: in Italia si registra un frequente ricorso
    alla detenzione preventiva nei casi riguardanti cittadini extracomunitari; le possibilità di questi
    ultimi di avvalersi di misure alternative o sostitutive della detenzione sono generalmente ridotte
    dalla mancanza dei necessari requisiti, come ad es. casa, lavoro, legami familiari. A quanto pare,
    il più frequente ricorso alla carcerazione preventiva di soggetti stranieri sarebbe dovuto anche al
    maggior rischio di latitanza da parte degli stessi;
   Regime di semilibertà: nel Regno Unito questo regime è escluso per gli stranieri a rischio di
    espulsione;
   Sulla possibilità, per i detenuti extra-comunitari, di lavorare al di fuori del carcere sono state
    espresse alcune preoccupazioni; in Italia la possibilità di lavorare fuori dal carcere, in via
    alternativa, senza il permesso di soggiorno, ha creato alcuni problemi. In questo ambito, un’altra
    spinosa questione riguarda le difficoltà, per i detenuti stranieri, di ricevere, al momento del
    rilascio, la retribuzione loro spettante qualora decidano di tornare al loro Paese d’origine o di
    trasferirsi in un altro Paese. Spesso non dispongono di un indirizzo dove le autorità carcerarie
    possono trasferire queste somme e/o il consolato e l’indirizzo del legale non rappresentano
    soluzioni praticabili,
   Rispetto delle convinzioni religiose dei detenuti: il principio dell’imparzialità di trattamento e di
    non-discriminazione relativamente alle questioni di fede è un fattore di grande importanza nei
    casi in cui i detenuti professano una religione, che richiede l’osservanza di particolari pratiche ;
   Gratuito patrocinio: servizio spesso ostacolato dalla limitata conoscenza della lingua e dalla
    mancanza di strumenti di orientamento;
   Ordine di allontanamento ed espulsione (doppia sanzione): minor rischio di espulsione per
    coloro che hanno forti legami familiari nel Paese di accoglienza conformemente all’art. 8 della
    Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In base alla legislazione austriaca sugli stranieri, una
    condanna penale, soprattutto se inflitta nei confronti di persone senza legami familiari, può
    essere un motivo sufficiente per l’espulsione. In Italia il disegno di legge n. 795, trasmesso al
    Senato il 28 febbraio 2002 e attualmente all’esame del Comitato Affari Costituzionali della
    stessa Camera, prevede il divieto per la persona colpita da provvedimento di espulsione, di
    rientrare nel territorio italiano per un periodo di almeno 10 anni; se la condotta complessiva

                                                                                                      16
della persona durante la sua permanenza in Italia è tale da permetterlo, il periodo di tempo può
       essere ridotto a 5 anni;
      In tema di espulsione di cittadini extracomunitari, è importante ricordare la Direttiva del
       Consiglio dell’Unione europea sul riconoscimento reciproco delle decisioni di espulsione dei
       cittadini di Paesi terzi.24 L’obiettivo della Direttiva è quello di consentire il riconoscimento delle
       decisioni di espulsione, adottate dalle autorità competenti di uno Stato membro nei confronti di
       un cittadino di un Paese terzo, che si trovi nel territorio di un altro Stato membro. La Direttiva fa
       riferimento a decisioni di espulsione giustificate dal mancato rispetto delle normative nazionali,
       relative all'ingresso o al soggiorno degli stranieri o da una minaccia grave e attuale per l'ordine
       pubblico o la sicurezza nazionale (ad es. condanna per un reato punibile con una pena restrittiva
       della libertà di almeno un anno o esistenza di seri motivi per ritenere che il cittadino di un paese
       terzo abbia commesso fatti gravi o esistenza di indizi concreti che egli intende commettere fatti
       di tale natura nel territorio di uno Stato membro). La Direttiva dovrà essere recepita nella
       legislazione nazionale degli Stati membri entro il dicembre 2002.

24
     Direttiva 2001/40/CE del Consiglio del 28 maggio 2001 - Gazzetta Ufficiale L 149 , 02/06/2001, pp. 0034 -0036.

                                                                                                                      17
3) Diritto di cittadinanza

Come già detto, la tutela dei diritti delle minoranze non può escludere gli stranieri, i quali non sono
cittadini del Paese nel quale risiedono, basandosi su una mera definizione del termine “minoranze”.
Dai primi dibattiti in seno alle Nazioni Unite sulla tutela delle minoranze, le opinioni sulla
questione si sono profondamente divise : se nella definizione di minoranza debbano rientrare
soltanto coloro che posseggono la cittadinanza del Paese in cui risiedono.
In riferimento ai diritti dei cittadini e degli stranieri, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
conformemente alla moderna legislazione sui diritti umani, sancisce l’obbligo degli Stati contraenti
di garantire la tutela dei diritti di tutti gli individui, che si trovano sotto la sua giurisdizione,
indipendentemente dalla cittadinanza. Lo stesso principio si ritrova anche nel Patto Internazionale
sui Diritti Civili e Politici delle Nazioni Unite. I diritti previsti da questi strumenti internazionali
devono essere quindi garantiti a tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato e sotto la sua
giurisdizione. Nella Carta europea dei Diritti Fondamentali (UE), adottata nel dicembre 2000, sono
enunciati una serie di principi che, per la valenza universale di alcuni diritti, si applicano anche ai
cittadini di Paesi terzi. Ciò risulta particolarmente importante se riferito a tutta una serie di diritti
sociali, come la tutela contro i licenziamenti ingiustificati e l’applicazione di leggi nazionali e
comunitarie relative alle condizioni di lavoro. Sulla base delle condizioni definite nel Trattato di
Amsterdam, la Carta prevede, inoltre, la libera circolazione e il diritto di soggiorno per i cittadini di
Paesi terzi residenti in uno Stato membro.
Se applicata rigorosamente, la legislazione sui diritti umani può ridurre in modo significativo le
differenze esistenti tra i diritti dei cittadini e degli stranieri. A livello nazionale, tuttavia, la tutela
dei diritti umani è spesso rivolta ai soli cittadini, e ciò in palese violazione della legislazione
internazionale sui diritti umani. Conseguentemente, per chi non possiede la cittadinanza del Paese
di residenza, il godimento di alcuni diritti è spesso incerto. Come già sottolineato, tra i diritti, il cui
godimento risulta limitato, rientrano ad esempio i diritti politici. Un altro esempio è il diritto di
rientro, più precario per coloro che non posseggono la cittadinanza del Paese nel quale risiedono
che non per i cittadini. Mentre i cittadini non possono essere espulsi dal loro Paese, gli stranieri
sono a maggior rischio, nonostante non esista, per gli Stati, una libertà assoluta di espellere gli
stranieri; coloro, che hanno ottenuto una qualsiasi forma di residenza di natura temporanea o più
duratura, possono essere espulsi solo in base a pressanti esigenze di natura sociale.

E’ evidente che le procedure, la legislazione e le istituzioni, associate ai meccanismi per acquisire la
cittadinanza, costituiscono il quadro generale di riferimento per l’integrazione degli immigrati.
Tuttavia la cittadinanza è un ideale vago e pertanto non può fungere da unico “principio-guida” per
un’efficace ed effettiva politica d’integrazione ; essa può, e dovrebbe, comunque fungere da
importante punto di riferimento e motivo di stimolo nello sviluppo ed attuazione delle politiche
relative all’immigrazione.

Per quanto riguarda la cittadinanza, le principali differenze si basano sui cd. principi del ius soli e
ius sanguinis. Questa differenza risulta fondamentale nell’analisi di immigrazione e integrazione,
poiché definisce i modi, che consentono di appartenere ad una nuova comunità.

                                                                                                         18
Puoi anche leggere