Dante nella letteratura del Novecento: esempi

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Luigi Scorrano

              Dante nella letteratura del Novecento: esempi
                                  di Luigi Scorrano

        Parlando di Dante nel Novecento è necessario precisare e limitare: esploro
qui la presenza di Dante nella letteratura italiana del Novecento soffermandomi
solo su qualche esempio. L’argomento, poco o per niente trattato dalla critica nella
prima metà del Novecento, ha assunto rilievo a partire dalla fine degli anni Sessan-
ta. Da allora gli studi su questo argomento si sono intensificati.
        Il relativo disinteresse per l’argomento derivava probabilmente dalla convin-
zione che Dante avesse poco a che fare con il Novecento. Fino al primo Novecento
funziona un’immagine, ed un’accoglienza di Dante che si riferisce al ruolo, asse-
gnatogli soprattutto nella letteratura risorgimentale, di simbolo della nazione. Dif-
fuso era il culto di Dante, che si esprimeva in vari modi. Valeva, soprattutto, l’omag-
gio. La figura e l’opera di Dante erano intoccabili: sacri. Tra fine Ottocento e primo
Novecento le cose cominciano ad assumere un aspetto diverso. Con D’Annunzio il
culto di Dante padre imbocca una direzione nazionalistica. In Pascoli questo aspet-
to appare con minore evidenza. Dopo si sperimentano altri modi di accostamento o
di distacco. Sono espressioni di questo nuovo orientamento la “parodia” e l’ “at-
tentato” (uso questi termini come possibili approssimazioni). La parodia, o il filtro
di una a volte corrosiva ironia, è nei crepuscolari e in Gozzano in maniera più evi-
dente; l’attacco è nei futuristi. Marinetti dichiara che la Commedia è un verminaio
di glossatori, che lui vorrebbe spazzare via. Se la prende, dunque, non tanto con il
poeta (che anzi aggrega d’ufficio alla squadra dei futuristi), ma soprattutto con i
commentatori di Dante.
        Dal secondo dopoguerra matura, invece, un recupero della parola dantesca
come sangue della riflessione poetica e come lettura di sé e della contemporaneità
attraverso Dante. Si hanno allora situazioni fortemente differenziate. Si abbandona
il tipo di lettura univoca che era data dalla tradizione romantico-risorgimentale e si
arricchiscono le modalità della lettura e del recupero di materiali danteschi all’in-
terno di nuovi percorsi poetici. Il Dante risorgimentale e post-risorgimentale e quello
nazionalistico si presenta unilaterale; il Dante propriamente novecentesco ha
connotazioni multiformi che non è possibile ricondurre ad un’unica formula che
comprenda e riassuma tutte le esperienze. Perciò va osservato nella singolarità di
ogni esperienza di scrittura nella quale lo si ritrovi. Gli esempi scelti e presentati in
queste pagine mostrano questa diversità e danno un’idea almeno della forza con cui
Dante ha agito sulla poesia del Novecento (non solo di quella italiana, ma di quella

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Dante nella letteratura del Novecento: esempi

mondiale). Ungaretti e Montale, Luzi e Pasolini, Giudici e Sanguineti, Quasimodo
e Gadda e Saba e molti altri che si potrebbero aggiungere (e ho citato sparsamente)
hanno tutti, in misura diversa, attraversato Dante. Utile mi sembra soffermarmi
solo su alcuni esempi mettendo in evidenza il dantismo di due poeti (Dino Campa-
na e Vittorio Sereni) e di un romanziere in piena attività (Alberto Bevilacqua).

      Un brano de La Notte di Dino Campana dice così:

             […] povero, ignudo, felice di essere povero ignudo, di riflettere un istante il
             paesaggio quale un ricordo incantevole ed orrido in fondo al mio cuore salivo:
             e giunsi là fino dove le nevi delle Alpi mi sbarravano il cammino. Una fanciulla
             nel torrente lavava, lavava e cantava nelle nevi delle bianche Alpi. Si volse, mi
             accolse, nella notte mi amò. E ancora sullo sfondo le Alpi il bianco delicato
             mistero, nel mio ricordo s’accese la purità della lampada stellare, brillò la luce
             della sera d’amore. (Cer. 95-96).

       Una suggestione dantesca? C’è il racconto di un’ascesa, c’è una figura di donna
che canta nelle nevi delle bianche Alpi… Una Matelda? O una Beatrice? E, in alto,
la purità della lampada stellare, la luce delle stelle nella sera d’amore: l’attesa e la
speranza realizzate. Potrebbe essere uno dei tanti modi obliqui in cui la poesia di
Dante entra nella poesia di un poeta del Novecento. Il brano letto potrebbe essere
interpretato alla luce di passi danteschi, ma poco offre, o genericamente, perché vi
si possano intravedere dei riferimenti precisi alle pagine dell’Alighieri.
       La presenza di Dante in Campana è, però, ormai ben documentata; nell’ope-
ra del poeta di Marradi s’è cercata una rete di riferimenti attraverso i quali far emer-
gere la struttura dantesca soggiacente ai Canti orfici. Una poesia per troppo tempo
indicata quasi come spontanea o “disorganizzata” mostra, attraverso l’indagine su
questa struttura, un disegno di costruzione coerentemente perseguito.
       Di Dante, Campana individua un tratto caratterizzante: l’interno movimento:

             Dante la sua poesia di movimento, mi torna tutta in memoria. O pellegrino, o
             pellegrini che pensosi andate! (Cer 128).

       Questa “poesia di movimento” Campana assume come modello: interno ad
essa è il tema del viaggio. Anzi, del viaggio-pellegrinaggio: “O pellegrino, o pelle-
grini che pensosi andate!” (ed è una citazione-riecheggiamento dalla Vita Nuova).
       È un passo de La Verna a fissare questo carattere: quello appena ricordato.
Attraverso l’assunzione di quel carattere e del grande modello Campana racconta
la sua avventura spirituale, quello che un’attenta commentatrice dei Canti orfici,
Fiorenza Ceragioli, ha visto come propiziatore dell’iter di salvezza del poeta entro
la fondamentale caratterizzazione di una “poesia che coincide con la moralità” e
che realizza una forma di ascesi indirizzata (come “aspirazione”) a un mondo mo-
ralmente superiore.
       Campana ha il suo inferno, il suo purgatorio, forse il suo paradiso. L’Inferno,

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ne La Notte, è evocato dal ricordo ossessivo della Notte di Michelangelo e del per-
sonaggio di Francesca:

             […] poi che Michelangiolo aveva ripiegato sulle sue ginocchia stanche di cam-
             mino colei che piega, che piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tutto
             il sogno umano, e lo sbattere delle pose arcane e violente delle barbare travolte
             regine antiche aveva udito Dante spegnersi nel grido di Francesca là sulle rive
             dei fiumi che stanchi di guerra mettono foce, nel mentre sulle loro rive si ricrea
             la pena eterna dell’amore (Cer 88).

             Caprese, Michelangiolo, colei che tu piegasti sulle sue ginocchia stanche di cam-
             mino, che piega e non posa, nella sua posa arcana come le antiche sorelle, le
             barbare regine antiche sbattute nel turbine del canto di Dante, regina barbara
             sotto il peso di tutto il sogno umano […] (Cer 125);

             […] occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive dei fiumi bevuti
             dalla terra arida là dove si perde il grido di Francesca […] (Cer 132).

        La Notte “piega e non posa”; si coglie l’eco della voce dantesca indicante le
anime che mai nessuna speranza conforta “non che di posa, ma di minor pena”
(Inf., V, v. 45). I fiumi che, stanchi di guerra, si versano in mare, ricordano il Po che
discende alla marina “per aver pace co’ seguaci sui” (Inf., V, v. 99). Grido, che ritor-
na in due passi ed è attribuito a Francesca, è rintracciabile nel racconto dantesco: “sì
forte fu l’affettuoso grido” (Inf., V, v. 87). Il grido spento “là sulle rive dei fiumi” è
quello di Francesca nel momento della morte: un trasferimento della parola dantesca
dal personaggio-poeta Dante alla protagonista del celebre episodio infernale, non
senza conseguenze rilevanti sulla rappresentazione (grido-richiamo in Dante, gri-
do della vita ferita a morte in Campana). Anche spegnersi, del testo di Campana, è
nel canto dantesco, per quanto in diversa accezione e forma: “Caina attende chi a
vita ci spense” (Inf., V, v. 107). Il turbine è l’equivalente della bufera infernale; anti-
co (donne antiche = barbare regine antiche) trova attestazione nello stesso canto. Il
vocabolario, rielaborato, è dantesco; e la tessera lessicale più esposta è galeotta (“Ga-
leotto fu il libro e chi lo scrisse”, Inf., V, v. 137):

             La magia della sera, languida amica del criminale, era galeotta alle nostre anime
             oscure […] (Cer 87).

       Il cammino di Campana incrocia personaggi e luoghi della Commedia. La
scena de La Notte è una Romagna la cui prima immagine è quella della dantesca
“città di Lamone” (Inf., XXVII, v. 49), Faenza:

             Ricordo una vecchia città, rossa di muri e turrita, arsa su la pianura sterminata
             nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfon-
             do. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni

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             plumbee. […] e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da
             la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante […] (Cer. 83).

        Se La Notte è viaggio iniziatico, discesa agli inferi, momento della prova,
l’immagine campaniana della città sembra coniugare lo spettro della città di Dite e
la piaggia diserta, simbolo del male e aridità della coscienza nel punto di intrapren-
dere un esame di se stessa. Ovvio ricordare - anche per i caratteri salienti della città
campaniana rossa, arsa, torrida - il luogo più rispondente dell’Inferno dantesco:
VIII, vv. 67-75:

              Lo buon maestro disse: “Omai, figliuolo,
             s’appressa la città c’ha nome Dite,
             coi gravi cittadin, col grande stuolo”.
             E io: “Maestro, già le sue meschite
             là entro certe ne la valle cerno,
             vermiglie, come se di foco uscite
              fossero”. Ed ei mi disse: “Il foco etterno
             ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
             come tu vedi, in questo basso inferno”.

       Altri elementi danteschi (dei canti VIII e IX dell’Inferno) sono stati indicati:
l’avvistamento della torre, il levare lo sguardo verso di essa (L. Bonaffini). Altri se
ne possono richiamare, ad esempio dal canto XXX dell’Inferno. Qui, nell’episodio
di Maestro Adamo, le notazioni di sete e arsura richiamano, per contrasto, un pae-
saggio di colli verdeggianti rinfrescati da vene d’acqua:

             Li ruscelletti che de’ verdi colli
             del Casentin discendon giuso in Arno,
             faccendo i lor canali freddi e molli,
             sempre mi stanno innanzi…
                                    (Inf., XXX, vv. 64-67).

       Il campaniano “lontano refrigerio di colline verdi e molli” ridesta la memoria
del desiderio del dannato dantesco: “un gocciol d’acqua bramo” (Inf., XXX, v. 63).
E se per verdi e molli non inopportunamente (anche per la più evidente corrispon-
denza del calco) è stato indicato il v. 32 di Al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra:
“prima che questo legno molle e verde”, maggior pertinenza ha il sintagma freddi e
molli; e verdi erano i colli casentinesi ricordati da Maestro Adamo. È tutto un ma-
teriale disseminato in un testo rapido, rilavorato attraverso un gioco abilissimo di
associazioni, e con esso si costruisce una situazione che appartiene al soggetto nar-
rante come esperienza propria e singolare, ed appartiene, per l’affinità che vi si scorge,
a un’esperienza altrui già costituita in un testo memorabile: la Commedia.
       Il materiale dantesco de La Notte proviene quasi esclusivamente dalla prima
cantica del poema, raramente dalle altre due. Il fiume impaludato riattiva la descri-

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zione dantesca del Mincio: “non molto ha corso, ch’el trova una lama, / ne la qual si
distende e la ‘mpaluda; / e suol di state talor esser grama” (Inf., XX, vv. 79-81).
L’acqua morta ricorda la morta gora di Inf., VIII, v. 31 e, fonicamente, l’aura morta
di Purg., I, v. 17. La nenia primordiale che sale dalla palude campaniana è un riflesso
dell’inno che gli iracondi danteschi ripetono sempre uguale se Virgilio con esattez-
za lo può ripetere a Dante, che non ne coglie bene le parole: “Fitti nel limo dicon:
“Tristi fummo / ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, / portando dentro accidioso
fummo: // or ci attristiam ne la belletta negra”. / Quest’inno si gorgoglian ne la
strozza, / ché dir nol posson con parola integra” (Inf., VII, vv. 121-126).
        Fuori da calchi troppo evidenti è la rappresentazione-caratterizzazione della
Romagna di Campana: “[…] guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana
antica Romagna” (Cer. 132).
        Guerriera scrive Campana, e Dante: “Romagna tua non è, e non fu mai, / sanza
guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni” (Inf., XXVII, vv. 37-38). Così Dante risponde a
Guido da Montefeltro desideroso di sapere se i romagnoli hanno pace o guerra. E se
Guido del Duca si lamenta dei “romagnoli tornati in bastardi” (Purg., XIV, v. 99) non
può non ricordare anche l’antica Romagna “benigna di nobiltà umana” come la qua-
lifica il poeta marradese. Quanto all’appellativo di amante soccorrerà più che altro,
anche per l’insistenza con cui ritorna in Campana, il ricordo di Francesca.
        La Notte rappresenta il momento “infernale” del viaggio di Campana, La
Chimera e La Verna ne costituiscono il versante “purgatoriale”. Ecco un passo di
Campana:

             Guardo oppresso le roccie ripide della Falterona: dovrò salire, salire. […] Come
             incantate erano sorte per me le stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dolci
             avvallamenti dove sfumava la valle barbarica […]. Io sentivo le stelle sorgere e
             collocarsi luminose su quel mistero. Alzando gli occhi alla roccia a picco altis-
             sima che si intagliava in un semicerchio dentato contro il violetto crepuscolare,
             arco solitario e magnifico teso in forza di catastrofe sotto gli ammucchiamenti
             inquieti di roccie all’agguato dell’infinito, io non ero non ero rapito di scoprire
             luci ancora luci (Cer.118).

        Come ne La Notte, anche ne La Chimera e ne La Verna il recupero di mate-
riale dantesco, di linguaggio dantesco, rende evidente il passaggio. Nel brano appe-
na ricordato, per “gli ammucchiamenti inquieti di roccie” si può ricordare l’inizio
di Purg., X: “Noi salivam per una pietra fessa / che si moveva d’una e d’altra parte,
/ sì come l’onda che fugge e s’appressa” (Purg., X, vv. 7-9). Per la visione delle stelle
che appare, guardando da sotto in su, incorniciata dalle rocce, si ricorderà l’esigua
parte di volta celeste che Dante può vedere dalla scala, chiusa tra alte pareti roccio-
se, che conduce al paradiso terrestre (“Poco potea parer lì del di fori; / ma, per quel
poco, vedea io le stelle / di lor solere e più chiare e maggiori” (Purg., XXVII, vv. 88-
90): del passo dantesco, Campana ha colto l’atmosfera di mistero e di rivelazione.
Per la “roccia altissima” si può guardare a Purg., XXVII, v. 87: “fasciati quinci e
quindi d’alta grotta”; per la roccia vista come in movimento, il passo già ricordato,

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di Purg., X, vv. 7-9. L’ansia del salire, poi, ci riporta alla fatica e al desiderio del
pellegrino teso alla mèta: “dovrò salire, salire”. Qui non è solo il richiamo verbale,
ma quello dell’affinità morale, a rinviare al modello dantesco.
       Ne La Chimera il v. 24, “Non so se fu un dolce vapore”, rinvia a Purg., XI, v.
6; il dolce vapore, che in Dante è “un attributo divino” (come ha annotato Luigi
Bonaffini), servirebbe, sempre a parere dello stesso studioso, a dare “risalto alla
natura trascendente della Chimera”, e come “emanazione spirituale” invita ad in-
tenderlo la Ceragioli. Ma al dolce vapore, a forte marcatura positiva quale che possa
esserne il significato preciso attribuitogli dall’autore, è opposto, ne La giornata di
un nevrastenico, il malvagio vapore della nebbia. Limpido il paesaggio de La Chi-
mera (stelle vivide, teneri cieli, chiare ombre); offuscato quello de La giornata di un
nevrastenico (con la connotazione negativa che, spesso, in Campana, ha nebbia). Il
paesaggio d’incubo campaniano (vie deserte come dopo il saccheggio, cimitero) deve
forse qualcosa all’incubo “infernale” di Dante: l’apparizione di Lucifero, intravisto
come incerto dificio, poi svelato nella sua terribilità. Valga la similitudine dantesca
di Inf., XXXIV, v. 4 e segg.: “Come quando una grossa nebbia spira…”. La
compresenza di vapore e nebbia nello stesso contesto (Inf., XXXIII, vv. 102-108),
con la richiesta di Dante a Virgilio di conoscere la causa del vento che egli avverte -
“non è qua giù ogne vapore spento?”, v. 105 - porta alla rivelazione che il vapore
infernale alita gelido dalla fonte stessa del male, Lucifero. Ma più addietro nel testo
dantesco, Inf., V, v. 88, a confermare l’ascendente illustre campaniano, c’è aere ma-
ligno, che del malvagio vapore può essere un corrispettivo.
       In un appunto Campana annota:

             […] in queste sere in cui è profondamente dolce la voce dell’organetto, la can-
             zone di nostalgia del marinaio, dopo che il giorno del sud ci ha riempito du vin
             de la paresse.

       Prudente mi sembra non giurare sul rapporto tra l’organetto di questo passo
e Par., XVII, v. 46 (“dolce armonia da organo”); ne afferma decisamente il collega-
mento il Bonaffini (“l’organetto è senz’altro un riferimento alla “dolce armonia da
organo” […]”). Ma questo organetto è qualcosa di più modesto dell’organo dantesco;
è certamente un organo di Barberia, strumento caro all’immaginazione crepuscola-
re. Vero, invece, come afferma il Bonaffini, che “Il marinaio è, naturalmente, quello
dell’ottavo canto del Purgatorio”. Infatti l’inizio di Purg. VIII appare con una certa
frequenza, per modi diretti o per allusioni, nella poesia di Campana. Una citazione
in parentesi è in un appunto che segue quello prima citato:

             L’arte crepuscolare (era già l’ora che volge il desìo) in cui tutto si affaccia e si
             confonde […]

      Più vividamente ne La Verna:

             Una campana dalla chiesetta francescana tintinna nella tristezza del chiostro: e

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             pare il giorno dall’ombra, il giorno pianger che si muore. (Cer. 126).

        Il richiamo a Purg. VIII 5-6 è a livello di citazione. Ma il clima è diverso. In
Campana non c’è la nostalgia dell’ora che volge il disio ai naviganti e ne intenerisce
il cuore, ma la tristezza che assale l’anima alla fine di un sogno: “Il sogno è al termi-
ne e l’anima improvvisamente sola cerca un appoggio una fede nella triste ora”
(Cer., ivi). È sull’impossibilità di trovare quell’appoggio e quella fede che la campa-
na sembra piangere, e il giorno che si muore sottolinea la morte della speranza di
trovare la fede cercata. La reminiscenza dantesca non è solo una citazione esornativa
o una citazione ritagliata e adattata ad una situazione nuova, ma la verifica, nel vivo
della propria esperienza, di un iter già da altri, e in altre condizioni e con altri esiti,
percorso.
        Semplificando, e alla luce degli esempi ricordati, si può dire che Campana,
per costruire rispettivamente il suo Inferno e il suo Purgatorio si serva di due canti
esemplari: il V dell’Inferno e l’VIII del Purgatorio. Altri, qua e là, affiorano dalle
pagine dei Canti orfici; ma è soprattutto su quei due canti che si tende la trama
dantesca della poesia di Campana.
        Talvolta concorrono altre opere dantesche al rafforzamento di quella trama.
Servirà, anche in questo caso, qualche esempio. La parte finale della sezione 2 de La
Notte, se ha un chiaro rinvio a Purg., VIII, v. 1 e segg. (“Un tocco di campana
argentino e dolce di lontananza: la Sera”), può chiamare in causa quella Vita Nuova
la cui presenza è stata variamente rilevata negli studi sul poeta. L’incontro con una
donna amata, con una Beatrice-poesia, avviene in una chiesa: “nella chiesetta solita-
ria, all’ombra delle modeste navate, io stringevo Lei, dalle carni rosee e dagli accesi
occhi fuggitivi”. La “situazione” dantesca resta preminente, nonostante il lampante
leopardismo degli “occhi fuggitivi”. E un probabile affioramento dantesco si coglie
anche nella sezione finale de La Notte: “Passano nella veglia opime di messi d’amo-
re, leggere spole tessenti fantasie multicolori, […]”. Il raffronto è possibile con Purg.,
XXXI, v. 96: “sovr’esso l’acqua lieve come scola”. Scola, leggera imbarcazione, come
spiegano gli interpreti della Commedia; ma lo stesso termine vale anche per la navi-
cella del telaio, spola. In Campana è evidente questo significato (“leggere spole tes-
senti fantasie multicolori”), ma la suggestione più che dal sostantivo, spole, è attiva-
ta dall’aggettivo (leggere / lieve): il trascorrere delle fanciulle è lieve come quello di
Matelda sulle acque del fiume sacro. Il volo della tortora, ne La Verna, ricorda (vi
ricorre l’aggettivo leggero anche qui) il rapido muoversi del vasello snelletto e leg-
gero che conduce le anime al regno della purificazione: “Volava senza fine sull’ali
distese, leggera come una barca sul mare”: il verbo volare è anch’esso, qui, di prove-
nienza dantesca (“che ‘l mover suo nessun volar pareggia”, Purg., II, v. 18).
        Suggestivo sarebbe (e non impossibile) leggere, ai vv. 7-8 di Firenze (Uffizii),
i “persi / Voli” come i voli nell’aere perso di Inf., V, v. 89. Volo perso, volo oscuro
dell’anima? Né fuori luogo sarebbe cogliere nell’insistente rima notte : rotte di Bat-
te botte un frammento di Purg., I, vv. 44-46. Si potrebbe scorgere, sotto l’apparenza
di una rima “facile” l’oculata ricerca, da parte di Campana, di un’occorrenza unica

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nella Commedia. E in Firenze, in un passaggio,

             A Signa nel ronzio musicale e assonnante ricordo quel profondo silenzio […]

può insinuarsi un richiamo alla doppia occorrenza di assonnare in Purg., XXXII,
vv. 64-69 (“S’io potessi ritrar come assonnaro / li occhi spietati udendo di Siringa, /
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro; // […] ma qual vuol sia che l’assonnar ben
finga”); nei due casi l’assonnare è legato ad un elemento musicale.
       Ma si è su margini in cui, si potrebbe osservare, la possibilità del riferimento
dantesco è pari alla sua opinabilità. Certo, non si tratta di rinvii danteschi di natura
occasionale; discutibili, forse, ma tali da richiedere una contestualizzazione sicura
nel sistema campaniano.

       Sereni è un poeta ben lontano dalla figura di Dante e della sua opera. Così in
apparenza. La sostanza è diversa. Cercando, infatti, nelle pagine di Sereni, una qua-
lità “dantesca” della sua poesia non è difficile riconoscerla. Il dato fondamentale è
costituito da quel “senso della contemporaneità” sul quale Sereni ha spesso richia-
mato l’attenzione. Basta ricordare un breve passo della prosa che s’intitola Dovuto
a Montale:

             Da tempo mi ero accorto che in una pagina scritta come in un intero libro i
             segni che più mi attraevano erano connessi al senso della contemporaneità, di-
             ciamo al colore e all’aria del tempo nel quale ero posto a vivere.

       Anche la presenza dantesca, in qualunque modo si articoli, è fortemente ag-
ganciata al senso della contemporaneità. A questo si collega la coscienza del muo-
versi in una zona limitrofa ad un mondo ‘altro’, come in due versi de La ragazza
d’Atene:

             Presto sarò il viandante stupefatto
             avventurato nel tempo nebbioso.

        “Diario d’Algeria”, è stato notato, “non è altro che la trascrizione, il diario,
l’espressione di questo “viandante” nel suo viaggio tra i morti in cerca di certezze
[…]”. Con Diario d’Algeria la presenza dantesca in Sereni si fa decisiva, mentre in
Frontiera non risulta del tutto libera da qualche riecheggiamento un poco esteriore.
Non è un caso, perciò, che nell’antologia del poeta curata da Lonardi e Lenzini,
benemerita anche per i rinvii danteschi del commento, solo in due testi di Frontiera
si colgono riecheggiamenti della Commedia: plaga, al v. 6 di A M. L. sorvolando in
rapido la sua città (e viene ricordato Par., XXIII, vv. 11-12: “la plaga / sotto la quale
il sol mostra men fretta”); al v. 9 della stessa poesia per festuche (con rinvio a Inf.,
XXXIV, v. 12); e al v. 8 di Un’altra estate per s’appunta (e viene ricordato Purg., XV,
v. 49). Una ricognizione ulteriore consente di cogliere una trama ben più estesa di
riferimenti. Ed è utile coglierli, questi riferimenti, soffermandovisi puntualmente.

                                            72
Luigi Scorrano

        Si veda Inferno: i vv. 1: “ma se ti volgi e guardi”; 8-10: “poi che ti volgi / e
guardi / la svelata bellezza dell’inverno”; 12-15: “[…] ed hai / un gesto vago / come
di fronte a chi ti sorridesse / di sotto un lago di calma, […]”. Un verso dantesco
affiora con maggiore immediatezza, Purg., III, v. 106: “Io mi volsi ver lui, e guardail
fiso”. Il volgersi e il guardare del v. 1 di Sereni sono esposti in tutta evidenza nel
verso dantesco; ma in Inverno anche il dantesco fiso trova corrispondenza nell’espres-
sione in fissità del v. 12 (“Armoniosi accenti sorgono / in fissità, nel gelo […]”). Per
ti sorridesse (v. 14) il rinvio possibile (e l’unico plausibile per la sua contestualità con
gli altri) è a Purg., III, v. 112: “Poi sorridendo disse […]”. Tornando a volgersi e
guardare del testo sereniano è possibile esplorarvi quanto è soggiacente al semplice
registrare l’azione. Volgersi richiede la volontà di osservare le cose; guardare, la
forza di non rifuggire dalla realtà. Così avviene nell’incontro di Dante e Manfredi
nel Purgatorio:

              Biondo era e bello e di gentile aspetto,
              ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso
              (Purg., III, vv. 107-108).

       Volgersi e guardare, fiso, e scoprire la deturpante ferita, turba l’idillio dell’in-
contro; ma lo richiede necessariamente quell’incontro. E, sempre per volgersi e guar-
dare e, dunque, per questo guardare in faccia la realtà, si può rinviare al drammatico
“si volge a l’acqua perigliosa e guata” di Inf., I, v. 24: significativo, il passo, rappor-
tato al testo sereniano, per la presenza dell’acqua: oscuramente perigliosa anche
quella, tra metafora e realtà, del lago di calma.
       In Concerto in giardino un paesaggio edenico (giardini, acque, concerto) è
turbato da immagini di negazione, e soprattutto da quella inquietante dei “bambini
guerrieri” al v. 4. È la situazione, qui, a riecheggiare, sia pur vagamente, quella del
paradiso terrestre dantesco: rappresentazione profetica di una realtà sconvolgente
che turba un quadro apparentemente armonico. Il tenue riferimento ad una proba-
bile memoria dantesca può sembrare illusorio qualora si consideri per sé, isolata-
mente; più probabile se lo si innesta in una rete di riferimenti e di allusioni-remini-
scenze. Un appoggio, affinché non si consideri un inganno della memoria del letto-
re un simile gioco di filtro dell’antico nel nuovo, può fornirlo una dichiarazione
dello stesso Sereni, assai più tarda rispetto a Frontiera, ma significativa come rifles-
sione dell’autore su un procedimento poetico:

              Un’altra avvertenza concerne il caso di versi o frasi di autori del passato, o
              contemporanei, inseriti talvolta e non sempre dati tra virgolette o in corsivo.
              Risulteranno individuabili nella stessa misura in cui sono riaffiorati e entrati
              nel discorso. Per questo appare superfluo indicarli e, tanto più, sottolineare il
              senso e il fine della loro adozione.

      Sulla base di questa affermazione si possono intravedere filigrane dantesche
là dove affidate semplicemente alla disseminazione di parole del lessico dantesco e a

                                             73
Dante nella letteratura del Novecento: esempi

quello particolarmente ascrivibili benché più largamente appartenenti alla lingua
della tradizione poetica. Così nei vv. 2-5 di Azalee nella pioggia:

              […] fu vostra la grazia dell’aria
              nel lume di primavera. Ora si turba
              lo splendido fervore.
              Ma se il lago riaccenna al sereno […]

       Si consideri Par., XIX, vv. 64-65:

              Lume non è, se non vien dal sereno
              Che non si turba mai […]

        Lume, turbarsi, sereno appartengono, certo, alla lingua della tradizione poetica;
ma è suggestivo ritrovare queste tessere lessicali strette in un breve giro di versi sereniani
come nel passo dantesco ricordato; ciò che le fa sembrare niente affatto casuali.
        C’è in Frontiera, e in tutta la poesia di Sereni, una presenza dantesca ‘trasver-
sale’; ai pochi esempi fin qui registrati si aggiunga, più chiaro in questa direzione,
quello di Settembre, vv. 1-2 e vv. 6-8:

              Già l’olea fragrante nei giardini
              d’amarezza ci punge […]

              E il vento che illumina le vigne
              già volge ai giorni fermi queste plaghe
              da una dubbiosa brulicante estate.

      “Già … ci punge”, “il vento / già volge”, “ai giorni fermi”: è l’addio ai dolci
amici che rintocca nei primi versi del canto VIII del Purgatorio:

              Era già l’ora che volge il disio
              Ai navicanti […]
              […]
              e che lo novo peregrin d’amore
              punge, se ode squilla di lontano
              che paia il giorno pianger che si more.

       Rapidamente si possono ricordare altri esempi. La ripetizione della parola
pace in 3 Dicembre, vv. 1-2, 8 (“All’ultimo tumulto dei binari / hai la tua pace, …”;
“Pace forse è davvero la tua”) richiama Inf., V, vv. 92 e 99. Il raccostamento di fioco
e tumulto, in Inverno a Luino, vv. 25-26 (“un fioco tumulto di lontane / locomotive
verso la frontiera”) fa pensare a Inf., III, vv. 27-28: “voci alte e fioche, e suon di man
con elle / facevano un tumulto, […]”.
       Un’indagine nell’apparato critico allestito da Isella (Appendice II di Frontie-

                                              74
Luigi Scorrano

ra) consente di vedere un Sereni non del tutto affrancato dalla tradizione letteraria,
antica e recente, che qui un poco lo impaccia mentre va saggiando di quanto la sua
voce possa riuscire originale. Ed è curioso vedere, in alcuni testi contenuti in quel-
l’appendice, la ripresa di situazioni sovrapposte: quella dell’Enrico IV pirandelliano,
ad esempio, su quella del Ciacco dantesco. E si potrebbe osservare la rimodulazione
(o il tentativo di rimodulazione) della topica similitudine delle foglie che il vento
autunnale strappa ai rami degli alberi: Dante (Inf., III, vv. 112-115) e Manzoni vi
concorrono (ma questo esula dal nostro discorso).
        Può sembrare eccessivo cercare tracce su margini un po’ risicati; ma anche la
vicenda di Frontiera mostra un Sereni impegnato a illimpidire un nucleo poetico
depurandolo anche da troppo visibili affioramenti di materiali della tradizione po-
etica italiana non soddisfacentemente assestati nel suo contesto poetico. Se un rica-
vo consistente è riconoscibile nel lavorìo di Sereni su Frontiera, esso è da individua-
re in un rilevato passaggio dalla giovinezza alla maturità poetica. E il ricalco del
modello dantesco non sarà tanto da cercare nelle sicure od opinabili tessere lessicali
e modulazioni stilistiche quanto in una lezione profondamente accolta: quella che
conduce Dante dalla temperie “fervida e passionata” della Vita Nuova a quella “tem-
perata e virile” del Convivio (Cv., II, V. 16).
        In Diario d’Algeria l’accento è, certo, temperato e virile, per dirla alla manie-
ra dantesca. C’è una diversa fermezza di fronte agli avvenimenti ed alla propria
storia interiore. In questa temperie anche l’allusione dantesca si fa più precisa e più
ricca. Un esempio si ha ad apertura di libro, Periferia 1940; vi si leggano i vv. 1-4:

             La giovinezza è tutta nella luce
             d’una città al tramonto
             dove straziato ed esule ogni suono
             si spicca dal brusio.

       Torna, qui, la suggestione dei versi iniziali del canto VIII del Purgatorio (vv.
1-6): “Era già l’ora che volge il disio […]”.
       Paesaggio “purgatoriale”, in Sereni, evocato non tanto dal riferimento al tra-
monto, tutt’altro che esterno, ma soprattutto dalla puntura di malinconia di ogni
suono straziato ed esule che compendia tono ed atmosfera del celebre passo dantesco.
       Nella prima redazione (A Milano, in febbraio), l’inizio riporta, a livello
lessicale, con maggior evidenza al passo di Purg., VIII:

             Fu un mese lungo d’addii
             protratti dolcemente nelle sere:
             […]
             con quegli estremi amici nelle strade;

e si confrontino dolce/dolcemente, dolci amici / estremi amici, addio / addii. Visibi-
le già in Frontiera la suggestione del passo dantesco, oltre che in Settembre, già
annotata, in Strada di Zenna, vv. 21-24:

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Dante nella letteratura del Novecento: esempi

             E attorno l’esteso strazio
             delle sirene salutanti nei porti
             per chi resta nei sogni
             di pallidi volti feroci;

e nel Diario d’Algeria un’eco rintocca nei vv. 1-3 di Italiano in Grecia:

             Prima sera d’Atene, esteso addio
             dei convogli che filano ai tuoi lembi
             colmi di strazio nel lungo semibuio.

       Il materiale lessicale è sostanzialmente uguale o affine: esteso strazio / esteso
addio sono, in questo senso, sintagmi rivelatori. Un’eco così elaborata da poter
essere colta solo attraverso la trafila delle citazioni riportate; un’eco ormai dal poeta
compiutamente assorbita nel sentimento della propria dizione poetica: senza resi-
dui.
       Diario d’Algeria è, per così dire, un libro “purgatoriale”, perché più s’accosta
alla seconda cantica dantesca sia nella dimensione morale sia nel tessuto di citazioni
e reminiscenze che vi si rintracciano. L’appoggio per questa caratterizzazione si
può trovare nello stesso Sereni che, in una prosa dal titolo Algeria ’44 annota: “Un’al-
ta collina boscosa di forma troncoconica, da montagna del Purgatorio, sovrasta il
nuovo campo”. E su questa purgatorialità si è già soffermata l’attenzione di lettori
di Sereni: Paolo Baldan, che nella rappresentazione vede “un simbolo perfetto di
evasione, un magnifico contraltare della “feroce aiuola” in cui l’uomo si dibatte;
[…] basta soltanto laicizzarlo, acquistarlo all’area dei viventi e farne un luogo psi-
cologico, per permetterne un pronto impiego novecentesco”. E della purgatorialità
del Diario ha scritto Silvio Ramat.
       Se ritorniamo a Periferia 1940, che abbiamo già ricordato, possiamo ravvisa-
re un’altra occulta tessera dantesca, nel v. 6 in particolare. I vv. 5-8 dicono:

             E tu mia vita salvati se puoi
             serba te stessa al futuro
             passante e a quelle parvenze sui ponti
             nel baleno dei fari;

a raffronto, Par., XVII, vv. 97-99:

             Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
             poscia che s’infutura la tua vita
             vie più là che ‘l punir di lor perfidie.

       Se per Dante c’è, in una situazione di crisi, il conforto di una giustizia sia
pure postuma (ma l’infuturarsi è legato alla parola vita), per Sereni non c’è altra
risorsa che la volontà, possibile, di scampare alle pressioni di una desolata realtà,

                                                76
Luigi Scorrano

fiducioso perché, come dice in una sua prosa intitolata Male del reticolato, “osa
ancora credere alla pazienza e alla memoria”: alla pazienza e alla memoria, dante-
scamente.
       Ancora un esempio minimo di questo diffuso dantismo di Sereni. Ne La
ragazza d’Atene, i vv. 17-18 (“Presto sarò il viandante stupefatto / avventurato nel
tempo nebbioso”) hanno fatto pensare, proprio per il viandante stupefatto, a Leo-
pardi e a Cardarelli; a Leopardi per il “confuso viatore” al v. 29 del Tramonto della
luna, a Cardarelli per il “viandante disorientato” di una prosa di Prologhi. Sugge-
stioni e richiami (e si devono al commento di Lenzini) ai quali mi pare non avven-
turoso aggiungere, forse meno visibile ma più pertinente il peregrin dantesco di
Par., XXXI, v. 40 al quale è attribuito lo stupore: “di che stupor dovea esser com-
piuto!”. Evidente la differenza tra il viandante sereniano e il peregrin dantesco, ma
è pur vero che solo a quest’ultimo è attribuito lo stupore, mentre il viatore/vian-
dante leopardiano/cardarelliano è confuso/disorientato.
       Con Gli strumenti umani, la presenza dantesca in Sereni si fa più decisa e
matura. Voci dantesche sono, ad esempio, dissigilla e disfatto annotate da Lenzini;
vi si può aggiungere, ad esempio, fresca nel senso di recente: (“la casa visitata dalla
mia fresca morte”: a fronte di Inf., XIV, v. 42: “escotendo da sé l’arsura fresca” e di
Purg., II, v. 130: “così vid’io quella masnada fresca”). Nella sez. V di Una visita in
fabbrica, un’allusione dantesca, poco distante da una leopardiana, ha la funzione di
sottolineare l’estraneità della poesia a un mondo intento a perseguire ben altri beni:

             La parte migliore? Non esiste. O è un senso
             di sé sempre in regresso sul lavoro
             o spento in esso, lieto dell’altrui pane
             che solo a mente sveglia sa d’amaro.

     L’altrui pane che sa d’amaro richiama Par., XVII, vv. 58-59: “Tu proverai sì
come sa di sale / lo pane altrui […]”; e Sereni commenta:

             Un monito a tener duro in nome di coloro (gli operai) che oggi sembrano “lie-
             ti” del pane padronale, “amaro” solo per chi sta sveglio e tiene d’occhio fatti e
             condizioni, capace d’ira ma desideroso soprattutto di chiarezza […]

       Il pane altrui è amaro solo per chi è consapevole (“a mente sveglia”); questa
consapevolezza è la caratteristica che lega l’atteggiamento sereniano alla parola
dantesca, quel che fa avvertire al poeta d’oggi un senso di contemporaneità con la
parola e l’atteggiamento del poeta di un tempo lontano. Anche questo avvicina il
viaggio di Sereni a quello dantesco: compiere l’esperienza individuale a favore di
chi ha bisogno, non potendolo con le sue sole forze, d’esser fatto consapevole. Ci si
muove in una realtà irta di asperità, che desta sgomento. E la città d’oggi è piena
d’insidie e d’avventura come la Firenze dantesca. Sempre in Una visita in fabbrica,
nella stessa sez. V, troviamo:

                                            77
Dante nella letteratura del Novecento: esempi

             Ecco. E si fa strada sul filo
             cui si affida il tuo cuore, ti rigetta
             alla città selvosa […]

e città selvosa consente il rinvio a Par., XIV, v. 64: “Sanguinoso esce de la trista
selva”: cioè da Firenze. Con un di più di ambiguità in Sereni, là dove la città è
selvosa perché, come scrive lo stesso Sereni, “con promesse d’avventura”, ma anche
“ambigua tra “giungla” e “scampo” nel senso della vecchia natura”.
       Il colloquio con i morti, che è una “situazione” frequente nella poesia di
Sereni, attiva un ampio materiale dantesco, non sempre in evidenza, ma largamente
ed accortamente disseminato e, spesso, occultato. Non possiamo fermarci a rilevar-
ne che qualche sparso esempio. Si veda un passo di Intervista a un suicida:

             Immobile, uniforme
             rispose per lei (per me) una siepe di fuoco
             crepitante lieve, come di vetro liquido
             indolore con dolore.
             Gettai nel riverbero il mio perché l’hai fatto?
             Ma non svettarono voci lingueggianti in fiamma.
             non la storia di un uomo […]

        La siepe di fuoco richiama quella che racchiude i lussuriosi nel purgatorio (Purg.,
XXV, vv. 112-114); l’espressione indolore con dolore può rifarsi all’affermazione di
Virgilio in Purg., XXVII, vv. 20-21: “Figliuol mio, / qui può esser tormento, ma non
morte”; il vetro liquido ricorda il bogliente vetro dantesco di Purg., XXVII, v. 49; le
voci lingueggianti in fiamma rinviano all’episodio di Ulisse, Inf., XXVI, vv. 85-89,
con le fiamme dalle quali fuoriesce la voce dei dannati. Un’altra composizione, Il
muro, se si può ricordare genericamente per il colloquio con i morti, contiene an-
ch’essa precisi riconoscibili elementi danteschi. Nel dialogo, l’immagine paterna è
quella di un Cacciaguida spogliato di solennità e restituito a una dimensione di com-
plicità ironica. Il tuffo di carità provato da chi narra diventa, nelle parole del defunto,
carità pelosa:

             Dice che è carità pelosa, dà presagio
             del mio prossimo ghiaccio, me lo dice come in gloria
             rasserenandosi rasserenandomi
             mentre riapro gli occhi e lui si ritira ridendo […]

      Di Dante si ricorderà:

             Ma per chiare parole e con preciso
             latin rispuose quello amor paterno,
             chiuso e parvente del suo proprio riso […]

                                               78
Luigi Scorrano

       Altrove si possono cogliere suggerimenti più che riecheggiamenti, all’inse-
gna di una riflessione morale davanti alla constatazione del traviare umano. Così in
Quei bambini che giocano, vv. 3-8:

             Perdoneranno. Un giorno.
             Ma la distorsione del tempo
             il corso della vita deviato su false piste
             l’emorragia dei giorni
             dal varco del corretto intendimento:
             questo no, non lo perdoneranno.

       Non si è lontani dal clima morale della denuncia di Beatrice: “e volse i passi
suoi per via non vera, / imagini di ben seguendo false, / che nulla promession ren-
dono intera” (Purg., XXX, vv. 130-132); “Le presenti cose / col falso lor piacer
volser miei passi […]” (Purg., XXXI, vv. 34-35). Si può risalire, a specchio di quel
corso della vita deviato su false piste, fino allo smarrimento nella selva oscura, alla
diritta via smarrita di Inf., I.
       Questo modo del recupero di ‘suggerimenti’ danteschi continua anche in
Stella variabile. Prendiamo ad esempio un testo molto noto di Sereni, Un posto di
vacanza. Vi leggiamo, nella sez. II, vv. 56-61:

             […] l’onda
             rutilante, oceanica
             con bagliori di freddo sul frangente
             obliquo a invetriare sguardi e voci nell’estate tirrenica […]
             qui si rompe il poema sul posto di vacanza
             travolto da tanto mare -;

l’invetriare rinvia a Inf., XXXIII, v. 128 (“le ‘nvetriate lacrime”) ma, in genere, alla
descrizione dei peccatori della Tolomea (vv. 91-99 e, al v. 98, l’espressione “visiere
di cristallo”).
       La situazione dei vv. 60-61 è quella dantesca di Par., XXXIII, v. 48 (“l’ardor
del desiderio in me finii”) e 55 e segg. dello stesso canto:

             Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
             che ‘l parlar nostro, ch’a tal vista cede,
             e cede la memoria a tanto oltraggio.
             […]
             ché quasi tutta cessa
             mia visione […].
             O quanto è corto il dire e come fioco
             al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
             è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.
             […]

                                              79
Dante nella letteratura del Novecento: esempi

             A l’alta fantasia qui mancò possa […]

       Travolto da tanto mare, scriveva Sereni: non è che l’immagine labile di una
immensità/immanità davanti alla quale la memoria cade vinta. Il resto del passo di
Sereni si può leggere in parallelo con tutta la parte terminale di Paradiso XXXIII, con
il “profondare” in una verità che si percepisce nella sua grandezza. Sereni risolve la
situazione in una versione parodizzante, ma non troppo; consapevole di volersi
arrendere a tanto mare “senza zavorra o schermo di parole”, come si legge al v. 65 (in
Dante il “corto” e “fioco” dire umano), di volersi impossessare d’una scintilla della
verità entro la quale ci si immerge (“una favilla sol de la tua gloria”, Par., XXXIII, v.
71; Sereni: “fendere il poco di oro che rimane / sulle piccole isole”, vv. 66-67) prima di
ricadere nel “nero” dell’oblio. E se di interruzione, e non di conclusione, si tratta
(“qui si rompe il poema sul posto di vacanza”), si può ricordare la situazione di diffi-
coltà in cui viene a trovarsi Dante in un tratto del percorso paradisiaco:

             E così, figurando il paradiso,
             convien saltar lo sacrato poema,
             come chi trova suo cammin riciso
             (Par., XXXIII, vv. 61-63).

       Non indugeremo su altro. Proviamo a trarre, dal percorso nella poesia di Sere-
ni, una conclusione provvisoria. Letta attraverso un senso di contemporaneità forte-
mente avvertita da Sereni, la Commedia offre un’intelaiatura generale tutt’altro che
rigida, anzi duttilmente utilizzabile per una lettura della vicenda esistenziale e dell’av-
ventura intellettuale d’un uomo d’oggi. I brani di memoria dantesca che scivolano
nell’opera di Sereni e vi compongono una vasta tela di riferimenti sono restituiti nelle
modalità consentite da un discorso che registra più domande che risposte e, dunque,
non appoggia su basi di certezza ma sul dubbio costituivo della coscienza novecentesca.
Non c’è, in Sereni, una verità assoluta alla quale si è certi di pervenire alla fine del
viaggio; c’è il viaggio con le sue esitazioni, incertezze, soste pensose. Non c’è discesa
agli inferi e salita all’empireo, un percorso redentivo di morte e resurrezione. Ma
resta, nella pagina di Sereni, il doppio livello di giudizio ch’è proprio della Comme-
dia: quello che il pellegrino vivo esprime sulle vicende e sugli uomini del proprio
tempo, e l’altro, che i morti esprimono sui vivi. In Sereni, l’incontro ed il colloquio
con i morti non è tanto un tuffo nella storia e nella cronaca del proprio tempo alla luce
di verità supreme e di una universale trama di eventi; è l’affiorare alla coscienza di
quel mondo apparentemente sconosciuto che l’uomo talvolta chiude inconsapevole
dentro di sé. La voce dei morti non è che l’eco chiara d’una situazione che la coscien-
za, anche attraverso lo strumento d’una limpida ironia, va chiarendo a se stessa.
       Il linguaggio, là dove s’intarsia di preziosi tasselli, mai esornativi, o ricerca la
via di una dizione alta, risponde al desiderio di dare fermezza alle registrate oscilla-
zioni dell’esistere. La solennità che a volte sembra irrigidirlo è solo il modo adotta-
to per conferire dignità alla vicissitudine di un’altalenante quotidianità; vi s’infiltra,

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Luigi Scorrano

a correggere quanto eventualmente rischi d’apparire esorbitante dal margine stabili-
to, un’ironia non sorridente e leggera ma profondamente – ed unicamente – pensosa.
Riduttrice, non riduttiva. Si capisce anche per questo perché la ‘purgatorialità’ sia la
cifra più segreta ed insieme più esplicita del dantismo di Sereni. La ‘purgatorialità’ è la
certificazione dell’esistenza in atto, con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti ma
anche con la sua carica di fraternità: una carità ‘laica’ rafforzata da un difficile eserci-
zio quotidiano di comprensione delle ragioni degli altri e dell’indagine senza indul-
genze sulle regole, per il poeta come per ognuno degli uomini, del proprio vivere.
        Se è impossibile al poeta contemporaneo riproporre – o ripercorrere tout
court – l’esperienza del poeta medievale, il serbatoio dell’opera dantesca schiude
anche allo scrittore novecentesco la sua ricchezza, ed egli vi può attingere proce-
dendo a verificare nella società in cui vive le possibilità “attive” del grande modello.
Sereni le trova nella connessione al “senso della contemporaneità”, “al colore e
all’aria del tempo” nel quale è posto a vivere. Dileguata dal suo orizzonte ogni
trascendenza, resta però, come certezza alla quale riferirsi, la necessità di chiarire le
motivazioni fondanti del vivere e dell’agire. Per questa ricerca Dante costituisce,
anche per Sereni, un punto di riferimento accolto e sapientemente ripensato.

       Anche il romanzo italiano del Novecento ha guardato a Dante. Espongo qui
un solo esempio: quello del romanzo L’occhio del gatto di Alberto Bevilacqua.
       Non si tratta di un riferimento casuale. Il “viaggio” è tema frequente nel-
l’opera dello scrittore parmigiano; un viaggio costituisce la premessa, e anche la
conclusione, dell’Occhio del gatto. Marcello, il protagonista del romanzo, che rea-
lizza documentari cinematografici, è stato portato da uno dei viaggi professionali in
uno “dei tanti […] inferni clandestini sui quali […] strepita il mondo”, dove ha
luogo una guerra e dove i parenti delle vittime “vendono” i cadaveri straziati a
coloro che raccolgono immagini su cui far fremere - magari solo esteticamente - il
mondo occidentale. In quell’inferno il documentarista ha una guida: il pilota che
conosce la boscaglia e sa dove atterrare.
       Tornato a Roma, Marcello deve sistemare il materiale “girato”; all’ultimo
piano di un moderno ed anonimo edificio, seduto alla moviola, egli vede ripassare
sotto i suoi occhi le immagini atroci di cui si compone la sua discesa agli inferi. Il
montaggio delle immagini costituisce l’asse portante del discorso; il dramma si co-
struisce attraverso la selezione dei materiali girati.

              L’idea sarebbe di costruire un mio viaggio agli inferi, guidato dal pilota, un
              cammino dantesco nelle viscere di questa realtà, fino alla battaglia, rovesciando
              il concetto di redenzione: dall’alto al basso; […].
              Comincio. Così discesi nel cerchio primaio […]

      Le immagini che passano in moviola, tempestose, sono visioni di guerra: fumo
portato dal vento, polvere, ma più “granelli sodi”; il sonoro “è un uragano”. Scatta
proprio da quelle immagini la memoria-commento della Commedia:

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Dante nella letteratura del Novecento: esempi

             La bufera infernal che mai non resta, / mena li spirti con la sua rapina.
             Giro la mia mistura infernale.

       I luoghi danteschi non sono ripresi come citazioni dotte; piuttosto entrano a
far parte del continuum del discorso. Per la strettissima correlazione tra parola e
immagini, o viceversa, i passi danteschi risultano l’unico commento necessario, ri-
trovato nella memoria e totalmente immerso nella situazione rappresentata. La cul-
tura, non adottata ad essere sterile ornamento (e tale sarebbe se i versi danteschi
non fossero che “belle” citazioni), s’immerge nella vita: l’atrocità dell’esperienza
infernale del poeta antico si ripropone nell’inferno contemporaneo di un mondo
continuamente sconvolto dalle guerre.
       La variante (“Così discesi nel cerchio primaio” - nel invece di del) non costi-
tuisce un lapsus, ma produce una ridisposizione della materia dantesca: quello di
Bevilacqua non è un inferno teologale, non c’è da attraversare alcun Limbo. La
voragine mortale risucchia di colpo quel pellegrino dell’immagine che è Marcello,
lo colloca bruscamente in una dimensione che col mondo quotidiano (anch’esso
con i suoi piccoli, e forse sopportabili, inferni) non ha altro collegamento se non
quello che la macchina da presa consente attraverso l’immagazzinamento delle im-
magini. Resiste - umana - l’intesa tra Marcello e il pilota, tra la guida e colui che è
guidato:

             […]subito dopo io mi giro verso il pilota e lui mi ricambia con un sorriso dalla
             faccia ricoperta di terra, allunga la mano fraternamente alla macchina, alla mia
             testa.
             Allora […] io vorrei che arrivasse una voce di attore, sul dettaglio del pilota, ma
             una voce umile, […] e lo sottolineo, umilissima, e la voce dovrebbe recitare:
             Mentre ch’i’ ruvinava in basso loco / dinanzi alli occhi mi si fu offerto / chi per
             lungo silenzio parea fioco: / Quando vidi costui nel gran diserto, / “Miserere di
             me” gridai a lui / “qual che tu sii, od ombra od omo certo!”

      Le visioni d’orrore si moltiplicano, finché uno spazio di pace e di speranza si
apre su quelle di un incontro d’amore di due giovani. La conclusione dell’episodio
è fuori dalle angosciose visioni, in una via luminosa di Roma:

             Sopra i muri la luce si fa dorata e insieme affollata di ombre verticali e procedo
             illudendomi in una campagna che solo io vedo, tra i campi di grano. Se la tra-
             smissione potesse terminare qui, nella strada, vorrei che la voce dell’attore arri-
             vasse e dicesse, facendosi più remota: O luce etterna che sola in te sidi, / sola
             t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi.

        Il percorso è quello della Commedia, semplificato nelle motivazioni e negli
esiti. Si è in presenza di una Commedia laica, e la luce che la conclude, la “luce
eterna”, nel romanzo di Bevilacqua non è quella dell’unità e trinità divina ma - con
dolce ironia - la luce solare in una via romana, e vale un reimmergersi nella vita,

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Luigi Scorrano

quasi un riconciliarsi con essa dopo lo spettacolo insostenibile di ciò che la violenza
dell’uomo produce.
       Il viaggio sembra concluso, l’animo riaffacciato al piacere di vivere. Se non
che il vero dramma è altrove; esce dalle maglie di una pur atroce rappresentazione,
si consuma non nel giro delle immagini fermate per sempre, ma nella durata dei
giorni, non nella fissità dei fotogrammi, ma nella mobilità dell’esistenza.
       Dante, ancora, rispunta lungo il percorso, non casualmente per quanto con
minore efficacia, e ridiventa “necessario” verso la fine del romanzo.
       Alla soglia del capitolo XI sono collocate in grande evidenza due citazioni:
una di Vladimir Holan, l’altra di Dante con la semplice indicazione, in parentesi,
Purgatorio. La citazione è un indicatore di direzione per la mèta dell’ultimo viaggio
del protagonista. I molti viaggi di Marcello, quelli di lavoro, si staccano da lui: uno,
ultimo, ne resta da compiere, ancora un percorso dell’esistenza nella sua totalità si
direbbe. Così, nel romanzo, un viaggio è la premessa, un viaggio la conclusione:

             Ed ora, alla fine davvero di quanto era ed è in mio potere, c’è un viaggio.
             […]
             Meta del mio viaggio è una città. E arrivandoci, lasciandomi inghiottire, io sco-
             pro nei suoi palazzi e nelle sue strade l’autonomia da tutti i luoghi del mondo
             in cui ho visto e ho vissuto violenza, […].
             […] una città non schiava o schiava unicamente del suo essere autonoma fino
             all’illusione.
             […] è Mantova.

       Mantova, città virgiliana, è il luogo dell’incontro con un’altra guida, una fi-
gura femminile, e, insieme, con uno specchio della propria anima. Ma il viaggio è
immaginario (“Questo è il viaggio di uno che non lo farà mai. Ed è inutile che
insista”) e la guida è morta (“Mia madre la vedo morta in questa camera”); il viag-
gio, però, per quanto immaginario, consegue il suo fine, ristabilisce una comunica-
zione:

             Ci siamo ritrovati madre e figlio attraverso l’ironia.

       L’incontro “dantesco” è un ritorno alle origini; l’abbraccio - “e l’un l’altro
abbracciava” - è il riprender contatto con una certezza inalterabile. Ciò che avviene
oltre - il suicidio di Marcello – non è che un gesto esteriore. La conclusione reale è
in quel riprendere totalmente possesso di sé avendo Marcello contemplato - come
Dante al culmine del suo viaggio ha la visione di Dio e confessa colmi “disio” e
“velle” – il punto da cui egli ebbe origine e che, con inalterata ed ascetica vocazione
all’ironia, indica la conclusione necessaria.

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