DALLA PLANETOLOGIA ALLA PLANETOGRAFIA - Una nuova scienza per lo studio di Marte
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DALLA PLANETOLOGIA ALLA PLANETOGRAFIA Una nuova scienza per lo studio di Marte di Gianni Viola* La formulazione organica della realtà di Marte secondo termini scientifici, implica essenzialmente la considerazione che le leggi della fisica valgono sulla Terra e altrove, e ciò è come affermare che, a parità di condizioni tecniche, una rilevazione satellitare su Marte, ha la stessa valenza d’obiettività e di riuscita fotografica di una rilevazione effettuata sulla Terra. A tal proposito ha scritto molto bene la Margherita Hack, ritenendo che “Supporre che il nostro pianeta sia unico è un po’ come ritenere che la Terra sia il centro dell’universo e che tutto ruoti attorno ad essa”, aggiungendo che “le leggi fisiche che conosciamo sulla Terra valgono in tutto l’universo osservabile”.1 Proprio a partire dalle osservazioni telescopiche di Galilei “ha avvio il processo che porta alla definitiva unificazione della fisica terrestre e della fisica celeste e al superamento della visione aristotelica” e “tutto ciò contribuisce a provare che sulla Terra e sui pianeti valgono le stesse leggi e che non ha più senso sostenere la divisione aristotelica fra mondo lunare e mondo sublunare così a lungo adottata”2 Tale affermazione ci conforta riguardo alle nostre posizioni e tuttavia va osservato che tutta la letteratura svolta in tale ambito, non ci pone al riparo di taluni soggetti, i quali si occupano a vario titolo del pianeta Marte, e in talune circostanze, nondimeno, dimostrano di non tenere in alcun conto i dati copiosamente giunti dalle varie missioni esplorative. Tale incongruenza impedisce, di fatto, ancora dopo mezzo secolo dall’inizio dell’era spaziale, un’onesta e corretta comprensione scientifica della realtà “vera” del pianeta Rosso. È norma considerare la scienza attuale in netto contrasto con quanto a suo tempo affermò l’astronomo Tolomeo, quest’ultimo furiosamente osteggiato da molti ricercatori del XVII secolo. Scrive a tal proposito, Robert Zubrin3, nel suo famoso “The case for Mars”: “La posta era alta, poiché la scienza dell’astronomia poneva l’intera struttura intellettuale della civiltà occidentale, del sapere e pertanto del potere, a rischio.”, riferendosi al periodo in cui vari ricercatori ponevano in dubbio la validità del sistema tolemaico. Che cosa diceva, in fondo, Tolomeo? Ề lo stesso Zubrin4 che ci viene in soccorso: “Per Tolomeo le leggi del firmamento erano completamente diverse da quelle che governavano la Terra. L’universo non poteva essere conosciuto, cambiato o controllato dall’uomo. Ponendo il piano divino oltre la comprensione dell’uomo, solo il clero dominante, con il suo unico accesso al mistico e al supernaturale, poteva dire alla gente ciò che era giusto e cosa si doveva fare”. E oggi? Oggi Tolomeo, in alcuni casi, pare sia tornato sulla scena, poiché, non applicare su Marte le stesse leggi già applicate sulla Terra, significa propriamente rifiutare l’idea che le leggi della fisica siano valide in tutto l’Universo. Secondo Zubrin5 “se noi indaghiamo e riflettiamo in maniera 1 Pippo Battaglia e Walter Ferreri – C’è vita nell’Universo? – Prefazione di M. Hack – Ed. Lindau Torino 2008 – p. 7. 2 Viola Schiaffonati, “La rivoluzione scientifica del XVII secolo” – su “Temi filosofici dell’informatica”, a.a.2010-11, su http://home.dei.polimi.it/schiaffo/TFI/rivoluzione%20scientifica%20appunti.pdf 3 Robert Zubrin, The Case for Mars (La questione Marte), Aldebran 2009 Mars Society sez. Italiana, p. 19. 4 Idem. 5 Ibidem, p. 21. 1
sufficiente, possiamo trovare una spiegazione logica e razionale per tutto” e questa è la proposizione fondamentale della scienza. È questa la proposizione per la quale Bruno morì.” La posizione di Zubrin è assolutamente condivisibile, ma, suo malgrado, si tratta di una affermazione disgiunta dalla realtà, se è vero che molti ricercatori, mentre affermano a parole di aderire all’assunto bruniano, nella realtà lo rifiutano quando immaginano di non analizzare le immagini marziane allo stesso modo di quelle terrestri. Fra i molti riferimenti possibili, la consapevolezza di tale differenza metodologica la troviamo presente nell’importante opera “Le Chiavi del cosmo” di Conrad A. Bohm6 dove leggiamo: “Dopo esserci lungamente soffermati sulle ricerche volte a svelare la “sostanza” dei corpi celesti, ricerche che come abbiamo visto non raggiunsero mai pienamente il loro scopo, volgiamo ora la nostra attenzione su quelle che ne esaminavano la “forma”. Per individuare la morfologia dei corpi celesti l’osservazione, più che il calcolo, era anche in questo caso il principale metodo seguito”. E volgendo il nostro pensiero ad uno dei Padri dell’astronomia moderna, Copernico, non possiamo non ricordare come, lo stesso, per nulla appassionato all’osservazione astronomica, fece solo pochissime osservazioni, preferendo usare per i suoi calcoli dei moti dei pianeti i dati raccolti molto tempo prima da altri… Ci è dato osservare che l’astronomia si serva anche dell’astronautica, non per assumere dati che modifichino l’impostazione di base dell’astronomia stessa, ma semplicemente per riconfermare i medesimi parametri assumendo informazioni da fonti metodologicamente differenti. Basti considerare, ad esempio, l’assurdo del linguaggio astronomico utilizzato per descrivere la topografia di un pianeta, operazione che non è stata mai fatta in relazione alla Terra che pure è anche questo un pianeta! Le osservazioni telescopiche sono attuate direttamente dai soggetti che operano, attraverso le strumentazioni ottiche montate a terra (osservatori astronomici), d’altra parte, le osservazioni satellitari sono attuate mediante strumentazioni ottiche montate a bordo dei satelliti, e sono teleguidati da operatori posti a terra: si tratta di due metodologie che, sebbene attengano a principi e prospettive differenti, sono nondimeno inserite in situazioni che non sempre danno conto di tali differenze. L’esempio immediato è il tizio che, essendo contemporaneamente presbite e miope, e non avendo acquistato delle lenti bifocali, non baderebbe a cambiare le lenti, ogni qualvolta si trovasse ad osservare ora oggetti vicini e in un altro momento oggetti lontani. Ben a proposito afferma un astronomo: “Come un miope si aiuta grazie ad un paio di occhiali che gli restituiscono completamente la normale acuità visiva, così il telescopio aiuta l’astronomo a guardare più lontano, oltre le capacità naturali dei nostri occhi, là dove questi non possono arrivare”7 Ciò implica che guardare un’immagine ravvicinata non attiene alla metodologia astronomica, qui intesa in termini classici. Se non si comprende il concetto che la qualità di un’immagine dipende soprattutto dalla risoluzione geometrica, con la quale la stessa è ripresa, non sarà possibile comprendere altresì che, ad un aumento della risoluzione geometrica, corrisponderà sempre un miglioramento della qualità dell’immagine stessa. Le contraddizioni esistenti all’interno della ricerca scientifica e riferite a quanto poco prima descritto, hanno naturalmente delle ripercussioni anche in un ambito più schiettamente divulgativo. Ad esempio in una mappa topografica di Marte (pubblicata da una nota rivista italiana, solo nominalmente scientifica), furono inserite denominazioni albedo derivate da osservazioni telescopiche (ad esempio, sinus) e denominazioni topografiche derivate da rilevazioni satellitari (ad esempio, planitia). Già di per sé questa è un’operazione impossibile. Non solo. Nella stessa mappa fu inserito il termine planum. La leggenda esplicativa dei termini inseriti rendeva i due termini latini, planum e 6 Bohm A. Conrad, Le Chiavi del Cosmo, Franco Muzzio Editore, Padova 1989, p. 205. 7 E. Ricci, Telescope no probleme, Biblioteca Antares, Milano 1992. 2
planitia, con l’unico termine italiano pianura. Ciò che sarebbe impossibile, poiché se realmente i due termini significassero la stessa cosa, vorrebbe dire anche che dovrebbero riferirsi a strutture uguali e in tal caso sarebbe inutile utilizzare due termini differenti per indicare una stessa realtà. Un esempio di tale incongruenza è l’Isidis Planitia, propriamente la pianura d’Iside, dunque il mare d’Iside. Questa struttura si trova contiguo con la Syrtis Major Planum, ovverosia con la pianura della Gran Sirte. Ebbene, fino a pochi anni fa, cioè prima che gli specialisti dell’US Geological Survey (l’ente dipendente dal Dipartimento degli Interni degli USA e preposto alla compilazione delle mappe dei corpi celesti del Sistema Solare, oltre che della stessa Terra) si accorgessero della distinzione di cui sopra – dunque della differenza funzionale esistente fra i termini planitia e planum, la Sirtys Major era denominata Sirtys Major Planitia. Quando ci si accorse che questa planitia non era un fondo marino, bensì una pianura vera e propria, venne ridenominata con il termine planum (al posto di planitia). Ovvio che alcuni sudditi restino più realisti del re e risulta che a tutt’oggi non si siano accorti della correzione! Fino ad ora l’astronomia, ci dispiace dirlo, non ha inteso porre alcuna logica distinzione fra lo studio della sostanza di un pianeta e lo studio della forma, indicando entrambi i settori con l’unico termine indistinto di “planetologia”. Per porre un argine a tutta la faccenda e solo in extremis, si è utilizzato il termine areo-grafia (e non areo-logia) per indicare lo studio della superficie di Marte. Tuttavia anche qui sorge un altro problema: il termine areo-grafia (termine “particolare” che si riferisce ad un dato pianeta) potrebbe farci immaginare l’esistenza di un termine generale, ad esempio “planetografia”, ma ciò pare sia impossibile che avvenga, almeno perché il termine “planetografo” (già in uso) indica qualcosa che ha a che fare con il censimento dei corpi celesti. È evidente a questo punto che in una tale situazione esista l’esigenza di sistematizzare i vari termini riportandoli entro una legittima funzione. Quello che segue, è il nuovo probabile quadro generale che esemplifica la distinzione (vera, ma incompresa) fra studio della sostanza di un corpo celeste e studio della forma: La planetografia (areografia) e i termini metodologici propri di tale materia sono i termini relativi alle varie discipline osservative terrestri, con l’aggiunta d’alcune peculiarità, relative soprattutto ad una serie di parametri di risoluzione. Tale settore di studio, come disciplina autonoma, sebbene ancora in fieri, nasce ufficialmente nel novembre 2005, tramite la pubblicazione del servizio intitolato “Contraddizioni areologiche” (firmato da chi scrive), pubblicato su un numero del più importante periodico del settore, edito in Italia, “L’Astronomia”8 di Milano (Tav. 1). Funzionalmente legato all’articolo di cui sopra, è il primo (e sino ad ora, unico) studio pubblicato in Italia (e, per quanto se ne 8 “L’Astrononia”, mensile di Cultura e Scienza – Milano – n. 268, Novembre 2005. 3
sappia, anche nel resto del Mondo) riguardante un accenno di geografia del pianeta Marte, secondo termini innovativi, ben lontani dagli stereotipi accademici, fin qui largamente vincenti. L’articolo in questione, a cura dello scrivente9 fu pubblicato l’anno successivo, dal medesimo periodico (Tav. 2), con l'indicativo titolo – scelto dalla redazione – di “Marte: fisionomia di un pianeta”. In conclusione si può constatare, come, l’inizio dell’era spaziale (anni ’60 del secolo scorso) creò, in molti, una serie di attese verso uno sviluppo in direzione della scienza creativa10 come momento di rottura in un campo finora occupato quasi esclusivamente dalla ricerca astronomica. S’immaginava che fosse giunto il momento di sdoganare uno studio “geografico” di Marte utilizzando l’osservazione ravvicinata del pianeta. Per quanto, di fatto, la pratica della rilevazione satellitare avesse spostato i termini della ricerca scientifica, ponendo, in primo piano, le foto satellitari al posto delle osservazioni telescopiche, in realtà tale “rivoluzione” non è ancora stata veramente accettata a livello accademico, dove anche le osservazioni satellitari, ancora fino al presente, continuano ad essere percepite secondo parametri puramente, e quel che più conta, erroneamente astronomici. Tutto ciò, se non esclude la considerazione che le missioni spaziali siano state rese possibili proprio dall'elaborazione dell'enorme massa di dati raccolti in precedenza dagli astronomi, patrimonio tuttora utilizzato e permanentemente aggiornato per l’uso da parte dei progetti di esplorazione spaziale; se non esclude che, senza osservazioni telescopiche non vi potrebbe essere alcuna visione complessiva dell’Universo (visibile), essa nondimeno pone la questione di come sia altrettanto vero che la metodologia propria dell’astronomia, dovrà essere abbandonata ogni qualvolta ci si trovasse ad osservare immagini satellitari ravvicinate. Tenendo conto degli sviluppi della rilevazione satellitare, possiamo riferirci alla cosiddetta astronomia descrittiva, disciplina che, fino ad oggi, è stata usata in senso alquanto riduttivo, e che invece ora deve essere riguardata in un contesto analogamente terrestre, dove un pianeta è studiato secondo termini comuni alle discipline utilizzate per studiare la Terra che abitiamo. Questa nuova disciplina non potrebbe ricevere altro nome che “planetografia” (corrispettivo della geografia, se ci riferiamo alla Terra) e si pone come elemento complementare alla “planetologia”, cui è d’obbligo riferirsi, invece, per lo studio solo fisico (interno) dei pianeti. Rispetto alla planetologia, la planetografia tiene conto essenzialmente, e non potrebbe essere diversamente, delle rilevazioni operate tramite l’esplorazione spaziale, l’osservazione ravvicinata e lo studio comparato Terra-Pianeti. In particolare la planetografia comprende la prospezione su vasta scala della parte esterna di un pianeta, con lo studio descrittivo della composizione della morfologia (caratteristiche fisiche della superficie) e della biosfera dei corpi celesti del sistema solare (pianeti, pianetini e satelliti, Sole escluso). Vale ricordare che la cosiddetta “fisica dei pianeti”, che corrisponde alla geografia fisica dei pianeti oltre la Terra (unica materia universitaria dove sia possibile “scovare” qualcosa di riferibile ai pianeti) soffre per l'appunto della sindrome astronomica, talché in quell’ambito non esiste nessun tipo di approccio funzionale riguardo discipline, quali la fotografia, la fotointerpretazione e soprattutto la fotogrammetria, che rappresentano invece i tratti fondamentali della nuova disciplina di cui si tratta. In particolare, la planetografia ha come obiettivo di ricondurre tutta la questione concernente la presenza di vita intelligente fuori dalla Terra (e, in primis, con riferimento al pianeta Marte), entro i termini di una trattazione puramente scientifica, anteponendo i dati alle teorie. L’applicazione pratica dei principi della planetografia, concerne essenzialmente il processo logico di riconferma di immagini satellitari, dove una serie di fotogrammi satellitari è posta secondo una progressione di livelli di risoluzione geometrica. La verifica della corrispondenza fra l’aumento della risoluzione e il progresso 9 “L’Astronomia”, n. 272, Marzo 2006. 10 La scienza creativa esalta l’unità del pensiero, come elemento di organicità e presuppone una interazione funzionale di tutte le discipline nella misura necessaria a ciascun problema. Dall’altra parte la scienza riduzionista, spezzetta il sapere in tanti comparti scollegati con tutto il resto ed esaspera i livelli di specializzazione a scapito di una comprensione globale (e necessaria). 4
del livello di qualità, determina la validità delle immagini medesime. In caso contrario, il processo è invalidato e i dati sono ritenuti fasulli. *L’A. è responsabile della commissione tecno-scientifica dei giornalisti freelance (Free Lance International Press, Roma) e curatore della Fototeca della NASA (Southern Europe Regional Planetary Imaging Facility), gestita dall’Istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica Cosmica (IASF-INAF), e dall’Istituto di Fisica Superiore dello Spazio (IFSI-INAF), dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, nell’Area Ricerca Roma 2 di Tor Vergata. 5
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