Così una provincia della Cina ha fatto da "culla" a coronavirus, peste e Sars - Gian Maria Comolli

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Così una provincia della Cina ha fatto da «culla» a coronavirus,
peste e Sars
Lo Yunnan è decisivo per spiegare la provenienza sia dei coronavirus, sia del
batterio della peste. Perché è così? E che cosa è possibile fare per non
«risvegliare» i patogeni in quella zona — e in altre — del pianeta?

Per parafrasare, girandolo in esortazione negativa, il titolo di un romanzo di
Philip K. Dick, bisognerebbe, se possibile, non svegliare i dormienti. Dove per
dormienti si intendono gli agenti patogeni (in primis virus e batteri) in molte
aree del globo, ma soprattutto in quelle della Cina meridionale e in particolare
nello Yunnan, dove la convivenza tra gli stessi patogeni e gli animali è
consolidata da millenni, o meglio milioni di anni. Lo Yunnan è infatti decisivo
per spiegare la provenienza sia dei coronavirus (e di altri virus) del millennio
in corso, sia del batterio della peste in quello precedente, ma riemerso nei
giorni scorsi in Mongolia (un morto originario della Bandiera Anteriore di Urad
e lockdown per il villaggio di Bayannur, coi testati tutti negativi). Ma
procediamo con ordine.

Lo Yunnan, i pipistrelli e i coronavirus

Abbiamo ormai imparato a familiarizzare con la Cina meridionale e lo Yunnan
studiando l’origine di Sars- CoV (la Sars-1, 2002-2004) e della sua
evoluzione Sars-CoV-2 (Covid-19): tutti e due i virus umani (e la relativa
patologia) sono mutazioni di un virus di certe specie di chirotteri (pipistrelli),
che con quei virus (e con molti altri) coabitano da tempi remoti tanto da
esserne diventati i reservoir o «ospiti serbatoio». Il passaggio all’uomo è
avvenuto per «salto di specie» o spillover attraverso un «ospite intermedio»:
nel primo caso, la civetta delle palme; nel secondo (forse) il pangolino, anche
se la questione è tutt’altro che risolta (potrebbe trattarsi anche di animali
domestici come cani e gatti, prossimi a quelli «selvatici» nei famigerati wet
markets cinesi, e altrettanto diffusi come pasti «esotici» della cucina sino-
meridionale).

Leggermente diverso, molto probabilmente, l’iter geografico: Sars-1 si irradia
dal Guangdong, (capitale Guangzou alias Canton — concentrato di ristoranti
«esotici» —, con altre città di irraggiamento come Shenzhen e Zhongshan);
Sars-CoV-2, com’è noto, si diffonde da Wuhan (più a nord, nell’Hubei). In tutti
e due i casi, non è detto lo Yunnan sia la fonte «prossima» (ma non è
nemmeno escluso): per Sars-1 tutto potrebbe essere partito o passato dal
confinante Guangxi, area di «caverne» di chirotteri non meno nota dello
Yunnan (vedi quelle di Guilin, esplorate da David Quammen con l’amico-
ricercatore Aleksei Chmura in Spillover); per Sars-CoV-2, molti studiosi
parlano di un vero outbreak «molto più a sud» di Wuhan (nei prossimi mesi
ne sapremo di più).

Ma lo Yunnan è, in ogni caso, la probabile origine «remota» (ecologico-
evolutiva) di tutte e due le pandemie.

Non a caso, lo Yunnan è stata l’area in cui ha lungo stazionato per un
quindicennio la studiosa più autorevole in materia e più «discussa»
(eufemismo) di questi mesi, Shi Zhengli alias «Batwoman», la virologa 55
enne specializzata nello studio del genoma dei pipistrelli e — soprattutto —
responsabile del Centro malattie infettive dell’Istituto di Wuhan. Per i
complottisti di ogni latitudine è stato un riflesso pavloviano cedere alla falsa
correlazione del 2+2=4 e farne l’artefice luciferina nelle varie teorie del «virus
da laboratorio», quella hard (virus «creato ad arte») e quella soft (virus
«sfuggito al controllo»).

Come abbiamo già scritto e ricordato, Shi inizia la sua ricerca a Nanning,
popolosa città del Guangxi, dove scopre — ormai non sperandoci più: per
serendipity — «anticorpi specifici» della Sars in alcuni pipistrelli «ferro di
cavallo», deducendone come la «presenza effimera e stagionale» del virus si
traducesse in una reazione immunitaria estesa «da qualche settimana a
qualche anno». Tutti i successi e le acquisizioni degli anni successivi, invece,
arriveranno operando soprattutto nello Shitou, sito proprio dello Yunnan, dove
grotte e caverne sono nascoste tra ridenti villaggi collinari noti per le rose, le
arance, le noci e il biancospino.

Tra quei successi, ne risaltano due: uno nel 2012, quando Shi e i suoi
colleghi — indagando sul «profilo virale» di una miniera nella contea
montuosa di Mojiang, sempre Yunnan — scoprono che 6 minatori colpiti da
polmonite atipica (2 morti) l’hanno contratta toccando un fungo cresciuto sul
guano dei pipistrelli (modalità di contatto-contagio da aggiungersi come
variabile a quella dei wet markets); e uno nell’ottobre 2015, quando scovano
tra gli abitanti di un villaggio 6 individui (su 200, cioè il 3%) dotati di anticorpi
simili a quelli della Sars nei pipistrelli stessi, a riprova di possibili
«convivenze» asintomatiche.

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Lo Yunnan, i ratti e la peste

Per contestualizzare la notizia di pochi giorni fa sulla peste (bubbonica) in
area mongola, dobbiamo immaginare gli stessi villaggi e le stesse montagne
battute palmo a palmo da Shi Zhengli, ma in epoche ben più remote o
arcaiche, comunque precedenti l’irruzione della «civiltà», specie di quella
occidentale. Passando, però, per una chiarificazione storico-tipologica.

Quando si dice «peste», si intende di norma bubbonica, che pure in certe fasi
e aree appare in alternanza con quella «polmonare», invernale e ancora più
letale. Osservata «in lunga durata», la peste bubbonica si articola in tre
grandi cicli pandemici: il primo, nell’Alto Medioevo, come «peste di
Giustiniano», che produce «venti ondate», tra 542 e 767, lungo la tratta Mar
Rosso-Costantinopoli- Roma; il secondo esteso tra la Morte Nera del ‘300 e
le pestilenze del ‘600-‘700 (le pesti di Manzoni e Defoe), ultime ondate prima
del declino della malattia; il terzo relativo alla «fase asiatica», a partire dalla
seconda metà dell’800 e fino ai primi del’900.

Lasciando fuori il primo ciclo, il secondo e il terzo sono strettamente legati
allo Yunnan.

Tutto comincia nel ‘200, quando i mongoli irrompono nello Yunnan governato
da Kublai Khan (il Gran Khan di Marco Polo); in particolare, quando le armate
Yuan (dinastia in discendenza diretta da Gengis Khan) conquistano il regno
di Dali, area-chiave della regione in quanto base per campagne militari verso
il sud-est asiatico. È durante le incursioni in queste regioni (e nella confinante
Birmania, ora Myanmar) che i mongoli vengono a contatto col patogeno
attraverso gli «ospiti» (i roditori selvatici o «ratti neri» diffusi nella regione,
specie alle pendici dell’Himalaya), importandolo nelle steppe dell’Asia
Centrale (tra Altaj e Tuva) intorno al 1331.

E da lì — sempre seguendo il filo dell’espansionismo mongolo — il passaggio
all’’Europa: evento decisivo, l’assedio del khan Djanisberg e dell’Orda d’Oro
(1347) alla base commerciale genovese di Kaffa, sul Mar Nero, coi cadaveri
dei pestilenti gettati oltre le mura per contagiare e fiaccare il nemico. È
l’innesco della Morte Nera, la pandemia di peste che produrrà 25 milioni di
morti in 5 anni sollo in Europa.

Quel secondo ciclo, com’è più o meno noto, comincia a ritrarsi intorno al
1640, per concludersi intorno al 1722 a Marsiglia (dopo fiammate come
Londra), ed è così violento da aver fatto ipotizzare il raggiungimento di una
sorta di un’immunità di gregge; in realtà, il batterio regredisce da un lato per
la nuova profilassi (il sapone, proprio di Marsiglia), dall’altro — soprattutto —
per mutamenti climatici che introducono al posto del ratto nero quello grigio
(surmolotto), molto più resistente al bacillo.

Non solo: più di una scomparsa si tratta — almeno in parte — di un’ennesima
migrazione, in questo caso di un feedback verso l’Asia, dove la peste
bubbonica torna a manifestarsi a partire dal 1855. Almeno in parte perché il
«terzo ciclo» dipende anche da una «ri-attivazione», in cui centrale — ancora
una volta — è lo Yunnan.

Dopo le incursioni mongole, lo Yunnan torma a essere per secoli una
dimenticata «regione interna», «protetta» tra il Vietnam del Nord e la
cordigliera tibetana, nella sua totale autonomia economica (per lo più
agricola) e nel suo totale isolamento, anche «epidemico»: fino all’inizio
dell’800, i pochi casi di peste sono rari, raramente mortali e subito confinati in
luoghi appartati, con la malattia che si manifesta «in modo discreto e lontano
dalle luci del mondo».

Il break avviene quando gli inglesi cercano di ampliare a ogni costo il set delle
loro rotte commerciali, non accontentandosi del solo porto di Canton: a lungo,
le autorità cinesi resistono, con momenti di tensione altissima (vedi, a metà
‘700, lo scontro con l’inflessibile imperatore Quianlog, che arriva a far frustare
ed espellere i mercanti stranieri); ma, alla fine. gli inglesi troveranno un
«varco» attraverso la diffusione e il commercio dell’oppio.

In generale, l’Impero britannico riesce a convertire quella droga (per lo più
proveniente da India, Persia e Turchia) in entrate ingenti di argento cinese;
nel particolare, quel commercio penetra anche nello Yunnan (invaso da
mercanti stranieri e mosso da nuovi flussi migratori) rompendo l’antico
isolamento e aprendo nuove vie agli agenti patogeni, peste in primis. Che
infatti approderà finalmente da lì alla vicina Canton nella primavera-estate del
1894, provocando solo tra maggio e luglio 70.000 morti.
La      vittoria sulla    peste      tra    Cina,    Hong      Kong       e   India
Il passaggio seguente — da Canton a Hong Kong —è la prima delle due
svolte biomediche decisive sulla peste. Hong Kong non è più il folcloristico
villaggio di pescatori degli anni ’40 (quando vi si era rifugiato il capitano Elliot,
comandante inglese nella «prima guerra dell’Oppio»), ma una ricca città di
200.000 abitanti: nel solo 1894, la peste ne colpirà 2679, uccidendoli quasi
tutti.

Per studiare la malattia «in vivo», vi approda in giugno un geniale batteriologo
svizzero (naturalizzato franco-vietnamita) Alexandre Yersin, della scuola di
Pasteur, e in quanto tale visto come «avversario» da un altro autorevole
scienziato presente sul posto, il giapponese Shibasaburo Kitasato, «allievo»
di Koch.

Il contrasto tra scienziati e «scuole» è aspro: Kitasato osteggia Yersin
negandogli le necropsie dei cadaveri e costringendolo a studiare in un
capanno improvvisato di paglia e bambù. Tutti e due isoleranno il bacillo: ma
Yersin (che lo trova ispezionando — in quelle condizioni di minorità operativa
— il pus dei bubboni e non il plasma sanguigno) otterrà risultati più precisi e
accurati, tanto che il patogeno verrà ufficialmente classificato (nel 1954)
come Yersinia Pestis.

Risultato coronato due anni dopo dal successo nella ricerca del vaccino,
quado Yersin tornerà in Asia allestendo un laboratorio sperimentale in
Vietnam (a Nha Trang) e guarendo il primo paziente nell’epicentro cinese
della pandemia, a Xiamen, nel Fujian, a est del Guangdong.

Subito dopo, la peste arriva a Bombay, chiudendo immediatamente la città in
una quarantena che delinea uno scenario poco gradito alla Corona inglese:
su un versante, navi ferme al largo con merci da scaricare; sull’altro, prodotti
deteriorati al molo d’imbarco (spesso aggrediti dai ratti, i diffusori del batterio).
Ma mentre il Paese viene stretto nell’eterno dilemma che l’aveva già assillato
nelle varie fasi epidemiche di un altro batterio, il vibrione del colera, originario
della valle del Gange (dilemma familiare, in tempo di Covid, a tanti Stati
liberal-liberisti d’Occidente), la peste deflagra: molti degli 800.000 abitanti di
Bombay (ammassati in case diroccate e infestate dai topi) fuggono
terrorizzati per le strade interne, portandola verso il centro e il sud, e poi
ovunque.

Anche stavolta — come a Hong Kong — arriva Yersin (Bombay, 5 marzo
’97); ma vi resterà solo tre mesi perché richiamato da altri incarichi, lasciando
il campo a un altro scienziato allievo di Pasteur, Paul-Louis Simond.
Indagando in un ambiente dominato dalle credenze arcaico-religiose sia dei
musulmani (che vedono nella malattia l’opera di uno «spirito maligno» da
allontanare con scritte nelle strade) sia degli indù (che vi vedono, secondo
visione pre-ippocratica, una castigo divino per comportamenti umani
sacrileghi), Simond individua nelle stesse aree dei bubboni (ascelle e inguini)
delle micro-lesioni, vescicole o piccole bolle, ipotizzando che tra l’«ospite» del
patogeno (il ratto) e la «porta d’ingresso» umana (la pelle) possa operare un
«vettore» di trasmissione, presto individuato nella pulce parassita del ratto,
Xenopilla cheopis.

Insieme avvincente e disturbante è l’esperimento risolutivo di Simond, che
dispone due topi (uno sano e uno malato) in una gabbia circolare separata da
apposite sbarre, in modo da poter permettere il contatto solo attraverso le
pulci. Al quinto giorno, il test sembra fallito, col topo sano ancora
perfettamente attivo. Verso sera, però, i suoi movimenti si fanno difficoltosi, e
il giorno dopo muore, con la necropsia che conferma la presenza del batterio
e l’ipotesi di Simond. È il 2 giugno 1898: della peste — grazie a Yersin e
Simond — si conoscono ormai agente patogeno, siero e vettore di
trasmissione.

Il Sapiens e i dormienti

Eppure, acquisizioni biomedico-epidemiologiche così risolutive non saranno
sufficienti a impedire nuove ecatombi.

La stessa India, tra la fine dell’800 e il primo ventennio del ‘900, avrà 12
milioni di morti per la peste (1896-1912), 4 milioni e mezzo — di nuovo — per
il colera (1905-1910), e dai 14 ai 17 milioni (anche se ridotti dalle stime
recenti di David Arnold a «soli» 12, comunque, il 5% della popolazione totale
di allora) per l’influenza spagnola, il maggior numero al mondo (1918-19).
La morale è brutale.

Non basta trovare un vaccino se poi i Paesi colpiti non sono in grado di
produrlo, testarlo e distribuirlo (e la comunità internazionale non è in grado di
sopperire): e non è semplice trovare condotte di profilassi all’altezza, specie
in Paesi demograficamente fuori controllo (spesso con densità urbana
altissima e ancora crescente).

Né, in generale, è possibile tranquillizzare del tutto la specie rispetto a
risorgenze di patogeni che si credevano estinti (o «dormienti») per sempre
(concetto biologicamente assurdo); tra questi, la peste bubbonica, che pure al
momento ha risvegli episodici e perimetrati come quello di questi giorni
(arriviamo a qualche centinaio di casi all’anno nel mondo) e che — presa per
tempo — è oggi curabile con comuni antibiotici.

Da questo punto di vista, aveva già riassunto (quasi) tutto il microbiologo-
Nobel Joshua Lederberg, quando scriveva nel 1988 (ed eravamo «solo» 5
miliardi) che nella contesa evolutiva futura tra umani e virus «l’Eden
consisterebbe nel ridurre la popolazione mondiale all’1 per cento di quella
attuale».

E forse non basterebbe.

Perché non dovremmo solo essere molti di meno; dovremmo anche essere
molto meno dinamici e intraprendenti.

Osservando a ritroso lo Yunnan dal ‘200 a oggi, sarebbe facile dedurne che
ci saremmo risparmiati qualche centinaio di milioni di morti con qualche «se»:
se i mongoli avessero inibito il loro espansionismo; se i colonizzatori inglesi
non avessero preteso di allargare la loro rete commerciale e i loro profitti; e
così via.

Sono dei «se» che presuppongono un intervento della «cultura» sulla
«natura» umana molto più esteso e profondo di quanto permettano i vincoli
biologici cui siamo sottoposti. Persino un obiettivo doveroso e in teoria più
alla portata come quello che ci coinvolge ora — costringere la Cina a
chiudere i wet marlets, indiziati principali nell’outbreak e nella diffusine delle
due Sars — si scontra con ragioni economiche (annienterebbe un settore del
valore di 76 miliardi di dollari e costerebbe 14 milioni di disoccupati) e
resistenze antropologiche (quelle «tradizioni» culinarie) difficili da aggirare.

Ovviamente, questo non può opacizzare qualunquisticamente in una nebbia
indistinta le politiche di tutti i Paesi, rimuovendo le responsabilità di alcuni (e
dei loro leader) sia rispetto ai loro stessi cittadini che verso la società globale;
né assolvere il Sapiens (per riprendere il libro di Amitav Ghosh) sulle «cecità»
della sua condotta. Il che vale per tanti snodi: per il global warming (cui si
riferisce Ghosh), per le crisi economico-finanziarie, per le pandemie stesse.

Ma un bilanciamento tra tensione ideale e realismo ci ricorda come in fondo
siamo soprattutto macchine biologiche tese a convivere con le pressioni di
altri viventi o con quelle che ci auto-imponiamo; e in quanto tali costrette a
sempre nuovi, più impegnativi adattamenti.

Sandro Modeo

Corriere della Sera

16 Agosto 2020
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