Corso di Sociolinguistica e Plurilinguismo in Sardegna
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Università degli Studi di Sassari Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Corso di Sociolinguistica e Plurilinguismo in Sardegna Anno Accademico 2018-2019 Da integrare con l’analisi di A. Oppo (cur.) Le lingue dei sardi. Rapporto alla Regione Autonoma della Sardegna (2007)
Indice 1. Il patrimonio linguistico sardo Panorama geolinguistico Varietà sarde Varietà non sarde: dialetti sardocorsi Varietà non sarde: catalano Varietà non sarde: tabarchino Altre situazioni L’italiano regionale sardo 2. Aspetti storico-culturali Profilo di storia linguistica sarda Strati linguistici: prelatino Strati linguistici: dalla romanizzazione all’alto medioevo Strati linguistici: pisano e genovese Strati linguistici: elemento iberoromanzo Strati linguistici: i processi di italianizzazione Usi scritti antichi e recenti Aspetti sociolinguistici Aspetti glottopolitici
1. IL PATRIMONIO LINGUISTICO SARDO 1.1. Panorama geolinguistico I dialetti sardi rappresentano una insieme di varietà caratterizzate da tipologie arcaiche, il cui mantenimento fu favorito dalle condizioni di insularità del territorio, anche se questa caratteristica appare poi controbilanciata da una notevole dinamica di fattori evolutivi interni e dall’apporto di elementi, di natura prevalentemente lessicale, da parte delle lingue di prestigio (italiano, genovese, catalano, castigliano ecc.) che si succedettero sull’isola durante le diverse dominazioni da essa subite. Il sardo rappresenta dunque un insieme dialettale fortemente originale nel contesto delle varietà neolatine e nettamente differenziato rispetto alla tipologia italoromanza, al punto che gli studiosi sono sostanzialmente concordi nell’affermarne l’originalità come gruppo a sé stante nell’ambito romanzo: «il sardo, come ci si presenta nei documenti antichi e come tuttora suona nelle regioni centrali e soprattutto nel Bittese e nel Nuorese, si può considerare, anche foneticamente, il continuatore più schietto del latino» (M.L. Wagner). Queste caratteristiche possono essere così riassunte: In ambito fonetico, per le vocali: il latino classico ne possedeva dieci tra lunghe e brevi con differenza quantitativa avente valore fonologico lătus «fianco» ~ lātus «largo», lĕvis «leggero» ~ lēvis «liscio», fŭgit «fugge» (presente) ~ fūgit «fuggì» (passato). In sostituzione delle vecchie opposizioni fondate sulla quantità si affermò un sistema che prevedeva che le vocali originariamente brevi fossero pronunciate più aperte delle vocali lunghe corrispondenti, realizzate pertanto più chiuse. così, dal lat. BĔNE si ha l’ital. bène, mentre da ACĒTU(M) e da PĬLU(M) si hanno acéto e pélo; ŏ breve latina ha avuto per esito in italiano, sempre in sillaba tonica, o aperta (= ò ), mentre ō lunga ed ŭ breve sono confluite in o chiusa (= ó ): per es., dal lat. PŎRCU(M) deriva l’ital. pòrco, mentre da SŌLE(M) e da BŬCCA(M) si hanno sóle e bócca. Il sardo presenta tuttavia un’evoluzione diversa e caratteristica del vocalismo tonico latino, dal momento che vi si registra costantemente la confluenza in un esito unificato delle vocali brevi con le lunghe corrispondenti: così, per restare agli esempi citati, dal lat. BĔNE si ha in sardo bène, da ACĒTU(M) si ha akétu e da PĬLU(M) si ha pílu; inoltre da PŎRCU(M) si ottiene pórku (o prókku), da SŌLE(M) si ha sòle (o sòli ), da BŬCCA(M) è derivato búkka. Caratteristica del vocalismo sardo è quindi il mantenimento dei timbri originari del latino dopo la perdita della quantità.
La presenza in sillaba accentata di è e o aperta (bène, sòle) o di é chiusa (akétu, pórku) non dipende quindi dall’originaria quantità latina della vocale interessata, ma da un meccanismo interno al sardo: e ed o toniche vengono pronunciate automaticamente chiuse se nella sillaba seguente è presente una i (béni «vieni!»; póḍḍine «fior di farina») od u (kéntu «cento»; bónu «buono»), oppure un’altra e od o chiusa per influsso di una i o di una u che seguono (ghéneru ‘genero’; kómođu ‘comodo’); sono invece pronunciate aperte negli altri casi (kèra ‘cera’, bène ‘bene’; bòna ‘buona’, dòmo ‘casa’). Questo fenomeno prende il nome di metafonia. Riguardo alle consonanti (parlando dei dialetti centrali e del logudorese), va segnalato il trattamento delle occlusive velari davanti a vocale palatale: CENTU(M) > kéntu, CINQUE > kímbe, GENERU(M) > ghéneru, GELARE > ghelare. Solo nei dialetti centrali (Baronia, Bittie) si ha invece il mantenimento delle occlusive sorde bilabiale, dentale e velare (-p-, -t-, -k-) in posizione intervocalica: APE(M) > ápe, ROTA(M) > ròta, CATENA(M) > katèna, > LOCU(M) lóku, SECARE > sekare ‘tagliare, rompere’. Altrove si verifica la lenizione. Le occlusive sonore intervocaliche nei dialetti centrali passano a spiranti sonore: CUBARE, PEDE(M), EGO danno, rispettivamente, kubare ‘nascondere’, pèđe ‘piede’, ègo, dègo ‘io’; altrove si dileguano. Nelle varietà centro-settentrionali le labiovelari di QUATTUOR, AQUA (sorda), o ANGUILLA e LINGUA (sonora) passano a b(b), occlusiva bilabiale sonora (eventualmente lunga): báttoro, ábba, ambíḍḍa e límba. Si verifica inoltre la conservazione dei nessi cl-, pl-, gl-, bl-e fl- (per lo più nelle forme kr-, pr- ecc: kramare ‘chiamare’, krae ‘chiave’, pranghere ‘piangere’) e l’evoluzione di -ll- in retroflessa (pu[ɖː]u ‘pollo’), condivisa col sassarese e gallurese, oltre che col corso e con le parlate meridionali italiane; Riguardo alla morfologia, l’articolo determinativo deriva dal lat. IPSU(M), IPSA(M), IPSOS, IPSAS, diversamente dalle restanti lingue romanze, ove il punto di partenza è ILLU(M): si ha quindi su (es.: su káne ‘il cane’), sa (es.: sa kròka ‘la chiocciola’), pl. sos (sos kánes ‘i cani’), sas (sas kròkas ‘le chiocciole’). In parte diversa è la situazione in campidanese, dove al plurale si ha, tanto al maschile come al femminile, is: dunque, ad es., is kartsònis ‘i calzoni’, is migias ‘le calze’. Per quanto riguarda la flessione dei sostantivi, la formazione del plurale avviene attraverso l’impiego del morfema consonantico -s: bákka ‘vacca’ ~ pl. bákkas ‘vacche’, kabáḍḍu ‘cavallo’ ~ pl. kabáḍḍos ‘cavalli’, pèđe «piede» ~ pl. pèđes ‘piedi’, banduléri ‘vagabondo’ ~ pl. banduléris ‘vagabondi’. Si segnalano anche le uscite consonantiche nei verbi: cantas ‘canti’, cantat ‘(egli) canta’); l’imperfetto congiuntivo deriva direttamente da quello latino (kantáret, fakèret, dormíret), mentre le restanti lingue romanze mostrano di averlo sostituito col piuccheperfetto (cfr. ital. cantassi, corressi, udissi ).
In sintassi, è interessante la posposizione del pronome possessivo e dell’ausiliare nelle interrogative, come nel campidanese sa mela ollisi? ‘vuoi la mela?’, logudorese sa mela chèrese ‘vuoi la mela?’, l’uso di costrutti con essere + gerundio per la resa dell’aspetto durativo: so cantande / seu cantendi ‘canto’; altre caratteristiche significative sono le forme perifrastiche con avere o dovere + infinito per il futuro e il condizionale (logudorese lu appo a fàchere, lu deppo fàchere ‘lo farò’, lu dia fàghere ‘lo farei’), l’infinito usato in sostituzione dell’oggettiva con soggetto diverso dalla principale (a kérfidu a lu fàgher deo ‘ha voluto che lo facessi io’), l’introduzione con la preposizione a dell’oggetto diretto [+umano], in certe aree anche [+animato]: krama a Maria ‘chiama Maria’ Nel lessico si segnala anzitutto la conservazione delle voci essenziali della tradizione latina: lat. PATRE(M) > pátre (nel sardo antico, oggi si usa bábbu); lat. MATRE(M) > mátre (nel sardo antico, oggi si usa máma); lat. HOMO, HOMINE(M) > ómine lat. MANU(M) > sd. mánu lat. DENTE(M) > sd. dènte lat. DUO > sd. dúos, dúas lat. TRES > sd. très lat. ESSE, ESSERE > sd. èssere lat. VIVERE > sd. bívere, vívere Importante è poi la presenza nel lessico di voci specifiche corrispondenti a parole latine che non continuano in italiano: - domo ‘casa’ - chitto ‘presto’ - crai ‘domani’ - arbu, oggi sostituito nel lessico dei colori dall’italianismo biancu, è vitale in composti e locuzioni polirematiche: fustiarbu, linnarba ‘pioppo’, arbu dess’ou ‘albume’, arbu dess’okru ‘sclerotica’. - saltu a designazione dei terreni comunali - akina, aghina, asgina ‘uva’ valore collettivo latino - maccu ‘matto’ – da cui macchi(ghi)ne e macchiore ‘pazzia’ - berbeghe < VERVECE ‘pecora adulta’ - laghinza < LACINIA che indica la pecora che non ha ancora figliato - bedusta < VETUSTA pecora oltre i due anni d'età che ha già figliato diverse volte - lunadica < LUNATICA è invece la pecora sterile
- mansio -one continua nelle forme masone, in riferimento al gregge di pecore, ma anche al recinto che lo ospita - lorum si mantiene in loru ‘correggia, anello di cuoio del giogo’ (da cui illorare ‘porre fine alla giornata di lavoro’ alla maniera del contadino, che lo faceva infilando la stiva dell’aratro nel loru del giogo) Notevoli sono anche alcuni casi di evoluzione semantica: ad esempio, la stessa metafora che giustifica il nome della testa in italiano è usata anche nel sardo, ma viene resa col continuatore di CONCHA > cònca; quanto a berbu, attestato nell’antico sardo col significato di ‘parola’, nella lingua odierna ha assunto il valore di ‘proverbio, detto sentenzioso’ al singolare, quello di ‘scongiuri, formule magiche’ al plurale.
1.2. Varietà sarde Come abbiamo visto, dunque, la lingua sarda si distingue per la sua originalità all’interno delle varietà neolatine, differenziandosi fortemente dai dialetti del resto d’Italia, e formando un gruppo a sé nell’ambito romanzo. Si possono individuare, secondo la partizione ormai condivisa dalla maggior parte degli studiosi, tre aree principali: logudorese, nuorese e campidanese. All’interno di esse i dialetti si diversificano in particolare dal punto di vista fonetico e lessicale, in seguito a fenomeni evolutivi che li hanno coinvolti nel corso dei secoli. Anticamente, infatti, il sardo era abbastanza omogeneo, ma anche a causa dei molteplici influssi stranieri, la situazione linguistica è mutata fino ad arrivare alle parlate odierne, tuttora soggette a fenomeni evolutivi. Un aspetto importante della realtà linguistica sarda è quindi la frammentazione dialettale, che consente di individuare alcune aree principali all’interno delle quali si riscontrano ulteriori elementi di differenziazione corrispondenti alla tradizionale frammentazione amministrativa del territorio isolano. In termini strettamente linguistici il sardo non si configura quindi come una lingua minoritaria bensì come un gruppo di parlate estranee al sistema dei dialetti italiani ma tradizionalmente privo di una lingua-tetto di riferimento diversa (almeno negli ultimi duecento anni) dall’italiano letterario. Il logudorese viene parlato nell’area centro-occidentale dell'isola ed è suddiviso al suo interno in tre varietà sub-areali: il logudorese centrale o centro-occidentale, che funge da varietà letteraria, il logudorese orientale o sud-orientale maggiormente conservativo e il logudorese settentrionale, che costituisce la varietà più innovativa. Il nuorese si estende nella regione intorno alla provincia di Nuoro, nel Goceano a ovest e a est fino alla costa del golfo di Orosei. In realtà le due varietà settentrionali, logudorese e nuorese, si possono accostare tra loro in opposizione al campidanese che non mantiene gli stessi tratti arcaizzanti degli altri dialetti. Il Campidano è l’area più estesa di dominio campidanese, ma non è l’unica. Vi sono aree limitrofe quali il Sulcis a sud-ovest e il Sarrabus a sud-est, la regione della Barbagia meridionale e quella ogliastrina. Anche il campidanese ha quindi diverse varietà sub-dialettali per quanto si presenti in maniera più omogenea rispetto agli altri dialetti sardi. I tratti distintivi del campidanese rispetto al logudorese sono i seguenti: - la palatalizzazione delle occlusive velari, esemplificata dal tipo céntu: chentu lughes / centu luxis
- l’esito italiano delle labiovelari, come mostra il tipo ákwa - le modalità in cui si manifesta il fenomeno della prostesi: in logudorese si registra la prostesi di i- davanti a s + cons. (es.: dal lat. SCIRE si hanno log. e nuor. iskire ‘sapere’; da SPICA(M) nuor. ispíka, log. ispíǥa ‘spiga’; da STARE log. e nuor. istare ‘stare’), fenomeno oggi assente in campidanese (ove le forme corrispondenti sono pertanto sciri, spíga, stai ); in campidanese si osserva invece la prostesi di a, e, o davanti a r- iniziale di parola, che contestualmente si rafforza (dal lat. RIVU(M) si hanno le forme arríu, erríu ‘fiume, ruscello’; da ROTA(M) arròda, orròda ‘ruota’), sviluppo che viceversa è assente in logudorese (ove le forme corrispondenti sono ríbu, ríu e ròta, ròda). - chiusura in campidanese delle e e delle o finali in i ed u rispettivamente: per es., log. káne ‘cane’ ~ camp. káni, log. kánes ‘cani’ ~ camp. kánis; log. dòmo ‘casa’ ~ camp. dòmu, log. dòmos ‘case’ ~ camp. Dòmus - Per quanto riguarda la morfologia: il campidanese ha come articolo determinativo pl. is per entrambi i generi grammaticali, laddove il logudorese presenta sos per il maschile e sas per il femminile. - Il campidanese ha inoltre l’infinito in -ai contro il logudorese che ha –are. - Nel lessico si segnalano differenze come kèrrere/bòlliri, làngiu/marriu, mandicare/pappai, feu/lèggiu, padre/para, komo/immoi, irmentigare/scareci, àrvure/matta, pòdhighe/didu. Il Nuorese, parlato nel triangolo Siniscola-Ottana-Baunei rappresenta di fatto una varietà arcaica del logudorese: - P, T, K intervocaliche vi appaiono conservate: paku, luke, fàkete, arribatu, kupa, kepudha contro pagu, luge, fagede, arribbadu, kuba, kebudha - Si verifica la caduta di F- iniziale: oku / foku, arina / farina, idzu / fizu, odza / fodza, àkere / fàkere, urriare / furriare, erru / ferru, ecc. - CJ, TJ danno th contro log. t e campid. ts: petha, puthu, atha contro peta, putu, ata (Logudoro), o petza, putzu, atza (Campidano).
1.3. Varietà non sarde: dialetti sardocorsi L’orizzonte idiomatico tradizionale non si esaurisce in Sardegna coi dialetti appartenenti al sistema linguistico sardo. In tutta l’area settentrionale dell’isola i dialetti presentano caratteri di specificità che si debbono alla decisa affinità con quelli della Corsica meridionale e centro-occidentale: questa continuità linguistica attraverso le Bocche di Bonifacio si spiega essenzialmente col massiccio afflusso di Corsi in età tardo-medievale, in particolare durante il periodo della supremazia politica di Genova sul Turritano, quando centri come Castelgenovese (poi Castelsardo), Porto Torres e la stessa Sassari risultano già abitati da una popolazione in prevalenza corso-ligure; anche in Gallura questo ripopolamento continuò ancora fino al XVIII sec. determinando il costante regresso delle parlate logudoresi. Nell’ambito delle parlate sardo-corse occorre distinguere dunque, in primo luogo la varietà sassarese, particolarmente affine al dialetto della zona di Ajaccio e parlata, oltre che a Sassari e nel contado della Nurra, anche a Porto Torres, Sorso e Stintino, qui con un più forte influsso ligure. Il dialetto di Castelsardo e quello di Sedini segnano la transizione tra il sassarese e il gallurese, più vicino alla parlata corsa della regione di Sartene e parlato oggi nella varietà tempiese nei comuni di Aglientu, Arzachena, Budoni, Calangianus, Erula, Golfo Aranci, Loiri-Porto San Paolo, Luogosanto, Palau, Sant’Antonio di Gallura, San Teodoro d’Oviddè, Santa Teresa Gallura e Telti; il tempiese è diffuso inoltre in aree variamente estese dei comuni a maggioranza sardofona di Berchidda, Monti, Olbia, Oschiri, Padru, Perfugas, Torpè e Tula. L’altra varietà di gallurese (che prende il nome di aggese) interessa a sua volta gran parte della Gallura occidentale (Aggius, Badesi, Bortigiadas, Trinità d’Agultu e Vignola, Viddalba) e l’Anglona nord- orientale (Santa Maria Coghinas, il capoluogo Codaruina del comune di Valledoria e il settore orientale del comune sardofono di Perfugas). Lo spopolamento della Gallura verificatosi in seguito alle epidemie di metà Trecento e ai successivi rivolgimenti politici indusse i nuovi feudatari catalani a incentivare il trasferimento di elementi dalla Corsica agitata in quell’epoca da forti tensioni politiche e sociali: tutto lascia supporre che l’impianto del loro dialetto còrso debba farsi risalire già alla stessa epoca, e che il processo socio-culturale che portò alla sua affermazione ai danni delle parlate sarde originarie si sia concluso su gran parte del territorio alla metà del Cinquecento, continuando poi a progredire per il costante incremento dei flussi migratori in epoca successiva. Tuttavia, non sembra del tutto corretto parlare di una pura e semplice «sostituzione» del sardo col còrso, poiché l’influsso del primo sul secondo non è soltanto la conseguenza di fenomeni di contatto: i residui toponomastici e la stessa presenza
dell’«isola» sardofona di Luras parlano a favore di un processo graduale di sovrapposizione, che in alcune aree ha continuato a manifestarsi, praticamente, fino ai giorni nostri. Inoltre, se è innegabile che le condizioni dialettali della Gallura continuano essenzialmente quelle dell’estremità meridionale della Corsica, la provenienza della popolazione corsòfona da regioni diverse dell’isola settentrionale (e forse anche qualche altro apporto demografico di minore entità) potè avere delle conseguenze nei processi di elaborazione del dialetto gallurese, che presenta comunque alcuni caratteri di originalità anche rispetto ai dialetti còrsi più affini (quelli dell’Alta Rocca e dell’Alto Tàravo), che non possono essere attribuiti esclusivamente all’apporto sardo, né alla presenza di un diverso superstrato linguistico, francese in Corsica e italiano in Gallura. Ha caratteri propri il dialetto maddalenino. L’isola della Maddalena restò disabitata fino al XVIII sec. quando venne popolata da abitanti corsi dell’entroterra rurale di Bonifacio, che vi importarono il loro dialetto corso meridionale fortemente influenzato dalla varietà ligure del capoluogo e ulteriormente influenzato dal genovese nel corso dell’Ottocento. Il sassarese rappresenta invece una varietà còrsa influenzata dal genovese, affermatasi dopo un lungo periodo di «confronto» e convergenza con una varietà sarda a sua volta precocemente aperta alla contaminazione e al contatto con varietà continentali: la tentazione di attribuirne il successo all’ascesa incipiente di un ceto «borghese», secondo la suggestiva lettura di A. Sanna sarebbe forte, ma questa interpretazione collide con la cronologia, perché se un’attiva borghesia, eterogenea per origine etnica, si era già affermata a Sassari fin dal Trecento, la componente còrsa divenne maggioritaria soltanto in seguito; al tempo stesso, la vecchia ipotesi di Tola di un dialetto «plebeo», oltre a implicare a sua volta una improbabile retrodatazione non tanto della presenza, quanto dell’affermazione del tipo còrso, può servire forse a spiegare le modalità originarie dell’impianto del còrso stesso, lingua di immigrati (non necessariamente, però, appartenenti ai ceti più bassi), ma non i motivi della sua generalizzazione come varietà urbana. Questo successo appare dovuto piuttosto alla forte crescita demografica e all’affermazione sociale della componente còrsa all’inizio dell’età moderna: quali che siano state in dettaglio le vicende politiche, sociali e culturali che coincisero con l’affermazione del suo dialetto, sta di fatto, in ogni caso, che esso si rivelò funzionale (forse proprio in virtù delle relative affinità tipologiche col toscano e alle sue assonanze genovesi) alle esigenze di una società urbana caratterizzata da un forte dinamismo e da una vocazione al confronto con centri economici e culturali esterni all’isola. Al tempo stesso, il profondo legame col retroterra sardo, mentre condizionava l’evoluzione del sassarese, incentivando i processi di convergenza col logudorese settentrionale contribuiva a integrare profondamente il dialetto urbano nel panorama
insulare, facendone un elemento ulteriore della comunicazione plurale che caratterizza da sempre la Sardegna. Oggi i dialetti sardocorsi sono parlati complessivamente da circa 200.000 persone, pari al 12% della popolazione complessiva della Sardegna, e interessano con Sassari il secondo centro urbano dell’isola. Il problema posto dalla vitalità di queste parlate è quello del riconoscimento della loro specificità rispetto al sardo, ammesso in linea di principio dalla legislazione regionale (L.R. 26/1997 che cita espressamente il sassarese e il gallurese tra le varietà ammesse a tutela), mentre non è chiaro se la L.N. 482/1999, parlando del sardo, intenda escludere queste varietà dai benefici previsti, o considerarle arbitrariamente come parte di una «lingua sarda» diffusa su tutta l’isola tranne che ad Alghero e presso le comunità tabarchine. Da parte loro, le amministrazioni locali hanno scelto in gran parte un’adesione «tecnica» alla specificità linguistica sarda, anche se non mancano iniziative volte a promuovere il riconoscimento di una originale identità sardocorsa, basata, oltre che sulle peculiarità linguistiche, sul senso di autonomia della cultura gallurese e sassarese nel contesto isolano.
1.4. Varietà non sarde: catalano Alghero, sulla costa nordoccidentale della Sardegna, costituisce invece l’unico lembo di territorio italiano dove si parli tuttora l’idioma catalano, o più precisamente un dialetto del sottogruppo orientale di tale lingua, caratterizzato da alcuni tratti arcaizzanti nella fonetica e nel lessico. Le ragioni di tale peculiarità linguistica e culturale (riconosciuta dalla legislazione regionale e da quella nazionale) vanno ricercate nella storia della città e della Sardegna in generale, e risalgono in particolare alla conquista dell’isola operata nel 1323 dall’infante Alfonso d’Aragona. Alghero, che aveva giurato fedeltà alla Repubblica di Genova, divenne il centro della resistenza antiaragonese fino a quando, nel 1353, non venne conquistata dall’ammiraglio Bernat de Cabrera. Le continue sollevazioni della popolazione locale indussero il re Pietro il Cerimonioso a espellere nel 1372 tutti i Genovesi e i Sardi e a ripopolare Alghero con abitanti della zona di València, del Penedés, delle Baleari, di Barcellona e di Tarragona. La sopravvivenza del catalano (che come si è visto fu a lungo lingua ufficiale in tutta la Sardegna settentrionale) si spiega essenzialmente con questa colonizzazione, in seguito alla quale la città, dotata di ampie autonomie, finì per rappresentare un corpo separato rispetto al retroterra sardo. L’uso vernacolare del catalano continuò così ancora dopo il passaggio dell’isola ai Savoia e la conseguente, progressiva italianizzazione degli usi linguistici ufficiali. Il risveglio dell’intereresse per la minoranza algherese cominciò a verificarsi alla fine dell’Ottocento ad opera di eruditi e letterati catalani di Spagna nel clima della Renaixensa (rinascimento) barcellonese. Nel secondo dopoguerra, l’attività culturale è proseguita sotto l’egida di gruppi che hanno promosso pubblicazioni, concorsi poetici e altre iniziative tra le quali, dal 1973, i primi esperimenti di insegnamento scolastico del catalano. Indubbiamente, la vitalità della cultura catalana in Alghero è stata ed è tuttora significativa, sia per quanto attiene la produzione letteraria sia per quanto riguarda l’attività di promozione attraverso la pubblicistica locale, la rivalutazione della toponomastica tradizionale, l’inserimento nei programmi didattici e in altri settori: i modelli linguistici e in particolar modo grafici adottati in tali occasioni si riferiscono con una certa frequenza allo standard catalano, nell’esigenza di un raccordo costante con centri culturali dai quali ci si può legittimamente attendere sostegno e attenzione nei confronti del processo di valorizzazione e rivitalizzazione dell’identità locale. La forte immigrazione dal retroterra sardo e lo sviluppo turistico della città stanno del resto contribuendo, con gli altri fattori caratteristici delle situazioni minoritarie, a erodere l’area d’uso del catalano, che malgrado la forte autostima della popolazione è sempre più patrimonio dei soli anziani e dei gruppi militanti interessati a una sua valorizzazione a fini culturali ed eventualmente di visibilità politica.
1.5. Varietà non sarde: tabarchino L’isola di San Pietro e una parte di quella di Sant’Antioco nell’Arcipelago Sulcitano, a sudovest della Sardegna, ospitano a loro volta comunità di lingua genovese stanziate nei comuni di Carloforte (circa 7000 abitanti) e Calasetta (circa 3000), i cui membri sono detti collettivamente Tabarchini. L’origine di tale denominazione è legata alla storia del popolamento delle due cittadine, fondate rispettivamente nel 1738 e nel 1770 da coloni provenienti dall’isolotto tunisino di Tabarca, sul quale la nobile famiglia genovese dei Lomellini aveva trasferito fin dal XVI sec. gruppi di corallari e pescatori liguri. A Tabarca i Genovesi avevano sviluppato un fiorente commercio col retroterra, dando vita ad attività mercantili e di scambio, tanto che la loro parlata fu usata anche come lingua franca commerciale dagli stesso Arabi fino alla seconda metà del XIX sec. Tuttavia, nei primi decenni del Settecento, le persecuzioni del sovrano locale, su pressione francese, indussero molti Tabarchini a cercare rifugio altrove. Il re Carlo Emanuele, che aveva appena avviato un programma di ripopolamento di alcune zone della Sardegna, accolse la loro richiesta di colonizzare l’isola di San Pietro, allora deserta. Successivamente (1770) altri Tabarchini si stanziarono sul litorale di quella di Sant’Antioco e altri ancora fondarono in Spagna la colonia di Nueva Tabarca su un isolotto presso Alicante, dove il genovese si estinse dall’uso parlato nei rimi decenni del Novecento. Le due comunità tabarchine in Sardegna, malgrado le incursioni barbaresche e il non facile rapporto coi vicini sardi, riuscirono a stabilizzarsi e a prosperare: a Carloforte fu avviata la coltivazione delle saline e il porto ebbe notevole importanza commerciale tra Ottocento e Novecento per la pesca del tonno e l’imbarco del minerale del Sulcis; a Calasetta (dove fu tentata senza successo anche l’installazione di una colonia piemontese) prevalsero invece le attività vitivinicole. L’uso del tabarchino, costantemente ravvivato dal rapporto dei due centri con la Liguria, è tuttora l’elemento caratterizzante della popolazione, che per il resto ha attinto tratti culturali di varia origine, araba, sarda, italiana meridionale (dovuti questi ultimi alla forte immigrazione di pescatori siciliani e ponzesi, linguisticamente assimilati) finendo per assumere una netta individualità e una precisa specificità sia rispetto alla Sardegna che alla Liguria. L’attaccamento dei Tabarchini alle tradizioni linguistiche e la fortissima autostima che li contraddistingue hanno fatto sì che essi abbiano mantenuto una pratica larghissima della parlata, in una situazione sociolinguistica praticamente unica nel panorama dialettale sardo e italiano: oggi parlano tabarchino l’88,9% dei maschi, l’82,2% delle femmine residenti e l’84% dei giovani tra i 15 e i 34 anni; il tabarchino è inoltre parlato dal 90,2% delle persone con
titolo di studio fino alla licenza media, dall’81,6% dei diplomati e dall’80% dei laureati, e viene utilizzato dai giovani coi genitori per il 63,8% (da un altro 10,6% in alternanza con l’italiano). Tra gli altri dati, è significativa la quasi totale assenza di competenza linguistica del sardo, in contrasto coi dati di altre eteroglossie interne per le quali la conoscenza della lingua della minoranza di primo grado è normalmente elevata Negli ultimi anni si è assistito inoltre alla crescita di iniziative di salvaguardia e di promozione della cultura locale (soprattutto in ambito didattico) anche come reazione al recente sviluppo turistico delle isole, che non sembra peraltro avere sostanzialmente intaccato, finora, la compattezza culturale e linguistica delle due comunità. Il tabarchino è correttamente riconosciuto come lingua minoritaria in base alla legislazione sarda (L.R. 26/1997), ma è sconsideratamente ignorato da quella nazionale, fatto che costituisce non soltanto un assurdo giuridico in rapporto alle disposizioni regionali, ma una grave discriminazione per i due comuni, che unici in tutta la Sardegna non sono ammessi a fruire dei benefici della 482/1999. Da qui le ricorrenti prese di posizione di organismi scientifici e le iniziative di legge volte a ovviare a questa incresciosa situazione, rimaste fino ad ora senza un seguito concreto.
1.6. Altre situazioni Sono infine di origine recente alcuni ripopolamenti che hanno avuto qualche conseguenza sul panorama linguistico sardo. Il programma di sfruttamento della zona mineraria del Sulcis portò alla fondazione di Carbonia (1936-1938), con lo stanziamento di una popolazione solo in parte proveniente dalle aree rurali circostanti, mentre molti dei nuovi abitanti vi giunsero dall’Italia continentale, e in particolare dal Veneto. Questa particolarità fa di Carbonia (oggi capoluogo, insieme a Iglesias, della nuova provincia del Sulcis-Iglesiente) un centro nel quale il sardo non viene praticato come lingua comunitaria, col prevalere piuttosto di modalità di italiano regionale. Analoga appare oggi la situazione di Arborea, già Mussolinia, sorta nel 1928 in un’area di bonifica nell’attuale provincia di Oristano. La popolazione, formata in gran parte da coloni veneti e friulani, ha abbandonato in pratica l’uso dei dialetti d’origine senza tuttavia acquisire il sardo, e un italiano con coloriture regionali rimane la varietà comunemente praticata. Ancora parzialmente vitale sembra essere invece il dialetto veneto importato da profughi giuliano-dalmati nelle località di Fertilia e Maristella, frazioni di Alghero, all’indomani dell’esodo (1945-1947) della componente italiana dalle aree passate alla Iugoslavia lungo i confini orientali. Sono state assorbite dal punto di vista linguistico le piccole comunità di dialetto campano formate da pescatori (per lo più ponzesi) che tra l’Ottocento e il Novecento si sono insediate lungo la costa dell’isola, integrandosi come la popolazione locale di lingua sarda, gallurese o tabarchina. L’unica eccezione a questo processo di convergenza è dato a quanto pare dalla frazione Santa Lucia del comune di Siniscola, sulle coste orientali della Gallura, ripopolatasi come conseguenza dell’insediamento di pescatori campani a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo: il napoletano vi appare allo stato attuale ancora radicato.
1.7. L’italiano regionale sardo L’italiano sta dunque guadagnando ulteriormente terreno rispetto a varietà tradizionali peraltro ancora vitali in molte aree, e sul rapporto diglossico tra italiano e sardo, anche alla luce delle statistiche, si può tuttora sottoscrivere ampiamente la valutazione di Tullio Telmon, per il quale sull’isola «[…] l’italiano continua a giocare un ruolo di grande importanza, non soltanto in quanto lingua dello stato, ma anche per l’atteggiamento fortemente utilitaristico che i sardi hanno assunto nei suoi confronti. Pur essendo sentito infatti come fondamentalmente estraneo alle tradizioni più autenticamente popolari, il suo possesso viene tuttavia considerato necessario e, in ogni caso, simbolo potente di avanzamento sociale, anche nel caso di diglossia senza bilinguismo. Per quanto riguarda quest’ultima notazione, dobbiamo aggiungere che, malgrado gli sforzi di numerosi intellettuali di estendere il sardo a domini ed a funzioni generalmente di competenza del solo italiano, la generalità della popolazione continua a distinguere diglossicamente in modo netto i campi di applicazione dei due codici, confinando il sardo alla comunicazione quotidiana ed affidando all’italiano il compito di assolvere alla comunicazione formale». La varietà di italiano regionale sardo è molto tipica anche dal punto di vista intonativo. Appare molto marcata la distinzione tra le vocali e ed o aperte e chiuse, vi è una tendenza all’alterazione delle consonanti occlusive e affricate sorde in posizione intervocalica, si verificano costrutti verbali particolari per influsso del sardo, ad esempio l’uso del verbo essere in luogo di stare in presenza del gerundio (sono correndo per ‘sto correndo’) o l’uso intransitivo di verbi comunemente transitivi (alzare ‘salire’). La convivenza dei due codici linguistici crea fenomeni di interferenza soprattutto fra i giovani. Si tratta ad es. di forme dialettali che vengono spesso modificate dal punto di vista semantico. Il fenomeno coinvolge in particolare quei ragazzi che hanno come prima lingua l’italiano e non padroneggiano la lingua locale, ma ne subiscono l’influsso. Ciò da vita a un gergo composto da termini, per citarne alcuni, come tanalla ‘tanaglia’ utilizzato per ‘avaro’, spramma ‘spavento’, surra ‘bastonata, botte’, turrato ‘ottuso, stupido’, tutti attestati nell’area campidanese.
2. ASPETTI STORICO-CULTURALI 2.1. Profilo di storia linguistica sarda La Sardegna (24.000 kmq.) è dopo la Sicilia la più vasta isola italiana, ma con una popolazione di poco più di 1.600.000 abitanti rappresenta una delle regioni meno densamente abitate. Popolata nella remota antichità da genti di ceppo iberico che diedero vita alla cultura nuragica, venne colonizzata lungo la costa sud-occidentale da gruppi fenici e cartaginesi, che vi diedero vita a stabili e fiorenti insediamenti urbani. La conquista romana, avvenuta nel 238 a.C., sovrappose al sostrato paleosardo l’elemento linguistico latino anche nelle zone più interne, dove esso si mantenne anche durante l’effimera occupazione vandalica (456-534) e la riconquista bizantina, che diede ai Sardi le strutture politiche e giuridiche sulle quali si basò la precoce indipendenza dell’isola. Nell’alto medioevo (IX sec.) troviamo infatti la Sardegna organizzata in quattro Giudicati, stati indipendenti le cui leggi fondamentali erano già nell’XI-XII sec. scritte in una varietà di sardo illustre basata sul logudorese. Ma l’indipendenza sarda venne ben presto messa in discussione dall’intervento dei Pisani e dei Genovesi, che nel corso della loro espansione sul Mediterraneo divisero la Sardegna in sfere d’influenza, alle quali rimase in parte estraneo soltanto il Giudicato di Arborea. L’intervento degli Aragonesi, iniziato nel 1323, rappresentò l’avvio di una nuova fase di dominazione straniera, contrastato dai signori locali (spesso d’origine ligure e toscana) e destinato a impoverire la vita sociale e culturale dell’isola: i numerosi catalanismi presenti nelle attuali parlate sarde sono comunque una prova di quanto la presenza aragonese riuscì a radicarsi, soprattutto nella parte settentrionale della Sardegna. Consolidata la loro presenza, gli Aragonesi dotarono l’isola di un governo vicereale e di un parlamento (Istamentos) che si riuniva a Cagliari già a partire dal 1355. Le leggi fondamentali dell’isola (Cartas de Logu emesse dalla giudichessa Eleonora d’Arborea nel 1395) vennero conservate, ma l’uso ufficiale del sardo fu progressivamente sostituito da quello del catalano; è con la fine del Trecento tuttavia che prende vita la modesta letteratura in lingua sarda, caratterizzata, soprattutto agli inizi, dal prevalere di opere di contenuto religioso. Nel 1479, con l’unione delle corone di Aragona e di Castiglia, la Sardegna passò sotto il dominio spagnolo, e la lingua castigliana si sostituì progressivamente al catalano negli usi pubblici. L’isola passò poi all’Austria nel 1713 e nel 1718 ai Savoia, con la proclamazione del Regno di Sardegna. Il governo di Torino, pur attuando alcune riforme, inaugurò nell’isola una politica di pressione fiscale e di sfruttamento delle risorse economiche,
imponendo al contempo (1764) l’uso dell’italiano come lingua ufficiale. Respinto un tentativo d’invasione da parte dell’esercito rivoluzionario francese (1793), i Sardi chiesero al re, trasferitosi a Cagliari con la sua corte dopo l’occupazione del Piemonte, una maggiore autonomia amministrativa: a sostegno di queste rivendicazioni prese avvio nel nord dell’isola una rivolta popolare (1796) che venne però repressa. Con l’Ottocento i Savoia continuarono la loro politica di sfruttamento delle risorse della Sardegna. Nel 1820 i pascoli comuni vennero ceduti a privati, provocando una crisi dell’economia pastorale tradizionale e una recrudescenza del fenomeno del banditismo; nel 1827 le Cartas de Logu vennero definitivamente soppresse e sostituite dalla legislazione piemontese; nel 1837 venne soppresso il feudalesimo, ma le grandi proprietà vennero cedute a privati, portando alla formazione di una borghesia agraria conservatrice; tra il 1847 e il 1861 infine, anno della proclamazione del Regno d’Italia, la Sardegna perse la residua autonomia e piombò in una crisi economica e sociale destinata a durare fino alla fine della prima guerra mondiale. L’autonomismo sardo nacque immediatamente dopo il conflitto come espressione dei movimento dei reduci di guerra che avevano viste disattese le promesse di una più equa distribuzione della terra. Agli inizi tuttavia il sardismo non ebbe precisi caratteri di rivendicazione etnica, anche perché la lingua e la cultura sarda erano percepiti come simboli del sottosviluppo della regione: gli stessi usi scritti, malgrado i tentativi di eruditi sette e ottocenteschi come M. Madau e G. Spano di dotare il sardo di una koinè letteraria rinnovata, non si erano ancora sollevati da un livello vernacolare. Il fascismo diede vita ben presto a una campagna di repressione dell’autonomismo e delle nascenti rivendicazioni culturali, avviando ambiziosi quanto contraddittori progetti di industrializzazione dell’isola che ebbero parziale (ed effimero) successo solo nel caso dello sfruttamento del bacino minerario del Sulcis (fondazione di Carbonia). Lo statuto del 1948, che concedeva alcune prerogative alla regione, fu però una risposta del tutto inadeguata ai gravi problemi economici, sociali e culturali che affliggevano la Sardegna. Così, nel dopoguerra, con la crescita della coscienza autonomista, anche i temi del riconoscimento della specificità linguistica e culturale della Sardegna hanno cominciato a entrare nei programmi dei partiti presenti sull’isola anche in seguito alle sollecitazioni provenienti, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, da nuovi movimenti a carattere indipendentista e rivoluzionario. Questa sintesi storica evidenzia dunque come la lingua sarda nasca, al pari delle altre lingue neolatine, dall’evoluzione del latino importato nell’isola dai Romani a partire dal III secolo a.C. Alla crisi dell'impero la Sardegna cadde sotto il controllo dei Vandali per essere poi riconquistata dai bizantini, ma l'idioma latino si era ormai diffuso in tutta l’isola e rimase il carattere primario della sua costituzione linguistica. A fronte di una sostanziale unità dei suoi caratteri costitutivi, verso l'inizio del secondo millennio d.C. i primi documenti scritti testimoniano il sorgere di differenziazioni interne in particolare tra le varianti meridionali e quelle settentrionali.
Successivamente, per effetto delle diverse genti che giunsero sull'isola fino ai giorni nostri, la lingua autoctona fu esposta, in misura diversa, all'influenza di diversi idiomi esterni che ne modificarono e arricchirono in modo particolare il lessico. Nonostante le classi dirigenti isolane abbracciassero di volta in volta la lingua dominante di turno, dando vita a un sostanziale plurilinguismo, le popolazioni rimasero pervicacemente attaccate alle varietà della loro lingua facendola sopravvivere fino ai nostri giorni. Per quanto riguarda gli studi linguistici, tra i precursori si deve annoverare Sigismondo Arquer che nel 1550 diede nella sua opera principale Sardiniae brevis historia e descriptio una prima descrizione del sardo. Di capitale importanza per la conoscenza della lingua sarda è l’opera di Max Leopold Wagner, studioso tedesco nato a Monaco di Baviera nel 1880 e morto a Washington nel 1962. La sua opera più rilevante è il Dizionario Etimologico Sardo (DES), in tre volumi.
2.2. Strati linguistici: prelatino Il patrimonio lessicale sardo è costituito da elementi legati alle vicende storiche che hanno coinvolto l’isola sin dai tempi antichi. La formazione della lingua sarda come la conosciamo oggi, si deve fondamentalmente all'elemento latino, come si è detto, sul quale hanno agito apporti come quello catalano, spagnolo, italiano ecc. Occorre anzitutto accennare a quelle che erano le caratteristiche linguistiche della Sardegna ancor prima della dominazione punica e di quella romana; vi si parlava la lingua oggi convenzionalmente definita paleosardo, della quale non esistono attestazioni scritte. I primi popolamenti in Sardegna risalgono al Paleolitico e furono costituti da genti che stabilirono contatti con le altre sponde del Mediterraneo attraverso il commercio dell'ossidiana. L’età nuragica vide lo sfruttamento dei giacimenti metalliferi, e questo diede vita a vivaci rapporti con con altre genti. Il collegamento delle popolazioni sarde del tempo con altre esterne all’isola, è utile per capire la derivazione degli elementi lessicali che si riscontrano nel sardo antico. Emerge infatti che la Sardegna era parte integrante di una serie di relazioni che partivano dall’Africa all’Iberia e comprendevano anche Grecia, Asia Minore e Italia. Una situazione che non rendeva, quindi, la Sardegna isolata e chiusa, come può far pensare la sua condizione di insularità. Questo sostrato indigeno si è conservato prevalentemente nel lessico riguardante la denominazione di luoghi, la flora e la fauna. Per quanto concerne i nomi dei luoghi e l’ambiente naturale vi sono forme come mogoro ‘piccola collina’ presente anche come toponimo, che mostra legami col basco e col libico. Molto diffusa nella toponomastica sarda è la radice gon- ‘altura’, probabilmente da una voce libica che si ritrova in nomi di luogo come Gonnos, Gonnesa, Gonifai, Cala Gonone, Arcu de Gonnazè e altri. Nello specifico della flora si riscontrano voci di area iberica che trovano riscontri anche nel basco: eni ‘tasso’, costiche, costighe ‘acero minore’, golostru, olostru ‘agrifoglio’. Al nome basco mata, che ha concordanze iberiche e africane, si ricollega la forma sarda mat(t)a ‘albero, pianta’ dei dialetti campidanese e logudorese. La forma campidanese sessini per giunco marino trova possibili riscontri nel berbero azezzu ‘ginestra’, sezzerth ‘stelo’. L’unica lingua prelatina parlata in Sardegna di cui abbiamo attestazioni sufficienti è quella punica, come conseguenza di insediamenti di origine fenicia attestati nell'isola a partire dal VI secolo a.C., in particolare nell'area meridionale. Elementi lessicali punici si riscontrano quindi, soprattutto nel Campidanese: si tratta di toponimi e di altri vocaboli non molto numerosi. I nomi di luogo di attestazione certa sono tra gli altri Tharros, Bithia e Othoca nei pressi di Oristano e la forma Magomadas derivante probabilmente da maqom hadas ‘luogo nuovo’. Altri elementi lessicali sono tsippiri ‘rosmarino’, mittsa ‘sorgente’, e tsikkiria ‘aneto’, tutti attestati in campidanese.
2.3.Strati linguistici: dalla romanizzazione all’alto medioevo Nel 238 a. C. ha inizio la dominazione romana in Sardegna. Nei secoli che seguono, il sostrato indigeno si fonde con la lingua latina: è un processo lento che coinvolge progressivamente tutta l'isola, persino le zone più interne, le quali una volta assimilato l’idioma latino, ne manterranno i caratteri più arcaici. Il sardo formatosi dopo la dominazione romana, continua a mutare nei secoli, pertanto molte voci sono cadute in disuso o hanno assunto connotazioni diverse da quelle originarie. Nei testi medievali compaiono ad esempio forme del latino antico che, allo stato attuale, permangono solo in alcune regioni circoscritte. Permangono invece, nel loro significato originario voci quali il logudorese domo, campidanese domu < DOMUS ‘casa’ e ACINA con i corrispondenti sardi akina, aghina, asgina ‘uva’, che mantiene il valore collettivo del latino. Emergono poi altre voci che non hanno avuto continuatori nell’italiano; sono termini che fanno parte del lessico specialistico della pastorizia, tra cui berbeghe < VERVECE ‘pecora adulta’ , laghinza < LACINIA che indica la pecora che non ha ancora figliato, bedusta < VETUSTA con il significato di pecora oltre i due anni d'età che ha già figliato diverse volte, lunadica < LUNATICA è invece la pecora sterile. Tra il 456 e il 534 d.C. la Sardegna, ormai latinizzata, fu occupata dai Vandali, ma nel sardo non compaiono tracce significative di un superstrato linguistico germanico. È bene però ricordare che durante la dominazione vandalica e bizantina la Sardegna fu unita all’Africa e incrementò i contatti con la cristianità di quella regione, della quale accolse rappresentanti costretti all’esilio dai sovrani vandali, di religione ariana. Dal 534 d.C., con l’unione all’esarcato africano di Bisanzio, la Sardegna conosce in particolare un significativo influsso greco. Wagner era favorevole a riconoscere la provenienza al sardo esclusivamente di termini del lessico ufficiale (tipo cavallare ‘cavaliere’, dal gr. biz. kaballáris, kondáke, kondághe ‘registro di atti giuridici’, dal gr. biz. kontáki(on), etc.) e religioso (tipo munistere, muristere, muristeri ‘monastero’, dal lat. *MONISTERIU(M) incrociato col gr. biz. monastéri; in questo settore si può citare anche il caso di Sant’Avendrace, denominazione di un quartiere di Cagliari, nome riconducibile al gr. biz. Euandráki(on), pronunciato evandráki, da cui, con metatesi, avendráki e infine l’odierno Avendrace). In realtà l’apporto da parte del superstrato bizantino appare più variegato e consistente, riguardando anche voci come camp. gháni ‘morello (detto del manto dei cavalli e dei buoi)’, log. iskontriare ‘fiaccarsi, rimbambire (detto dell’uomo)’, log. kèra óbida, camp. cèra óbisa ‘propoli’, annakkare ‘cullare’, lèppa ‘coltello a serramanico’, log. sett. elóǥu ‘vaiolo’
2.4. Strati linguistici: pisano e genovese Tra il IX e il X sec. sorsero nell’isola, come si è visto, i quattro giudicati di Gallura, Cagliari, Arborea e Torres; dal Mille, la penetrazione commerciale e politica di Genova e di Pisa, inizialmente attraverso enti ecclesiastici legati alle due repubbliche marinare e per l’iniziativa di casati nobiliari, in séguito anche in modo più diretto, ebbe tra le altre conseguenze un afflusso di voci italiane antiche, già nei primi documenti dell’XI sec. L’elemento italoromanzo assume un ruolo preponderante con l’avvento dei Pisani e dei Genovesi in Sardegna, e in modo particolare dopo la vittoria delle repubbliche di Pisa e Genova contro i Saraceni del 1016; tale momento fu per l’isola occasione di instaurare relazioni con il continente italiano, fino ad allora quasi inesistenti. Dopo quell’evento, diversi Pisani e Genovesi si trasferirono in Sardegna; fra di essi sicuramente vi erano diversi operai, il lavoro dei quali è testimoniato dalle costruzioni in stile pisano. Alcune tracce evidenti di questa fase storica, si ritrovano in un patrimonio lessicale che nel complesso risulta variegato. Negli antichi testi legislativi medievali, si trovano già molti prestiti dal toscano e dal genovese antico. Il pisano è attestato ad esempio nel campo dell’abbigliamento come conseguenza della forte presenza mercantile toscana in Sardegna. Vi sono elementi lessicali quali, mustarolu ‘panno’ < mustarolo, presentino ‘tela di lino’ < piacentino, albache, orbace, orbaci ‘stoffa rustica di lana sarda’ < albagio. Fra questi, è interessante la presenza di prestiti nella terminologia dei costumi tradizionali sardi: cogliettu è il gilè di cuoio dell’uomo, che deriva dall’italiano antico coietto; cassiu, can(s)ciu è invece, il corpetto del costume della donna dall’italiano antico casso. Quanto al genovese antico, il suo influsso si riscontra soprattutto nell’area sassarese e gallurese, e l’individuazione di prestiti risalenti alla presenza politica ligure nel medioevo è spesso resa difficoltosa dall’influsso successivo che il genovese esercitò soprattutto nelle aree costiere e nelle città portuali. Tra le voci anto-italiane presenti in sardo si segnalano: log. béttsu, camp. bécciu ‘vecchio’ log. e camp. gióvanu ‘giovane’ (tosc. ant. giovano) log. abbaidare ‘guardare’ (ital. ant. (a)guaitare) log. attsivire, camp. acciviri ‘preparare, fornire’ (ital. ant. accivire) log. sett. indzuldzare, indzundzare ‘ingiuriare’ (tosc. ant. ingiulia) centr. manikare, log. sett. maniǥare ‘mangiare’ (ital. ant. manicare); log. virgòndza, birgòndza, camp. brigúngia ‘vergogna’ log. ciáffu, tsáffu ‘schiaffo’ (tosc. ant. ciaffo); log. ánku, camp. ánki ‘che’ in frasi di augurio o malaugurio (tosc. ant. anco);
log. barréddu ‘fardellino dei ragazzi’, camp. rust. orréḍḍu ‘gonnella bianca di tela’ (ital. ant. guarnello) L’influsso pisano fu particolarmente incisivo nel meridione dove contribuì forse a modificare in modo sensibile la veste fonetica del campidanese, che cominciò ad assumere tratti distintivi rispetto alle parlate logudoresi: anche per imitazione della pronuncia toscana si affermarono, secondo alcuni, esiti del tipo cínku, céntu (a fronte delle forme logudoresi corrispondenti kímbe, kéntu), e ákwa, língwa (a fronte di log. ábba, límba).
2.5. Strati linguistici: elemento iberoromanzo Nel 1323 l’infante Alfonso, figlio di Giacomo II d’Aragona, sbarcò in Sardegna, sino al 1720 soggetta prima al dominio catalano-aragonese e poi a quello spagnolo. Il catalano fu lingua ufficiale dei conquistatori sino al 1479 nella regione meridionale dell’isola, e influenzò anche le altre parlate: Gli influssi iberoromanzi in Sardegna, si devono alla lunga occupazione prima catalana, poi spagnola, che iniziò nel 1324 e durò fino al 1714. La lingua catalana si irradiò nell’isola, in un primo momento dal centro urbano di Cagliari, ma l’estensione delle voci catalane non si limitò alla zona meridionale, e vi fu una diffusione anche nelle regioni del centro, spesso attraverso il lavoro dei notai, che utilizzarono il catalano per la redazione dei documenti fino al XVIII sec. Tra le innumerevoli voci catalane entrate nel sardo, vi sono quelle che riguardano i mestieri e le arti, che dimostrano un effettivo rinnovamento delle attività artigianali sotto l’influsso iberico. Sono d’origine catalana voci come camp., centr. e log. merid. bardúf(f)ula ‘trottola’ (< baldufa); log. e camp. barbéri ‘barbiere’ (< barber) camp. e barb. bláu, bráu ‘azzurro, celeste’ (< blau); camp. bucciácca, centr. buttsácca, log. busciácca ‘tasca’ (< butxaca, botxaca) log. (fíǥu) burdašòtta ‘specie di fico nero, brogiotto’ (< bordissot) camp. e centr. brassólu, brattsólu, bartsólu ‘culla’ (
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