IL MANAGEMENT AL FEMMINILE - Contro lo stereotipo
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Irene Facheris Corso di Psicologia delle Influenze Sociali Contro lo stereotipo: IL MANAGEMENT AL FEMMINILE PREMESSA TEORICA Durante il corso abbiamo spesso discusso del ruolo della donna nei diversi campi. Dell'immagine che si vuol far passare della donna, dell'utilizzo che si fa delle donne, di come può sentirsi una donna alla quale viene affiancato il verbo “utilizzare”. Ed abbiamo anche affrontato il tema degli stereotipi e dei pregiudizi sessisti. Io ho voluto mettere assieme i due ragionamenti, occupandomi di una categoria di donne che si ritrovano ad andare contro lo stereotipo: le donne manager. Mi interessava sapere come vivono la loro condizione, che cosa vuol dire per loro essere una donna ed essere un capo, che reazioni vedono negli altri. Ho poi voluto approfondire la questione cercando di comprendere anche che cosa vuol dire avere come capo una donna, se si percepiscono delle differenze rispetto ad un capo uomo, se si hanno aspettative di comportamenti e modalità differenti. Perciò oltre ad intervistare due donne appartenenti al board di un'azienda ho intervistato anche i loro collaboratori e le loro collaboratrici. Prima di addentrarmi nella narrazione di cosa è accaduto però, credo sia necessario scrivere un cappello introduttivo che mostri le definizioni esistenti e che racconti cosa è già stato detto sull'argomento. Non tanto per poter spiegare i comportamenti che ho visto, ma per capire da dove partiamo, qual è la base sulla quale ci muoviamo. Uno stereotipo è una visione semplif icata e condivisa su un luogo, un oggetto, un avvenimento o un gruppo riconoscibile di persone accomunate da certe
caratteristiche o qualità. Ciò che a noi interessa sono gli stereotipi di genere. Normalmente lo stereotipo maschile insiste sulla dimensione della competenza (maggiori abilità e capacità di gestione delle situazioni che “naturalmente” li porta ad occupare posizioni lavorative importanti) mentre lo stereotipo femminile si fonda sulla dimensione del calore (viene riconosciuta una superiorità nel costruire e mantenere relazioni interpersonali). A questo proposito Deaux ed Emswiller hanno dimostrato che quando una donna riporta un successo in un compito, le spiegazioni generalmente avanzate fanno riferimento a fattori di tipo instabile, per esempio, l'impegno momentaneo o la fortuna, mentre vengono chiamati in causa fattori di tipo stabile, per esempio, le capacità, quando si tratta di spiegare gli stessi eventi per un maschio (Arcuri e Cadinu, 2011). Questi stereotipi persistono nel tempo perché sono funzionali al mantenimento dello status quo. Assolvono due funzioni importanti: una funzione descrittiva (ci dicono come sono le donne e gli uomini) e una funzione prescrittiva (ci dicono come DEVONO essere le donne e gli uomini). Quando all'aspetto cognitivo dello stereotipo associamo l'aspetto affettivo, parliamo di pregiudizio. Il pregiudizio è la tendenza a reagire nei confronti di una persona prontamente e in modo chiaramente sfavorevole sulla base dell'appartenenza ad una classe o categoria (Gengen e Gergen, 1981). Le ricerche sperimentali hanno mostrato come le donne che ricoprono con successo ruoli tradizionalmente maschili vengano giudicate negativamente e come tale giudizio si attenui solo nel caso in cui queste esprimano attributi tradizionalmente percepiti come tratti femminili. Questa tipologia di pregiudizio legata alle categorie di genere viene definita sessismo. Esistono due tipi di sessismo, il sessismo ostile ed il sessismo benevolo. Parliamo di sessismo ostile quando è presente un'antipatia verso le donne, specialmente quando ricoprono ruoli tradizionalmente maschili; mentre il sessismo benevolo invita le donne ad accettare le differenze di potere adeguandosi ai ruoli ma non mostra apertamente antipatia. La tendenza generale, per le donne, è quella di rif iutare il sessismo ostile, ma di
accettare (soprattutto in situazioni dove la disparità di generi è più marcata) un certo livello di sessismo benevolo. Le conseguenze di questo sessismo sono tristemente reali. Ad esempio è stato riscontrato che, in generale, le donne hanno un'autostima individuale inferiore a quella degli uomini (Kling et al, 1999). Uno studio effettuato da Spencer, Steel e Quinn inoltre dimostra che dei riferimenti ad uno stereotipo sessuale possono minare fortemente la prestazione intellettuale delle donne. Fino a quando i gruppi minoritari saranno bersaglio di stereotipi che li associano a prestazioni inferiori in certi campi, i membri di tali gruppi si sentiranno plausibilmente inadeguati. Di conseguenza l'identità sociale e le prestazioni oggettive di queste persone rischieranno costantemente di confermare la minaccia legata agli stereotipi (Arcuri e Cadinu, 2011). LA DOMANDA Alla luce di quanto scritto, sono nate in me delle curiosità. Volevo toccare con mano quello che fino a quel momento avevo solo potuto leggere. Volevo entrare in un'organizzazione per poter parlare con le persone, fare delle domande che mi aiutassero a capire. Volevo chiedere ad un capo donna cosa vuol dire PER LEI essere un capo donna. Volevo allontanarmi dalla tendenza a confermare un'ipotesi ed abbracciare un approccio più fenomenologico. A guidarmi, più che una teoria, c'era una domanda: se è vero che tradizionalmente il ruolo di capo è ricoperto da una figura maschile, è possibile che le caratteristiche e le modalità che ci si aspetta che un capo (indipendentemente dal genere) abbia, siano caratteristiche e modalità tipicamente maschili? E queste aspettative influenzate dallo stereotipo, come si traducono nella realtà? A quali conseguenze portano? Come si sente una donna manager se percepisce che alcune richieste che le vengono fatte sono tarate su standard maschili? Che conseguenze ha mostrare invece la propria femminilità? Ma soprattutto, possiamo davvero parlare di femminilità? Siamo sicuri che le differenze di comportamento siano dovute al genere?
Non potremmo invece pensare che le persone sono diverse in quanto Persone, e non in quanto uomini o donne? Inutile dire che questa ricerca, più che rispondere a queste domande, è stata soprattutto in grado di generare altri quesiti. L'INTERVISTA Ho intervistato sei persone appartenenti ad un'organizzazione, di cui due capi donne e quattro collaboratori (uomini e donne). Per ogni intervista ho avuto a disposizione un'ora. Prima di cominciare a fare le domande ho preferito mostrare a tutti un breve video della durata di 3 minuti, che facilitasse poi lo svolgimento dell'incontro. In questo video ho cercato di spiegare cosa volessi indagare, dando qualche informazione di base che concedesse a me e all'intervistato/a di discutere poi sul tema partendo da un terreno comune. Qui il testo del video: “Ogni ruolo è caratterizzato da alcuni comportamenti attesi (cosa) e da relative modalità (come). Comportamenti e modalità che potremmo definire stereotipati e che derivano dalle aspettative istituzionali: ci si aspetta che si facciano alcune cose e non altre, e che le si faccia in un certo modo. In questo caso stiamo prendendo in esame un ruolo di potere, tipicamente riconoscibile all’interno di un’organizzazione nel ruolo di capo. Ci chiediamo: è possibile che le peculiarità di genere abbiano influenzato il sistema di aspettative che l’istituzione ha verso il ruolo? E che quindi almeno una parte di queste aspettative derivi dal genere? E' possibile cioè che, essendo tradizionalmente il capo un maschio, all’interno del ruolo si siano strutturati come fisiologici alcuni comportamenti e alcune modalità tipicamente maschili?”
“Abbiamo costruito un quadrante che ha da un lato la variabile comportamenti/modalità (che chiameremo C/M) distinta fra C/M ATTUATI e NON ATTUATI e dall’altro il sistema di aspettative istituzionali distinguendo fra C/M VISSUTI COME ASPETTATIVA (dove quindi c'è una domanda: ci viene chiesto, più o meno esplicitamente, di fare o non fare qualcosa) e C/M VISSUTI COME NON ASPETTATIVA (dove la domanda non c'è e non viene richiesto nessun comportamento particolare). Se abbiamo attuato un C/M che abbiamo vissuto come un'aspettativa, possiamo chiederci se lo abbiamo sentito o meno nelle nostre corde. Se non abbiamo attuato un C/M che abbiamo vissuto come un'aspettativa perché non lo abbiamo sentito nelle nostre corde, possiamo chiederci quali reazioni abbia scatenato la nostra scelta e a quali conseguenze abbia portato. Se abbiamo attuato un C/M che non abbiamo vissuto come un'aspettativa, possiamo domandarci che reazioni abbiamo visto negli altri. Se non abbiamo attuato un C/M che non abbiamo vissuto come un'aspettativa possiamo chiederci se è un C/M che avremmo voluto attuare ma che abbiamo censurato proprio perché non richiesto, o se è un C/M che non sarebbe nelle nostre corde e che quindi è un bene che non sia stato preteso.
Assecondare un'aspettativa, sia essa di fare o non fare qualcosa, così come non fare qualcosa perché NON viene richiesto, lo consideriamo un C/M “adattivo”. Non fare qualcosa che ci viene richiesto è un C/M “non adattivo”. Fare qualcosa che non ci viene richiesto è un C/M “innovativo”. Sia per i capi donna sia per i collaboratori avevo scritto alcune domande che facessero da traccia durante l'intervista. Domande per i CAPI: 1. Attua mai dei C/M che non sente nelle sue corde? 2. Ci sono dei C/M che vorrebbe attuare nel suo ruolo di capo ma che invece censura? 3. Quali sono quei C/M che andrebbero contro lo stereotipo? 4. Ci sono dei C/M che attua lo stesso anche se pensa vadano contro lo stereotipo (maschile) di “capo”? 5. Si è mai sentita trattata in maniera differente rispetto ai suoi colleghi maschi? 6. Sente delle richieste in più “giacché è femmina” e/o delle richieste in meno “siccome è femmina”? Domande per i COLLABORATORI (maschi e femmine che hanno un capo donna):
1. Ha avuto capi di entrambi i generi? Nota delle differenze, ad esempio nelle modalità? 2. Ci sono dei C/M che attribuisce al genere maschile e che si stupirebbe di vedere nel suo capo? 3. Ci sono dei C/M che ha visto nel suo capo e che l'hanno stupita? 4. Che reazione ha avuto quando le hanno detto che il suo capo sarebbe stato una femmina? CHE COSA è SUCCESSO 1. I CAPI “I primi tempi ho tentato di assomigliare ad un maschio, ad esempio nel look. Non mi sarei mai sognata di mettere una gonna.” “Gli interlocutori esterni uomini te lo fanno pesare, sottolineano che sono una donna.” “Spesso le donne sono tremende come capo perché sono una brutta copia degli uomini.” “Siccome sono donna si aspettano che io sia comprensiva, accogliente e dolce.” “Parlare dei propri sentimenti e delle proprie debolezze andrebbe contro lo stereotipo del capo.” “Se in una riunione abbiamo tutti lo stesso ruolo io sono la “cocchina” di tutti, è proprio l'atteggiamento che viene spontaneo agli uomini. Prima ti vedono come donna e poi come collega” “È come se la donna non potesse fare il loro stesso lavoro. Non accettano che una donna possa avere la loro stessa intelligenza, figuriamoci di più. Però una volta che passi la fase di senso di inferiorità è quasi divertente.” “Mi sono sentita limitata a lavorare con gli uomini. Mi sentivo costantemente messa alla prova, come se dovessi fare più fatica.” “Gli uomini si aspettano che tu faccia cose da donna e se non le fai si ribellano.” “Ho un'immagine di me stessa più maschile, subisco lo stereotipo.” Queste sono solo alcune delle molte frasi che ho ascoltato, ma sono già un numero sufficiente per farsi un'idea di come queste due donne vivano l'essere capo. È doveroso sottolineare che l'organizzazione nella quale sono entrata è
sicuramente particolare e si discosta dalla normalità (intesa come normalità statistica) della maggior parte delle aziende. Sono presenti molte più donne che uomini, le quali ricoprono le cariche più alte. La filosofia dell'azienda promuove la parità dei sessi e l'autenticità, difatti tutte le persone che ho intervistato hanno risposto riferendosi ai primi anni in azienda oppure ad esperienze pregresse e sono concordi nel dire che “qui le cose sono un po' diverse”. Ciò nonostante alcune rif lessioni permangono anche se il contesto è più “favorevole”. I due capi hanno sottolineato come il problema del fare qualcosa che non sentono nelle loro corde sia un problema legato al passato, mentre al momento non sentono costrizioni. È ricorrente nelle loro risposte il confronto con l'esterno, con le altre aziende. Sentono da chi arriva da “fuori” una richiesta di adesione ad alcuni stereotipi, ai quali sono invece libere di non aderire dove sono ora. “Qui mi è permesso di esternare la mia femminilità, prima dovevo essere un capo al maschile.” Come in ogni questione, esistono due lati della medaglia e durante le interviste sono stati sottolineati entrambi. Le aspettative principali sono due e sono in conflitto. Da un lato ci si aspetta che un capo si comporti da capo (inteso sullo standard maschile) quindi un capo donna che esprime la propria femminilità è vista in maniera negativa. Dall'altro ci si aspetta che un capo donna, proprio giacché donna, abbia alcune caratteristiche tipicamente femminili (maggiore comprensione ed emotività) e quando queste caratteristiche non sono presenti le persone restano confuse. “Pensavano che in quanto donna sarei stata comprensiva, ma hanno visto che non è così!”. Ritorna quindi una delle domande che accompagna questo scritto. Una donna aggressiva e poco incline alla comprensione sta “scimmiottando” un uomo oppure è “semplicemente” una Persona che tra le sue tante caratteristiche ha anche quella di essere aggressiva? 2. I COLLABORATORI E LE COLLABORATRICI Maschi
“Il capo donna ha una sensibilità diversa.” “Il genere maschile in certi momenti scade in volgarità, non me lo aspetto da una donna.” “Non mi aspetto una variabilità dell'umore da un uomo, da una donna sì.” “Mi ha stupito vedere dei capi donna forti e dure.” “Spesso i capi donna sono più maschili dei maschi.” “Il capo più invasivo e meno sensibile che ho avuto è stato un capo donna.” “Ho visto più comprensione in qualche uomo.” “Gli stereotipi si stanno smussando, credo. Non so se è più una speranza, un'esperienza o una convinzione.” “Se piange una donna vien voglia di consolarla, se piange un uomo non lo so. Non so come reagirei, forse nello stesso modo. Certo è che non me lo aspetto.” “Quando mi hanno detto che il mio capo sarebbe stato una donna non mi sono posto nessun problema, ma gli altri uomini mi chiedevano spesso come fosse avere un capo donna.” “Non credo sia questione di essere uomo o donna, ognuno è diverso.” Femmine “La donna è più intuitiva.” “E' raro vedere la sensibilità in un uomo.” “Il ruolo del capo è cambiato, forse anche grazie al contributo delle donne nelle aziende.” “In questa organizzazione il sesso debole è il maschio. I maschi che hanno una componente femminile poco sviluppata qui hanno delle difficoltà nel comprendere scelte, decisioni, mosse.” “Personalmente non me lo aspetto ma riconosco che in assoluto ci si aspetta che la donna sia più comprensiva ed emotiva.” “Da un capo mi aspetto che abbia buon senso e non credo dipenda dal sesso.” Anche qui sono riconoscibili due filoni di pensiero che riescono ad intrecciarsi pur essendo sostanzialmente opposti. Quando in oggetto abbiamo “le caratteristiche del capo” sono tutti concordi nel dire che non dipendono dal sesso, ma dalla Persona. Esistono alcune qualità che un capo deve avere (ad esempio è stato citato il buon senso) e non ce le si aspetta più da un uomo che da una donna o viceversa. Vengono pretese da entrambi i sessi.
Poi però se si abbandona per un attimo il focus sul ruolo e ci si confronta sulle proprie esperienze vengono sottolineati particolari che rimandano ad uno stereotipo. Il sentimento di sorpresa che una persona prova nel constatare che un capo donna è aggressivo che cosa dice di quella persona e delle sue aspettative? E lo stupore dato dall'intensità dell'aggressività (“Il capo meno sensibile – in assoluto – è stato una donna”) può essere in qualche modo influenzato proprio dal fatto che lo si sta riscontrando in una donna? Un uomo con la stessa dose di aggressività sarebbe stato comunque “il più aggressivo mai incontrato”? Citando Arcuri e Cadinu “un fattore che può determinare l'accessibilità di una categoria è la sua salienza rispetto al contesto di riferimento. Ricordiamo a questo proposito l'effetto “solo”, messo in luce da Taylor e colleghi (1978): quando una persona appartiene a una categoria saliente rispetto al contesto […] i suoi comportamenti vengono giudicati più estremi, rispetto a quelli delle altre persone.” E ancora, se diciamo che le caratteristiche non dipendono dal sesso ma dal carattere, come spieghiamo la frase “Siamo fortunati perché il Direttore Generale ha una componente femminile molto sviluppata”? RIFLESSIONI FINALI Come già anticipato, queste interviste hanno generato più domande che risposte. Il mio obiettivo, quando ho cominciato questa ricerca, non era certamente quello di tornare a casa con la Verità, per più ragioni. Anzitutto faccio parte di quella categoria di persone che non credono nell'esistenza di una realtà ontologica. Credo nelle interpretazioni della realtà. Perciò se mi fossi prefissata come obiettivo quello di scoprire come stessero “realmente” le cose, la mia ricerca sarebbe risultata inutile. In più, ho scelto di utilizzare una metodologia qualitativa, fermamente convinta che la ricchezza dei dati si trovi nella loro diversità e non nel numero. Il ché mi ha portata però a confrontarmi con (relativamente) poche persone, quindi a maggior ragione generalizzare non sarebbe stato possibile.
Infine, l'argomento è troppo complesso per pensare non solo di comprenderne, ma addirittura di scoprirne tutte le sfaccettature. Ho quindi deciso di lasciare che fossero i risultati a parlare e a suggerirmi nuove domande, preferendo un approccio più vicino alla Grounded Theory. Le risposte che ho ascoltato mi hanno riportato alla mente la teoria di Unger e Crawford (1996), che sottolinea la tendenza a ritenere le differenze di genere più rilevanti di quanto in realtà non siano. In effetti, mentre quando si parlava della società in generale molti stereotipi sono stati citati, una volta entrati nel particolare e nel proprio vissuto soggettivo tutti hanno ritenuto più ragionevole spiegare i diversi comportamenti delle persone come conseguenze della loro personalità e non del loro genere. Potrebbe essere questa una risposta ad uno dei tanti miei quesiti, oppure potrebbe essere la specif ica risposta di questi soggetti e se andassi ad intervistare altre sei persone potrei ottenere dei risultati completamente diversi. Come è ormai chiaro, non posso esserne sicura. Mi sembra dunque ragionevole concludere questo scritto con l'unica vera “certezza” che possiedo, ovvero che se questa ricerca non avesse saputo generare molte più domande che risposte, probabilmente non mi avrebbe dato le soddisfazioni che è invece riuscita a regalarmi, professionalmente e personalmente. BIBLIOGRAFIA Arcuri L., Cadinu M. (2011). Gli stereotipi. Bologna: il Mulino.
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