Con lo sguardo alle lotte del I Maggio
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Con lo sguardo alle lotte del I Maggio La risposta a questa cruciale domanda dipende dal grado di intelligenza, di passione, di speranza e di solidarietà che sapremo infondere alle nostre scelte e alle nostre azioni. Di Alessia Potecchi La festa del 1° maggio, il Natale dei lavoratori nasce il 20 luglio 1889, a Parigi. A lanciare l’idea è il congresso della Seconda Internazionale Socialista riunito in quei giorni nella capitale francese per organizzare simultaneamente in tutti i paesi del mondo una manifestazione per portare la giornata lavorativa a otto ore. La scelta cade sul 1 maggio. Una scelta simbolica: tre anni prima, infatti, il 1 maggio 1886, una grande manifestazione operaia svoltasi a Chicago, era stata repressa nel sangue. Si tratta all’inizio solo di una audace scommessa dall’esito quanto mai incerto per la mancanza di un unico centro coordinatore a livello nazionale; il Partito Socialista e la Confederazione Generale del Lavoro sono di là da venire e la garanzia di una opportuna organizzazione sembra alquanto difficile. Non si sa poi in che misura i lavoratori saranno disposti a scendere in piazza per rivendicare un obiettivo, quello delle otto ore giornaliere di lavoro o per testimoniare semplicemente una solidarietà internazionale di classe. Proprio per questo la straordinaria riuscita del 1 maggio 1890 costituisce una felice sorpresa, un salto di qualità del movimento dei lavoratori che per la prima volta dà vita ad una mobilitazione su scala nazionale, per di più collegata ad un’iniziativa di carattere internazionale. Visto il successo di quella che avrebbe dovuto essere una manifestazione episodica viene deciso di replicarla l’anno successivo. Il 1 maggio 1891 conferma la straordinaria partecipazione di uomini e donne a quell’appuntamento caratterizzato da una forte
tensione ideale. La Seconda Internazionale dei movimenti e delle organizzazioni socialiste decide di rendere permanente quella che, da lì in avanti, dovrà essere la “festa dei lavoratori in tutti i paesi”. Inizia così la tradizione del 1 maggio, un appuntamento al quale il movimento dei lavoratori si prepara con sempre minore improvvisazione e con grande e crescente consapevolezza conscio della sua forza e convinto portatore dei valori della solidarietà e della unità. L’obiettivo originario delle otto ore viene arricchito con altri obiettivi: la salute, la tutela del lavoro femminile e minorile, le riforme politiche e sociali. Durante il fascismo la festa del lavoro viene soppressa e sostituita con quella del 21 aprile per celebrare l’anniversario della fondazione di Roma ( il cosiddetto Natale di Roma) Il 1 maggio diventa clandestino in Italia divenendo una coraggiosa occasione per esprimere in forme diverse – dal garofano rosso all’occhiello alle scritte sui muri – l’opposizione al regime fascista. Gli antifascisti esuli all’estero mantengono viva la tradizione: grande è il ruolo di Bruno Buozzi Segretario Generale della Cgil in esilio a Parigi. All’indomani della Liberazione, il 1 maggio 1945, partigiani e lavoratori, anziani militanti e giovani che non hanno memoria della festa del lavoro, si ritrovano insieme nelle piazze d’Italia in un clima di entusiasmo. A Rovigo il comizio del 1 maggio è tenuto da Sandro Pertini che lo dedica a Matteotti: “…Giacomo, siamo tornati, abbiamo mantenuto gli impegni, abbiamo sconfitto e annientato il fascismo, abbiamo riconquistato la libertà…..”. Oggi più che mai sentiamo vivo il sentimento e il significato del primo maggio che la storia ci consegna. Viviamo in un momento terribile, viviamo in un tempo che nessuno si sarebbe mai aspettato o immaginato, viviamo sospesi rinunciando alle nostre abitudini, alla nostra quotidianità, alle nostre relazioni e ai nostri affetti. Ci attende un periodo molto difficile, a causa del Coronavirus, un nemico insidioso, sconosciuto, pericoloso. Si moltiplicano l’ansia, la paura, l’insicurezza, la solitudine. A questo si aggiunge una grave crisi economica che questa pandemia ha provocato con
conseguenze gravi sull’occupazione, sulle condizioni economiche dei lavoratori costretti in questi mesi alla cassa integrazione con il fondato timore di una crescente disoccupazione. Si diffonde il naturale sentimento di tornare rapidamente a come eravamo. Ma non sarà così: forse è esagerato dire che nulla sarà come prima, certamente una buona parte dei nostri modelli di vita andranno ripensati. Saremo semplicemente diversi o anche migliori? La risposta a questa cruciale domanda dipende dal grado di intelligenza, di passione, di speranza e di solidarietà che sapremo infondere alle nostre scelte e alle nostre azioni. Occorre ripartire con coraggio e determinazione per ridurre gli squilibri, accorciare i divari, mettere in campo tutte le risorse disponibili. Bisogna affrontare l’emergenza con il dialogo fra i partiti, le parti sociali, sindacati e imprese È indispensabile che le istituzioni riescano a governare la transizione evitando le conseguenze; soprattutto quelle di riduzione del lavoro, di compressione dei salari e, dunque, di ulteriori diseguaglianze. Al centro di questo quadro c’è il lavoro, che oggi più che mai significa ripartenza, speranza, fiducia nel futuro, lotta per preservare la qualità della vita perché il lavoro rappresenta la più alta espressione della personalità e della professionalità di ciascuno di noi per trovare in questa società una realizzazione. Il 1 maggio testimonia il ruolo decisivo dei lavoratori nella coraggiosa lotta di liberazione dal nazifascismo quando si scioperava per affermare la libertà e la democrazia; quando si presidiavano le stesse fabbriche che volevano dire pane e sopravvivenza per un popolo che stava subendo i disastri della guerra e della dittatura. Il primo maggio ha il volto di grandi sindacalisti, Di Vittorio, Bruno Buozzi, Achille Grandi e venendo più vicino a noi Lama, Carniti e Benvenuto che hanno fatto la storia delle organizzazioni sindacali. Noi, che oggi viviamo questo tempo inusuale, dobbiamo guardare alla festa del lavoratori con i messaggi, le parole, le azioni che questa ricorrenza porta con sé e da qui trarre nuova linfa come fecero tanto tempo fa i lavoratori che chiedevano condizioni
dignitose per rialzarci e ricostruire. Il primo maggio ci porta ancora indietro nel tempo, alle rivendicazioni che sono state alla base dell’emancipazione delle tante lavoratrici e tanti lavoratori che hanno lottato per ottenere condizioni dignitose. La storia del primo maggio ci rassicura e ci sprona: non dobbiamo rassegnarci, non dobbiamo avere paura, non dobbiamo considerarci dei vinti. Occorre reagire, agire, progettare, pensare, proporre. Come ieri anche oggi l’unità, la sinergia, la solidarietà, il dialogo saranno i valori guida per uscire da questo tunnel in cui ci troviamo per vedere una luce che sarà ancora più forte e chiara di prima. Se saremo capaci di passare dalla protesta alla proposta, se sapremo rimboccarci le maniche, se faremo prevalere la solidarietà e l’unità sull’individualismo e la frammentazione potremo costruire il futuro senza timore. Viva il primo maggio! Responsabile Dipartimento Banche, Fisco e Finanza del PD Milano Metropolitana Gianni Penna: “Nessuno mi toglierà mai la voglia di fare musica” Round Midnight è uno degli standard più intensi del jazz moderno, e il suo locale prende il nome proprio da questa pagina. La “mezzanotte circa” è quell’ora magica, che ogni jazzofilo conosce, attorno alla quale in ogni jazz club si celebra il rito di una musica particolare, quella che si gioca
sull’azzardo e il piacere di suonare Di Lucia D’Agostino “Nessuno mi toglierà mai la voglia di fare musica in generale, e jazz in particolare!”. Si conclude così la piacevole chiacchierata con Gianni Penna, proprietario dello storico jazz club di Fisciano “Roundmidnight”; una conversazione telefonica nata per fare il punto sulla situazione post emergenza coronavirus quando inizierà la cosiddetta “Fase2” e chi si occupa di cultura, arte, musica e spettacoli dovrà fare i conti con il distanziamento fisico, i dispositivi di protezione e il cambiamento delle nostre abitudini soprattutto in fatto di fruizione culturale in società. Il locale di Penna, siciliano di nascita, nasce nel 2001 quando decide di trasferirsi a Fisciano dopo un decennio trascorso a Salerno città nella sua abitazione di Sala Abbagnano dove già aveva rodato, con un amico, l’organizzazione di feste musicali nel salotto di casa. Se gli chiedi da quando ha la passione per la musica ti risponde che è nata con lui e ricorda anche il primo vero episodio di folgorazione musicale per un genere, il jazz, un po’ diverso dal pop-rock che a 14-15 anni frequentava: “con alcuni amici coetanei avevamo messo su un gruppo, io ero il batterista, che suonava canzoni dei Beatles e il cugino del bassista, un contrabbassista più grande, ci fece ascoltare da un registratore a bobine “Sweet Georgia Brown” (classico standard del jazz n.d.r): una folgorazione”. E così al “Roundmidnight”, in quasi vent’anni, sono passati artisti internazionali del calibro di Al Foster, Eddie Gomez, Billy Hart, Oracio “El Negro” Hernandez, e jazzisti italiani amatissimi nel mondo come Dado Moroni, Danilo Rea, Roberto Gatto solo per citarne alcuni, a parte i rappresentanti delle scuole jazz salernitana e napoletana. Gianni, come hai vissuto, e vivi ancora, questo periodo di isolamento forzato ma necessario, sia come uomo che come proprietario di un locale di jazz?
Sono uno spirito libero, ho girato il mondo per lavoro (ha lavorato per la Pirelli n.d.r.) e per diletto e non è stata e non è un’esperienza facile. Ho però la fortuna di vivere in una casa grande, che si trova sopra al locale, con degli spazi aperti e posso dire di essere fortunato rispetto ad altri che, magari, vivono in condizioni più anguste. La quarantena mi pesa da un punto di vista affettivo perché in Sicilia vivono mia sorella, i miei nipoti e pronipoti, che non vedo da due mesi. Come proprietario provo una grandissima amarezza perché questa stagione era iniziata in modo fantastico, con un riscontro di pubblico mai visto prima, persone che non erano mai venute ai concerti e che per la prima volta si sono avvicinate alla mia proposta musicale. Uno choc vero proprio, che ha interrotto una serie di appuntamenti di alto livello, con un ottimo riscontro anche da parte della critica. Un vero peccato! C’è amarezza per la programmazione fino ad aprile che è saltata, e per quella di maggio in preparazione che pure avrebbe coinvolto bei nomi del jazz. Come si prospetta la riapertura? Hai pensato in questo periodo a qualche soluzione alternativa? Male. Le associazioni culturali, come la mia, non hanno ancora ricevuto direttive in merito e la stagione può considerarsi conclusa. Riguardo all’estate, fino a quando non riceveremo delle disposizioni, non sarà possibile organizzarsi anticipatamente. Una cosa è certa, gli artisti stranieri non potranno venire in Italia quindi, nel caso, si dovrà pensare a musicisti italiani, qualora fosse consentito spostarsi da una regione all’altra, o solo a quelli locali, che va bene se avessimo punti di riferimento su come proseguire, eventualmente. Proprio per la stagione estiva avevo già pensato di portare i miei concerti in una location di mare nel Cilento con ospiti americani, argentini, giapponesi. Vedremo se e come riadattare questa idea ai cambiamenti di prospettiva post quarantena. E per l’autunno?
Va innanzitutto, come già dicevo prima, sbloccata l’apertura delle associazioni con dei permessi ad hoc visto che, non trattandosi di locali pubblici veri e propri, hanno una normativa diversa. Ad ora non c’è niente in merito, speriamo se ne ricordino. Quanto alla ripresa del locale al chiuso, non essendo il mio grandissimo, per rispettare il distanziamento si potrebbe pensare di dividere un concerto in due set, uno alle 20 e l’altro alle 22, ciascuno con massimo 40 persone. Il problema sarebbe il palco, anche quello non enorme, dove per rispettare la distanza tra musicisti dovrei limitarmi, ad esempio, ad ospitare un trio. Insomma la questione è come riaprire, perché, per quel che mi riguarda, non abbandono. La mia passione per la musica è fortissima. Figli d’arte: Francesco Ivan Ciampa Francesco Ivan Ciampa: una bacchetta per due E’ il figlio d’arte di papà Claudio, direttore d’orchestra e direttore emerito del Conservatorio Statale di Musica “Nicola Sala”. “Da bambino giocavo con le sue “miniature scores”, pensando fossero per me perchè piccole, lui suonava e io fingevo di dirigere nascosto sotto al pianoforte” Di Olga Chieffi & Francesco Ivan Ciampa Potremmo scambiarlo per il torero Escamillo, grazie al suo codino, se non fosse sul podio a dirigere o pronto per incrociare lo sguardo e il passo di una donna in un passionale
tango, ma l’ evocare e creare immagini, con fervido umore e sentimento, di una toponomastica dal magistero italiano che abbraccia musica, tradizione, sogni e nostalgie, proviene per intero dalla sua bacchetta, un mestiere di famiglia, quello della musica, della composizione e della direzione la scelta di Francesco Ivan Ciampa, figlio di Claudio direttore d’orchestra e già guida del Conservatorio Statale di Musica “Nicola Sala” di Benevento, compositore, musicista dalla vasta esperienza, importante punto di riferimento per la formazione dei giovani.Francesco ha preso il volo proprio dal nostro massimo, sicuramente uno dei più bei “lanci”, nel gotha della lirica internazionale, insieme a Maria Agresta, grazie al fiuto di Daniel Oren. Avremmo dovuto incontrarci tra fruste, “mollette”, bicchieri scintillanti e vino spumeggiante, muli e anelli, poichè Francesco avrebbe diretto Cavalleria Rusticana e Gianni Schicchi nella serata inaugurale della stagione lirica 2020, questa volta, gli cediamo la penna, per svolgere un compito affatto semplice, un “piacere misto”, lo definirebbe Aristotele, “pathico” , il compianto Aldo Masullo: scrivere del rapporto con suo padre, il suo primo Maestro.“Claudio Ciampa, mio padre – scrive Francesco – è la persona speciale della mia vita, colui che mi ha portato per mano, fin da piccolo nel mondo della Musica. Da bambino giocavo con le sue “miniature scores”, pensando fossero per me solo perchè piccole, lui suonava e io fingevo di dirigere nascosto sotto al pianoforte! Da sempre, e ancora oggi, è per me l’uomo del confronto, dello stimolo intellettivo e della riflessione. Anche in quarantena, a distanza, ci siamo confrontati e abbiamo argomentato sull’intero Ring wagneriano.Ricordo con estremo affetto e gioia un viaggio meraviglioso in auto. Papà era stato chiamato per dirigere le tre serenate per archi (Elgar, Dvorak, Tchaikovsky) sul lago di Como. All’epoca ero diciassettenne e in auto ascoltammo tre sinfonie di Mahler, ad alto volume: fu un viaggio dell’anima, dell’interiorità, attraverso quelle armonie che risultavano magiche alle mie orecchie. Lui mi guidava all’ascolto, mi faceva assaporare l’impasto sonoro e i mille colori
dell’orchestra. Esperienza che mi ha segnato profondamente. Al ritorno da Como, mi fece uno dei regali più belli mai ricevuti. Un concerto al San Carlo con i Berliner Philharmoniker diretti da Claudio Abbado: la VI sinfonia in La minore di Gustaav Mahler, poli dialettici intensità ed estensione, ritmo stringente e dilatazione, archi e sonorità anomale, che fanno di questo contrasto una pittura monumentale, all’interno della quale si spalancano luoghi di sofferta malinconia, di attesa celestiale. Teatro stracolmo, quando addirittura c’era la possibilità di assistere ai concerti in piedi in platea. Capii che tutto quel viaggio, tutta quella musica ascoltata in auto aveva un significato propedeutico per l’ascolto dal vivo. In quella occasione ho compreso per la prima volta l’importanza totale di assistere, vivere, respirare il teatro. Il suo significato profondo di purificazione dell’anima, l’importanza sociale, il momento di riflessione e di crescita dello spirito che solo un teatro può donare. E da allora che è diventato la mia casa, grazie a mio papà che mi ha trasmesso questi valori. Mai come in questo momento si sente ancora di più la necessità di riaprire i teatri e fare Musica. Posso asserire con assoluta sicurezza che alla riapertura tutti noi ci faremo accarezzare dall’arte in maniera differente. Cercheremo di assaporare la vita con più calma, con più consapevolezza. La privazione ha una forza incredibile in sé, ha la potenza della sete e della fame: quando manca realmente qualcosa, se ne percepisce l’importanza. Ma forse, la cosa più grande che mi ha insegnato mio padre, è la dignità. La vita non è stata facile per la mia famiglia, abbiamo vissuto momenti davvero molto, molto difficili, e purtroppo, continuiamo a viverli, ma la forza, l’energia e l’amore che quest’uomo ha messo in primo piano il suo silenzio di fronte al dolore, la dignità nell’affrontarlo, è veramente il testamento più straordinario che potessi ricevere. Ed è per questo che per me non è solo il papà, ma è diventato il mio mito, il mio supereroe”.
Voci dal Serraglio Luigi Brancaccio rubrica a cura di Olga Chieffi L’evaporazione della frutta La descrizione semplice di un mondo reale e fantastico insieme, in una calda estate salernitana del 1967, tra le mura dell’Orfanotrofio Umberto I di Salerno, non senza l’imprevisto che ogni sorte umana può racchiudere in sé Di LUIGI BRANCACCIO Erano finite le scuole. Io avevo ottenuto il diploma di tipocompositore-linotipista l’anno prima, e, diversamente da tutti gli altri compagni di classe che avevano lasciato l’Orfanotrofio, non avendo dove andare rimasi al “serraglio”. Erano cominciate le vacanze di quella lontana estate del 1967, la maggior parte dei ragazzi andava a casa. Non avendo più lo storico gruppo dei compagni di classe, i miei amici erano diventati, ma in parte alcuni già lo erano, quelli che, o andavano a casa più tardi o, come me, non ci andavano proprio. Alla scuola di musica ho avuto sempre buoni amici; alcuni andati via, che erano stati con me al collegio delle Battistine di Angri, da grandi sono diventati direttori d’orchestra o insegnanti. Nel 1966 c’erano ancora grandi amici come Giuseppe (Peppino) Faluri e Vittorio Valva. Proprio attraverso Peppino Faluri nelle mie amicizie era entrato anche un altro ragazzo della scuola di musica: Antonio (Tonino) Mottola, studiava la tromba, una testa matta, mai fermo. Dopo
la prima metà di luglio, erano rimasti in collegio una quarantina di ragazzi. Faluri non era ancora andato a casa, e con Mottola e qualche altro eravamo in quel periodo i più grandi presenti; con noi un paio di istitutori che si alternavano e che dopo cena, affidatemi le consegne, rincasavano; uno di sicuro era Antonio Gregorio, l’altro mi sembra fosse Vitale, che abitava proprio di fronte al “serraglio”. I giorni filavano più o meno lineari, col sole che picchiava e faceva restare buona parte del tempo in un’unica camerata, la seconda. Il dopocena era diventato l’assillo di Mottola. Tutto il giorno lo vedevo trafficare con attrezzi, ferri, chiavi, che non so dove prendesse. Il fatto che d’estate si cenasse presto proprio non lo sopportava. Quando alle 8 e mezzo o 9 di sera, dopo aver visto un po’ di televisione nella sala cinema, lasciavamo la guardia ad un altro dei ragazzi ringalluzzito per l’incarico, ce ne andavamo in camerata a giocare a scopa o a briscola io e lui; quasi mai completavamo le partite perché d’un tratto lui lasciava le carte e si alzava dicendo che aveva fame. «Gigino, vieni con me a prendere la frutta in dispensa?», fa una delle sere di fine luglio. Lo guardavo senza capire come mai quella domanda. «Se vieni con me mangiamo quello che non abbiamo mai mangiato», aggiunse. Passò la notte; arrivò il giorno dopo. La sera si mangiava alle 6, massimo 6 e mezzo; alle 7 si era già finito; il tempo che sistemassero tutto in cucina, stavamo un po’ in villetta, poi si andava a vedere la televisione. A quel tempo la dispensa dov’era stipato pane, scatolame, formaggi, pasta ed altro era governata da Suor Mafalda; non era cattiva ma tirchia: nemmeno se piangevi ti allungava una briciola. Poi, c’era la dispensa per la frutta in una stanza del refettorio che dava verso la galleria dove si manteneva fresca, a questa era addetta Suor Elda. La dispensa di Suor Mafalda era separata dalla cucina di Suor Elda dal corridoio che dal chiostro del Monumento ai Caduti portava alla villetta. La prima aveva la porta con una serratura grande e chiave a doppia mappa, l’altra una serratura Viro. La porta della
dispensa della frutta aveva, oltre alla serratura con la chiave a singola mappa, anche un lucchetto. La cucina di Suor Elda aveva altre due porte interne, una per anticucina di servizio e una che dava al refettorio, sempre aperte. Dopo quattro calci al pallone, svuotata la villetta, refettorio e cucina riordinati, suore ritirate, salutato l’istitutore Vitale, eravamo padroni del campo. Mottola mi fece lasciare il pallone in un angoletto della villetta; capii dopo. Non ricordo che programmi c’erano prima del telegiornale; la Tv era quella in bianco e nero, con due canali Rai. «Andiamo», sottovoce fa Mottola. Non è che fossi succube ma ero curioso. Tutto per me era un pretesto per non farmi pesare la solitudine di cui soffrivo per stare già da un anno senza i miei compagni. Passammo dall’interno alle scale delle camerate. «Aspettami giù in villetta», mi disse e dopo qualche minuto scese di corsa con ferri e chiavi in mano. Mi fece un cenno. Attraversammo il tratto di corridoio e arrivammo alla porta della cucina. «Mettiti più verso la portineria, tanto dalla villetta non viene nessuno, se senti qualcuno che viene da lì mettiti a cantare (lui così da dentro avrebbe capito) e fai finta che stai andando alla villetta a prendere il pallone». Sembrava avesse preparato un piano da chi sa quanto, e gli ordini che dava me lo confermavano. Mi allontanai; sentii armeggiare. Poco più di 10 minuti uscì con 5 pesche, 6-7 pere, una testa d’insalata e una decina di pomodori San Marzano raccolti in un asciugamano che si era messo dentro i pantaloni tenuti dalla cinta; l’aveva proprio studiato bene il piano. Riarmeggiò alla porta principale e mi chiamò a bassa voce: «Giggì, andiamo, andiamo». Lui era di una tranquillità serafica, pure se mi faceva segno di correre e sparire da lì il più presto possibile. Scappammo per le scale della villetta ed entrammo in camerata, che aveva una stanzetta tipo guardaroba, dove lui riversò sul tavolo d’appoggio ortaggi e frutta. Mottola era una continua sorpresa. Tirò fuori dal suo armadietto una boccetta d’olio, due scodelle, forchette, coltelli, bicchieri e un pacchetto di sale; di sicuro frutto di furtarelli perpetrati ai danni di Suor Elda nei giorni
precedenti. In piena tranquillità ci servimmo la prima cenetta extra. Ai primi di agosto ripetemmo l’azione. Mi disse di mettere sotto anch’io l’asciugamano, che gli passai quando tornai a fare la guardia. In tasca si era portato un’altra boccetta dove ci versò l’aceto che in cucina stava in una bottiglia più grande e con quella uscì con le mappatelle (gli asciugamani) piene di ciliegie, pesche, pere, pomodori, limoni, insalata, albicocche. Ne avemmo per due giorni ancora; consumare tutto in una sola sera era un po’ troppo per entrambi. «Tonino, ma come fai ad aprire quelle porte?», chiesi. Mi fece vedere pezzi di ferro di vario spessore e misure e una serie di chiavi di vario tipo che non capii mai come se le era procurate. «Gigino, dentro la dispensa della frutta ci sono dei cocomeri grossi, li dobbiamo prendere», se ne uscì una sera. «I cocomeri, quelli lunghi? Ma sei matto?, come facciamo?», risposi. «Sì, ma c’è Peppino che può stare con noi, se ci parli tu lui vedrai che dice di sì», lo diceva come fosse tutto semplice. Il terzo giorno facemmo un’altra sortita con lo stesso sistema. Tonino si era procurato scodella, bicchiere, forchetta e coltello anche per Peppino. Nessuno fino allora sapeva o si era accorto di nulla. Tornati i ragazzi dalla sala Tv — d’estate ci si poteva trattenere fino alla fine del programma serale — chiesi a Peppino se avesse fame. «Magari ci fosse qualcosa, ma chi te lo dà!», malinconicamente rispose. «Facciamo mettere a letto tutti quanti, poi giochiamo un po’ a carte nella stanzetta», non so come mi venne in mente dire questo. Così facemmo. Quando entrò nella stanza e vide apparecchiato, non credeva a quello che vedeva. «Ma come avete fatto?, dove l’avete presa questa roba?», domandava meravigliato. Mottola gli disse «Mangia e parla piano», e Peppino pensò solo a mangiare. Poi Mottola ci chiese se volevamo farci una mangiata di cocomero. Io sapevo già la sua intenzione e non mi scomposi, mentre Peppino
pensava che scherzasse. «Se ci stai anche tu, portiamo due federe», gli fece, «e domani ci facciamo una di quelle mangiate che la fettina di cocomero che ci danno la sera gliela possiamo anche far portare ai maiali che stanno su Canalone». Sopra Canalone, infatti, c’erano delle famiglie che allora avevano maiali e polli e con un camioncino periodicamente venivano a svuotare il pozzetto dei rifiuti di cibo che aveva una botola verso il basso della strada, sulla parete esterna del muraglione del “serraglio”, e una botola la cui apertura era a terra nel chioschetto antistante la villetta poco distante dalla cucina. Le due suore e le donne della cucina cercavano ogni modo, perfino offrendoci un po’ di pane o altro che normalmente ci negavano, per non avvicinarsi a quel pozzetto: dentro proliferavano topi di enormi dimensioni (le “pantegane”) che mettevano paura. Faluri aderì. La sera successiva, portati i ragazzi a vedere la televisione, raccomandato al solito investito da me del ruolo di caposcelto di non far uscire nessuno e di non fare chiasso, procedemmo. Stavolta era Faluri a fare la guardia. In villetta c’era sempre il pallone pronto. Avevamo le federe. Quando ho visto armeggiare da vicino il mio compagno con ferri e chiavi, mi sembrava di vedere delle scene di film o sceneggiati polizieschi che passavano in Tv; non so come facesse ad essere così abile e veloce ad aprire porte e lucchetto. Affacciatomi nella stanza della dispensa vidi tutta la frutta accatastata, però divisa in zone dove si potevano prendere a seconda del lato pere, mele, pesche, insalata, pomodori, ecc. Una metà di parete era occupata da 3-4 file di cocomeri, quelli lunghi, belli. Erano tanti, uno accatastato sull’altro per un’altezza di un metro e più. Vedendo quel ben di Dio dicevo tante male parole dentro di me pensando che ce ne davano solo una fettina la sera. Mottola ne mise un cocomero nella sua federa, io uno nella mia, e tutti e due aggiungemmo pesche, pomodori, insalata, ciliegie e pere. Tonino chiuse le porte con la stessa abilità con cui le aveva aperte, demmo voce a Peppino e scappammo verso la villetta abbassati più del solito per timore che potesse vederci Vitale che abitava di fronte.
Faluri, che era più alto e forte di me si caricò la mia federa colma. Arrivammo alla camerata, sistemammo una federa piena dietro un armadio che stava nella stanzetta-guardaroba, mettemmo l’altra sul tavolo e cominciammo a tagliare e a dividerci il cocomero alla meglio, mangiandocene una buona metà. Le altre sere proseguimmo con i pasti serali extra a base di frutta, insalata e pomodori, e ovviamente con l’altra metà di cocomero e l’altro intero, fino a saziarci. Tonino Mottola non si accontentava. Riuscì a fare un capolavoro. Una di quelle sere era riuscito ad aprire anche la porta della dispensa di Suor Mafalda, e integrammo il tutto con una scatoletta di tonno, quelle scatolette grandi con i tranci di tonno bello polposo e due scatole grosse di Simmental, quelle di una volta. Alla nostra meraviglia disse di stare tranquili, che la monaca non se ne sarebbe accorta; non ne dubitavo, sarebbe stato capace di farla sotto il naso di San Pietro o Lucifero se fosse andato dall’uno all’altro a seconda che lo assolvessero o condannassero. Ma, come ogni cosa, pure queste scorrerie ebbero fine, ed in modo del tutto stupido. Con la complicità di Faluri eravamo riusciti a passare tutto agosto mangiando a sbafo la sera. Mancavano un paio di giorni a settembre, il “serraglio” si sarebbe a breve rianimato con le varie attività (tipografia, musica, meccanica, ecc.) e col ritorno dei ragazzi anche per gli esami di riparazione. Dopo cena solita strategia, facemmo razzia di un cocomero e di tutta l’altra frutta che potevamo mettere nell’unica federa che ci eravamo portati, poi, nella risalita alla camerata, non so come a Mottola gli balenò in testa: «Giggì, andiamo alla scuola di musica a mangiare il cocomero». Provai a rispondergli «No, come si fa?, ci sono altre porte, è pericoloso, no, no». Ma lui sicuro, «Peppino», rivolgendosi a Faluri, «tu guarda se sale qualcuno dalla villetta, tu Gigino guarda chi viene dal chiostro». Mi allontanai lungo il corridoio che fronteggiava la grande porta
principale della scuola di musica, «Venite, venite», sentii di lontano. L’aveva aperta. Do voce a Peppino sotto e tutti e tre entrammo alla terza o quarta aula dove solfeggiavano, se non ricordo male, i clarinettisti; aveva aperto ovviamente anche quella. Mangiammo quasi tutto il cocomero, poi provai a rimettere le scorze dentro la federa dove c’era l’altra frutta trafugata. «Lascia stare, non ti preoccupare, domani mattina pulisco io», fece Mottola. «Puliamo adesso, che ci costa?», replicai. Niente da fare. Sul tavolo rimasero scorze e semi. Chiuse a chiave le due porte che aveva aperto e tornammo in camerata, dove poi rientrarono anche i ragazzi che avevano finito di vedere la televisione, che ci trovarono, come da strategia, a giocare a carte o a struscio con le figurine Panini su uno dei tanti letti liberi della seconda camerata. La mattina, intorno alle 10, era l’ultimo giorno di agosto, mentre stavamo giocando tutti in villetta, ci sentimmo chiamare in radunata nel chiostro del Monumento ai Caduti. C’erano Gregorio e Vitale, sempre se il ricordo è giusto, e con loro Suor Elda e Suor Mafalda. Con rabbia isterica di chi non trova ragione ad un qualche torto, furono proprio le suore a esplodere: «Chi è stato il ladro che ha rubato i cocomeri ed è andato a mangiare alla scuola di musica?, come avete fatto rubarli?, chi vi ha dato le chiavi? ladri, ladri!». Loro pensavano che ci fosse stata la complicità di qualcuna della cucina. Gregorio più diplomatico, «Ragazzi, Suor Elda e Suor Mafalda dicono che è stata rubata tutta la frutta nella dispensa in questi giorni, chi ha mangiato il cocomero nella scuola di musica lo dicesse se no vi faccio punire tutti quanti». Io per il fatto che non ero della scuola di musica non ricordo tutti i nomi di tanti ragazzi, istitutori e maestri, ma penso che fosse un certo Guadagno, non so se bidello o maestro, che invece di riprendere servizio il primo giorno di settembre aveva imprevedibilmente anticipato a quella mattina le operazioni di controllo e sistemazione delle aule. Ovviamente, alla vista dei resti della bisboccia da parte di ignoti è scoppiato il putiferio. «Ragazzi, allora?», sollecitava Gregorio, mentre Suor Elda pareva la più
imbufalita: «Come hanno fatto ad aprire, come hanno fatto, questi ladri, delinquenti!». Anche Suor Mafalda però non era da meno nel lamentare che pure alla sua dispensa mancava qualcosa. I ragazzi erano i più sorpresi, ma più di uno rideva per la sottile vendetta provata nel pensare che qualcuno finalmente l’aveva fatta pagare a quelle megere, tirchie. «E tu Gigino», si rivolse a me Gregorio, «non hai visto niente, non sai niente?». «No professore», risposi io, mantenendo la formalità davanti ai ragazzi, benché con Gregorio avessi un buon rapporto confidenziale. «Può essere che i ladri sono venuti da dietro», aggiunsi con un certo convincimento; in effetti la cosa non si poteva escludere: dalla parte esterna della galleria c’era qualche varco per possibili estranei, anche se da lì ci ho visto infilarcisi solo gatti randagi. «E tu Faluri?, tu Mottola?, che mi dite?». Ci furono due dinieghi. «Allora dovrò fare un rapporto con tutti i vostri nomi e mettervi in punizione», chiuse Gregorio. Suor Elda non si dava pace; qualcuno aveva violato il suo regno, sbuffava, sbraitava, quasi avessero violentato lei fisicamente: «Ecco perché vedevo le pesche scendevano, e i meloni sempre più bassi»; si riferiva al livello. «Ma come hanno fatto, come!, chi gli ha dato le chiavi!, chi è stato questo delinquente!, lo devono cacciare fuori il ladro!». Non so se fu quella comica disperazione della monaca a far scoppiare a ridere anche Gregorio e l’altro istitutore che gli stava a fianco. «Stasera senza televisione, e luci spente alle 9, avete sentito?», fu a dire Gregorio riprendendo il tono serioso che il ruolo gli imponeva. Credo che Suor Elda e Suor Mafalda fossero poco soddisfatte, ma se ne tornarono chi in cucina chi in dispensa a dare ordini alle povere inservienti che quella giornata di sicuro non l’avrebbero passata tranquilla per i sospetti di complicità che nutrivano su di loro. Dopo un’ora e più di ramanzina e minacce di sanzioni varie, fummo rimandati in camerata. Io ebbi l’ordine di non far alzare nessuno dal letto fino a che non ci avessero chiamato per pranzo, e quello feci. Andai nella stanzetta-guardaroba come a sistemare qualcosa; chiesi a Mottola e Faluri di venirmi a dare una mano
a spostare il tavolo. «Ti darei un cazzotto, hai visto per non darmi retta che hai combinato?», a tono basso dissi a Mottola. Peppino si conteneva dalle risa. «Non ti far scoprire con tutti i ferri e le chiavi, Tonino, se no passi i guai», dissi a Mottola. Quello, con sfacciataggine, «Stasera no, manco domani, ma dopodomani ci mangiamo il resto della frutta che abbiamo?». Non potemmo ridere forte, però per cercare pure io di mantenere una certa formalità, alzando il tono, «Grazie, andate a letto pure voi e non vi alzate fino a che non chiamano». Non eravamo andati in vacanza, non ne avevamo le possibilità, e questo ha certamente influito nel lasciare sbollire la rabbia delle due suore e nel non subire altre punizioni. Di lì a poco ebbi una chiamata di lavoro a Campobasso. Fu proprio Gregorio a darmene notizia e mentre mi apprestavo a lasciare il “serraglio” mi venne ad accompagnare al portone di uscita. Io piangevo perché sentivo di lasciare la mia sola casa che conoscevo. Mi prese sotto braccio e mi disse l: «Ora sei un uomo che deve andare per la sua strada». E riuscì a farmi sentire meno amaro il distacco quando mi disse: «Adesso che vai via una risposta me la devi dare: chi è stato a rubare la frutta e a mangiare nella scuola di musica? Me lo dici?». Lui sapeva che io sapessi. «Gregorio», gli risposi, «a me hanno voluto bene tutti i ragazzi, anche se sapessi che è stato uno di loro io non li tradirei mai, i miei fratelli erano loro, e adesso li sto lasciando tutti per sempre». Ripresi a piangere. «Gigino», finì per dire, «sono contento che te ne vai, se no fai mettere a piangere anche me. Buona fortuna». Rita Martino: una laurea da
“remoto” La pandemia ha tolto alla neo-dottoressa in giurisprudenza il piacere e l’applauso dell’Aula magna, l’attendono aule di ben altra caratura e confronto, dopo questa prima tappa verso il sogno della carriera in magistratura Una disciplina ferrea, sin dalla prima seduta in un banco di scuola ha permesso alla vietrese Rita Martino, di laurearsi brillantemente in giurisprudenza, presso il nostro ateneo, con una tesi dal titolo “ Reati di maggior allarme sociale e accertamento garantito: la comparazione tra diversi sistemi processuali nei fenomeni di criminalità organizzata”, sotto la guida del chiarissimo professore Gaspare Dalia. Il lavoro rappresenta una disamina di quelli che sono stati gli interventi legislativi, ritenuti più significativi, in tema di criminalità organizzata e più specificamente di quella mafiosa. Gran parte del lavoro si incentra sulla comparazione. La disciplina, infatti, viene approfondita anche nell’ ambito del sistema processuale penale spagnolo ed è il frutto di quanto Rita ha appreso e acquisito nel corso del progetto Erasmus e presso l’Universidad de Zaragoza. Ulteriori percorsi di comparazione, poi, guardano oltre oceano è più precisamente vengono analizzate le realtà del Sud America (Brasile, Colombia, Argentina); le lacune legislative dell’ordinamento francese a riguardo;il RICO Act, acronimo di Racketeer influenced and corrupt organizations act, ovvero la prima legislazione antimafia degli Stati Uniti. “Iscrivermi a giurisprudenza – ha dichiarato la dr.ssa Rita Martino – è stata una scelta consapevole e sopratttutto voluta. Non può solo piacere, vi assicuro che serve un amore davvero forte. Sin dai primi anni del liceo ho sentito l’esigenza di dare il mio contributo nella società. Esigenza che poi, per mia fortuna, si è trasformata in realtà quando sono stata eletta rappresentante di istituto per me due anni. Ad oggi posso dire che il diritto è il mio pane quotidiano e il mio desiderio più
grande è quello di poter diventare un magistrato. Sicuramente non era questo il finale che immaginavo ma era inevitabile in quanto l’emergenza coronavirus ha cambiato, e continua a cambiare, la vita di ognuno di noi. Dopo la dichiarazione di emergenza nazionale da parte del Presidente del consiglio, Giuseppe Conte, avevo già capito che qualcosa sarebbe cambiato. E così è stato. Oggi ho discusso la mia tesi in casa, dinanzi al mio computer, circondata dalle persone a me più care ovvero mia madre, mio padre e mia sorella. Mentirei se dicessi che non desideravo altro: avrei voluto vedere i miei nonni, i miei zii, cugini, amici ma per il momento non possiamo fare altro che aspettare giorni migliori e dare il nostro contributo in qualità di cittadini responsabili e rispettosi. Nonostante tutto ho avvertito in queste giornate, il calore e la vicinanza da parte di molte persone il che mi rende più che mai felice. È stata un’emozione nuova, inedita; un momento diversamente emozionante ma ugualmente soddisfacente. Sono pronta ad iniziare un nuovo percorso formativo in cui le conoscenze teoriche acquisite nei cinque anni di università si trasformeranno in esperienza concreta, ma nel frattempo mi godo il mio momento. Sí “mio” perché nessuno mi ha mai regalato niente, è tutta farina nel mio sacco. A questo punto, Ii ringraziamenti sono doverosi: in primis, il prof.re Gaspare Dalia nonché relatore della mia tesi e fonte inesauribile di conoscenza e sapere. Oltre ad avermi seguita e guidata nella stesura di questo lavoro, mi ha trasmesso la passione e l’entusiasmo necessari per il prosieguo. Ringrazio di cuore la mia famiglia: mio padre Marco e mia madre Gerardina, per avermi sempre sostenuta e per avermi concesso di portare a termine i miei studi anche attraverso esperienze extra (Erasmus e ricerca tesi all’estero); mia sorella Manuela, per essermi stata accanto nei momenti di sconforto e per aver compreso i miei (continui) sbalzi di umore. Un ringraziamento speciale va, infine, a tutti i miei amici e alla mie amiche con i quali ho condiviso, da sempre, gioie, lacrime, sacrifici e successi. Non mi hanno mai voltato le spalle”. Se la pandemia ha tolto a Rita
Martino, il gusto della discussione, della proclamazione, dell’applauso, dell’abbraccio degli amici, in Aula Magna, ben altre aule attenderanno la neo-dottoressa, pronta ad irrompere con nuova determinazione e consapevolezza nella vita, a cacca del sogno di indossare la toga da magistrato. In questo percorso del quale ieri abbiamo festeggiato la prima tappa l’accompagnino gli auguri di Olga, Tonino e Zia Laura e dell’intera redazione di Le Cronache.
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