Con lo sguardo alle lotte del I Maggio

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Con lo sguardo alle lotte del
I Maggio
La risposta a questa cruciale domanda dipende dal grado di
intelligenza, di passione, di speranza e di solidarietà che
sapremo infondere alle nostre scelte e alle nostre azioni.

Di Alessia Potecchi

La festa del 1° maggio, il Natale dei lavoratori nasce il 20
luglio 1889, a Parigi. A lanciare l’idea è il congresso della
Seconda Internazionale Socialista riunito in quei giorni nella
capitale francese per organizzare simultaneamente in tutti i
paesi del mondo una manifestazione per portare la giornata
lavorativa a otto ore. La scelta cade sul 1 maggio. Una scelta
simbolica: tre anni prima, infatti, il 1 maggio 1886, una
grande manifestazione operaia svoltasi a Chicago, era stata
repressa nel sangue. Si tratta all’inizio solo di una audace
scommessa dall’esito quanto mai incerto per la mancanza di un
unico centro coordinatore a livello nazionale; il Partito
Socialista e la Confederazione Generale del Lavoro sono di là
da venire e la garanzia di una opportuna organizzazione sembra
alquanto difficile. Non si sa poi in che misura i lavoratori
saranno disposti a scendere in piazza per rivendicare un
obiettivo, quello delle otto ore giornaliere di lavoro o per
testimoniare semplicemente una solidarietà internazionale di
classe.
Proprio per questo la straordinaria riuscita del 1 maggio 1890
costituisce una felice sorpresa, un salto di qualità del
movimento dei lavoratori che per la prima volta dà vita ad una
mobilitazione su scala nazionale, per di più collegata ad
un’iniziativa di carattere internazionale. Visto il successo
di quella che avrebbe dovuto essere una manifestazione
episodica viene deciso di replicarla l’anno successivo. Il 1
maggio 1891 conferma la straordinaria partecipazione di uomini
e donne a quell’appuntamento caratterizzato da una forte
tensione ideale. La Seconda Internazionale dei movimenti e
delle organizzazioni socialiste decide di rendere permanente
quella che, da lì in avanti, dovrà essere la “festa dei
lavoratori in tutti i paesi”. Inizia così la tradizione del 1
maggio, un appuntamento al quale il movimento dei lavoratori
si prepara con sempre minore improvvisazione e con grande e
crescente consapevolezza conscio della sua forza e convinto
portatore dei valori della solidarietà e della unità.
L’obiettivo originario delle otto ore viene arricchito con
altri obiettivi: la salute, la tutela del lavoro femminile e
minorile, le riforme politiche e sociali. Durante il fascismo
la festa del lavoro viene soppressa e sostituita con quella
del 21 aprile per celebrare l’anniversario della fondazione di
Roma ( il cosiddetto Natale di Roma) Il 1 maggio diventa
clandestino in Italia divenendo una coraggiosa occasione per
esprimere in forme diverse – dal garofano rosso all’occhiello
alle scritte sui muri – l’opposizione al regime fascista. Gli
antifascisti esuli all’estero mantengono viva la tradizione:
grande è il ruolo di Bruno Buozzi Segretario Generale della
Cgil in esilio a Parigi. All’indomani della Liberazione, il 1
maggio 1945, partigiani e lavoratori, anziani militanti e
giovani che non hanno memoria della festa del lavoro, si
ritrovano insieme nelle piazze d’Italia in un clima di
entusiasmo. A Rovigo il comizio del 1 maggio è tenuto da
Sandro Pertini che lo dedica a Matteotti: “…Giacomo, siamo
tornati, abbiamo mantenuto gli impegni, abbiamo sconfitto e
annientato il fascismo, abbiamo riconquistato la
libertà…..”. Oggi più che mai sentiamo vivo il sentimento e il
significato del primo maggio che la storia ci consegna.
Viviamo in un momento terribile, viviamo in un tempo che
nessuno si sarebbe mai aspettato o immaginato, viviamo sospesi
rinunciando alle nostre abitudini, alla nostra quotidianità,
alle nostre relazioni e ai nostri affetti.      Ci attende un
periodo molto difficile, a causa del Coronavirus, un nemico
insidioso, sconosciuto, pericoloso. Si moltiplicano l’ansia,
la paura, l’insicurezza, la solitudine. A questo si aggiunge
una grave crisi economica che questa pandemia ha provocato con
conseguenze gravi sull’occupazione, sulle condizioni
economiche dei lavoratori costretti in questi mesi alla cassa
integrazione con il fondato timore di una crescente
disoccupazione. Si diffonde il naturale sentimento di tornare
rapidamente a come eravamo. Ma non sarà così: forse è
esagerato dire che nulla sarà come prima, certamente una buona
parte dei nostri modelli di vita andranno ripensati. Saremo
semplicemente diversi o anche migliori? La risposta a questa
cruciale domanda dipende dal grado di intelligenza, di
passione, di speranza e di solidarietà che sapremo infondere
alle nostre scelte e alle nostre azioni. Occorre ripartire
con coraggio e determinazione per ridurre gli squilibri,
accorciare i divari, mettere in campo tutte le risorse
disponibili. Bisogna affrontare l’emergenza con il dialogo fra
i partiti, le parti sociali, sindacati e imprese             È
indispensabile che le istituzioni riescano a governare la
transizione evitando le conseguenze; soprattutto quelle di
riduzione del lavoro, di compressione dei salari e, dunque, di
ulteriori diseguaglianze. Al centro di questo quadro c’è il
lavoro, che oggi più che mai significa ripartenza, speranza,
fiducia nel futuro, lotta per preservare la qualità della vita
perché il lavoro rappresenta la più alta espressione della
personalità e della professionalità di ciascuno di noi per
trovare in questa società una realizzazione.       Il 1
maggio testimonia il ruolo decisivo dei lavoratori nella
coraggiosa lotta di liberazione dal nazifascismo quando si
scioperava per affermare la libertà e la democrazia; quando si
presidiavano le stesse fabbriche che volevano dire pane e
sopravvivenza per un popolo che stava subendo i disastri della
guerra e della dittatura. Il primo maggio ha il volto di
grandi sindacalisti, Di Vittorio, Bruno Buozzi, Achille Grandi
e venendo più vicino a noi Lama, Carniti e Benvenuto che hanno
fatto la storia delle organizzazioni sindacali. Noi, che oggi
viviamo questo tempo inusuale, dobbiamo guardare alla festa
del lavoratori con i messaggi, le parole, le azioni che questa
ricorrenza porta con sé e da qui trarre nuova linfa come
fecero tanto tempo fa i lavoratori che chiedevano condizioni
dignitose per rialzarci e ricostruire. Il primo maggio ci
porta ancora indietro nel tempo, alle rivendicazioni che sono
state alla base dell’emancipazione delle tante lavoratrici e
tanti lavoratori che hanno lottato per ottenere condizioni
dignitose. La storia del primo maggio ci rassicura e ci
sprona: non dobbiamo rassegnarci, non dobbiamo avere paura,
non dobbiamo considerarci dei vinti. Occorre reagire, agire,
progettare, pensare, proporre. Come ieri anche oggi l’unità,
la sinergia, la solidarietà, il dialogo saranno i valori guida
per uscire da questo tunnel in cui ci troviamo per vedere una
luce che sarà ancora più forte e chiara di prima. Se saremo
capaci di passare dalla protesta alla proposta, se sapremo
rimboccarci le maniche, se faremo prevalere la solidarietà e
l’unità sull’individualismo e la frammentazione potremo
costruire il futuro senza timore. Viva il primo maggio!

Responsabile Dipartimento Banche, Fisco e Finanza del PD
Milano Metropolitana

Gianni Penna: “Nessuno                                   mi
toglierà mai la voglia                                   di
fare musica”
Round Midnight è uno degli standard più intensi del jazz
moderno, e il suo locale prende il nome proprio da questa
pagina. La “mezzanotte circa” è quell’ora magica, che ogni
jazzofilo conosce, attorno alla quale in ogni jazz club si
celebra il rito di una musica particolare, quella che si gioca
sull’azzardo e il piacere di suonare

Di Lucia D’Agostino

“Nessuno mi toglierà mai la voglia di fare musica in generale,
e jazz in particolare!”. Si conclude così la piacevole
chiacchierata con Gianni Penna, proprietario dello storico
jazz club di Fisciano “Roundmidnight”; una conversazione
telefonica nata per fare il punto sulla situazione post
emergenza coronavirus quando inizierà la cosiddetta “Fase2” e
chi si occupa di cultura, arte, musica e spettacoli dovrà fare
i conti con il distanziamento fisico, i dispositivi di
protezione e il cambiamento delle nostre abitudini soprattutto
in fatto di fruizione culturale in società. Il locale di
Penna, siciliano di nascita, nasce nel 2001 quando decide di
trasferirsi a Fisciano dopo un decennio trascorso a Salerno
città nella sua abitazione di Sala Abbagnano dove già aveva
rodato, con un amico, l’organizzazione di feste musicali nel
salotto di casa. Se gli chiedi da quando ha la passione per la
musica ti risponde che è nata con lui e ricorda anche il primo
vero episodio di folgorazione musicale per un genere, il jazz,
un po’ diverso dal pop-rock che a 14-15 anni frequentava: “con
alcuni amici coetanei avevamo messo su un gruppo, io ero il
batterista, che suonava canzoni dei Beatles e il cugino del
bassista, un contrabbassista più grande, ci fece ascoltare da
un registratore a bobine “Sweet Georgia Brown” (classico
standard del jazz n.d.r): una folgorazione”. E così al
“Roundmidnight”, in quasi vent’anni, sono passati artisti
internazionali del calibro di Al Foster, Eddie Gomez, Billy
Hart, Oracio “El Negro” Hernandez, e jazzisti italiani
amatissimi nel mondo come Dado Moroni, Danilo Rea, Roberto
Gatto solo per citarne alcuni, a parte i rappresentanti delle
scuole jazz salernitana e napoletana.

Gianni, come hai vissuto, e vivi ancora, questo periodo di
isolamento forzato ma necessario, sia come uomo che come
proprietario di un locale di jazz?
Sono uno spirito libero, ho girato il mondo per lavoro (ha
lavorato per la Pirelli n.d.r.) e per diletto e non è stata e
non è un’esperienza facile. Ho però la fortuna di vivere in
una casa grande, che si trova sopra al locale, con degli spazi
aperti e posso dire di essere fortunato rispetto ad altri che,
magari, vivono in condizioni più anguste. La quarantena mi
pesa da un punto di vista affettivo perché in Sicilia vivono
mia sorella, i miei nipoti e pronipoti, che non vedo da due
mesi. Come proprietario provo una grandissima amarezza perché
questa stagione era iniziata in modo fantastico, con un
riscontro di pubblico mai visto prima, persone che non erano
mai venute ai concerti e che per la prima volta si sono
avvicinate alla mia proposta musicale. Uno choc vero proprio,
che ha interrotto una serie di appuntamenti di alto livello,
con un ottimo riscontro anche da parte della critica. Un vero
peccato! C’è amarezza per la programmazione fino ad aprile che
è saltata, e per quella di maggio in preparazione che pure
avrebbe coinvolto bei nomi del jazz.

Come si prospetta la riapertura? Hai pensato in questo periodo
a qualche soluzione alternativa?

Male. Le associazioni culturali, come la mia, non hanno ancora
ricevuto direttive in merito e la stagione può considerarsi
conclusa. Riguardo all’estate, fino a quando non riceveremo
delle disposizioni, non sarà possibile organizzarsi
anticipatamente. Una cosa è certa, gli artisti stranieri non
potranno venire in Italia quindi, nel caso, si dovrà pensare a
musicisti italiani, qualora fosse consentito spostarsi da una
regione all’altra, o solo a quelli locali, che va bene se
avessimo punti di riferimento su come proseguire,
eventualmente. Proprio per la stagione estiva avevo già
pensato di portare i miei concerti in una location di mare nel
Cilento con ospiti americani, argentini, giapponesi. Vedremo
se e come riadattare questa idea ai cambiamenti di prospettiva
post quarantena.

E per l’autunno?
Va innanzitutto, come già dicevo prima, sbloccata l’apertura
delle associazioni con dei permessi ad hoc visto che, non
trattandosi di locali pubblici veri e propri, hanno una
normativa diversa. Ad ora non c’è niente in merito, speriamo
se ne ricordino. Quanto alla ripresa del locale al chiuso, non
essendo il mio grandissimo, per rispettare il distanziamento
si potrebbe pensare di dividere un concerto in due set, uno
alle 20 e l’altro alle 22, ciascuno con massimo 40 persone. Il
problema sarebbe il palco, anche quello non enorme, dove per
rispettare la distanza tra musicisti dovrei limitarmi, ad
esempio, ad ospitare un trio. Insomma la questione è come
riaprire, perché, per quel che mi riguarda, non abbandono. La
mia passione per la musica è fortissima.

Figli d’arte: Francesco Ivan
Ciampa

              Francesco Ivan Ciampa: una bacchetta per due

E’ il figlio d’arte di papà Claudio, direttore d’orchestra e
direttore emerito del Conservatorio Statale di Musica “Nicola
Sala”. “Da bambino giocavo con le sue “miniature scores”,
pensando fossero per me perchè piccole, lui suonava e io
fingevo di dirigere nascosto sotto al pianoforte”

Di Olga Chieffi & Francesco Ivan Ciampa

Potremmo scambiarlo per il torero Escamillo, grazie al suo
codino, se non fosse sul podio a dirigere o pronto per
incrociare lo sguardo e il passo di una donna in un passionale
tango, ma l’ evocare e creare immagini, con fervido umore e
sentimento, di una toponomastica dal magistero italiano che
abbraccia musica, tradizione, sogni e nostalgie, proviene per
intero dalla sua bacchetta, un mestiere di famiglia, quello
della musica, della composizione e della direzione la scelta
di Francesco Ivan Ciampa, figlio di Claudio direttore
d’orchestra e già guida del Conservatorio Statale di Musica
“Nicola Sala” di Benevento, compositore, musicista dalla vasta
esperienza, importante punto di riferimento per la formazione
dei giovani.Francesco ha preso il volo proprio dal nostro
massimo, sicuramente uno dei più bei “lanci”, nel gotha della
lirica internazionale, insieme a Maria Agresta, grazie al
fiuto di Daniel Oren. Avremmo dovuto incontrarci tra fruste,
“mollette”, bicchieri scintillanti e vino spumeggiante, muli e
anelli, poichè Francesco avrebbe diretto Cavalleria Rusticana
e Gianni Schicchi nella serata inaugurale della stagione
lirica 2020, questa volta, gli cediamo la penna, per svolgere
un compito affatto semplice, un “piacere misto”, lo
definirebbe Aristotele, “pathico” , il compianto Aldo Masullo:
scrivere del rapporto con suo padre, il suo primo
Maestro.“Claudio Ciampa, mio padre – scrive Francesco – è la
persona speciale della mia vita, colui che mi ha portato per
mano, fin da piccolo nel mondo della Musica. Da bambino
giocavo con le sue “miniature scores”, pensando fossero per me
solo perchè piccole, lui suonava e io fingevo di dirigere
nascosto sotto al pianoforte! Da sempre, e ancora oggi, è per
me l’uomo del confronto, dello stimolo intellettivo e della
riflessione. Anche in quarantena, a distanza, ci siamo
confrontati e abbiamo argomentato sull’intero Ring
wagneriano.Ricordo con estremo affetto e gioia un viaggio
meraviglioso in auto. Papà era stato chiamato per dirigere le
tre serenate per archi (Elgar, Dvorak, Tchaikovsky) sul lago
di Como. All’epoca ero diciassettenne e in auto ascoltammo tre
sinfonie di Mahler, ad alto volume: fu un viaggio dell’anima,
dell’interiorità, attraverso quelle armonie che risultavano
magiche alle mie orecchie. Lui mi guidava all’ascolto, mi
faceva assaporare l’impasto sonoro e i mille colori
dell’orchestra. Esperienza che mi ha segnato profondamente. Al
ritorno da Como, mi fece uno dei regali più belli mai
ricevuti. Un concerto al San Carlo con i Berliner
Philharmoniker diretti da Claudio Abbado: la VI sinfonia in
La minore di Gustaav Mahler, poli dialettici intensità ed
estensione, ritmo stringente e dilatazione, archi e sonorità
anomale, che fanno di questo contrasto una pittura
monumentale, all’interno della quale si spalancano luoghi di
sofferta malinconia, di attesa celestiale. Teatro stracolmo,
quando addirittura c’era la possibilità di assistere ai
concerti in piedi in platea. Capii che tutto quel viaggio,
tutta quella musica ascoltata in auto aveva un significato
propedeutico per l’ascolto dal vivo. In quella occasione ho
compreso per la prima volta l’importanza totale di assistere,
vivere, respirare il teatro. Il suo significato profondo di
purificazione dell’anima, l’importanza sociale, il momento di
riflessione e di crescita dello spirito che solo un teatro può
donare. E da allora che è diventato la mia casa, grazie a mio
papà che mi ha trasmesso questi valori. Mai come in questo
momento si sente ancora di più la necessità di riaprire i
teatri e fare Musica. Posso asserire con assoluta sicurezza
che alla riapertura tutti noi ci faremo accarezzare dall’arte
in maniera differente. Cercheremo di assaporare la vita con
più calma, con più consapevolezza. La privazione ha una forza
incredibile in sé, ha la potenza della sete e della fame:
quando manca realmente qualcosa, se ne percepisce
l’importanza. Ma forse, la cosa più grande che mi ha insegnato
mio padre, è la dignità. La vita non è stata facile per la mia
famiglia, abbiamo vissuto momenti davvero molto, molto
difficili, e purtroppo, continuiamo a viverli, ma la forza,
l’energia e l’amore che quest’uomo ha messo in primo piano il
suo silenzio di fronte al dolore, la dignità nell’affrontarlo,
è veramente il testamento più straordinario che potessi
ricevere. Ed è per questo che per me non è solo il papà, ma è
diventato il mio mito, il mio supereroe”.
Voci dal Serraglio Luigi
Brancaccio rubrica a cura di
Olga Chieffi

       L’evaporazione della frutta
La descrizione semplice di un mondo reale e fantastico
insieme, in una calda estate salernitana del 1967, tra le mura
dell’Orfanotrofio Umberto I di Salerno, non senza l’imprevisto
che ogni sorte umana può racchiudere in sé

Di LUIGI BRANCACCIO

 Erano finite le scuole. Io avevo ottenuto il diploma di
tipocompositore-linotipista l’anno prima, e, diversamente da
tutti gli altri compagni di classe che avevano lasciato
l’Orfanotrofio, non avendo dove andare rimasi al “serraglio”.
Erano cominciate le vacanze di quella lontana estate del 1967,
la maggior parte dei ragazzi andava a casa. Non avendo più lo
storico gruppo dei compagni di classe, i miei amici erano
diventati, ma in parte alcuni già lo erano, quelli che, o
andavano a casa più tardi o, come me, non ci andavano
proprio. Alla scuola di musica ho avuto sempre buoni amici;
alcuni andati via, che erano stati con me al collegio delle
Battistine di Angri, da grandi sono diventati direttori
d’orchestra o insegnanti. Nel 1966 c’erano ancora grandi amici
come Giuseppe (Peppino) Faluri e Vittorio Valva. Proprio
attraverso Peppino Faluri nelle mie amicizie era entrato anche
un altro ragazzo della scuola di musica: Antonio (Tonino)
Mottola, studiava la tromba, una testa matta, mai fermo. Dopo
la prima metà di luglio, erano rimasti in collegio una
quarantina di ragazzi. Faluri non era ancora andato a casa, e
con Mottola e qualche altro eravamo in quel periodo i più
grandi presenti; con noi un paio di istitutori che si
alternavano e che dopo cena, affidatemi le consegne,
rincasavano; uno di sicuro era Antonio Gregorio, l’altro mi
sembra fosse Vitale, che abitava proprio di fronte al
“serraglio”. I giorni filavano più o meno lineari, col sole
che picchiava e faceva restare buona parte del tempo in
un’unica camerata, la seconda. Il dopocena era diventato
l’assillo di Mottola. Tutto il giorno lo vedevo trafficare con
attrezzi, ferri, chiavi, che non so dove prendesse. Il fatto
che d’estate si cenasse presto proprio non lo
sopportava. Quando alle 8 e mezzo o 9 di sera, dopo aver visto
un po’ di televisione nella sala cinema, lasciavamo la guardia
ad un altro dei ragazzi ringalluzzito per l’incarico, ce ne
andavamo in camerata a giocare a scopa o a briscola io e lui;
quasi mai completavamo le partite perché d’un tratto lui
lasciava le carte e si alzava dicendo che aveva
fame.   «Gigino, vieni con me a prendere la frutta in
dispensa?», fa una delle sere di fine luglio. Lo guardavo
senza capire come mai quella domanda. «Se vieni con me
mangiamo quello che non abbiamo mai mangiato»,
aggiunse. Passò la notte; arrivò il giorno dopo. La sera si
mangiava alle 6, massimo 6 e mezzo; alle 7 si era già finito;
il tempo che sistemassero tutto in cucina, stavamo un po’ in
villetta, poi si andava a vedere la televisione. A quel tempo
la dispensa dov’era stipato pane, scatolame, formaggi, pasta
ed altro era governata da Suor Mafalda; non era cattiva ma
tirchia: nemmeno se piangevi ti allungava una briciola. Poi,
c’era la dispensa per la frutta in una stanza del refettorio
che dava verso la galleria dove si manteneva fresca, a questa
era addetta Suor Elda. La dispensa di Suor Mafalda era
separata dalla cucina di Suor Elda dal corridoio che dal
chiostro del Monumento ai Caduti portava alla villetta. La
prima aveva la porta con una serratura grande e chiave a
doppia mappa, l’altra una serratura Viro. La porta della
dispensa della frutta aveva, oltre alla serratura con la
chiave a singola mappa, anche un lucchetto. La cucina di Suor
Elda aveva altre due porte interne, una per anticucina di
servizio e una che dava al refettorio, sempre aperte. Dopo
quattro calci al pallone, svuotata la villetta, refettorio e
cucina riordinati, suore ritirate, salutato l’istitutore
Vitale, eravamo padroni del campo. Mottola mi fece lasciare il
pallone in un angoletto della villetta; capii dopo. Non
ricordo che programmi c’erano prima del telegiornale; la Tv
era quella in bianco e nero, con due canali Rai. «Andiamo»,
sottovoce fa Mottola. Non è che fossi succube ma ero curioso.
Tutto per me era un pretesto per non farmi pesare la
solitudine di cui soffrivo per stare già da un anno senza i
miei compagni. Passammo dall’interno alle scale delle
camerate. «Aspettami giù in villetta», mi disse e dopo qualche
minuto scese di corsa con ferri e chiavi in mano. Mi fece un
cenno. Attraversammo il tratto di corridoio e arrivammo alla
porta della cucina. «Mettiti più verso la portineria, tanto
dalla villetta non viene nessuno, se senti qualcuno che viene
da lì mettiti a cantare (lui così da dentro avrebbe capito) e
fai finta che stai andando alla villetta a prendere il
pallone». Sembrava avesse preparato un piano da chi sa quanto,
e gli ordini che dava me lo confermavano. Mi allontanai;
sentii armeggiare. Poco più di 10 minuti uscì con 5 pesche,
6-7 pere, una testa d’insalata e una decina di pomodori San
Marzano raccolti in un asciugamano che si era messo dentro i
pantaloni tenuti dalla cinta; l’aveva proprio studiato bene il
piano. Riarmeggiò alla porta principale e mi chiamò a bassa
voce: «Giggì, andiamo, andiamo». Lui era di una tranquillità
serafica, pure se mi faceva segno di correre e sparire da lì
il più presto possibile. Scappammo per le scale della villetta
ed entrammo in camerata, che aveva una stanzetta tipo
guardaroba, dove lui riversò sul tavolo d’appoggio ortaggi e
frutta. Mottola era una continua sorpresa. Tirò fuori dal suo
armadietto una boccetta d’olio, due scodelle, forchette,
coltelli, bicchieri e un pacchetto di sale; di sicuro frutto
di furtarelli perpetrati ai danni di Suor Elda nei giorni
precedenti. In piena tranquillità ci servimmo la prima cenetta
extra.                           Ai primi di agosto ripetemmo
l’azione. Mi disse di mettere sotto anch’io l’asciugamano, che
gli passai quando tornai a fare la guardia. In tasca si era
portato un’altra boccetta dove ci versò l’aceto che in cucina
stava in una bottiglia più grande e con quella uscì con le
mappatelle (gli asciugamani) piene di ciliegie, pesche, pere,
pomodori, limoni, insalata, albicocche. Ne avemmo per due
giorni ancora; consumare tutto in una sola sera era un po’
troppo per entrambi. «Tonino, ma come fai ad aprire quelle
porte?», chiesi. Mi fece vedere pezzi di ferro di vario
spessore e misure e una serie di chiavi di vario tipo che non
capii mai come se le era procurate. «Gigino, dentro la
dispensa della frutta ci sono dei cocomeri grossi, li dobbiamo
prendere», se ne uscì una sera. «I cocomeri, quelli lunghi? Ma
sei matto?, come facciamo?», risposi. «Sì, ma c’è Peppino che
può stare con noi, se ci parli tu lui vedrai che dice di sì»,
lo diceva come fosse tutto semplice. Il terzo giorno facemmo
un’altra sortita con lo stesso sistema. Tonino si era
procurato scodella, bicchiere, forchetta e coltello anche per
Peppino. Nessuno fino allora sapeva o si era accorto di
nulla.

                                                      Tornati
i ragazzi dalla sala Tv — d’estate ci si poteva trattenere
fino alla fine del programma serale — chiesi a Peppino se
avesse fame. «Magari ci fosse qualcosa, ma chi te lo dà!»,
malinconicamente rispose. «Facciamo mettere a letto tutti
quanti, poi giochiamo un po’ a carte nella stanzetta», non so
come mi venne in mente dire questo. Così facemmo. Quando entrò
nella stanza e vide apparecchiato, non credeva a quello che
vedeva. «Ma come avete fatto?, dove l’avete presa questa
roba?», domandava meravigliato. Mottola gli disse «Mangia e
parla piano», e Peppino pensò solo a mangiare. Poi Mottola ci
chiese se volevamo farci una mangiata di cocomero. Io sapevo
già la sua intenzione e non mi scomposi, mentre Peppino
pensava che scherzasse. «Se ci stai anche tu, portiamo due
federe», gli fece, «e domani ci facciamo una di quelle
mangiate che la fettina di cocomero che ci danno la sera
gliela possiamo anche far portare ai maiali che stanno su
Canalone». Sopra Canalone, infatti, c’erano delle famiglie che
allora avevano maiali e polli e con un camioncino
periodicamente venivano a svuotare il pozzetto dei rifiuti di
cibo che aveva una botola verso il basso della strada, sulla
parete esterna del muraglione del “serraglio”, e una botola la
cui apertura era a terra nel chioschetto antistante la
villetta poco distante dalla cucina. Le due suore e le donne
della cucina cercavano ogni modo, perfino offrendoci un po’ di
pane o altro che normalmente ci negavano, per non avvicinarsi
a quel pozzetto: dentro proliferavano topi di enormi
dimensioni (le “pantegane”) che mettevano paura.        Faluri
aderì. La sera successiva, portati i ragazzi a vedere la
televisione, raccomandato al solito investito da me del ruolo
di caposcelto di non far uscire nessuno e di non fare chiasso,
procedemmo. Stavolta era Faluri a fare la guardia. In villetta
c’era sempre il pallone pronto. Avevamo le federe. Quando ho
visto armeggiare da vicino il mio compagno con ferri e chiavi,
mi sembrava di vedere delle scene di film o sceneggiati
polizieschi che passavano in Tv; non so come facesse ad essere
così abile e veloce ad aprire porte e lucchetto. Affacciatomi
nella stanza della dispensa vidi tutta la frutta accatastata,
però divisa in zone dove si potevano prendere a seconda del
lato pere, mele, pesche, insalata, pomodori, ecc. Una metà di
parete era occupata da 3-4 file di cocomeri, quelli lunghi,
belli. Erano tanti, uno accatastato sull’altro per un’altezza
di un metro e più. Vedendo quel ben di Dio dicevo tante male
parole dentro di me pensando che ce ne davano solo una fettina
la sera. Mottola ne mise un cocomero nella sua federa, io uno
nella mia, e tutti e due aggiungemmo pesche, pomodori,
insalata, ciliegie e pere. Tonino chiuse le porte con la
stessa abilità con cui le aveva aperte, demmo voce a Peppino e
scappammo verso la villetta abbassati più del solito per
timore che potesse vederci Vitale che abitava di fronte.
Faluri, che era più alto e forte di me si caricò la mia federa
colma. Arrivammo alla camerata, sistemammo una federa piena
dietro un armadio che stava nella stanzetta-guardaroba,
mettemmo l’altra sul tavolo e cominciammo a tagliare e a
dividerci il cocomero alla meglio, mangiandocene una buona
metà. Le altre sere proseguimmo con i pasti serali extra a
base di frutta, insalata e pomodori, e ovviamente con l’altra
metà di cocomero e l’altro intero, fino a saziarci. Tonino
Mottola non si accontentava. Riuscì a fare un capolavoro. Una
di quelle sere era riuscito ad aprire anche la porta della
dispensa di Suor Mafalda, e integrammo il tutto con una
scatoletta di tonno, quelle scatolette grandi con i tranci di
tonno bello polposo e due scatole grosse di Simmental, quelle
di una volta. Alla nostra meraviglia disse di stare tranquili,
che la monaca non se ne sarebbe accorta; non ne dubitavo,
sarebbe stato capace di farla sotto il naso di San Pietro o
Lucifero se fosse andato dall’uno all’altro a seconda che lo
assolvessero o condannassero.

  Ma, come ogni cosa, pure queste scorrerie ebbero fine, ed in
modo del tutto stupido. Con la complicità di Faluri eravamo
riusciti a passare tutto agosto mangiando a sbafo la sera.
Mancavano un paio di giorni a settembre, il “serraglio” si
sarebbe a breve rianimato con le varie attività (tipografia,
musica, meccanica, ecc.) e col ritorno dei ragazzi anche per
gli esami di riparazione. Dopo cena solita strategia, facemmo
razzia di un cocomero e di tutta l’altra frutta che potevamo
mettere nell’unica federa che ci eravamo portati, poi, nella
risalita alla camerata, non so come a Mottola gli balenò in
testa: «Giggì, andiamo alla scuola di musica a mangiare il
cocomero». Provai a rispondergli «No, come si fa?, ci sono
altre porte, è pericoloso, no, no». Ma lui sicuro, «Peppino»,
rivolgendosi a Faluri, «tu guarda se sale qualcuno dalla
villetta, tu Gigino guarda chi viene dal chiostro». Mi
allontanai lungo il corridoio che fronteggiava la grande porta
principale della scuola di musica, «Venite, venite», sentii di
lontano. L’aveva aperta. Do voce a Peppino sotto e tutti e tre
entrammo alla terza o quarta aula dove solfeggiavano, se non
ricordo male, i clarinettisti; aveva aperto ovviamente anche
quella. Mangiammo quasi tutto il cocomero, poi provai a
rimettere le scorze dentro la federa dove c’era l’altra frutta
trafugata. «Lascia stare, non ti preoccupare, domani mattina
pulisco io», fece Mottola. «Puliamo adesso, che ci costa?»,
replicai. Niente da fare. Sul tavolo rimasero scorze e semi.
Chiuse a chiave le due porte che aveva aperto e tornammo in
camerata, dove poi rientrarono anche i ragazzi che avevano
finito di vedere la televisione, che ci trovarono, come da
strategia, a giocare a carte o a struscio con le figurine
Panini su uno dei tanti letti liberi della seconda
camerata. La mattina, intorno alle 10, era l’ultimo giorno di
agosto, mentre stavamo giocando tutti in villetta, ci sentimmo
chiamare in radunata nel chiostro del Monumento ai Caduti.
C’erano Gregorio e Vitale, sempre se il ricordo è giusto, e
con loro Suor Elda e Suor Mafalda. Con rabbia isterica di chi
non trova ragione ad un qualche torto, furono proprio le suore
a esplodere: «Chi è stato il ladro che ha rubato i cocomeri ed
è andato a mangiare alla scuola di musica?, come avete fatto
rubarli?, chi vi ha dato le chiavi? ladri, ladri!». Loro
pensavano che ci fosse stata la complicità di qualcuna della
cucina. Gregorio più diplomatico, «Ragazzi, Suor Elda e Suor
Mafalda dicono che è stata rubata tutta la frutta nella
dispensa in questi giorni, chi ha mangiato il cocomero nella
scuola di musica lo dicesse se no vi faccio punire tutti
quanti». Io per il fatto che non ero della scuola di musica
non ricordo tutti i nomi di tanti ragazzi, istitutori e
maestri, ma penso che fosse un certo Guadagno, non so se
bidello o maestro, che invece di riprendere servizio il primo
giorno di settembre aveva imprevedibilmente anticipato a
quella mattina le operazioni di controllo e sistemazione delle
aule. Ovviamente, alla vista dei resti della bisboccia da
parte di ignoti è scoppiato il putiferio. «Ragazzi, allora?»,
sollecitava Gregorio, mentre Suor Elda pareva la più
imbufalita: «Come hanno fatto ad aprire, come hanno fatto,
questi ladri, delinquenti!». Anche Suor Mafalda però non era
da meno nel lamentare che pure alla sua dispensa mancava
qualcosa. I ragazzi erano i più sorpresi, ma più di uno rideva
per la sottile vendetta provata nel pensare che qualcuno
finalmente l’aveva fatta pagare a quelle megere, tirchie. «E
tu Gigino», si rivolse a me Gregorio, «non hai visto niente,
non sai niente?». «No professore», risposi io, mantenendo la
formalità davanti ai ragazzi, benché con Gregorio avessi un
buon rapporto confidenziale. «Può essere che i ladri sono
venuti da dietro», aggiunsi con un certo convincimento; in
effetti la cosa non si poteva escludere: dalla parte esterna
della galleria c’era qualche varco per possibili estranei,
anche se da lì ci ho visto infilarcisi solo gatti randagi. «E
tu Faluri?, tu Mottola?, che mi dite?». Ci furono due
dinieghi. «Allora dovrò fare un rapporto con tutti i vostri
nomi e mettervi in punizione», chiuse Gregorio. Suor Elda non
si dava pace; qualcuno aveva violato il suo regno, sbuffava,
sbraitava, quasi avessero violentato lei fisicamente: «Ecco
perché vedevo le pesche scendevano, e i meloni sempre più
bassi»; si riferiva al livello. «Ma come hanno fatto, come!,
chi gli ha dato le chiavi!, chi è stato questo delinquente!,
lo devono cacciare fuori il ladro!». Non so se fu quella
comica disperazione della monaca a far scoppiare a ridere
anche Gregorio e l’altro istitutore che gli stava a fianco.
«Stasera senza televisione, e luci spente alle 9, avete
sentito?», fu a dire Gregorio riprendendo il tono serioso che
il ruolo gli imponeva. Credo che Suor Elda e Suor Mafalda
fossero poco soddisfatte, ma se ne tornarono chi in cucina chi
in dispensa a dare ordini alle povere inservienti che quella
giornata di sicuro non l’avrebbero passata tranquilla per i
sospetti di complicità che nutrivano su di loro. Dopo un’ora e
più di ramanzina e minacce di sanzioni varie, fummo rimandati
in camerata. Io ebbi l’ordine di non far alzare nessuno dal
letto fino a che non ci avessero chiamato per pranzo, e quello
feci. Andai nella stanzetta-guardaroba come a sistemare
qualcosa; chiesi a Mottola e Faluri di venirmi a dare una mano
a spostare il tavolo. «Ti darei un cazzotto, hai visto per non
darmi retta che hai combinato?», a tono basso dissi a Mottola.
Peppino si conteneva dalle risa. «Non ti far scoprire con
tutti i ferri e le chiavi, Tonino, se no passi i guai», dissi
a Mottola. Quello, con sfacciataggine, «Stasera no, manco
domani, ma dopodomani ci mangiamo il resto della frutta che
abbiamo?». Non potemmo ridere forte, però per cercare pure io
di mantenere una certa formalità, alzando il tono, «Grazie,
andate a letto pure voi e non vi alzate fino a che non
chiamano». Non eravamo andati in vacanza, non ne avevamo le
possibilità, e questo ha certamente influito nel lasciare
sbollire la rabbia delle due suore e nel non subire altre
punizioni.                                                  Di
lì a poco ebbi una chiamata di lavoro a Campobasso. Fu proprio
Gregorio a darmene notizia e mentre mi apprestavo a lasciare
il “serraglio” mi venne ad accompagnare al portone di uscita.
Io piangevo perché sentivo di lasciare la mia sola casa che
conoscevo. Mi prese sotto braccio e mi disse l: «Ora sei un
uomo che deve andare per la sua strada». E riuscì a farmi
sentire meno amaro il distacco quando mi disse: «Adesso che
vai via una risposta me la devi dare: chi è stato a rubare la
frutta e a mangiare nella scuola di musica? Me lo dici?». Lui
sapeva che io sapessi. «Gregorio», gli risposi, «a me hanno
voluto bene tutti i ragazzi, anche se sapessi che è stato uno
di loro io non li tradirei mai, i miei fratelli erano loro, e
adesso li sto lasciando tutti per sempre». Ripresi a piangere.
«Gigino», finì per dire, «sono contento che te ne vai, se no
fai mettere a piangere anche me. Buona fortuna».

Rita Martino: una laurea da
“remoto”
La pandemia ha tolto alla neo-dottoressa in giurisprudenza il
piacere e l’applauso dell’Aula magna, l’attendono aule di ben
altra caratura e confronto, dopo questa prima tappa verso il
sogno della carriera in magistratura

Una disciplina ferrea, sin dalla prima seduta in un banco di
scuola ha permesso alla vietrese Rita Martino, di laurearsi
brillantemente in giurisprudenza, presso il nostro ateneo, con
una tesi dal titolo “ Reati di maggior allarme sociale e
accertamento garantito: la comparazione tra diversi sistemi
processuali nei fenomeni di criminalità organizzata”, sotto la
guida del chiarissimo professore Gaspare Dalia. Il lavoro
rappresenta una disamina di quelli che sono stati gli
interventi legislativi, ritenuti più significativi, in tema di
criminalità organizzata e più specificamente di quella
mafiosa. Gran parte del lavoro si incentra sulla comparazione.
La disciplina, infatti, viene approfondita anche nell’ ambito
del sistema processuale penale spagnolo ed è il frutto di
quanto Rita ha appreso e acquisito nel corso del progetto
Erasmus e presso l’Universidad de Zaragoza. Ulteriori percorsi
di comparazione, poi, guardano oltre oceano è più precisamente
vengono analizzate le realtà del Sud America (Brasile,
Colombia, Argentina); le lacune legislative dell’ordinamento
francese a riguardo;il RICO Act, acronimo di Racketeer
influenced and corrupt organizations act, ovvero la prima
legislazione antimafia degli Stati Uniti. “Iscrivermi a
giurisprudenza – ha dichiarato la dr.ssa Rita Martino – è
stata una scelta consapevole e sopratttutto voluta. Non può
solo piacere, vi assicuro che serve un amore davvero forte.
Sin dai primi anni del liceo ho sentito l’esigenza di dare il
mio contributo nella società. Esigenza che poi, per mia
fortuna, si è trasformata in realtà quando sono stata eletta
rappresentante di istituto per me due anni. Ad oggi posso dire
che il diritto è il mio pane quotidiano e il mio desiderio più
grande è quello di poter diventare un magistrato. Sicuramente
non era questo il finale che immaginavo ma era inevitabile in
quanto l’emergenza coronavirus ha cambiato, e continua a
cambiare, la vita di ognuno di noi. Dopo la dichiarazione di
emergenza nazionale da parte del Presidente del consiglio,
Giuseppe Conte, avevo già capito che qualcosa sarebbe
cambiato. E così è stato. Oggi ho discusso la mia tesi in
casa, dinanzi al mio computer, circondata dalle persone a me
più care ovvero mia madre, mio padre e mia sorella. Mentirei
se dicessi che non desideravo altro: avrei voluto vedere i
miei nonni, i miei zii, cugini, amici ma per il momento non
possiamo fare altro che aspettare giorni migliori e dare il
nostro contributo in qualità di cittadini responsabili e
rispettosi. Nonostante tutto ho avvertito in queste giornate,
il calore e la vicinanza da parte di molte persone il che mi
rende più che mai felice. È stata un’emozione nuova, inedita;
un momento diversamente emozionante ma ugualmente
soddisfacente.   Sono pronta ad iniziare un nuovo percorso
formativo in cui le conoscenze teoriche acquisite nei cinque
anni di università si trasformeranno in esperienza concreta,
ma nel frattempo mi godo il mio momento. Sí “mio” perché
nessuno mi ha mai regalato niente, è tutta farina nel mio
sacco. A questo punto, Ii ringraziamenti sono doverosi: in
primis, il prof.re Gaspare Dalia nonché relatore della mia
tesi e fonte inesauribile di conoscenza e sapere. Oltre ad
avermi seguita e guidata nella stesura di questo lavoro, mi ha
trasmesso la passione e l’entusiasmo necessari per il
prosieguo. Ringrazio di cuore la mia famiglia: mio padre Marco
e mia madre Gerardina, per avermi sempre sostenuta e per
avermi concesso di portare a termine i miei studi anche
attraverso esperienze extra (Erasmus e ricerca tesi
all’estero); mia sorella Manuela, per essermi stata accanto
nei momenti di sconforto e per aver compreso i miei (continui)
sbalzi di umore. Un ringraziamento speciale va, infine, a
tutti i miei amici e alla mie amiche con i quali ho condiviso,
da sempre, gioie, lacrime, sacrifici e successi. Non mi hanno
mai voltato le spalle”. Se la pandemia ha tolto a Rita
Martino, il gusto della discussione, della proclamazione,
dell’applauso, dell’abbraccio degli amici, in Aula Magna, ben
altre aule attenderanno la neo-dottoressa, pronta ad irrompere
con nuova determinazione e consapevolezza nella vita, a cacca
del sogno di indossare la toga da magistrato. In questo
percorso del quale ieri abbiamo festeggiato la prima tappa
l’accompagnino gli auguri di Olga, Tonino e Zia Laura e
dell’intera redazione di Le Cronache.
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