L'ITALIA VISTA DA FUORI E DA DENTRO - LUCIO STANCA "Wrong or right, it's my Country"

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L'ITALIA VISTA DA FUORI E DA DENTRO - LUCIO STANCA "Wrong or right, it's my Country"
LUCIO STANCA

L’ITALIA VISTA
DA FUORI
E DA DENTRO
“Wrong or right, it’s my Country”

Prefazione di Piero Ostellino
Lucio Stanca

L’Italia vista
da fuori
e da dentro
“Wrong or right, it’s my country”

Prefazione di Piero Ostellino
ISBN 978-88-6345-561-8

© 2013 Il Sole 24 ORE S.p.A.

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Prima edizione: novembre 2013

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Indice

Prefazione di Piero Ostellino .............................................................. pag. XI

L’importanza delle prospettiva ..........................................................            » XIX

L’Italia vista da fuori............................................................................. » XXIII

Lavorare per una grande impresa internazionale ................... »                                     1
     Il valore di una cultura aziendale .................................................            »    1
     Il merito non ci piace ....................................................................     »    3
     La meritocrazia va costruita .........................................................          »    6
     Non investono più in Italia ...........................................................         »   10
     La geografia e l’impresa globale ...................................................            »   12
     Le barriere invisibili ......................................................................   »   18
     Gli italiani sono bravi ....................................................................    »   24
     È sempre questione di leadership ................................................               »   29

L’economia mondiale e l’Italia .....................................................                 »   35
     Non cresciamo più ........................................................................      »   38
     Dove andremo a finire? ................................................................         »   42
VI    Indice

     Piccolo non è più bello .................................................................       »   46
     Condannati all’innovazione .........................................................            »   52
     La ricerca nel Paese di inventori ................................................              »   59
     C’è un vero mercato del lavoro in Italia? ...................................                   »   62
     Il turismo: l’occasione mancata ..................................................              »   68
     Ci siamo dimenticati del Sud? ......................................................            »   73
     Il muro dell’inglese ........................................................................   »   78
     Un Paese “quasi non libero” economicamente ..........................                           »   82

L’Italia vista da dentro ...................................................................         »   87
     Atterrato sul pianeta pubblico .....................................................            »   87
     Al tavolo rotondo del Consiglio dei Ministri ..............................                     »   92
     Perché è difficile governare l’Italia? ............................................             »   96
     Tra i banchi del Parlamento .........................................................           » 102
     La politica vista da vicino .............................................................       » 109
     La grande ammalata: la Pubblica Amministrazione ..................                              » 114
     Eppure ce la possiamo fare ..........................................................           » 123
     Ci manca un progetto ....................................................................       » 139
     Il futuro non sarà più quello di una volta ....................................                 » 141
Prefazione di Piero Ostellino

Lucio Stanca è un manager italiano vissuto e umanamente, cultu-
ralmente e professionalmente cresciuto all’estero come dirigen-
te di una grande multinazionale americana, l’Ibm. Da posizioni di
responsabilità aziendale, ha formato e sviluppato il proprio pen-
siero, sia, specificamente, sotto il profilo professionale, sia, gene-
ralmente, sotto quello civile e politico. Il suo è un pensiero che
definirei popperiano, in quanto in gran parte orientato, e esplici-
tamente simpatetico, in senso antropologico, metodologico, siste-
matico e ideale, verso la “società aperta”, acutamente teorizzata
da Karl Popper. Stanca, dopo la lunga esperienza all’Ibm, è stato
“prestato” alla politica nazionale - per cinque anni come ministro
e per sette come parlamentare - sotto le bandiere di Forza Italia, il
tentativo berlusconiano, ahinoi, promesso, mai realizzato e fallito,
di produrre la rivoluzione liberale e di creare, anche in Italia, una
“società aperta”.
   Perché, quella di questo manager, anomalo rispetto al modello
statalista, dirigista e burocratico imperante, è una cultura azienda-
le, e politica, di marca “popperiana”? Perché, per dirla sempre con
Popper, i fatti che, qui, egli racconta e le considerazioni cui per-
viene sono esposti al principio di falsificabilità, cioè sono sempre
passibili, in quanto frutto dell’esperienza diretta, ovvero della do-
XII    Prefazione

cumentale rilevazione empirica, di verifica, se veritieri o immagi-
nari, nella realtà dei fatti. Oltre che frutto delle vicende personali,
delle “dure repliche della storia” ai nostri, e molti, difetti nazionali,
la trama di questo libro è, infatti, tessuta per intero da una forte
idealità liberale. Le pagine che seguono – che, una volta, quando la
nostra società non temeva di connotarsi, professarsi e comportar-
si secondo i canoni culturali “borghesi”, erano classificabili come
le “memorie” di un grande borghese – sono, realisticamente, una
accurata radiografia dell’Italia vista “dal di fuori” e dal “di dentro”
senza concessioni e, soprattutto, alla luce di una cultura tecnica,
moderna e liberale della quale il Paese pare essere ancora dram-
maticamente sprovvisto.
      In realtà, Lucio Stanca “è” un grande borghese - nell’accezione
sociologica weberiana e liberal-conservatrice-hayeckiana del ter-
mine; lo è persino fisicamente, con la sua imponente stazza che
ricorda certe personalità pubbliche dell’Ottocento che, come lui,
avevano raggiunto, nella vita, i traguardi che si era prefissati ai
blocchi di partenza. Queste sue “memorie” sono, del resto, una
approfondita riflessione sull’Italia vista da due prospettive; quella
privata, aziendale, manageriale ed “esterna”; quella pubblica, poli-
tica, parlamentare, governativa e “interna”. Il quadro che ne esce è,
quindi, realisticamente, critico dell’Italia privata e imprenditoriale
e di quella pubblica e politica “come è”, anche se non negativo per
partito preso. L’Italia di Stanca non è l’Italia dell’utopico “dover
essere” - che ci è raccontato col linguaggio politicamente corretto
e convenzionale della politica impotente e velleitaria e dei media
suoi complici, nonché prodotta da una cattiva cultura politica e
economica, che sogna di risolvere i problemi con i pater noster,
come scriveva cinquecento anni fa Machiavelli, raccomandando
l’approccio realista; è l’Italia, per usare ancora una espressione
cara al segretario fiorentino, della “realtà effettuale”, riscontrabi-
Prefazione XIII

le, quotidianamente, dai suoi stessi cittadini, spesso trasformati
da una legislazione e da burocrazia invasive e soffocanti in sudditi.
   Le differenze segnalate, e documentate, da Stanca, e le sue
conclusioni critiche, fra l’Italia e il resto del mondo occidenta-
le, soprattutto quello anglosassone - costante referente della sua
scrittura, e del modo di pensare sottostante, sia nell’ambito pro-
fessionale, sia in quello politico - sono, in fondo, le stesse che, per-
sonalmente, descrivo e segnalo, con una certa e persino ossessiva
ripetitività, della quale mi scuso con i miei quattro lettori, nei miei
scritti giornalistici sul Corriere della sera. Riassunte in una sola
parola, esse sono il gap, il divario, del quale soffre il nostro Paese
tutto intero di fronte alle democrazie liberali, capitaliste e di mer-
cato; che Popper definisce, con pregnante e assai felice espressio-
ne, “la società aperta” e che Stanca mostra di amare e vorrebbe
nascesse anche in Italia. È, questa, del resto, con l’antica amicizia
per l’Autore, la ragione per la quale, una volta letto il libro ancora
in bozze, mi sono indotto a scriverne la presente prefazione.
   Scrive Stanca - sulla base non solo delle proprie personali espe-
rienze professionali, bensì, anche e soprattutto, delle molte evi-
denze empiriche offerte dalla realtà effettuale nazionale - che, in
pressoché tutte le aziende straniere, la cultura aziendale è il tes-
suto che ne connette originariamente e tiene uniti, nel prosieguo
del tempo, tutti i dipendenti, attraverso un principio organizzativo
costituito da valori, principi, comportamenti, come si dice adesso,
“unanimemente condivisi”. Esso è il principio fondativo e, suc-
cessivamente, direttivo dell’attività di ogni azienda straniera, si
chiami essa Honda, Ibm, Ikea, Microsoft. Si traduce, scrive ancora
Stanca, in valore della persona, merito, etica, eccellenza, innova-
zione, responsabilità sociale, attenzione al cliente – che nel libro
sono altrettanti capitoli su ciò che è di fatto, l’Italia imprendito-
riale, e sul “che fare” per farla entrare finalmente nella Modernità,
XIV Prefazione

cioè fra le democrazie liberali dell’Occidente; ma che nelle nostre
aziende non c’è, o è tanto flebile da non essere avvertito neppure
dall’osservatore professionale dell’imprenditoria e dell’economi-
ca nazionali.
   “Il mercato non piace” è il significativo titolo di un capitolo. Al
posto del mercato che non piace – del resto, troppo fragile e asfit-
tico per essere, attraverso i prezzi, quell’indicatore indispensabi-
le dell’economia libera, e senza il quale le economie pianificate
non funzionano e falliscono, come dice Mises e predica la “scuola
austriaca” a proposito della spontanea e volontaria collaborazio-
ne, fra individui razionali e responsabili che è l’economia aperta,
teorizzata da Menger, Mises, Hayeck e altri – c’è l’“economia di
relazioni”; che piace, invece, moltissimo e che, non a caso, getta i
suoi riflessi negativi anche sulla politica. Nell’“economia, e nella
democrazia di relazioni”, non è la meritocrazia a far da guida, ma
a farla da dominatori sono i rapporti di parentela e di clientela,
per non dire la corruzione. Gli uni e l’altra erano stati ben raccon-
tati e interpretati dal sociologo americano Banfield, in un libro di
molti anni fa, col termine “familismo amorale”. Il quale era, allora,
il personalistico, e ben scarsamente morale fondamento, tipica-
mente famigliare e proprio di ogni clan, delle relazioni private e
pubbliche nel Meridione dell’immediato secondo dopoguerra. È
diventato, oggi, col trascorrere degli anni della Repubblica - grazie
anche ad una Costituzione compromissoria, pasticciata, fonda-
mentalmente contraria alla “società aperta”; in definitiva, illibe-
rale – prassi costante e comune del nostro vivere, che sarebbe
eccessivo definire civile in senso proprio.
   Le differenze fra l’ambito pubblico e quello privato, come era
prevedibile fin dalle prime pagine del libro, diventano abissali, e le
considerazioni conseguenti di Stanca amare, nella parte dell’Ita-
lia vista “dal di dentro”, quella dell’esperienza politica. Che è una
Prefazione   XV

puntuale, ma anche l’elegante, perché non gridata, confessione di
una delusione difficilmente imputabile solo a chi ne è unanime-
mente indicato come il vero responsabile, Silvio Berlusconi; nei
confronti del quale Stanca non mi pare nasconda di nutrire ancora
un certo, ancorché ironico, affetto. La sua, quando passa dalla sfe-
ra privata, professionale, aziendale e dell’Italia vista “dal di fuori”
a quella frutto della prospettiva “interna” e politica, è una sorta
di riflesso condizionato prodotto dal fallimento del tentativo di
modernizzare il Paese della Controriforma, che l’Autore registra
crudamente, ma non condanna moralisticamente.
   Gli erano bastati “pochi giorni per accorgersi che ero davvero
atterrato in un mondo diverso e distante da quello da cui proveni-
vo, su un altro pianeta”. In campo pubblico, scrive di non aver tro-
vato “comunanza con quello nel quale ero vissuto”. Come politico,
da parlamentare, registra che i tempi di esecuzione delle decisio-
ni sono “assolutamente troppo lunghi”; la burocrazia “appare un
muro di gomma talvolta impenetrabile”; per arrivare a una qual-
che conclusione ci vogliono “negoziazioni e compromessi” a non
finire. Da ministro, quando deve scegliersi i collaboratori e, non
essendo del mestiere, non sa come cavarsela, scopre che non c’e-
ra “una base dati delle competenze dei dirigenti statali”; che, ogni
anno, tutti i ministeriali ricevevano un premio per l’attività svolta
nell’anno passato non in base a un criterio di produttività e a ti-
toli di merito, bensì secondo meccanismi puramente burocratici;
il Consiglio dei ministri non era una squadra coesa, ma ogni mini-
stro rappresentava, e tutelava, la propria parte politica e rilasciava
interviste e commenti a ruota libera, senza rispetto della disciplina
di gruppo; lui stesso, incoraggiato dal presidente del Consiglio,
aveva steso su un foglietto una sorta di breviario dei comporta-
menti da tenere, che lo stesso presidente del Consiglio, Silvio Ber-
lusconi, aveva consegnato personalmente ad ogni ministro. E che
XVI Prefazione

erano rimasti abbandonati sugli scranni della sala del Consiglio.
Ogni ministero, ogni amministrazione, aveva una propria agenda,
in contrasto con quelle degli altri e che ne era il potere di veto;
la burocrazia remava contro il reperimento di risorse necessarie
a sostenere finanziariamente certi progetti, mentre i ministri, per
parte loro, a differenza di quanto accade nell’ambito privato, non
prestavano “alcuna attenzione alla fase di realizzazione” dei loro
stessi progetti. In definitiva, di esempio in esempio, nell’ambito
pubblico, emerge, ad opera di uno Stanca attento cronista politi-
co dei suoi tempi, che non c’èra alcuna “cultura del risultato”. Se
non erano mancati neppure “momenti di grande soddisfazione”,
come per “l’approvazione del Parlamento all’unanimità della leg-
ge, da me promossa, sull’uso dell’informatica in aiuto alle persone
disabili”, erano stati, infatti, anche “numerosi i momenti di frustra-
zione per non essere in grado quanto si ha in animo di fare, per
resistenze inspiegabili o per tempi troppo lunghi, o non riuscire a
scalfire la barriera di una sorda burocrazia”.
   Quali, allora, le cause dell’ingovernabilità dell’Italia? Stanca
ne elenca molte, secondo i principali fattori che, a suo avviso,
sono causa di inefficienze e di errori: la debolezza del governo nei
confronti del Parlamento, voluta dai costituenti, nel timore della
re-insorgenza di un’altra dittatura, dopo la caduta del fascismo,
e sanzionata dalla stessa Costituzione; leggi elettorali che gene-
rano coalizioni di governo “multipartitiche”, che producono solu-
zioni di compromesso; la natura corporativa della società civile,
che condiziona l’intero processo decisionale politico; l’eccesso
di leggi, che “creano una vera giungla normativa” e, aggiungo io,
massimizzano la discrezionalità, davvero eccessiva, di cui gode la
magistratura.
   Non mancano le proposte di soluzione, formulate da Stanca
sulla base dei propri principi, favorevoli alla “società aperta”,
Prefazione XVII

democratico-liberale, capitalista e di mercato. Non le anticipo, in
ossequio alla buona regola che non si dice chi è l’assassino in un
romanzo giallo, e lascio al lettore di leggerle, giudicarle e, even-
tualmente, accoglierle o respingerle, abbandonandosi ad una sor-
ta di confessione, del tutto personale, circa le cause soggettive di
ciascuno dell’ingovernabilità del Paese. Dopo tutto è questa la
morale che traspare, in controluce, dalle pagine del libro di Lucio
Stanca, uno di noi che ha avuto successo nella vita professionale
e ha fatto politica per conto nostro, e su nostro mandato, forse
non con lo stesso esito, esattamente come sarebbe accaduto a noi.
Abbiamo la classe politica, il Parlamento e i governi che ci sceglia-
mo, votando liberamente, anche se non sempre con grande senso
pratico. Il libro di Stanca ci aiuta a capire meglio come stanno le
cose, che siano esse, o no, dipendenti dalla nostra volontà; e ci
induce anche a riflettere su quali possono essere le nostre perso-
nali responsabilità di cittadini. Leggerlo, e rifletterci sopra, non fa
certamente male. Anzi.

                                                      Piero Ostellino
L’Italia vista da fuori

In questa prima parte, prevalentemente economica, racconterò le
osservazioni, le esperienze che ho maturato lavorando per una so-
cietà straniera trascorrendo parecchi anni all’estero. Oltre alle con-
siderazioni derivanti dalla mia personale esperienza mi farò aiutare
anche dalle analisi di varie organizzazioni internazionali che guar-
dano all’Italia e la confrontano con altri paesi. Queste classifiche
non vanno prese certo per oro colato, ma ci aiutano a capire la
percezione che si ha del nostro Paese al di fuori dei suoi confini.
In questa prima parte riporterò anche opinioni di uomini d’affari,
manager e imprenditori con cui sono venuto a contatto e che mi
hanno espresso giudizi sull’Italia.
Lavorare per una grande impresa
internazionale

Il valore della cultura aziendale

Bastono poche ore spese negli uffici o negli stabilimenti di una
grande azienda internazionale per avvertire quella che ritengo
essere una delle più grosse differenze con le aziende italiane.
Parlo della cultura aziendale: della creazione programmata, in-
tenzionale e costruita nel tempo di una propria cultura e dei
valori che vi sottostanno. Nella grande azienda internazionale
la si percepisce immediatamente, le persone che vi lavorano
ne fanno spesso riferimento, è documentata, comunicata for-
malmente. In quella italiana spesso è addirittura del tutto ine-
sistente o se esiste, è meno esplicita, è sottintesa ed è quasi
mai conosciuta ufficialmente. È ovvio che in questa differen-
za gioca un ruolo rilevante la dimensione dell’organizzazione.
Come si sa, in Italia sono pochissime le grandi imprese e quasi
cinque milioni sono medie e piccole, molto spesso padronali,
con a capo lo stesso proprietario. Il pensiero dell’imprenditore
è allora in qualche modo la cultura della sua azienda, più allu-
sa, più implicita e quasi mai formalmente dichiarata.
  In un epoca in cui la conoscenza diventa un fattore primario di
2   L’Italia vista da fuori e a dentro

competizione, in cui le competenze delle persone sono più estese,
necessariamente gli spazi decisionali affidati a chi lavora sono più
ampi, le responsabilità più diffuse. È un’innovazione organizzativa
che si avvia negli anni ’90 con il nome di “empowerment”. In que-
sto contesto la cultura aziendale non è più solo una dimensione
dell’impresa, una propria caratteristica, ma ne diviene il fondamen-
tale principio organizzativo a cui attenersi, il collante tra migliaia e
migliaia di uomini e donne sparsi in paesi diversi, per farli operare
in modo coerente, in sintonia con la propria identità e la propria
missione aziendale.
    Un’azienda altro non è che la capacità collettiva delle per-
sone che ci lavorano di creare valore. Per queste persone, non
si tratta solo di condividere strategie o piuttosto piani operati-
vi, ma di farlo con valori, principi, comportamenti che a lungo
andare diventano parte integrante dell’organizzazione stessa. In
sistemi organizzativi complessi, come lo sono oggi tutte le gran-
di società, ma in molti casi anche imprese di medie dimensioni,
operanti in ambienti e mercati imprevedibili, una ben definita
cultura aziendale, orienta in modo sostanziale il comportamen-
to di chi ci lavora.
    La cultura aziendale, con tutto quanto significa, è uno dei fatto-
ri, forse il più forte, che caratterizza un’organizzazione da un’altra,
perché influenza in modo rilevante come si pensa, come si lavora
ed è il comune punto di riferimento che accomuna le persone che
fanno parte di quella impresa.
    È difficile intuire quanto sforzo stia dietro il creare e poi svi-
luppare, disseminare, aggiornare, far vivere quotidianamente una
propria cultura aziendale, con i suoi i valori. Si tratta di grandi inve-
stimenti e non mancano esempi che hanno fatto scuola: dalla Hon-
da alla General Electric, dall’IBM alla IKEA, alla Microsoft solo per
citarne alcuni. Nella società per cui ho lavorato tanti anni i valori
Lavorare per una grande impresa internazionale   3

e i principi alla base della propria cultura organizzativa erano – e
credo che lo siano anche oggi se pur in una versione ovviamente
aggiornata – il valore della persona, il merito, il cliente prima di
tutto, l’etica, l’eccellenza, l’innovazione, la responsabilità sociale,
solo per citarne i più significativi.
   Naturalmente, una forte cultura aziendale se non fatta vivere
con aggiornamenti, direi con una necessaria manutenzione sugge-
rita dal divenire delle condizioni in cui opera, rischia di ingessare le
organizzazioni e creare dogmi. Per di più impedisce o comunque fa
da freno nel cogliere le nuove opportunità che un contesto diverso
genera, a fronte di forti discontinuità tecniche, sociali o di mercato.
   Non mi vengono esempi di aziende italiane che abbiano investi-
to per decenni nello sviluppare e poi formalizzare una propria forte
cultura aziendale. E questo si ripercuote tra i tanti aspetti anche
nella competizione per attrarre i migliori talenti. Ne vedremo il per-
ché, ma è facilmente intuibile che i più bravi, i più preparati siano
attratti maggiormente da organizzazioni che fanno per esempio del
merito un punto di riferimento costante e credibile.

Il merito non ci piace

Il merito è certamente il valore che primeggia nel ricordo della
mia vita lavorativa. Intorno al merito, al suo riconoscimento erano
ispirate tutte le politiche delle risorse umane, dall’assunzione dei
nuovi collaboratori, alla selezione e promozione dei capi, dai livelli
retributivi, alle manifestazioni per celebrarlo. Questa è l’esperienza
da cui provengo.
   In Italia, si percepisce con facilità che il merito non è un valore
accettato e diffuso. Anzi, una certa cultura, forse non minoritaria,
diffida della sua positività. Per di più pensa che con il merito si crei-
4   L’Italia vista da fuori e a dentro

no più disuguaglianze, che la competizione sottintesa ad esso mi-
nacci la solidarietà sociale. Scorie di un pesante passato che aveva
come stella polare un irrazionale egualitarismo. Io credo invece,
con tutti quelli che hanno lavorato in organizzazioni fortemente
meritocratiche, che il riconoscimento del merito non è solo il pre-
mio del valore individuale, del contributo della singola persona,
ma anche la risposta alla domanda di equità e di affermazioni, so-
prattutto delle nuove generazioni. Iniquità è compensare in modo
eguale tutti, a prescindere dai diversi contributi, mortificando chi si
impegna di più e dà i migliori risultati e gratificando ingiustamente
chi proprio non lo merita. Nell’assenza di merito si finisce col dare
a tutti un uguale riconoscimento, così che paradossalmente si pre-
mia chi vale di meno a scapito di chi merita di più. Questa è la stra-
da maestra per creare bassa produttività nel modo del lavoro. Non
distinguere il merito, e riconoscere automaticamente solo l’anzia-
nità, porta ad un equilibrio di basso valore: si compensa tutti allo
stesso modo e non si incentiva il maggior apporto di chi potrebbe
darlo. Caso tipico è quello della nostra Pubblica Amministrazione.
    La mancanza del merito crea un altro problema, che in
Italia si avverte fortemente: la scarsa qualità del processo
di selezione dei leader, sia nel mondo delle imprese che in
quello del settore pubblico. Non a caso l’Italia è conosciuta
nel modo come un’economia dove la relazione, la conoscenza
personale, l’essere introdotto in certi ambienti, giocano un
ruolo a volte determinante nella selezione della leadership. E
questo, a scapito della credibilità dell’intera politica del me-
rito, se mai la si volesse applicare, per quella organizzazione
i cui leader non sono stati selezionati con una sana competi-
zione meritocratica.
    Basta intervistare qualche responsabile di società internazio-
nali di ricerca di alti dirigenti operanti in Italia per averne una con-
Lavorare per una grande impresa internazionale   5

ferma indiretta. Uno di loro mi convalidava l’opinione che sono
raramente chiamati per la selezione di CEO di aziende italiane; la
scelta molto spesso non avviene con la competizione di più candi-
dati. Il mercato italiano per queste società di “cacciatori di teste”
è piuttosto sulla fascia della dirigenza media. Per di più, mi face-
va notare a differenza di altri paesi, dove la domanda è in forte
crescita, la sua società come i suoi concorrenti non operano qui
da noi nella ricerca di amministratori indipendenti, per mancanza
di domanda. Mi confessava che i consigli d’amministrazione delle
nostre società preferiscono nominare come amministratori indi-
pendenti persone che conoscono, di cui si fidano e con cui hanno
buoni rapporti, cioè di persone “amiche”; a scapito di conseguen-
za della reale indipendenza.
   Osservando ancora l’Italia emerge subito agli occhi che le don-
ne nel mondo del lavoro non hanno reali opportunità di mostrare il
loro valore. Nel nostro paese si avverte facilmente che esiste uno
spesso “soffitto di cristallo” che impedisce alle donne di raggiunge-
re posizioni di grande responsabilità, sia in organizzazioni pubbli-
che che private. Anche nei consigli d’amministrazione la presenza
femminile è davvero minima, tanto che recentemente è persino
passata una legge che impone alle società quotate in Borsa un mi-
nimo alla loro partecipazione. Quando, esempi come Meg Whitman
a capo della HP, Virginia Rometty a capo della IBM, Indra Nooyi a
capo della Pepsi Cola, Ursula Burns a capo della Xerox, Marissa
Mayer a capo di Yahoo! – per di più nominata all’età di 37 anni
mentre era in attesa di un figlio – potranno mai accadere in Italia?
   C’è una domanda che potrebbe essere posta: ma perché una
organizzazione deve essere meritocratica? La risposta è sempli-
ce: non lo sono quelle imprese che operano in mercati con poco
concorrenza o monopolistici o comunque protetti. La competi-
zione spinge a premiare i più capaci, a selezionare i più prepa-
6   L’Italia vista da fuori e a dentro

rati, a promuovere i più bravi. Ne ha bisogno. Oggi più che mai:
una vera e libera economia di mercato è perciò inevitabilmen-
te meritocratica. Si può dire che la concorrenza sta all’impresa
come il merito sta alla persona; questa, a mio avviso, è l’equa-
zione che sta alla base dell’economia di mercato in grado di ge-
nerare sviluppo.

La meritocrazia va costruita

La sfida è quella di costruire una società, un’economia una cultura
meritocratica. Il merito in un’impresa privata piuttosto che nella
Pubblica Amministrazione, nella scuola anziché nella società, per
essere credibile, cioè accettata dalle persone, e produrre i risultati
attesi, deve essere applicata inderogabilmente a tutti, con equità e
giustizia, con regolarità e i riconoscimenti – economici, morali, di
carriera – devono premiare una vasta platea di persone e non solo
a un ristrettissimo numero di fortunati individui. Il punto fonda-
mentale è che il merito non è uno strumento o una tecnica o solo
una politica, ma è parte integrante della cultura di quella organiz-
zazione o di quella società.
    Il non seguire questi principi nel tentativo di costruire un sistema
meritocratico, mina la sua credibilità e facilmente si parlerebbe di
discrezionalità, favoritismi, raccomandazioni, nepotismo, o peggio
familismo. Forse, per questi esempi negativi molte persone e tanti
giovani in Italia – incredibilmente quasi il cinquanta per cento, secon-
do varie ricerche fatte tempo fa – non giustificano un sistema che dia
retribuzioni maggiori a chi viene valutato che lavori meglio, dando un
maggior contributo ai risultati della propria organizzazione.
    Personalmente dedicavo parecchi giorni di lavoro ogni anno,
in tutte le posizioni che ho ricoperto, per assegnare gli obiettivi
Lavorare per una grande impresa internazionale   7

di prestazione professionale a tutti i miei collaboratori diretti – di
solito all’inizio dell’anno – e rivedere con ciascuno di loro duran-
te l’anno e alla fine del periodo i risultati conseguiti. Il frutto del
mio lavoro di valutazione del merito dei miei collaboratori era poi
oggetto di discussione periodica e approvazione finale col il mio
diretto superiore. Sulla base di queste valutazioni si determinavano
i riconoscimenti retributivi e di carriera.
   Un’economia o una società meritocratica per esistere hanno
bisogno di alcuni essenziali mattoni. Il primo riguarda la sua lea-
dership, che per avere credibilità e autorevolezza deve essere essa
stessa il risultato di una selezione basata sul merito. Altrimenti il
castello non si regge. Occorre poi che il rapporto tra l’organizza-
zione – sia essa un impresa o un ospedale piuttosto che un ufficio
pubblico – e le persone che ci lavorano non sia conflittuale, ma
orientato a un clima di collaborazione. Si basi su un “contratto”
che pressappoco dica così “Ti ricompenso di più, se mi aiuti a rag-
giungere i miei obiettivi organizzativi”. Ci siano modi diversi di ri-
conoscimento del merito individuale (aumenti retributivi, bonus,
partecipazione agli utili o al valore dell’azienda) o avanzamenti
professionali. Una regolamentazione del lavoro che favorisca il
riconoscimento del premio, ma allo stesso tempo consenta di in-
tervenire nei casi di demerito accertati. Per esempio, se un colla-
boratore non mostra di impegnarsi per raggiungere i requisiti mini-
mi attesi dalla sua prestazione professionale e i suoi risultati sono
del tutto insoddisfacenti, in una sistema meritocratico deve essere
senz’altro passibile di licenziamento. Altro mattone per avere meri-
tocrazia è che ci sia una misurazione o valutazione del merito quan-
to più possibile corretta, giusta, equa, sulla base di chiari obiettivi
assegnati, in un sistema trasparente e conosciuto dagli interessati.
Abbiamo questo in Italia in modo diffuso? E quante imprese, pur
avendo introdotto formalmente dei criteri di valutazione merito-
8   L’Italia vista da fuori e a dentro

cratici li applicano con rigore e l’impegno necessario. No, ci sono
ancora toppo forti resistenze a che la società e l’economia italiane
siano caratterizzate dal merito.
    Resistenze vengono, per esempio, da parte del sindacato, come
da altri settori. Ricordo le difficoltà che avemmo quando al tempo
in cui ero al Governo, nel negoziare un nuovo contratto, di fatto
non riuscimmo a introdurre un sia pur piccolo riconoscimento
salariale, legato ai differenti livelli di prestazione degli impiegati
pubblici. Credo che il sindacato abbia sempre preferito difendere il
proprio ruolo, il proprio potere, nel negoziare aumenti o condizioni
contrattuali uguali per tutti, piuttosto che impegnarsi nell’utilizzare
la propria forza per favorire un approccio diverso, naturalmente
meno centralista, diversificato per azienda o gruppi d’aziende e che
lasciasse margini di discrezionalità alle imprese, con le opportune
garanzie (trasparenza, obiettività, misurazione,peso retributivo,
ecc), queste si negoziate da un forte sindacato.
    Un’impresa meritocratica ha molte difficoltà ad essere un’isola
nel nostro scenario nazionale. Occorrerebbe che l’intero contesto
in cui quest’impresa opera fosse orientato al merito. Questo signi-
fica che per fare dell’Italia una società meritocratica servirebbe
un grande cambiamento culturale. A cominciare dalla scuola ed
in particolare dagli insegnanti di qualsiasi livello, che devono es-
sere valutati, cioè premiati o penalizzati esclusivamente in base al
merito. Per passare alla giustizia, che attraverso il riconoscimento
del merito potrebbe funzionare molto meglio, con tempi più rapidi
e certezza della pena. Al mercato, con più spazi in tanti settori, per
avere una reale concorrenza tra gli attori. Al fisco, che deve essere
capace di individuare e punire gli evasori, senza creare un clima di
caccia alle streghe. Alle relazioni industriali, che creino flessibilità
per far emergere il riconoscimento del merito. Per finire alla poli-
tica, che consenta di scegliere da parte degli elettori i più bravi e i
Lavorare per una grande impresa internazionale   9

più capaci e non chi viene designato dagli apparati partitici. Questi
cambiamenti, insieme ad altri in favore del merito, sprigionereb-
bero le energie, la forza, la vitalità che sono convinto l’Italia e gli
Italiani possiedono ancora in grande misura. Ma è possibile questa
sorta di rivoluzione meritocratica?
   Una cultura aziendale con i suoi sottostanti valori, prima fra tut-
ti il merito, porta subito ad identificare la gestione delle persone,
come si dice delle risorse umane, quale altra grande rilevante diffe-
renza tra il lavorare per un’impresa di dimensioni internazionali e
un’azienda italiana. Differenza che si riscontra in molti aspetti non
solo legati alla meritocrazia, ma anche alla gestione per obiettivi,
alla partecipazione e comunicazione, alle modalità retributive, alla
formazione e sviluppo dei capi, ai percorsi di carriera, al riconosci-
mento dei risultati, tra i primi che mi vengono in mente.
   Ho trascorso tutta la mia attività lavorativa, come già detto,
in un’azienda altamente meritocratica e in un contesto culturale
prevalentemente anglosassone. Mi ha sempre colpito il diver-
so atteggiamento che abbiamo noi rispetto a quella cultura, nei
confronti del successo. Una società meritocratica ha bisogno
del successo, di chi ha avuto successo nel proprio lavoro per ri-
conoscerlo, premiarlo, ammirarlo. Noi ne diffidiamo, crediamo
spesso che non sia frutto del merito, ma piuttosto di scorciatoie,
conoscenze, favoritismi, persino di comportamenti illegali. Non
siamo pronti a celebrarlo, tant’è molti italiani di successo han-
no avuto più riconoscimenti fuori dall’Italia che a casa propria.
Insomma, di fronte a chi ha raggiunto il successo, alla sua fama
e alla sua ricchezza, proviamo dei sentimenti controversi e non
crediamo sia frutto del suo merito, del suo valore. Tranne poi
a sentirci orgogliosi dei tanti nomi italiani che si leggono sulle
vetrine camminando nella Fifth Avenue a New York o nella Rue
Saint-Honorè a Parigi.
10   L’Italia vista da fuori e a dentro

Non investono più in Italia

Come qualsiasi manager che lavori per un azienda internazionale,
con presenza in tanti paesi, ho sempre sentito con particolare re-
sponsabilità il compito di rappresentare e promuovere l’Italia, ogni
qualvolta si trattava di decidere dove, cioè in quale paese, fare un
determinato investimento. Ovviamente, come concorrenti ben ag-
guerriti avevo i miei colleghi di altre Nazioni.
     Immagino che anche oggi facciano lo stesso i manager a capo
delle filiali italiane di grandi società straniere operanti nel nostro
Paese. Non invidio questi manager, per il difficilissimo compito che
hanno nel convincere i propri capi stranieri a considerare l’Italia un
luogo dove investire. Recentemente il presidente della NEC in Italia
pubblicamente in televisione ha raccontato le difficoltà che ha sem-
pre trovato nel convincere la casa madre a fare investimenti in Italia.
     Dall’estero si investe sempre meno in Italia. I dati parlano chia-
ro: i flussi medi degli investimenti diretti esteri (non quelli pura-
mente finanziari, di breve periodo) verso l’Italia, negli ultimi cinque
anni, sono stati all’incirca la metà di quelli verso la Spagna e la
Germania, quasi un terzo di quelli verso la Francia e addirittura un
quinto del Regno Unito. Eppure uno degli indicatori più importanti
per valutare lo stato di salute di un’economia sono proprio gli inve-
stimenti dall’estero.
     La Banca Mondiale nel suo annuale rapporto di “Doing Busi-
ness 2012” indica che nella classifica dei paesi con le condizioni
più favorevoli per l’attività di un’impresa, l’Italia è solo al 87esima
posizione su un totale di 183 paesi, dietro a Zambia, Mongolia e
Albania! Nella stessa classifica l’U.K. è al 7 posto, la Germania al
19, la Francia al 29 e la Spagna al 44. I punti di maggior debolezza
per noi sono: 158esimi per l’esecuzione dei contratti e 134esimi
per il pagamento delle tasse.
Lavorare per una grande impresa internazionale 11

   Gli investimenti stranieri in Italia non sono solo positivi perché
apportano posti di lavoro e contribuiscono alla crescita dell’eco-
nomia nazionale. Oltre agli aspetti puramente economici, questi
investimenti molto spesso danno un contributo importante per la
creazione di elevate competenze sulla frontiera dell’innovazione
tecnologica e dei settori ad alto valore aggiunto. Con il loro esem-
pio, inoltre, diffondono la cultura d’impresa e spesso sono vere e
proprie scuole di management per lo sviluppo dei manager locali.
Vista la scarsità di nostre grandi aziende, fanno eccezione forse
l’ENI, la Fiat e pochissime altre società, abbiamo poche realtà
che svolgono il ruolo di formazione e sviluppo di manager che un
tempo ad esempio l’Olivetti o l’IRI svolgevano a beneficio dell’in-
tera economia nazionale.
   La competizione tra paesi per attrarre gli investimenti dei
grandi attori dell’economia mondiale è oggi di sicuro più serrata,
direi quasi feroce, e vincere, cioè essere prescelti per un progetto
d’investimento, è molto più difficile. Perché? Si tratta di capire
l’evoluzione che è in corso nel modo di operare delle grandi so-
cietà internazionali, delle loro logiche decisionali, del loro attuale
modello organizzativo.
   Un’impresa che decide di investire in un altro paese cerca in
generale, al di là di aspetti specifici al suo business, un sistema di
regole stabile che dia certezza ed eviti sorprese, per essere in gra-
do di eseguire il proprio piano d’investimento. Ricerca un paese
che abbia dei costi competitivi, cioè tasse, energia, lavoro,servizi,
logistica. Ancora, privilegia un ambiente flessibile, non solo nel
mercato del lavoro, per poter reagire di fronte a cicli di segno
opposto nell’andamento dei suoi affari. La qualità delle risorse
umane, il loro grado di preparazione, la loro attitudine verso il
lavoro, la qualità delle relazioni industriali sono parametri che
vengono sempre esaminati.
12   L’Italia vista da fuori e a dentro

     Ma un’impresa che decide di investire in un altro paese, consi-
dera anche altri fattori che si posso classificare più soft, ma non
per questo meno importanti. Mi riferisco all’atteggiamento cultura-
le del paese ospitante nei confronti degli investitori stranieri, alla
sua apertura e all’apprezzamento del contributo che un investimen-
to dal di fuori del paese porta alla comunità locale. Quell’impresa
vuole essere assicurata della stabilità del paese prescelto, non tan-
to e non solo dal punto di vista politico ed economico, quanto per
quel che concerne l’ordinamento complessivo con le sue leggi e le
sue regole. Ma forse l’aspetto più rilevante riguarda la “garanzia”
del proprio investimento: chi investe in paesi ad economia centra-
lizzata fa un patto con il Governo locale che diventa la garanzia
del suo investimento. Nelle economie libere è il mercato che ga-
rantisce della bontà degli investimenti. Non ci sono incentivi che
tengono per superare la necessità di avere regole certe di mercato
quanto più chiare, rispettate e aperte alla concorrenza.

La geografia e l’impresa globale

Ho accennato all’evoluzione del modo di essere delle grandi socie-
tà che operano sullo scenario mondiale. Vediamo ora brevemente
questa evoluzione. All’inizio del secolo scorso si cominciava ad af-
fermare il modello della “società internazionale”: la maggior par-
te delle loro operazioni avvenivano nel paese d’origine, con sedi
all’estero per le vendite e la distribuzione. Gli investimenti al di
fuori del proprio paese erano perciò limitati. Verso la metà del ’900
è emerso il modello della “azienda multinazionale”: la creazione
di versioni ridotte di sé in altri paesi, soprattutto i più importan-
ti, investendo ingenti capitali localmente. Investimenti che non
riguardavano solo il lato delle commercializzazione dei propri pro-
“Perchè quella di questo manager, anomalo rispetto al modello sta-

                                                                                   03561
talista, dirigista e burocratico imperante, è una cultura aziendale, e
politica, di marca popperiana? Perchè, per dirla sempre con Popper,
i fatti che egli racconta e le considerazioni cui perviene, sono espo-
sti al principio di falsificabilità, cioè sono sempre passibili,in quanto
frutto dell’esperienza diretta, ovvero della documentale rilevazione
empirica, di verifica, se veritieri o immaginari, nella realtà dei fatti.”
                                          dalla Prefazione di Piero Ostellino.

I cambiamenti geopolitici, tecnologici ed economici degli ultimi anni
hanno trovato l’Italia impreparata, il che ha creato un divario tra la
nostra economia e quella di Paesi che hanno invece saputo resistere
alla crisi se non proprio volgerla a proprio favore.
Il grande bisogno di cambiamento che ogni crisi, soprattutto quelle
più gravi, fanno emergere, crea lo spazio per una nuova leadership
che sappia dare risposte moderne, che sappia interpretare in modo
corretto il nuovo. Si crea una grande opportunità per i giovani, uno
spazio che , come per legge fisica, va occupato con proposte e azio-
ni più efficaci e più in sintonia col mondo che emerge dalla crisi.
Senza aspettare che sia consentito, chissà quando, di farlo.
Un libro acuto, semplice e intuitivo, scritto da uno dei massimi
esponenti politici italiani e dedicato a chiunque voglia compren-
dere il delicato momento che stiamo attraversando, cogliendone le
opportunità di business.

Lucio Stanca si è laureato alla Bocconi di Milano. È stato dirigente indu-
striale e negli anni novanta è stato a capo della IBM in Italia e in Europa.
È stato Ministro dell’Innovazione Tecnologica nel secondo e terzo Governo
Berlusconi (2001-2006). Successivamente è stato eletto prima al Senato e
poi alla Camera dei Deputati (2006-2013).
È vice presidente dal 2001 dell’Aspen Institute Italia. Tra il 2009 e il 2010 è
stato amministratore delegato della societa di gestione di Expo 2015.

                                                          ISBN 978-88-6345-561-8

                                                         e 19,00
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