Comunicazione: scrittura, linguaggio e simbolismo

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Comunicazione: scrittura, linguaggio e simbolismo
Elisabetta Munerato

     Comunicazione: scrittura, linguaggio e simbolismo

                                                                                (“Guernica” P. Picasso, 1937)

               Comunicazione: scrittura, linguaggio e simbolismo
La scelta di esporre gli argomenti qui presenti è nata dal fatto di cercare di comprendere come e quali siano
stati gli strumenti di divulgazione a livello sociale, psicologico e politico, dell’ideologia fascista e nazista
durante la seconda guerra mondiale. L’altra motivazione che mi ha spinta ad impegnarmi a sviluppare questo
lavoro è legata al fatto di aver conosciuto personalmente una persona che nei lager nazisti ha vissuto per tre
anni. Una persona con la quale ho instaurato un’amicizia durata per più di dieci anni e che, attraverso un
rapporto epistolare, mi raccontò degli orrori visti e vissuti personalmente in quel periodo. Fatti accaduti in
una realtà poco lontana dai nostri tempi e per questo motivo molto più viva rispetto al ricordo di altre
tragedie avvenute in epoche precedenti. Partendo dal testo letterario di uno scrittore italiano, Italo Calvino,
ho sviluppato l’argomento con l’intento non solo di raccontare a livello storico, ma anche di spiegare come si
possa cercare di vivere nel bene e di farlo perdurare nel tempo, nonostante l’incombenza del male. Anche
l’opera scelta per la copertina ha un significato legato al male, alla guerra, alla morte e a quanto anche l’arte
possa, in un qualche modo, divulgare un pensiero o un’ideologia ed essere testimone di ciò che accade in
ogni tempo.
Comunicazione: scrittura, linguaggio e simbolismo
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Copertina: Guernica, Pablo Picasso (1937) - Un’opera che ha subito una censura sia in Italia che in
Germania, durante i rispettivi regimi dittatoriali. In questo quadro Picasso fa riferimento, utilizzando lo stile
del Cubismo, ad un episodio della guerra civile spagnola, descrivendo il bombardamento della cittadina
Basca di Guernica. (fonte: sito internet Wikipedia (immagine) – Bibliografia: “Arte Studio- dall’Ottocento a Oggi” –
R. Bigano, L. Mattirolo ed. Petrini; “Il Cricco di Teodoro”, G. Cricco, F. Di Teodoro, ed. Zanichelli).

Pag. 3 Anche la penna racconta.
Vita e opere dello scrittore Italo Calvino; la scrittura utilizzata come strumento di comunicazione e di
testimonianza. (Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, 1972 – “Testi e scenari - letteratura, cultura, arti” -
Zanichelli).

Pag. 4 Una propaganda di simboli tra Fascismo e Nazismo.
Esempi di propaganda che durante la seconda guerra mondiale hanno permesso di divulgare a livello sociale
e politico l’ideologia fascista e nazista. (siti internet: Wikipedia; – Bibliografia: “Mein Kampf” – Adolf Hitler,
1925).

Pag. 5 Anche il male diventa simbolo di vita.
Come si tenta, anche attraverso pensieri filosofici, di spiegare l’esistenza del male e l’esigenza per alcuni di
divulgarlo e di vivere nel male. Processo ad Eichmann, raccontato dalla filosofa e scrittrice Hannah Arendt.
( “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme”, Hannah Arendt, 1963, ed. Feltrinelli)

Pag. 6 L’ambiente stimola l’uomo a interpretare ciò che lo circonda.
Le teorie dello psicologo bielorusso Vigotskij secondo il quale, il processo cognitivo viene stimolato e
influenzato dalla percezione di ciò che accade attorno all’individuo. (siti internet: Wikipedia;
www.costruttivismoedidattica.it/teorie - Bibliografia: “Pensiero e linguaggio” Lev Vygotskij – Laterza, 1990; “La
ricerca socio-psico-pedagogica” Bianchi - Di Giovanni, ed. Paravia).

Pag. 7 Simboli, linguaggio e scrittura per integrarsi al meglio nella società.
La storia di Don Milani, che creò la scuola popolare per debellare l’analfabetismo e dare dignità anche ai
meno fortunati attraverso un’istruzione, nell’epoca fascista. (siti internet: Wikipedia – Bibliografia: “Pensare ed
educare”, terzo volume, U. Avalle, M . Maranzana, ed. Paravia).

Pag. 9 Conclusione: Ripreso il testo iniziale di Italo Calvino, si cita l’esempio di come, grazie a Don
Facibeni, maestro di Don Milani, anche nell’inferno della guerra sia stato possibile trovare il modo di far
esistere il bene e di farlo perdurare nel tempo. (sito internet: Wikipedia).

A Guido Zenobi e a molti Altri.
Comunicazione: scrittura, linguaggio e simbolismo
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1. Anche la penna racconta

La vita è un qualcosa di misterioso. In essa troviamo persone, fatti, principi, comunicazioni e
interpretazioni: tutti elementi assai diversi gli uni dagli altri e spesso in contrasto fra di loro. Tra
questi riveste un ruolo molto importante la comunicazione: strumento fondamentale per esprimere
pensieri e intenzioni e per interpretare la vita stessa. Fra le forme di comunicazione più utilizzate, ci
soffermeremo sul linguaggio, sul simbolismo e sulla scrittura. Il linguaggio inizia a rivestire grande
importanza a livello di comunicazione già con i Greci e i Latini, tra i quali ricordiamo grandi oratori
e filosofi quali Socrate, Platone, Quintiliano, Cicerone e lo stesso Giulio Cesare. Il simbolismo è un
elemento cardine della comunicazione, in quanto esprime contenuti di significato ideale, espressi
nel linguaggio per mezzo di una allegoria. Il simbolismo, come suggerisce la parola, si avvale di
simboli, elementi grafici che diventano la rappresentazione di un ideale.
La scrittura, infine, rappresenta il primo mezzo utilizzato dall’uomo per la conservazione e la
trasmissione di dati per le generazioni future. Attraverso di essa l’uomo non solo divulga i fatti
servendosi di grafemi, ma li tramanda di generazione in generazione, conservando nel tempo
memorie ed emozioni. Grazie alle prerogative di quest’ultima forma di comunicazione, la scrittura
può essere utilizzata per interpretare la nostra esistenza, quella di tutti i giorni, che viviamo nella
nostra società. Un esempio è quello dello scrittore Italo Calvino:

                     L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è
                     già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
                     Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare
                     l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è
                     rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper
                     riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e
                     dargli spazio. 1

In questo passo, tratto dal romanzo Le città invisibili, l’autore cerca di offrire la sua interpretazione
della vita e della società in cui vive. Per Calvino in questo libro si concentrano tutte le sue
riflessioni, esperienze e congetture.
Italo Calvino nasce nel 1923 a Cuba, nel paese di Santiago de Las Vegas, da genitori italiani. Nel
1925 i coniugi Calvino decidono di rientrare in patria e si stabiliscono a Sanremo, dove il piccolo
Italo vive un’infanzia spensierata, in un clima amorevole. Calvino è uno scrittore di grande impegno
politico, civile e culturale ed è uno dei narratori più importanti del secondo Novecento italiano.
Sperimenta numerosi campi di interesse durante il suo percorso letterario, che racconta attraverso
capolavori quali la trilogia I nostri antenati, Marcovaldo, Le cosmicomiche e Se una notte d’inverno
un viaggiatore. Questi racconti sono accomunati dalla riflessione sulla storia e sulla società
contemporanea. L’esperienza partigiana è alla base del suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di
ragno e della raccolta di racconti Ultimo viene il corvo.
Ne Il sentiero dei nidi di ragno, Calvino dà l’avvio all’operazione di sdoppiamento dei piani
interpretativi che contraddistinguono la sua produzione: da una parte il lavoro puramente narrativo,
con uno stile semplice e comprensibile a tutti i lettori; dall’altra invece quello riconoscibile solo dai
fruitori più attenti. In questo suo primo romanzo, l’intreccio è raccontato dal punto di vista del
protagonista, un bambino di nome Pin; è sempre presente la dimensione mitico-fiabesca che
permette a Calvino di far intravedere la realtà solo sotto le spoglie di un sogno. Dai suoi scritti ci
rendiamo conto che, se in un primo momento il periodo fascista non sembra segnare in modo
particolare la sua personalità, in realtà Calvino ne conserva un ricordo assai forte. Infatti, il primo
contatto con tale cultura è vissuto da Calvino tra gli anni 1929 e 1933, quando l’ideologia fascista è
presente nell’istruzione e, per obbligo scolastico, Italo non può sottrarsi all’esperienza “Balilla”. La
seconda guerra mondiale sconvolge la vita non solo nelle grandi città, ma anche nei più piccoli

1
    I.Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, pag. 82
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paesini di provincia. Anche la vita di Italo Calvino è frammentata da vicissitudini, quali l’adesione
alla seconda divisione d’assalto partigiana: il suo nome da partigiano fu Santiago, in ricordo del
paesino cubano in cui nasce. Attraverso la scrittura Calvino tramanda tali esperienze nel racconto
Ricordo di una battaglia scritto nel 1947.

2. Una propaganda di simboli tra fascismo e nazismo

Il Fascismo nasce per opera di Benito Mussolini. Nel 1919, a Milano, egli fonda i Fasci di
combattimento che nel 1921 si trasformano in Partito Nazionale Fascista.
I Fasci di combattimento sono predisposti ad azioni violente rivolte a contrastare l’ondata di
scioperi promossi dal movimento socialista. Il fascismo come ideologia politica, presenta caratteri
totalitari, nazionalistici e autoritari. Questa ideologia è un movimento rivoluzionario e reazionario.
Con la marcia su Roma, Benito Mussolini conquista il potere nel 1922, trasformandolo poi in
dittatura nel 1925. Come mezzo di divulgazione viene utilizzata la propaganda, che è un’attività di
disseminazione di idee e informazioni con lo scopo di persuadere le masse, e di raggiungere
specifici obiettivi. Per il Partito Fascista viene scelto anche un simbolo, che racchiuda in un solo
disegno tutta l’ideologia del movimento. I fasces lictoriae erano, nell’antica Roma, il simbolo del
potere e dell’autorità maggiore, l’ Imperium. Si trattava di un fascio cilindrico di verghe di betulla
bianca, simboleggianti il potere di punire. I fasci erano legati e tenuti insieme da nastri rossi di
cuoio (fasces), simboli di sovranità e unione, al quale talvolta era fissata un’ascia di bronzo, a
rappresentare il potere di vita e di morte sui condannati.

                                                             Mussolini interpreta tale simbolo come la
                                                             figura ideale per rispecchiare il suo pensiero e
                                                             lo utilizza per rappresentare l’ideologia
                                                             fascista.
                                                             All’epoca di Mussolini, oltre al linguaggio, vi
                                                             sono altri strumenti a disposizione della
                                                             propaganda: la radio, il volantinaggio e i
                                                             giornali (dove spesso erano impegnati
                                                             redattori costretti ad essere di parte), e
                                                             soprattutto la scuola, terreno su cui instillare,
                                                             anche ai più piccoli, l’ideologia fascista.

Essa prevede un unico Stato con un unico partito, che vieta qualunque opposizione al partito stesso.
Nega inoltre la formazione e l’autonomia di gruppi culturali o etnici (in particolare ebraici), che non
sono considerati parte della nazione fascista e che rifiutano di essere assimilati. Esprime inoltre il
rifiuto dell’individualismo e cerca di creare un’identità collettiva, disposta anche a usare violenza
pur di mantenersi vitale. Mussolini dà grande importanza alla propaganda, fatta di lunghi comizi,
nei quali esercita la propria arte oratoria, utilizzando parole chiave dal forte potere persuasivo, come
ad esempio le frasi del passo seguente:

                   Il fascismo è una grande mobilitazione di forze materiali e morali. Che cosa
                   si propone? Lo diciamo senza false modestie: governare la Nazione. Con
                   quale programma? Col programma necessario ad assicurare la grandezza
                   morale e materiale del popolo italiano […] Noi agitiamo dei valori morali e
                   tradizionali che è ipoteca arbitraria sul misterioso futuro2.

2
    Mussolini, 19 agosto 1921- Diario della Volontà
5

Un altro tipico esempio di propaganda, per molti aspetti catastrofica, è quella utilizzata durante il
Nazismo ad opera di Hitler. Egli compone il suo programma politico durante la sua reclusione nel
1924, causata dal suo tentato colpo di Stato a Monaco. E proprio in carcere egli, attraverso la
scrittura, esprime il suo pensiero stilando una serie di comandamenti, raccolti in un libro intitolato
Mein Kampf. Il simbolismo ricorre tanto nel Nazismo quanto nel Fascismo, come pure l’attitudine
di rivolgersi alle masse.

                                     Anche il Nazismo, che nasce come un partito per trasformarsi poi in
                                     una dittatura, utilizza un simbolo per la propria ideologia: la svastica,
                                     formato da una croce greca con bracci piegati ad angoli retti. Nel primo
                                     dopoguerra tale segno viene adottato dal Partito Nazionalsocialista
                                     Tedesco dei Lavoratori per poi essere utilizzato nella bandiera della
                                     Germania nazista.

Hitler dunque ricorre alla propaganda, servendosi di messaggi falsi ma persuasivi. Con essa, egli
tenta di creare un effetto gregge, facendo appello alla vittoria inevitabile, sicura, perché la strada
intrapresa è quella giusta, quella che tutti gli altri stanno percorrendo. Il termine ‘effetto gregge’,
viene utilizzato dagli psicologi per descrivere un fenomeno che coinvolge la scomparsa della
personalità individuale e che porta di conseguenza a eseguire ordini, a imitare comportamenti di un
gruppo di persone, provocando la sottomissione ad un capo carismatico.
Il Nazismo è l’esempio più sconvolgente di questo tipo di comportamento, in cui si ha da parte della
società intera, l’effetto gregge, raggiungendo quasi una forma di follia e trasformando la vita in un
inferno. Ecco dunque nuovamente il testo di Italo Calvino, in cui, attraverso la scrittura, descrive e
interpreta questo tipo di comportamento:

                     «L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è
                     già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
                     Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare
                     l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più… »3.

3. Anche il male diventa simbolo di vita

Una filosofa tedesca, di origine ebrea, vive il dramma del nazismo e cerca di interpretare a suo
modo quell’inferno, o meglio il comportamento delle persone che vivono quell’inferno, ma da
aguzzini, come qualche cosa di normale, di lecito, quasi di inevitabile, come stessero vivendo
semplicemente la loro vita normale.
Hannah Arendt, storica, scrittrice e filosofa tedesca, nasce a Linden (Hannover) nel 1906, da una
famiglia ebrea. Si iscrive alla facoltà di filosofia ed è allieva di Martin Heidegger.
Con lui ha una relazione sentimentale segreta, ma quando Hannah scopre che l’uomo nutre simpatie
per il nazismo sceglie di rinunciare al loro amore. Decisione sofferta, che la filosofa ha comunque il
coraggio di prendere, pur non riuscendo mai a cancellare del tutto l’amore e la devozione per il suo
primo maestro.
Nel 1933, all’inizio delle persecuzioni contro gli ebrei, la Arendt lascia la Germania e raggiunge la
Francia. Ma gli sviluppi storici del secondo conflitto mondiale la portano a dover lasciare anche il
suolo francese. Viene accusata di essere una straniera sospetta, quindi internata nel campo di Gurs,
dal quale viene in seguito rilasciata, riuscendo a raggiungere Lisbona; da qui salpa alla volta degli
Stati Uniti d’America. Giunta a New York e superate le iniziali difficoltà, grazie al suo eccellente
talento nell’unire con fluidità il pensiero alla penna, la Arendt inizia a scrivere opere di rilievo che

3
    I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, pag. 82.
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presto le fanno trovare un nuovo paese in cui vivere dignitosamente, senza avere né vergogna né
timore di essere ebrea.
Ottiene insegnamenti presso Università prestigiose e pubblica Le origini del Totalitarismo.
Scrive anche per giornali come il settimanale New Yorker. E proprio da questo settimanale viene
inviata ad assistere, a Gerusalemme, al processo di Eichmann, un criminale nazista, nel 1961.
Il processo si svolge in 120 sedute e il suo resoconto viene pubblicato dalla Arendt nel libro dal
titolo La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, pubblicato nel 1963.

La filosofa non si limita a descrivere i passaggi del processo, i fatti, le
testimonianze portate in tribunale, il comportamento di Eichmann e la
sentenza ultima espressa dai giudici, ma analizza i fatti per mettere in
evidenza la sua interpretazione di quanto udito. Fa notare come la
mancanza di pensiero dei nazisti, che non facevano altro che eseguire
gli ordini, senza concedersi nessun dialogo con se stessi su quello che
stava accadendo, li rese persone banali. E proprio a causa della loro
banalità di individui, furono autentici agenti del male. La Arendt ne
esalta la banalità, la quale rende un popolo, come quello nazista, un
popolo «acquiescente quando non complice con i più terribili misfatti
della storia e a far sentire l’individuo non responsabile dei suoi
crimini». Nel libro la Arendt descrive quale era il compito della
giustizia: « […] che l’imputato sia processato, difeso e giudicato e che
tutte le altre questioni siano lasciate da parte.»
Questioni più «umane, etiche, morali, umili e psicologiche», quali: «come è potuto accadere?
Perché è accaduto? Perché gli ebrei? Perché i tedeschi? Quale è stato il ruolo delle altre nazioni?
Fino a che punto gli alleati sono da considerarsi responsabili? Come hanno potuto i capi ebraici
contribuire allo sterminio degli ebrei?4».
La Arendt si è chiesta tutto questo e ha cercato di dare delle risposte, analizzando cos’è il male:
«L’incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente nella gente più intelligente e la
malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male. Dunque l’uso del pensiero
previene il male.» Quel male che forse per Eichmann fu, invece, simbolo di vita e non di morte.
La Arendt cercò di andare a fondo del problema, proprio per poter interpretare il comportamento
anche di tutti gli altri individui che si macchiarono di tali atrocità. «Per me, Eichmann non era uno
stupido ma semplicemente senza idee…Egli non capì mai quello che stava facendo e questa
mancanza d’immaginazione lo legò ai crimini». La sentenza per la Arendt non fu del tutto
soddisfacente, sebbene la conclusione fosse stata giusta considerando tutto quello che era accaduto
e sarebbe potuto riaccadere. La condanna a morte di Eichmann fu semplicemente un atto dovuto ma
la filosofa e scrittrice aveva ipotizzato una sentenza molto più valida, basata sulle affermazioni di
Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco con cui la Arendt scrisse un libro: «Eichmann si era reso
responsabile, commettendo crimini contro ebrei, di attentare all’umanità stessa. Uccidendo più
razze si negava la possibilità di esistere all’umanità, che è tale solo perché miscuglio di diversità.»
Il comportamento di Eichmann, quindi, era dettato proprio dall’effetto gregge, a causa del quale la
società, l’ambiente esterno, l’ideologia del momento, influenzano il pensiero e di conseguenza il
comportamento degli uomini.

4. L’ambiente stimola l’uomo a interpretare ciò che lo circonda

Il comportamento umano è guidato da stimoli-mezzo, che non sono strumenti esterni, ma strumenti
acquisiti dall’ambiente sociale e interiorizzati. Questo pensiero è affermato da un grande psicologo
sovietico, Lev Vigotskij che nasce nel 1896 in Bielorussia da una famiglia di ebrei benestanti.

4
    Hannah Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, 1963
7

Frequenta l’università statale di Mosca e si laurea in giurisprudenza. Si occupa principalmente di
critica letteraria e poi, successivamente, incomincia ad interessarsi di Psicologia dell'arte e
all'applicazione della psicologia nell'educazione.
Per Vigotskij è importante il linguaggio. Egli pensa che i bambini, fin da piccoli, non solo agiscono
nel cercare di risolvere un compito, ma parlano. Così, il simbolo è uno strumento altrettanto
importante nello sviluppo del bambino e importante nel rapporto tra pensiero pratico e linguaggio.
L’uso strumentale dei segni è per Vigotskij un’attività prettamente umana ed è il prodotto dello
sviluppo storico del bambino correlato all’intelligenza pratica. Ogni stimolo condizionato creato
dall’uomo e assunto come mezzo per dirigere il proprio comportamento e quello altrui, è già di per
sé un segno.
Ma questi segni non sono ideati solo da un singolo individuo, ma anche dall’ambiente sociale, come
la famiglia o la scuola. Per Vigotskij, la mente umana si differenzia da quella animale, perché il
cervello è di un essere sociale e l’assimilazione degli stimoli-mezzo, nelle funzioni psichiche
dell’uomo, comporta una modificazione funzionale del cervello stesso.
Quindi il nostro cervello non è statico, ma dinamico e si trasforma, si evolve e si adatta. Il processo
cognitivo come il ragionamento, parte da determinate premesse, che attraverso procedimenti logici,
portano ad una conclusione.
Ma il processo cognitivo viene stimolato e influenzato dalla percezione. Percezione di ciò che ci
circonda, che accade attorno a noi e che a sua volta genera un processo psichico che opera la sintesi
dei dati sensoriali in forme dotate di significato e di emozioni. I contenuti di pensiero di un adulto
sono stati acquisiti ed elaborati come strumenti esterni, interiorizzati, fatti propri. Lo sviluppo
ontogenetico è quindi uno sviluppo culturale, fondato sul processo di interiorizzazione dei mezzi
dall’ambiente socio-culturale.
Come più in generale il linguaggio è uno stimolo-mezzo se lo si interpreta come forma di
comunicazione, che comunque deve essere appresa. Questo avviene a seconda dell’ambiente in cui
si nasce e si vive.
Anche la scrittura per Vigotskij è un sistema di segni che l’individuo acquisisce ad una certa età se
vive in un ambiente sociale in cui la scrittura è conosciuta e gli viene insegnata.

5. Simboli, linguaggio e scrittura per integrarsi al meglio nella società

Verso la fine del diciannovesimo secolo, un po’ in tutto il mondo, si diffuse l’attivismo pedagogico
che rivoluzionò i metodi di insegnamento. Le sue fondamentali caratteristiche sono:
puerocentrismo, mettere al centro dell’interesse il bambino, i suoi bisogni, i suoi sentimenti, i suoi
tempi di apprendimento; inserendo nella didattica il lavoro manuale, gli esperimenti, i laboratori, le
escursioni didattiche e creando armonia tra ambiente interno ed esterno con l’alunno; creando spazi
adatti ad accoglierlo, creando cortili, giardini e inserendo tra le materie di studio, anche la musica,
la pittura, il disegno, le lingue straniere e gli esercizi fisici.
Anche Don Lorenzo Milani, un pedagogista dell’attivismo, si accorge di quanto siano importanti i
simboli, la lingua e la scrittura, che considera strumenti utili per integrarsi al meglio nella società.

                               Don Lorenzo Milani nasce a Firenze nel 1923. Si appassiona fin da
                               ragazzino alla pittura e dopo aver studiato come privatista si iscrive
                               all’accademia di Brera, a Milano. La sua famiglia non solo non era
                               mai stata religiosa, ma addirittura fu anticlericale. I coniugi Milani
                               fecero battezzare i loro figli solo per paura di ripercussioni in epoca
                               fascista, dato che la madre di Lorenzo era ebrea. Una volta
                               cresciuto, Don Milani, chiama il suo battesimo un battesimo
                               fascista. Nel 1943, la conversione di Lorenzo Milani, e nel 1947
                               viene nominato sacerdote.
8

L’animosità di Don Milani, gli procura degli screzi con la curia di Firenze che, nel 1954 lo invia a
riflettere sull’accaduto, a Barbiana, nel Mugello, un piccolo paesino sperduto tra i monti. Qui, entra
in contatto con la gente del posto e con i figli dei montanari, e si rende conto che l’istruzione è assai
precaria, se non inesistente. Così, decide di fondare una scuola a tempo pieno rivolta alle classi
popolari dove può sperimentare la scrittura collettiva: una stesura di testi per lo più di narrativa che
coinvolge più autori.

                                                  La scuola di Barbiana è un vero e proprio collettivo
                                                  dove si lavora tutti insieme e, quando il tempo lo
                                                  permette, si fa scuola all’aperto sotto il pergolato. Tra
                                                  gli alunni i più grandi accudiscono i più piccoli, e
                                                  spesso che è più bravo in una materia insegna agli
                                                  altri compagni. Don Milani assume un proprio motto
                                                  che nasconde in sé un pensiero in contrapposizione
                                                  all’ideologia fascista. Infatti al motto fascista Me ne
                                                  frego, contrappose il proprio I Care che letteralmente
                                                  significa mi importa o mi sta a cuore e che, in futuro,
                                                  verrà anche utilizzato da numerose organizzazioni
                                                  religiose e politiche.

Don Milani cura l’educazione dei suoi ragazzi non solo dal punto di vista intellettuale, ma anche e
soprattutto dal punto di vista sociale, umano. Per lui tutti hanno il diritto ad una istruzione,
indipendentemente dal ceto sociale, dall’età e dal tempo che si ha a disposizione. Infatti Don Milani
deve anche rendere compatibili le ore che i ragazzi devono dedicare al lavoro nei campi, con il
tempo che essi possono dedicare allo studio. Studio che deve essere preso seriamente in
considerazione dagli studenti e che spesso viene affiancato a punizioni anche corporali, quando essi
vengono meno all’impegno. Questo perché i ragazzi devono imparare a scontrarsi con le difficoltà
che la vita offre loro, soprattutto ai figli di contadini che in società per essere considerati devono
impegnarsi più degli altri. Don Milani è solito incitare i suoi ragazzi a sapere, a conoscere,
soprattutto per non essere beffati dalla vita stessa e per non venire usati, strumentalizzati. A loro
insegna a pensare con la propria testa, a lavorare con gli altri e su se stessi, per se stessi e per essere
utili in società. È anche importante sapersi esprimere attraverso le parole, la scrittura, senza perdere
la propria spontaneità, il proprio io. Ecco perché è fondamentale per Don Milani che i ragazzi
scrivano e che attraverso le loro lettere esprimano i propri sentimenti, le loro proteste e i loro
bisogni. Solo così possono essere nella società dei cittadini attivi, presenti, utili alla società stessa. I
testi di solito vengono redatti, rivisti, letti, discussi e riadattati insieme. Così i ragazzi della scuola di
Barbiana attraverso le loro lettere comunicano con il mondo esterno.

Famosa è la Lettera a una professoressa, scritta nel maggio del 1967 in cui i ragazzi della scuola,
insieme a Don Milani, denunciano il sistema e il metodo scolastico che esclude i ragazzi meno
ricchi dall’accedere ad un’ istruzione sempre concentrata principalmente sui figli di famiglie agiate.
Questo comportamento, a quei tempi, non aiutava di certo a debellare la piaga dell’analfabetismo,
che in quell’epoca era ancora alto sulla maggior parte del territorio italiano. In questa lettera, i
ragazzi criticano una professoressa troppo attenda alla burocrazia e agli iter scolastici e meno
sensibile al lato umano, alle esigenze del ragazzo. Ragazzo che, dopo un esame utile da superare per
accedere alla scuola, riceve un voto negativo e così non ottiene l’ammissione. La lettera viene
pubblicata in un libro che divenne un monito durante il movimento studentesco del 1968. Grazie a
Don Milani, e al suo impegno, nascono altre scuole popolari dando sempre più possibilità ai ragazzi
meno abbienti di accedere ad una istruzione che, benché minima, possa almeno dare loro un po’ più
di dignità. Don Milani scrive anche ai cappellani militari, li sostiene e li elogia per il loro coraggio e
il loro rifiuto a difendersi con le armi, seppur in guerra, facendo appello all’obiezione di coscienza.
9

Uno dei maestri di Don Milani fu proprio un cappellano militare, Don Giulio Facibeni, antifascista,
che, tra l’inferno della guerra, ebbe il compito e il coraggio di cercare e riconoscere chi e cosa non
era inferno e cercò in tutta la sua vita di farlo durare e di dargli spazio. Infatti, prestò servizio stando
accanto a molti soldati che, morenti, gli raccomandarono i loro figli. Da queste raccomandazioni
nacque in lui l’esigenza di creare l’Opera di assistenza per gli orfani di guerra, ispirata alla sacra
immagine della Madonnina del Grappa, che tutt’ora è attiva nelle sue opere di bene. Per fare questo,
Don Facibeni dovette pensare. E dunque anche il pensiero può diventare un simbolo, di vita.

6. Conclusione

Riprendendo un passo di Italo Calvino:

                     […] Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui:
                     cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno,
                     e farlo durare, e dargli spazio. 5

L’opera di Don Facibeni è la dimostrazione che il suo paradiso ancora dura e ha spazio in questo
mondo. Anch’egli adottò un motto, utilizzando non solo la scrittura, il simbolo e il linguaggio come
strumento di pensiero, ma anche di sentimento: “Abbiamo creduto nell’amore”. Dunque, non solo la
guerra fa e rimane impressa nella storia, ma anche l’amore.

L'ultima questione è sapere se dal fondo delle tenebre un essere può brillare. (Karl Jaspers)

5
    I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, pag. 82
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