Come Facebook dichiarò guerra agli USA

Pagina creata da Erica Santoro
 
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Come Facebook dichiarò guerra agli USA
Come Facebook dichiarò guerra agli USA

La sera in cui Facebook dichiarò guerra agli Stati Uniti tra gli argomenti di tendenza sul sito del
social network troneggiava, inamovibile, la finale dell’ultima edizione di The Voice. Pareva che i 250
milioni di utenti statunitensi del sito non fossero interessati ad altro e non discutessero di altro,
almeno a giudicare dalla homepage in cui erano mostrati, in evidenza, i trending topic, cioè gli
argomenti di tendenza del momento per guidare fin da subito gli utenti verso i temi più dibattuti.

Ovviamente, le maggiori testate nazionali e internazionali avevano coperto la notizia, non appena la
dichiarazione di guerra fu pubblicata con un post messo in evidenza sulla pagina del padrone di
Facebook, Mark Zuckerberg. Nessuna “bucò” la notizia.

      Pochi like, nessuno share, nessun commento

E del resto, come avrebbero potuto ignorare un fatto così eclatante come una dichiarazione di
guerra alla prima potenza mondiale? Ognuno a modo suo aveva cercato attraverso la propria pagina
Facebook di dare la maggiore copertura possibile, con dirette audio o video, aggiornamenti in tempo
reale, schede di approfondimento, intervento di esperti di ogni genere, dalla politica estera
all’economia, dalla sociologia a internet.

Eppure la notizia sembrava non filtrare al di fuori delle pagine Facebook delle televisioni, delle radio
e dei giornali verso i profili degli utenti, su altre pagine, in gruppi di discussione. Le interazioni con i
diversi post erano basse, bassissime. Pochi like, nessuno share, nessun commento. I Facebook Page
Manager delle diverse testate faticavano a capire cosa stesse succedendo e ogni sforzo di produrre
post accattivanti, arrivando perfino a cercare di integrarsi nel flusso di notizie legate alla finale di
The Voice, era vano.

Verso le 22.40 uno studente di Akron, nell’Indiana, che aveva sviluppato un algoritmo per
monitorare le prestazioni di alcune pagine notò un andamento anomalo della pagina della CNN:
improvvisamente le interazioni e le impressioni di pagina erano crollate vicino allo zero. Incuriosito,
aprì la pagina e, avviando il video della diretta che dava conto di quanto accadeva in seguito alla
dichiarazione di guerra, decise di condividere il link sulla propria bacheca ed ebbe l’account sospeso
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per alcune ore, senza particolari spiegazioni.

      Lentamente, anche i post dalle pagine delle diverse testate iniziavano a scomparire

Più o meno contemporaneamente, un utente di Buffalo apriva la pagina del New York Times alla
ricerca di un link che aveva visto passare sulla propria timeline alcune ore prima e si accorse così di
quello che stava succedendo. Non riuscendo, per motivi che non capiva, a condividere sulla propria
bacheca uno degli articoli pubblicati dal quotidiano, decise di scrivere un post di suo pugno e aprì un
gruppo di discussione a cui invitò i suoi più cari amici per commentare insieme quanto stava
accadendo. Il gruppo fu chiuso dopo pochi minuti per “violazione delle condizioni d’uso” e gli
account di tutti i partecipanti sospesi.

Lentamente, anche i post dalle pagine delle diverse testate iniziavano a scomparire. O meglio, non
venivano censurati, né cancellati, ma l’algoritmo che regola quale contenuto appare e in che modo
su una pagina da tempo aveva preso a privilegiare i post con molte interazioni, ponendoli bene in
evidenza sulla pagina, a discapito di quelli meno seguiti, quindi meno interessanti. Quindi le notizie
sull’imminente guerra tra Facebook e gli Stati Uniti finivano per scivolare sempre più in basso e
sparire dalle pagine. Meno erano visibili in apertura, meno erano viste e più in basso scorrevano.
Non c’era salvezza per una notizia condannata dall’algoritmo.

Il Facebook Page Manager del Washington Post aveva tentato anche di lanciare un’inserzione a
pagamento, ma la richiesta era rimasta in sospeso e non veniva né approvata né respinta, mentre
intanto il post scivolava nel limbo dei post pubblicati e ritenuti non interessanti. Era il decano tra i
suoi colleghi e ricordava bene i tempi in cui la testata per cui lavorava aveva ancora un proprio sito
internet, un account su Twitter, un canale su Youtube. Poco alla volta le cose erano cambiate.

La possibilità di caricare i video direttamente su Facebook, aggiungendo call to action e tag, la
relativamente maggiore facilità nel condividerli da parte dei lettori sulle proprie bacheche, lo spazio
privilegiato che l’algoritmo di Facebook dava loro nel flusso di aggiornamenti aveva reso inutile il
canale Youtube, che era stato progressivamente abbandonato e trasferito l’archivio sulla pagina
Facebook. Avevano abbandonato Twitter solo perché Facebook lo aveva comprato, ne aveva
implementato alcune funzioni (tra cui quella dei trending topic) e lo aveva chiuso.

Ricordava ancora la drammatica riunione in cui la redazione decise di chiudere il sito internet della
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testata. Da mesi, ormai, le visite al sito erano una percentuale infinitesimale rispetto a quelle della
pagina Facebook e non sempre un link con un’alta interazione su Facebook si traduceva in effettive
visite all’articolo sul sito. La tendenza che voleva, già a metà degli anni ’10 del secolo, i giovani
informarsi sui social network era andata accentuandosi al punto che ormai nessuno sapeva più che
Washington Post, New York Times, CNN e le altre corazzate dell’informazione avevano un proprio
sito internet.

E del resto, era l’idea stessa di “internet” ad essere opaca per la maggior parte delle persone, in
particolare quelle nate dopo il 2000. Per molti di loro era normale dichiarare di essere abituali
utilizzatori di Facebook, ma di non usare mai internet. E in effetti, che bisogno avevano di uscire da
Facebook, quando lì dentro potevano condividere esperienze con i propri amici, comunicare con
loro, con messaggi personali o di gruppo smettendo di usare l’email, informarsi, perché
l’informazione arrivava a loro senza il bisogno di andare a cercarla? Per i più giovani internet
semplicemente non esisteva, esisteva Facebook.

Il digitale aveva rappresentato una rivoluzione profonda nel modo di produrre, distribuire e
consumare informazione. I ruoli avevano perso definizione: non esistevano più i produttori di
contenuto da un lato e i fruitori dall’altro. Ciascuno era l’una e l’altra cosa allo stesso tempo. Modi e
tempi di produzione e fruizione delle notizie erano rapidamente cambiati: si leggeva, si scriveva, si
commentava, si creavano relazioni tra contenuti ovunque, da ogni genere di dispositivo, in qualsiasi
momento.

Questa rivoluzione fu così rapida che persino i più preparati e i più audaci faticavano a trovare nelle
proprie sperimentazioni su forme e linguaggi dei modi per trarre il profitto necessario a permettere
alla macchina di continuare a girare. Ed è comprensibile, quindi, che ad un certo punto l’offerta di
Facebook – che aveva un disperato bisogno di contenuto per vivere, e possibilmente contenuto di
qualità -si fece così allettante che gli editori non poterono dire di no.

Facebook era il luogo in cui centinaia di milioni di persone vivevano quotidianamente. Facebook era
ormai diventato internet. Cedere alla tentazione di far diventare Facebook la propria casa in cui
pubblicare in esclusiva contenuti apparve come una necessità e i vantaggi sembravano di gran lunga
compensare i limiti di una tale scelta.

C’era chi sosteneva la necessità di sottomettere la scelta di aderire all’accordo all’impegno da parte
di Facebook di fornire ai produttori di contenuto i dati degli utenti, con la consapevolezza che nel
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mondo digitale il valore deriva dalle relazioni e che nulla come conoscere la propria audience
permette di aumentare il valore del contenuto che si produce.

In realtà nessuno aveva così tanto potere da dettare condizioni a Facebook e nel giro di pochi anni
tutti i maggiori organi di informazione avevano chiuso i propri siti, limitandosi a curare la propria
presenza su Facebook, pubblicandovi articoli e inchieste.

A questo pensava il Facebook Page Manager del Washington Post quella sera in cui la più grande
azienda al mondo dichiarava guerra allo Stato più potente e nessuno, a parte gli addetti ai lavori, ne
era al corrente. Fissando la parete di fronte a sé, indossando i suoi speciali occhiali Facebook,
poteva immergersi nella visione della finale di The Voice, circondato dai suoi amici che
commentavano in tempo reale quanto accadeva.

Ma nessuno di loro sapeva cosa stava succedendo nel mondo, appena sfilati gli occhiali, e nessuno
avrebbe potuto saperlo. Non c’era modo di rompere il muro creato dall’algoritmo, che decideva quali
notizie sarebbero state lette e quali ignorate. Non esisteva più un luogo, fuori da Facebook, in cui
distribuire contenuto, incontrare persone, discutere, a parte piccole e sparute comunità a cui
Facebook rendeva la vita impossibile obbligandole a usare parametri forniti da Facebook per ogni
funzione.

Era diventato impossibile non essere cittadini di Facebook. Per Facebook si lavorava, non
percependo alcun compenso, producendo contenuto, dentro Facebook si viveva, gestendo ogni
aspetto delle proprie relazioni attraverso la piattaforma, il profilo rappresentava la propria carta di
identità, fornendo ogni genere di informazione su di sé.

E Facebook, l’azienda totale e totalizzante, si era fatto Stato e allo Stato aveva deciso di dichiarare
guerra. Perché non erano bastati decenni di ignavia e di colpevole inazione dei governi, il liberismo
voleva più libertà e l’unico modo per ottenerla era sostituirsi allo Stato, sbarazzarsene e riassumere
in sé ogni potere. E quindi la guerra, improvvisa, inaspettata, incomprensibile.
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Ignorata, perché nessuno era più in condizione di sapere. Una guerra già vinta in partenza, da
decenni, che per fortuna nessuno avrebbe dovuto combattere con le armi, dovendo prima capire da
quale parte avrebbe dovuto stare.

Il Facebook Page Manager del Washington Post spense i suoi occhiali e rimase solo nella redazione
deserta. Mentre là fuori nessuna guerra stava per essere combattuta ripensò al giorno, anni prima,
in cui, durante quella riunione di redazione, fu votato di contribuire alla sconfitta in quella guerra,
quella sera di anni dopo.

Questo pezzo è apparso in precedenza su Left
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