Che la colpa è un criterio di valutazione della responsabilità per inadempimento delle obbligazioni contrattuali. Si pensi, ad esempio, al cattivo ...
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che la colpa è un criterio di valutazione della responsabilità per inadempimento delle obbligazioni contrattuali. Si pensi, ad esempio, al cattivo funzionamento del computer di bordo (hardware e software), che provoca un disastro aereo: in questo caso il produttore è sicuramente tenuto al risarcimen- to di tutti i danni provocati. In base alla responsabilità contrattuale, il cattivo funziona- mento o la sua inidoneità o pericolosità, può essere fatta rien- trare sicuramente nei vizi della cosa venduta prevista dall’arti- colo 1490 Codice civile 26, e il compratore può domandare in base al successivo articolo 1492 27, o la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo. Ciò detto, va rimarcato che a nostro parere, questo tipo d’a- zione, ancorché ammissibile, sembra sostanzialmente inidonea ad una effettiva tutela del consumatore il quale, in caso di ac- quisto di un prodotto difettoso (o nocivo), dovrà rivolgersi a colui che gli ha venduto il prodotto (rivenditore), e non al produttore. I limiti di una siffatta tutela appaiono evidenti per due ordi- ni di ragioni: innanzi tutto perché in base all’articolo 1494 28 codice civile colui che abbia venduto una cosa difettosa, in ese- cuzione di un contratto, non è responsabile del danno, (e dun- que non è tenuto al risarcimento del danno), se prova d’avere ignorato senza colpa i vizi della cosa stessa, poi perché la tutela risarcitoria ricadrebbe, in ogni caso sul rivenditore e non sul produttore (cioè sull’anello più debole della filiera) e il consu- matore finirebbe, in molti casi, nel non trovare più alcun sog- 26 L’articolo 1490 del Codice civile recita: “il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendono inidonea all’uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore”. 27 L’articolo 1494 del Codice civile recita: “nei casi indicati nell’articolo 1490 il compratore può domandare a sua scelta la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo, salvo che, per determinati vizi gli usi escludano la risoluzione. La scelta è irrevocabile quando è fatta con la domanda giudiziale. Se la cosa consegnata è perita in conseguenza dei vizi, il compratore ha diritto alla risoluzione del contratto; se invece è perita per caso fortuito o per colpa del compratore, o se questi l’ha alienata o tra- sformata, egli non può domandare che la riduzione del prezzo”. 28 L’articolo 1494 Codice civile recita: “in ogni caso il venditore è tenuto verso il compratore al risarcimento del danno se non prova di aver ignorato senza colpa i vizi della cosa. Il venditore deve altresì risarcire al compratore i danni derivati dai vizi della cosa”. 97
getto a cui richiedere il risarcimento dei danni (l’esempio classi- co, ma sempre attuale, è la cessata attività della bottega che ha venduto il prodotto). 11. Verso il ravvicinamento delle norme sulla vendita e sulle ga- ranzie dei beni al consumo La direttiva 25 maggio 1999 n. 44/99, 29 del Parlamento eu- ropeo e del Consiglio, seppur non ancora recepita dal nostro ordinamento interno, il quale ha tempo sino il 10 gennaio 2002, mira al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamen- tari e amministrative degli Stati membri in relazione a taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei i beni di consumo, allo scopo di costituire una base giuridica minima e comune a tutti i Paesi dell’Unione Europea in materia di diritto dei consuma- tori nel quadro del mercato interno. La norma comunitaria nel sottolineare il principio, peraltro conosciuto in tutti gli ordinamenti degli Stati membri, che il venditore deve consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita, ne delimita in modo abbastanza preciso i limiti, precisando al contempo responsabilità, diritti e termini di esercizio degli stessi diritti. Secondo la direttiva sono da ritenere conformi al contratto di vendita: a) i beni conformi alla descrizione fatta dal venditore e pos- siedono le qualità del bene che il venditore ha presentato al consumatore come campione o modello; b) i beni idonei all’uso speciale voluto dal consumatore quando l’uso stesso è stato portato a conoscenza del venditore al momento della conclusione del contratto e da questi accet- tato; c) i beni idonei all’uso al quale servono abitualmente beni dello stesso tipo; d) i beni che presentano la qualità e le prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo, che il consumatore può ragione- volmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e, se del 29 Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio, n. 44 del 25 maggio 1999, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità serie L n. 171 del 7 luglio 1999 98
caso, delle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifi- che dei beni fatte al riguardo dal venditore, dal produttore o dal suo rappresentante, in particolare nella pubblicità o sull’e- tichettatura; Le dichiarazioni pubbliche non vincolano il venditore se lo stesso dimostra che non era o non poteva ragionevolmente es- sere a conoscenza della dichiarazione, che questa era stata cor- retta prima della conclusione del contratto o che, in ogni caso, questa non ha influenzato la decisione dell’acquisto del bene. In caso di difetto di conformità il consumatore ha diritto, in primo luogo, alla riparazione od alla sostituzione del bene sen- za ulteriori spese (comprese le spese di spedizione, mano d’o- pera e di materiali), o, in alternativa ad una riduzione adeguata del prezzo od alla risoluzione del contratto. Il rimedio è da considerarsi sproporzionato se impone al venditore spese irragionevoli in confronto ad altro rimedio. La direttiva prevede, inoltre, che il venditore finale possa agire nei confronti delle persone responsabili, nel rapporto con- trattuale, lasciando agli Stati membri la decisione relativa alle azioni e le modalità di esercizio. Il venditore è responsabile se il difetto di conformità si ma- nifesta entro il termine di due anni dalla consegna. Il termine potrà essere ridotto, fino ad un anno, in caso di vendita di beni usati. Il consumatore dovrà denunciare il difetto di conformità en- tro due mesi dalla scoperta. Fino a prova contraria vige la presunzione che il difetto di conformità che si manifesta entro sei mesi dalla consegna del bene sia originario a meno che tale ipotesi non sia incompatibi- le con la natura del bene o del difetto. Gli accordi che escludono o limitano la responsabilità del venditore prima che allo stesso sia stato notificato il difetto di conformità, non vincolano il consumatore. Gli Stati membri dovranno adottare le misure necessarie af- finché il consumatore non sia privato della protezione derivante dalla direttiva in argomento, qualora sia stata scelta come legge applicabile al contratto la legge di altro stato non facente parte della Comunità e tale contratto presenti uno stretto collegamen- to col territorio di uno Stato membro. Gli Stati membri possono adottare o mantenere disposizioni più rigorose a tutela del consumatore. 99
La direttiva, che, come già ricordato, dovrà essere recepita entro il 10 gennaio 2002, presenta alcuni caratteri innovativi an- che per il nostro ordinamento giuridico. Alcune novità riguardano i termini per denunziare il difetto di conformità (o vizi della cosa), che nelle previsioni della di- rettiva si allungano a due mesi dalla scoperta, mentre il nostro codice civile concede solamente otto giorni. Allo stesso modo l’azione si dovrà prescrivere in due anni dalla consegna del bene anziché in un anno. Di una certa difficoltà appare l’interpretazione dei termini “ragionevole” o “ragionevolmente aspettarsi” che usati dalla di- rettiva. Che cosa sia ragionevole aspettarsi da un prodotto non sarà sempre agevole da prevedere proprio perché la definizione di ragionevolezza potrà cambiare da caso a caso. È ragionevole infatti attendersi che una sedia sia idonea a sostenere il peso di una persona di medio grandi dimensioni od anche di dimensio- ni che eccedono questi limiti? Nell’esempio appena accennato, è ragionevole aspettarsi che la stessa sedia possa essere utilizza- ta anche come scala dal consumatore? C’è, in effetti, da chiedersi qual è per il nostro ordinamento, l’uomo ragionevole. La figura, in effetti, è propria dei sistemi di common law dove sono state elaborate diverse definizioni, e non già dei sistemi continentali di civil law, dove semmai viene in rilievo la figura del il pater familias (la c.d. diligenza dell’uo- mo medio). L’accostamento risulterebbe inidoneo proprio perché dili- genza non significa intelligenza e pertanto non può essere sino- nimo di ragionevolezza in quanto questa implica anche un quid (in più) di intelligenza. Dunque, un uomo diligente potrebbe non essere ragionevole. La direttiva comunitaria sembra dare una maggiore atten- zione all’affidamento che le dichiarazioni pubbliche e la stessa promozione del bene (la pubblicità) possono ingenerare nel consumatore. 12. La sicurezza generale dei prodotti e l’Autorità europea per gli alimenti Nel 1992, la Direttiva n. 59 e il successivo Decreto legislati- vo d’attuazione n. 115/1995 forniscono un quadro di riferimen- 100
to normativo per quanto attiene la sicurezza generale dei pro- dotti. In questi atti si stabiliscono principi fondamentali per i pro- duttori, quali: – l’obbligo di immettere sul mercato soltanto prodotti si- curi; – l’obbligo di fornire ai consumatori le informazioni perti- nenti che gli consentano di valutare i rischi inerenti al prodotto durante la durata di utilizzazione normale o ragionevolmente prevedibile del medesimo; – l’obbligo di marcatura del prodotto o della partita di pro- dotti per una immediata identificazione. La Direttiva introduce anche il c.d. principio del reciproco riconoscimento. In base a detto principio, in mancanza di spe- cifiche disposizioni comunitarie, si considera sicuro il prodotto conforme alla normativa vigente nello stato membro in cui il prodotto è stato commercializzato. Il decreto legislativo di attuazione, stabilisce, in linea con l’obbligo imposto dalla Direttiva, che le autorità incaricate di controllare la conformità e la sicurezza dei prodotti è attribuita ai Ministeri dell’industria, del commercio, dell’artigianato, della sanità, del lavoro e della previdenza sociale, dell’interno, delle finanze e dei trasporti, i quali sono tenuti anche alla realizzazio- ne di un adeguato supporto informativo per l’archiviazione e la diffusione delle informazioni. Il Libro Bianco sulla sicurezza alimentare del 12 gennaio 2000, oltre a definire gli obiettivi strategici, le priorità e il pro- gramma di lavoro della Commissione per quanto attiene la sicu- rezza alimentare, proponeva l’istituzione dell’Autorità europea per gli alimenti al fine di garantire un elevato livello di prote- zione della salute dei cittadini europei. Con proposta di regolamento del novembre 2000 30, la stes- sa Commissione ha presentato la proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Auto- rità europea per gli alimenti e fissa le procedure nel campo del- la sicurezza alimentare. Ora, pur trattandosi ancora di una proposta della Commis- 30 Proposta di regolamento dell’8 novembre 2000 Com (2000) 716 definitivo. 101
sione (per sua natura autorevole, giacché quest’organo ha il so- stanziale monopolio dell’iniziativa legislativa a livello europeo), appare opportuno fornire alcune anticipazioni sulla struttura- zione e sul funzionamento della futura Autorità alimentare. – La funzione dell’Autorità è quella di contribuire ad un li- vello elevato di protezione della vita e della salute umana, alla protezione e alla salute e al benessere degli animali, alla prote- zione della vita vegetale, alla tutela dell’ambiente e alla prote- zione della salute dei lavoratori agevolando nel frattempo il funzionamento del mercato interno. Il funzionamento riguarda tutti i campi che hanno un’incidenza diretta o indiretta sulla si- curezza degli alimenti; la salute, il benessere degli animali e la salute dei vegetali; l’alimentazione e ogni questione relativa agli organismi geneticamente modificati ai sensi della Direttiva (CEE) n. 220/90. Per gli Ogm l’Autorità si limita a formulare pareri scientifici quando non si tratti di alimenti o mangimi (dunque per quanto concerne i rischi ambientali l’Autorità si limiterà a dare solamente pareri). – L’Autorità è preposta alla gestione del sistema di allarme rapido per gli alimenti e i mangimi utilizzando tutte le informa- zioni che riceve nell’adempimento delle proprie funzioni com- prese quelle richieste agli stati membri (i recenti casi sulla dios- sina e sulla “mucca pazza”, ne hanno messo a nudo l’urgente necessità). – Fornisce, alle istituzioni comunitarie e agli stati membri i migliori pareri scientifici in tutti i casi previsti dalla legislazione comunitaria e su qualsiasi questione di sua competenza. – Promuovere e coordinare l’armonizzazione dei metodi di valutazione del rischio nei settori di sua competenza, compresa l’emissione d’organismi geneticamente modificati ai sensi della Direttiva n. 220/90. – Fornire, per richiesta della Commissione, assistenza scien- tifica e tecnica al fine di migliorare la collaborazione tra la Co- munità, i paesi candidati, le organizzazioni internazionali e i paesi terzi nei settori di sua competenza. – Fare in modo che i cittadini e le parti interessate ricevano informazioni rapide, affidabili, obiettive e comprensibili. – Ogni altro compito assegnatole dalla Commissione Euro- pea nell’ambito delle sue competenze. Restano immutate le disposizioni della Direttiva n. 374/85 102
sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi di cui si è detto sopra. Organi dell’Autorità sono: 1. il Consiglio d’amministrazione, che dovrebbe essere com- posto da quattro rappresentanti nominati dal Parlamento euro- peo, quattro rappresentanti nominati dal Consiglio, quattro rap- presentanti nominati dalla Commissione e quattro rappresen- tanti dei consumatori e delle imprese, nominati dalla Commis- sione. Il Consiglio d’ amministrazione elegge, tra i propri mem- bri un presidente con mandato biennale rinnovabile; 2. il Direttore esecutivo, nominato dal Consiglio d’ammini- strazione per proposta della Commissione, per un periodo di cinque anni rinnovabile. 3. il foro consultivo, composto di rappresentanti degli orga- ni competenti che svolgono negli stati membri funzioni analo- ghe, in ragione di un rappresentante per stato membro. 4. Il comitato scientifico e gruppi di esperti scientifici Recentemente, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della sanità (facendo leva sulla indiscussa vocazione agroalimentare della città), hanno avanzato la candidatura di Parma quale sede dell’Autorità alimentare europea (European Food Autority). La candidatura è sostenuta da un Comitato cui partecipano tutte le principali Istituzioni della Regione Emilia Romagna, della Provincia e della Città di Parma. La candidatu- ra della città emiliana, d’indubbio prestigio internazionale, po- trebbe però, non essere l’unica possibile. 13. Il principio di precauzione Negli ultimi tempi, si è fatto un gran parlare del cosiddetto “principio di precauzione” e la proposta di regolamento sopra richiamata ne fornisce, in un certo senso un significato più preciso. Ciò nonostante appare evidente ai nostri occhi il fraintendi- mento ricorrente che da più parti viene fatto con riferimento a tale principio. Per dirla alla francese questi sembra essere un principio bon a tout faire. Di seguito ripercorriamo le tappe che ne hanno definito l’attuale significato. Il primo richiamo a tale principio, lo troviamo nella carta 103
Mondiale della Natura adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1982. Successivamente, la Conferenza internazionale sulla prote- zione del mare del nord del 1987, ha dato definitiva legittima- zione a tale principio. Nella Conferenza si giunge a scrivere che “una strategia di precauzione si impone al fine di proteggere il mare del nord dai potenziali effetti dannosi delle sostanze più pericolose”. Il principio in oggetto, è stato poi esplicitamente indicato come principio 15o della dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992, che recita: “per proteggere l’ambiente, gli stati debbono applicare intensamente misure di precauzione secondo le loro capacità. in caso di rischio di danni gravi o irreversibili, la man- canza di un’assoluta certezza scientifica non deve costituire un pretesto per rimandare l’adozione di misure efficaci volte a pre- venire il degrado ambientale”. Recentemente (28 gennaio 2000), il principio di precauzione è stato richiamato nella Conferenza che ha riunito le Parti della Convenzione sulle diversità biologiche e che ha adottato il pro- tocollo sulla biosicurezza, riguardante il trasferimento, la mani- polazione e l’utilizzazione sicura degli organismi viventi modifi- cati derivanti dalle biotecnologie. A tale proposito l’art. 10, pa- ragrafo 6, recita: “la mancanza di certezze scientifiche dovute a insufficienti informazioni e conoscenze riguardanti la portata dei potenziali effetti negativi di un organismo vivente modifica- to sulla conservazione e l’utilizzazione sostenibile della diversità biologica nella parte di importazione, tenendo conto anche dei rischi per la salute umana, non dovrà impedire a tale parte di adottare decisioni adeguate rispetto all’introduzione degli orga- nismi viventi modificati in questione, al fine di evitare o limitare tali effetti potenzialmente negativi”. Nei trattati comunitari, il solo riferimento esplicito al princi- pio di precauzione è contenuto nel titolo dedicato all’ambiente (articolo 174), il quale, tra l’altro non fornisce alcuna definizio- ne. L’articolo in questione recita: “la politica della Comunità in materia ambientale mira ad un livello elevato di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e del- l’azione preventiva, sul principio della correzione, in via priori- taria alla fonte dei danni causati all’ambiente, nonché sui prin- cipi chi inquina paga”. 104
Successivamente al trattato di Maastricht entrato in vigore il 1o novembre 1993, il diritto europeo derivato ha sempre più frequentemente fatto ricorso a tale principio. Basti ad esempio ricordare la Direttiva n. 61 del 1996 sulla prevenzione e la ridu- zione dell’inquinamento, il Regolamento 1980 del 2000 sul mar- chio di qualità ecologico, o la Decisione 325 del 2000 circa le misure contro i virus sui pomodori. Una definizione più compiuta di tale principio, è data dal libro verde sui principi generali della legislazione in materia ali- mentare nell’Unione Europea del 30 aprile 1997 che fornisce questa indicazione: “Il Trattato impone alla Comunità di con- tribuire al mantenimento di un elevato livello di tutela di salute pubblica, dell’ambiente e dei consumatori. Le misure intese a garantire un elevato livello di tutela e di coerenza dovrebbero essere basate sulla valutazione dei rischi tenendo conto di tutti i fattori rilevanti in questione, compresi gli aspetti tecnologici, i migliori dati scientifici disponibili e i metodi disponibili di ispe- zione, campionamento e prova. Qualora non sia possibile una completa valutazione dei rischi, le misure dovrebbero essere ba- sate sul principio precauzionale”. Il 13 aprile 1999, il Consiglio ha adottato una risoluzione in cui chiede, tra l’altro, alla Commissione, “di essere in futuro ancora più determinata nel seguire il principio di precauzione preparando proposte legislative e nelle altre attività nel settore della tutela del consumatore, sviluppando in via prioritaria orientamenti chiari ed efficienti per l’applicazione di questo principio”. La Commissione ha ritenuto che tale principio sia di appli- cazione generale, che deve essere preso in considerazione parti- colarmente nei settori della protezione dell’ambiente e della sa- lute umana, animale o vegetale. La Corte di Giustizia delle Comunità, chiamata a pronun- ciarsi sulla validità della decisione della Commissione che vieta- va l’esportazione di bestiame del Regno Unito per limitare il ri- schio di trasmissione dell’encefalopatia spongiforme bovina 31, ha recentemente stabilito che, si deve ammettere, quando sussi- 31 Sentenza Corte di Giustizia Comunità Europee, 5 maggio 1998, cause C-157/96 e C-180/96. 105
stono incertezza riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, che le istituzioni possono adottare misure protettive senza dover attendere che siano esauriente- mente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi. Questa con- siderazione è corroborata dall’art. 174 del Trattato, secondo il quale la protezione della salute umana rientra tra gli obiettivi della politica della Comunità in materia ambientale. Il numero due del medesimo articolo dispone che questa politica, che mira ad un elevato livello di tutela, è fondata segnatamente sui principi della precauzione e dell’azione preventiva e che le esi- genze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere inte- grate nella definizione e nell’attuazione delle altre politiche co- munitarie. L’art. 7 della proposta di regolamento della Commissione, che istituisce l’autorità alimentare precisa: 1. qualora, a seguito di una valutazione delle informazioni pertinenti disponibili, venga individuato un rischio per la salute ma permanga l’incertezza scientifica al riguardo, possono essere adottate misure preventive di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, nell’attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio; 2. le misure adottate sulla base del paragrafo uno sono pro- porzionate e prevedono le sole restrizioni al commercio che sia- no necessarie per raggiungere il livello elevato di tutela della salute perseguito nella Comunità, tenendo conto della realizza- bilità tecnica ed economica e di altri aspetti se pertinenti. Tali misure sono riesaminate entro un periodo di tempo ragionevole a seconda della natura del rischio per la vita o per la salute individuato e del tipo di informazioni scientifiche necessarie per risolvere la situazione di incertezza scientifica e per realizzare una valutazione del rischio più esauriente. Se nel linguaggio comune il termine “principio di precau- zione” è diventato via via sinonimo di adozione di misure di salvaguardia o cautelative verso determinati fenomeni, alla luce dell’evoluzione politico-legislativa e giurisprudenziale sopra ri- chiamata, appare chiaro che per principio di precauzione si deve intendere uno stato di fatto o di diritto ove le informazio- ni scientifiche sono insufficienti, incerte o non conclusive e si 106
dubiti che senza il ricorso a misure cautelative possa venire messo in pericolo il benessere delle generazioni future (rischi gravi e irreparabili; rischi per la salute umana o animale; rischi gravi per l’ambiente ecc.). In questo senso l’autorità politica (ma a nostro parere, se investita del problema, anche quella giudiziaria), facendo ricorso proprio al principio di precauzione in oggetto, può decidere di adottare determinate misure caute- lative, senza aspettare di disporre di tutte le conoscenze scienti- fiche del caso. Le difficoltà maggiori, nell’applicare il principio di precau- zione risiedono soprattutto nel trovare il giusto equilibrio, in modo tale da pervenire a decisioni proporzionate, non discrimi- natorie, trasparenti e coerenti per garantire, allo stesso tempo, un elevato livello di sicurezza e protezione senza rinunciare alla ricerca e all’innovazione tecnologica e scientifica. Secondo la Commissione Europea, occorre fare una valuta- zione delle potenziali conseguenze dell’inazione al momento di decidere se e come intraprendere azioni basate sul principio di precauzione. In questo senso, le misure adottate presuppongo- no l’esame dei vantaggi e degli oneri derivanti dall’azione o dal- l’inazione (esame costi/benefici) e quando ciò sia adeguato e realizzabile. Il mantenimento delle misure derivanti dall’applicazione del principio di precauzione deve dipendere dall’evoluzione delle conoscenze scientifiche, alla luce delle quali, le stesse misure, devono essere sottoposte a nuove valutazioni e, in conformità a queste modificate e/o revocate. La Comunità Europea, ha già fatto ricorso al principio di precauzione soprattutto in materia ambientale e di cambiamenti climatici; particolare attenzione è stata data, in questo senso, alle misure volte a ridurre il buco dell’ozono. Un’azione adottata in base al principio di precauzione e di cui abbiamo trattato nel corso di questo breve saggio, è anche l’inversione dell’onere della prova che grava sul produttore, sul fabbricante o l’importatore di prodotti contenenti organismi ge- neticamente modificati allorché, a questi ultimi, viene richiesto di dimostrare la natura del prodotto e il livello di rischio o di pericolo, cioè di effettuare una attenta valutazione del rischio prima di immettere il prodotto nell’ambiente o in commercio. 107
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QUALITÀ E CERTIFICAZIONE
LA CERTIFICAZIONE COME STRUMENTO DI VALORIZZAZIONE DEI PRODOTTI TIPICI Alessandro Segale, Anna Rita Delle Vergini 1. Introduzione L’industria agro-alimentare sta vivendo, negli ultimi anni, importanti trasformazioni. Se da un lato la globalizzazione dei mercati conduce ad una inevitabile standardizzazione dei pro- dotti che, sempre di più devono soddisfare requisiti minimi in- ternazionalmente riconosciuti, dall’altro le richieste dei consu- matori spingono le aziende ad investire su prodotti di alta qua- lità che salvaguardino le tipicità ed alcune caratteristiche pecu- liari. La crescente attenzione dei consumatori, degli operatori del settore, dell’opinione pubblica e dei policy makers ha fatto si che la valorizzazione dei prodotti tipici sia diventato un impera- tivo per l’Unione Europea da diversi anni. D’altro canto le grandi imprese alimentari non sono rimaste indifferenti, ma hanno cercato di cogliere e di sfruttare a pro- prio vantaggio queste nuove tendenze di consumo. Esse, infatti, hanno via via implementato piani strategici o tattici, consistenti in azioni di segmentazione/differenziazione, che richiamano la tipicità, nel proprio product-mix. Inoltre, emergono alcuni tratti di fondo che possiamo così sintetizzare: dal lato dell’offerta, l’aumentato interesse per i pro- dotti tipici è in parte il risultato dell’aumento della domanda, ed in parte del fatto che quella dei prodotti tipici rappresenta una opportunità di svincolarsi, da parte dei produttori ed eser- centi di piccole dimensioni, dalla morsa del sistema della gran- de distribuzione organizzata e dell’industria agro-alimentare; inoltre il rapporto diretto con il cliente, le piccole dimensioni 111
ed il radicamento nel territorio (tanto rurale quanto urbano) si possono tramutare nel mercato dei prodotti tipici da punti di debolezza in punti di forza, permettendo alle piccole aziende artigiane e alla distribuzione al dettaglio di muoversi agilmente nel coprire le numerose nicchie di mercato, e di captare, asse- condare ed anche rieducare i gusti e le esigenze dei consuma- tori. Infatti, il mercato dei prodotti alimentari tipici (e di quelli biologici) rappresenta una importante opportunità specialmente nelle aree rurali che, giova ricordarlo, rappresentano una quota elevata del territorio europeo e nazionale. Per questo motivo l’Ue, che negli ultimi tempi ha dedicato particolari attenzioni e risorse allo sviluppo rurale, ha recepito con una serie di norma- tive specifiche l’esigenza di una regolamentazione del settore. Il risultato è costituito per quanto riguarda i prodotti tipici dalla normativa in materia dei marchi Dop (Denominazione di origi- ne protetta) e Igp (Indicazione geografica protetta), che vanno ad affiancarsi al marchio Doc (Denominazione di origine con- trollata). I prodotti tipici e di nicchia in genere, possono costituire un fondamentale elemento di sviluppo in grado di coniugare ef- ficacemente le risorse di cui un territorio è particolarmente do- tato: imprenditoria diffusa, stretta connessione col territorio e con il settore primario, tradizioni gastronomiche particolarmen- te ricche e differenziate e forti potenzialità turistiche. Ma il settore dei prodotti tipici per potersi consolidare ri- chiede anche interventi mirati: la normativa vigente in materia di marchi Dop e Igp come già detto, appare insufficiente per promuovere adeguatamente il settore, limitandosi all’individua- zione dei criteri per l’attribuzione dei marchi. La complessità dei legami tra prodotti tipici, turismo, imprenditoria diffusa e sviluppo rurale richiede una regolamentazione di più ampio re- spiro che superi la mera codificazione delle caratteristiche dei prodotti, e che si ponga l’obiettivo di avviare azioni integrate tra i diversi ambiti economici e sociali interessati. Questi sono i primi passi dell’attuale riscoperta, e a volte purtroppo invenzione, della tipicità della nostra cucina, senza badare mai che quel prodotto è in ogni modo diverso perché le tecniche produttive agricole sono talmente mutate, da lasciare 112
alla “tipicità” il vago ricordo infantile di un gioco, di una pas- sione, di un’utopia; suggestione emotiva e non realtà fattuale. Ma qui, corre l’obbligo di citare Fausto Cantarelli che in numerosi scritti ribadisce che la tipicità si rinnova continua- mente ed è sempre al passo con i tempi. 2. Una disamina delle normative per il riconoscimento e la difesa della tipicità Uno dei momenti più difficili della politica europea è stato quello relativo alla armonizzazione delle norme agro-alimentari dei diversi stati membri. Hanno preso così forma una serie di principi relativi al “mutuo riconoscimento”, affinché ogni paese potesse riconoscere i prodotti e i metodi di fabbricazione dei suoi partner comunitari e affidando al sistema delle norme vo- lontarie il compito di disciplinare e verificare la conformità a specifiche tecniche sia di prodotto che di processo, fissate attra- verso il lavoro degli Enti di normazione e implementabili vo- lontariamente in tutta la Comunità con norme armonizzate. Per la loro importanza commerciale ed espressione di tradi- zioni colturali, i primi prodotti alimentari ad essere disciplinati dalla Comunità Europea furono gli ortofrutticoli freschi. Non fu difficile regolamentare attraverso una normalizzazione che si basava su caratteristiche per lo più esteriori e quindi facilmente e immediatamente comprensibili dai consumatori, a cui i pro- dotti ortofrutticoli, ottenuti nell’ambito di una sempre più in- differenziata produzione di massa, dovevano conformarsi per poter essere commercializzati. Tuttavia la Comunità non interviene con regolamenti solo nell’ambito di prodotti appartenenti alle Ocm (Organizzazioni comuni di mercato) cercando di raggiungere l’obiettivo, poi ab- bandonato, della normazione globale in tema di qualità dei pro- dotti, ma emana numerose direttive verticali o regolamenti volti all’attribuzione di denominazioni riservate a prodotti ottenuti secondo specifici processi e/o impiegando particolari materie prime, valorizzando così caratteristiche specifiche del prodotto stesso. Non solo quindi, sanità, sicurezza, protezione dell’ambiente 113
ma anche difesa dei consumatori tra gli obiettivi della Commis- sione Europea e nella filosofia della Politica comunitaria che dal 1985 prende la definizione di “Nuovo approccio”; definizio- ne che nasce in occasione della realizzazione del mercato inter- no e del Libro Bianco della Commissione. Attraverso questi due strumenti la Comunità si impegnava a svolgere una politica attiva di qualità dei prodotti alimentari, riservandosi di prende- re in esame la necessità di “introdurre un sistema comunitario di riconoscimento reciproco delle etichette o di altri marchi di qualità nonché dei controlli e delle relative convalide”. Negli anni che seguirono, la Comunità Europea, impegnata a difendere il principio della libera circolazione delle merci nel mercato comune, ha favorito nettamente e inconsapevolmente quelle strutture produttive alimentari dei paesi continentali a maggior vocazione industriale rispetto a quelle dei paesi del sud della comunità, caratterizzate da una produzione più artigiana- le. Una conseguenza immediata fu la perdita della cultura ali- mentare tipica degli stati membri e delle stesse tradizioni ali- mentari nazionali oltre all’effetto, che tutt’oggi riscontriamo, di disorientamento del consumatore mediterraneo che da sempre ha favorito la differenziazione di una produzione tipica sulla base di qualità particolari, soprattutto organolettiche di prodot- ti originali. Una tale confusione di identità dei prodotti ha ori- ginato forme sleali di concorrenza tra imprenditori contribuen- do ad aumentare la confusione nei consumatori, i quali grazie anche al ruolo svolto dalla politica comunitaria di educazione alimentare, potevano basarsi, nell’ambito di un’offerta così in- differenziata, sulla qualità commerciale e igienico-sanitaria e sul fattore prezzo. Fino alla metà degli anni ’80 quindi, viene escluso ogni rife- rimento a qualità particolari del prodotto considerando unica- mente il rapporto qualità-prezzo con il rischio che il consuma- tore si lasciasse attrarre più dal prezzo che dalla qualità; fa ec- cezione un solo prodotto, il vino, per il quale si erano riuscite ad affermare le caratteristiche essenziali dipendenti strettamente dal contesto geografico di appartenenza. Alcuni Stati membri hanno mostrato, in passato, un certo interesse per salvaguardare produzioni tipiche le cui caratteristi- 114
che qualitative sono legata ad una certa area geografica o per assicurarne protezione e riconoscimento, come mostrano la Convenzione di Parigi del 1883 1, la Convenzione di Stresa del 1951 2 e l’Arrangement di Lisbona nel 1958 3. A causa della rigida applicazione dei principi giurispruden- ziali, le denominazioni tipiche furono considerate alla stregua delle denominazione generiche non tutelabile mentre le deno- minazioni di origine e le indicazioni di provenienza potevano essere considerate come riservate ai singoli stati (ex art. 36 del Trattato di Roma 4) e questo rallentò di molto l’affermarsi dei tradizionali prodotti tipici nazionali nel mercato comunitario. Trovarono più che altro, sbocco commerciale nei micromercati locali situati nelle zone di produzione, ed inoltre, la possibilità di essere acquistati sul luogo permetteva al consumatore di ave- re maggiori informazioni e certezze circa la originalità e genui- nità del prodotto che in tal modo poteva essere venduto ad un prezzo più alto. La crisi della tradizionale Politica agricola comunitaria e la sua riforma comportarono negli anni, importanti cambiamenti soprattutto nella politica di qualità dei prodotti agricoli. I ri- sultati di una Pac, che abbinava il sostegno all’agricoltura e ai quantitativi prodotti, furono deleteri non solo da un punto di vista economico (costi della sovrapproduzione) e ambientale (ri- corso massiccio alla meccanizzazione e alla chimica per la difesa e la nutrizione) ma soprattutto verso la qualità dei prodotti dif- ferenziati per tipicità organolettica o per valenze gastronomiche o per altre specifiche qualitative che poco si confacevano alla distribuzione di massa e alle tradizioni della produzione nordi- ca. Viene così sottolineato e rivalutato il basilare ruolo che l’a- 1 La Convenzione per la protezione della proprietà industriale (Unione di Parigi), Parigi, 20 marzo 1883, revisionata a Bruxelles nel 1900, a Washington nel 1911, a L’Aja nel 1925, a Londra nel 1934, a Lisbona nel 1958, a Stoccolma il 1967. 2 Convenzione internazionale sull’uso dei nominativi di origine e delle denomina- zioni dei formaggi, firmata a Stresa, 1 giugno 1995. 3 Arrangement di Lisbona del 31 ottobre 1958, relativo alla protezione delle deno- minazioni di origine e alla loro registrazione internazionale. 4 Sottoscritto dalla Comunità Europea, il 25/03/1957 e entrato in vigore il 1 gen- naio 1958. 115
gricoltura svolge nei confronti della tutela dell’ambiente favo- rendo inoltre lo sviluppo di regioni svantaggiate, che darà cor- po ad una politica di qualità pronta a valorizzare i prodotti agricoli ottenuti con pratiche compatibili con l’ambiente e co- munque prodotti d’origine e tipici che possono essere identifi- cati grazie alla loro provenienza geografica e/o al modo di pro- duzione e/o sulla base di caratteristiche specifiche. I prodotti tipici costituiscono un importante patrimonio delle comunità locali, non solo culturale ma anche economico e lo dimostra la domanda in continuo aumento dei prodotti re- gionali, per venire incontro all’ampia tradizione dei prodotti dell’Europa centro-meridionale. Solo agli inizi degli anni ’90, la Commissione dopo aver predisposto due proposte di direttive, opta per la via regola- mentare presentando il 21 gennaio 1991 due proposte di rego- lamenti che verranno poi varati il 14 luglio 1992 (Reg. (CEE) n. 2081/92 e Reg. (CEE) n. 2082/92) dopo circa un anno e mezzo di difficile confronto tra le delegazioni degli Stati membri e la Presidenza di turno portoghese riuscendo a superare la profon- da contrapposizione tra il nord, contrario, e il sud della Comu- nità, favorevole. Antesignano ai due sopraccitati Regolamenti è stato il Rego- lamento (CEE) n. 2092/91 5 del 24 giugno 1991 relativo al me- todo di produzione biologico di prodotti agricoli e alla indica- zione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate ali- mentari. I due Regolamenti, il n. 2081/92 6 (Denominazione di origi- ne e Indicazioni geografiche protette) e il n. 2082/92 7 (Attestati di specificità alimentari) istituiscono marchi, con valenza comu- nitaria, destinati a tutelare le cosiddette produzioni agro-ali- mentari tipiche e chiudono una prima fase basilare della nuova politica comunitaria di qualità con il riconoscimento del diritto del consumatore ad avere la effettiva disponibilità della più va- sta gamma dei prodotti conformi alle diverse tradizioni regio- nali. 5 Guce n. L.198 del 22/7/91, p. 1. 6 Guce n. L.208 del 24/7/92, p. 1. 7 Guce n. L.208 del 24/7/92, p. 9. 116
TAB. 1. I marchi Dop e Igp Marchi Dop/Igp In comune Differenze – Tipo di prodotto – Legami con l’ambiente geografico – Nomi geografici – Reputazione (Igp) – Originari della regione di cui portano il – Fase di produzione da realizzare nell’a- nome rea indicata – Procedura – Livello di protezione 3. Il Regolamento (CEE) n. 2081/92: Denominazione di origine e Indicazioni geografiche protette Con il Regolamento (CEE) n. 2081/92, sono state fissate le regole per il riconoscimento delle Indicazioni geografiche pro- tette (Igp) e la Denominazione di origine protetta (Dop) 8. Si può affermare che l’attestazione Dop viene assegnata a quelle produzioni agro-alimentari, provenienti da un luogo de- terminato, le cui qualità siano dovute all’ambiente geografico di provenienza mentre l’attestazione Igp permette ai prodotti di rientrare in un’area geografica più ampia e non tutte le fasi di produzioni e trasformazioni avvengano nella stessa area. In definitiva a differenza della Dop, l’Igp non richiede ne- cessariamente che l’intera filiera produttiva sia in loco. 8 Secondo quanto riportato dall’art. 2 del citato Regolamento, con il termine: “de- nominazione di origine” si intende il nome di una regione, di un luogo determinato, o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimenta- re: – originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese; – la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusiva- mente all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produ- zione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell’area geografica delimitata. Con il termine: “indicazione geografica” si intende il nome di una regione, di un luogo determinato, in caso eccezionali di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: – originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese di cui una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica possa essere attribuita all’o- rigine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell’area geografica determinata. 117
Tale Regolamento si applica ai prodotti agricoli destinati al- l’alimentazione umana previsti dall’Allegato II del Trattato di Roma, ad alcuni prodotti alimentari (birra, acqua, bevande a base di estratti vegetali, prodotti della panetteria, della pasticce- ria, gomme, resine naturali) e agricoli (fieno, oli essenziali, su- ghero, cocciniglia). Al contrario sono esclusi dal campo di applicazione i pro- dotti del settore vitivinicolo e le bevande dette “spiritose”, oltre a tutti quei prodotti che presentano un nome che sia in con- flitto con il nome di una varietà vegetale o di una specie anima- le e che possa, pertanto, indurre il consumatore in errore quan- to alla vera origine del prodotto. Secondo quanto riporta l’art.3 del Reg. (CEE) n. 2081/92, sono esclusi anche i prodotti con “Denominazioni divenute ge- neriche” indicanti i nomi di prodotti o derrate alimentari che, sebbene siano rapportati al luogo o alla regione dove sono stati inizialmente commercializzati, sono poi diventati nel corso degli anni di uso comune anche in altre località. Oggi in Europa si contano più di 530 prodotti tipici. L’Ita- lia è seconda con i suoi 105 Dop e Igp. Ci precede la Francia con ben 118 denominazioni. Seguono poi il Portogallo, 78, la Grecia, 76, la Germania, 60, la Spagna, 49, e la Gran Bretagna, 25. Il paniere italiano si suddivide in sette grandi categorie: for- maggi, preparazione di carni, ortofrutticoli, oli d’oliva, carni fresche, prodotti di panetteria, aceti diversi dagli aceti di vino. Il 30 % del paniere è fatto di formaggi, seguono carni prepara- te e ortofrutticoli, entrambi il 23%, e gli oli di oliva, il 20%. Una piccola parte, il 4%, si divide tra carni fresche, prodotti da forno, condimenti. Netta la predominanza per le Dop, 73 pro- dotti, mentre 32 sono gli Igp. Le Denominazioni di origine protetta si concentrano soprat- tutto nei formaggi e nella carni preparate, mentre le Indicazioni geografiche protette sono principalmente prodotti ortofrutticoli e derivati. Rispetto alla localizzazione territoriale l’Italia setten- trionale conta 44 denominazioni contro le 33 del meridione e le 13 del centro. La valorizzazione dei prodotti tipici attraverso i marchi Dop ed Igp rappresenta una opportunità, non solo per la sopravvi- venza delle tradizioni culturali e del patrimonio locale, ma an- 118
che per lo sviluppo di un sistema economico in aree marginale connesse alla produzione di prodotti di nicchia. 4. Il Regolamento (CEE) n. 2082/92: Attestazione di specificità L’Attestazione di specificità è un riconoscimento comunita- rio che viene attribuito a quei prodotti agricoli o alimentari che vengono ottenuti con materie prime tradizionali o che hanno subito un processo di produzione e/o di trasformazione di tipo tradizionale. Non possono essere registrati quei prodotti il cui carattere specifico 9 risieda nella provenienza o nell’origine geografica e che risultino dall’applicazione di una innovazione tecnologica. In altre parole si concede ad un prodotto, con caratteristi- che qualitative specifiche, di godere di una differenziazione ri- spetto ai prodotti della stessa categoria, mediante il riconosci- mento di una attestazione di specificità. Secondo l’art. 5 del sopra citato Regolamento, il nome deve essere: – di per se specifico; – esprimere la specificità del prodotto agricolo e del pro- dotto alimentare. Di contro, il nome non può essere registrato qualora faccia riferimento ad un carattere generale (es. latte bianco) e che sia abusivo, cioè che sia estraneo al contenuto dei disciplinari o che non sia conforme alle aspettative del consumatore. È da notare inoltre, che a differenza delle Dop-Igp, la pro- duzione o la fabbricazione di un prodotto non sono vincolate ad un’area geografica delimitata. Chiunque, in qualsiasi stato membro della Comunità si tro- vi, può produrre, fabbricare un prodotto certificato con Atte- stazione di specificità a patto che sia in grado di offrire garan- zie identiche o equivalenti a quelle di cui agli articoli 4 e 6 del Reg. (CEE) n. 2081/92 ovvero rispetti il disciplinare, e faccia riferimento ad un sistema di controllo equivalente a quello defi- nito dall’art. 14. 9 Dall’art. 2 del Reg. (CEE) n. 2081/92 si intende per “specificità” un elemento o un insieme di elementi che distinguono nettamente un prodotto agricolo o alimentare da altri prodotti o alimenti analoghi appartenenti alla stessa categoria. 119
La specificità di un prodotto viene strettamente legata alla tradizione con riferimento o alle materie prime o ai processi di produzione e alla trasformazione o alla composizione. Inoltre i prodotti con Attestazione di specificità sono protetti da qualsia- si pratica che generi confusione nel consumatore o consenta lo sfruttamento di immagine a prodotti similari non aventi diritto all’attestazione. A tutt’oggi l’unico prodotto in Italia che ha ottenuto il rico- noscimento “ Specificità tradizionale garantita” è la mozzarella, l’altra domanda di registrazione italiana riguarda il miele vergi- ne integrale, ma su tale richiesta è ancora aperta una contro- versia circa l’uso della menzione “Vergine integrale” non ancora risolta. 5. I marchi collettivi Il panorama legislativo italiano, oltre ad aver adottato i Re- golamenti comunitari sopra citati, si impone sulla tutela dei prodotti e delle produzioni, fin dal 1942 con l’art. 2570 del Co- dice civile sui marchi collettivi. Lo stesso articolo sarà poi ri- portato sulla nuova legge sui marchi con l’art. 82 10 ove i sog- getti che svolgono la funzione di garantire l’origine, la natura, o la qualità di determinati prodotti o servizi possono ottenere la registrazione per appositi marchi come marchi collettivi ed han- no la facoltà di concedere l’uso dei marchi stessi a produttori o commercianti. Il marchio collettivo appartiene ad un soggetto il quale ne concede l’uso a terzi produttori che sono legittimati ad usarlo soltanto se osservano le prescrizioni previste dal Regolamento predisposto dal titolare del marchio collettivo. Di conseguenza la funzione del titolare del suddetto marchio non è quella di produrre beni (o prestare servizi), ma bensì quella di controlla- re che i soggetti ai quali viene concesso l’uso del marchio col- lettivo si attengano alle regole da lui imposte. Il successo del marchio collettivo non dipende quindi dalla qualità del bene prodotto dal singolo produttore, ma dalla ca- 10 Dlg. 4 dicembre 1992 n.480 attivato dalla Direttiva (CEE) n. 89/109. 120
pacità del titolare del marchio di far sì che il consumatore arri- vi a nutrire fiducia nel marchio come tale. Le condizioni di validità del marchio collettivo sono in linea di massima le stesse che vigono per i marchi individuali o mar- chi d’impresa 11. Va detto inoltre, che il marchio collettivo è nullo se uguale, o confondibile, non solo con un marchio collettivo anteriore, ma anche se uguale, o confondibile, con un marchio individua- le anteriore. In merito alla liceità, va osservato che il marchio collettivo che garantisca la provenienza dei prodotti marcati da un certo territorio può consistere in segni o indicazioni che nel commer- cio possono servire per designare la provenienza geografica 12. La registrazione, però, può essere rifiutata se può creare una situazione di “ingiustificato privilegio, o comunque recare pre- giudizio allo sviluppo di altre analoghe iniziative nella regione” come riporta l’articolo del Dlg. In ogni caso, infine, se il marchio collettivo è costituito da un nome geografico non autorizza il titolare a vietare a terzi l’u- so nel commercio del nome stesso in modo conforme alla cor- rettezza professionale, e cioè in funzione di indicazioni di pro- venienza geografica. In sintesi la normativa prevede, quali ipo- tesi di decadenza dal diritto di marchio collettivo: – l’omissione da parte del titolare, dei controlli previsti dal- le disposizione regolamentari sull’uso di questo tipo di mar- chio; – il caso in cui il marchio sia divenuto denominazione ge- nerica di un prodotto o servizio in conseguenza dell’attività o inattività del suo titolare; – il caso in cui il marchio divenga idoneo ad indurre in in- ganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o pro- venienza dei prodotti o servizi; – il caso in cui il marchio sia divenuto contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Da quanto in precedenza esposto risulta evidente la diversa 11 Segno distintivo proprio di un singolo imprenditore. (Artt. 2596 e 2576 del Co- dice civile). 12 Dell’art. 3 quarto comma del Dlg.4 dicembre 1992 n. 480. 121
TAB. 2. Le principali tipologie di marchio LE PRINCPALI TIPOLOGIE DI MARCHI DEI PRODOTTI AGRO–ALIMENTARI SI DISTINGUONO IN: 1. Marchio d’impresa: identifica le caratteristiche del prodotto con il produttore: * marca industriale (brand) che può essere di gamma, di linea o di prodotto; * marca commerciale (private label) che indica il nome del distributore; * marca di fantasia (generic); 2. Marchio collettivo: si configura per la separazione tra uso e titolarità del marchio ed è promosso da associazioni di produttori ed unioni volontarie: * marchio comunitario (Community trademark), istituito con il Reg. (CE) n. 40/94 per tutelare a livello comunitario il marchio d’impresa (marchio di prodotto, di servizio o marchio collettivo); * marchio regionale, istituito con legge regionale anche per più categorie merceolo- giche di prodotto ed è attribuito ad enti o associazioni (pubblici o privati) per identificare le produzioni agricole locali, in genere ottenute dai programmi di agri- coltura integrata; 3. Marchio di origine: identifica le caratteristiche del prodotto indissolubilmente legate all’area geografica di provenienza ed è concesso solo ai produttori di quella zona. * Denominazione di origine protetta (Dop) e Indicazione geografica protetta (Igp), previste dal Reg. (CEE) n. 2081/92; * Attestazioni di specificità (As), previste dal Reg. (CEE) n. 2082/92; * Prodotti biologici: il Reg. (CEE) n. 2092/91 consente alle imprese che seguono i disciplinari di produzione con tecniche di coltivazione biologica di aggiungere sul- l’etichetta la dicitura “Agricoltura biologica – Regime di controllo CE”; Menzione aggiuntiva “prodotto nella montagna italiana”, la L. 97/94 prevede una particolare tutela dei prodotti tipici dei territori montani che hanno ottenuto la Dop o l’Igp, autorizzandoli a fregiarsi della menzione aggiuntiva. funzione svolta, da un lato, dai marchi collettivi e, dall’altro, dalle denominazioni di origine. Limitandoci a prendere in considerazione i marchi collettivi riferiti ai prodotti agro-alimentari, normalmente collegati a zone geografiche determinate, appare evidente che la loro tutela è soprattutto ed essenzialmente giustificata dalla necessità di sal- vaguardare gli interessi “privati” dei produttori che vivono ed operano nelle zone protette. Di conseguenza, sono le associa- zioni di tali produttori che, in primo luogo, avendone ogni di- ritto, si attivano per tutelare la specificità dei loro prodotti at- 122
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