CENNI STORICI sul COLLE di TENDA

Pagina creata da Federico Giorgi
 
CONTINUA A LEGGERE
G. B. Arnaudo
                                      Sentinella delle Alpi
Anno XXXIX
14 - 25 luglio 1888

                                    CENNI STORICI
                                  sul COLLE di TENDA
n. 164 – 14-15.7.1888

Limontino, al secolo prof. Arnaudo redattore capo della Piemontese*, scrive una serie di articoli intorno
al Colle di Tenda, queste vere porte d’Italia, come le chiama egli, e intorno alle fortificazioni delle Alpi
Marittime.
Crediamo far cosa grata ai lettori riportando i seguenti cenni storici:

     Il Colle di Tenda (che dovrebbe forse, in modo più appropriato, chiamarsi Colle di Limone, perché
assai più vicino a Limone che a Tenda, ma che così si chiama perché gli alti suoi pascoli fanno parte del
territorio del Comune di Tenda) ha le sue pagine nella storia del Piemonte e della Provenza, ed altre, e
forse maggiori, ne avrà in avvenire. Chiamavasi anticamente monte Cornio, Cornelio o Corneliano, e
sotto questo nome è indicato in molte vecchie carte e in libri dei secoli scorsi. Fu per un lungo tempo il
più importante, per non dire l’unico passaggio sempre praticabile fra il Piemonte e la Contea di Nizza,
al tempo in cui la repubblica di Genova estendeva la sua signoria a ponente di Savona.
     Vi si trovarono vestigia di una strada romana statavi aperta per ordine di Augusto, perché le sue
truppe vi avessero un comodo tragitto per condursi a frenare i liguri transalpini. Il colle fu per più lustri
un accampamento dei saraceni che l’occuparono nel 906, e di là discesero più volte per fare delle
scorrerie nell’alto Piemonte. La strada fu ristorata una prima volta ai tempi di Carlo Magno; poi fu
riattata dopo che Bonifazio di Challant ebbe sconfitti e puniti i feudatari Lascaris di Ventimiglia, per
ordine di Amedeo VIII, nel 1391, che l’avevano lasciata in stato di miserando abbandono; poi fu
nuovamente selciata, dopo il 1537, per ordine del duca Carlo Emanuele, che a stento, ritirandosi da
Nizza, l’aveva passata colle sue schiere.

     Dopo il 1600 si tentò due volte di rendere più agevole il passo mediante una galleria; ma l’opera
incominciata fu lasciata interrotta a causa delle guerre. Vittorio Amedeo III vi fece finalmente aprire
una strada praticabile con vetture, con numerosi ricoveri per l’inverno nei punti più pericolosi.
Finalmente, vi fu in questi ultimi anni aperta una galleria di 3200 metri, che ha i suoi due imbocchi sul
versante di Limone, a circa 1300 metri sul livello del mare, e serve per veicoli e pedoni, risparmiando la
rapida salita fino alla vetta del colle.
     La grande importanza che questa strada ebbe sempre pel Piemonte è dimostrata dagli sforzi continui
che fecero i principi di Casa Savoia per rendersene padroni e dai numerosi passaggi di truppe che vi
ebbero luogo nei secoli passati.
     Nel memoriale che il presidente Nicolò Balbo mandava al duca Emanuele Filiberto nel 1559,
quando, dopo la battaglia di San Quintino, questi doveva iniziare la restaurazione degli antichi Stati di
Piemonte e Savoia, una delle prime raccomandazioni che si facevano era che il Colle di Tenda venisse,
per via di acquisto o di politica, in possesso dei principi di Savoia, perché il Piemonte avesse un accesso
diretto e proprio al mare; e difatti quel principe, cedendo altro territorio nel Delfinato, sottentrò nei
diritti degli antichi feudatari. Dopo d’allora, la via del Colle di Tenda divenne strada dello Stato, e via
principale di comunicazione fra Torino e Nizza. Del resto, buona o cattiva che fosse quella strada,
secondo i diversi tempi e le diverse signorie, e per quanto inclemente vi sia il clima nei luoghi e rigidi
inverni in cui è coperta da molta neve, passarono per essa, prima le legioni romane, poi i santi
Dalmazzo, Basso e Saturnino, che portarono il cristianesimo in quelle regioni, poi i Saraceni, i soldati di
Carlo Magno, le truppe Angioine calate in Italia in aiuto di Giovanna di Napoli, quelle di Carlo V, del
duca Carlo Emanuele e dei suoi successori, e quelle di Francia che alla fine del secolo scorso e al
principio di questo portarono in Italia lo strascico della Grande Rivoluzione. Per essa passò pure Pio VII
prigioniero. Vittorio Amedeo II, sorpreso nel marzo del 1707 da una tormenta o fortunale, fu salvo solo
grazie ad un Limonese che se lo portò sulle spalle fino ad una casa del borgo di Limonetto, e Carlo
Emanuele III, colto anch’egli da una gran bufera nel 1742, dovette la vita agli energici soccorsi di quei
montanari, avezzi ad affrontare ogni pericolo di quel paese, la storia dei cui inverni non è che una
sequela di burrasche, valanghe e frane.

     Pochi anni, almeno lo speriamo, ci dividono dal tempo in cui la sbuffante locomotiva, penetrando
nelle viscere dell’antico monte Cornio un’altra volta perforato, ci trasporterà rapidamente e senza altre
difficoltà per le valli della Roja e della Nervia al mare nostrum sulla sponda di Ventimiglia, e per la
strada di Sospello al mare, ahi non più nostro, della bella Nizza!
     Ma affinchè queste opere gigantesche e costose del progresso siano sicure, occorre difendere
validamente queste vere “porte d’Italia”.

                                             **************

                                    AL COLLE DI TENDA
n. 169 - 21.7.1888

    Certi di far cosa gradita ai lettori, pubblichiamo ancora quest’altra parte dei brillanti e dotti articoli
dell’ottimo Limontino (Prof. G. B. Arnaudo).

     Il prof. C. Peroglio, già direttore di un Circolo geografico italiano in Torino, ragionando della
nuova frontiera italo francese nelle Alpi Marittime, scriveva nel 1873: “Essa non ha in sé nulla di
buono, e possono sfidarsi, nonché altri, quelli stessi che l’hanno imposta e quelli che se la lasciavano
imporre, a provare che essa non è un prodigio di assurdità, da qualunque lato la si voglia considerare,
etnografico, geografico, doganale, militare”.
     Vuolsi bensì, ma non saprei davvero con qual fondamento, che Cavour, accortosi del grave errore in
cui era stato indotto, tentasse di riacquistare una buona parte del territorio ceduto. Però scriveva
Nicomede Bianchi: “la perfidia e l’ignoranza dei suoi agenti strozzarono tali tentativi fin dal loro
nascere”. La più bella prova poi che tale confine è assurdo anche per la Francia l’abbiamo nel fatto che,
nei primi anni che susseguirono l’annessione di Nizza, il Consiglio generale delle Alpi Marittime
ripetutamente espresse il suo voto per una più logica ed equa rettificazione di confine.
     Comunque sia, il fatto sta che i francesi rimasero padroni della catena formidabile di Raus, Authion,
Milleforche, che erano state per tanto tempo naturale baluardo d’Italia, baluardo dal quale l’orgoglio
francese, come ben scrisse l’avvocato Caire, fu più volte rintuzzato dalle armi del piccolo Piemonte.
     Dopo quella insensata cessione, il baluardo d’Italia veniva di sua natura trasportato al Colle di
Tenda. I Francesi avevano così bene veduta l’importanza militare di questo passaggio che, dopo il
trattato di Amiens, il direttorio di Francia a cui era rimasta la contea di Nizza, aveva proposto la
fabbricazione di una fortezza in quel luogo; più tardi, l’ing. Terrial, per ordine dell’Imperatore
Napoleone, aveva anche progettato un perforamento del giogo, per cui si sarebbero spesi un milione
trecentomila franchi.
     Fa stupore che, dopo il 1860, non si sia pensato subito a chiudere con validi sbarramenti il varco del
Colle di Tenda.
     I Francesi avevano nelle mani tutte le chiavi militari delle Alpi Marittime, e noi ce ne stavamo colle
mani alla cintola a loro discrezione. Ci volle la caduta del secondo impero, e le minacce dei clericali
trionfanti nei primi anni della terza Repubblica di salvar Roma e la Francia in nome del Sacro Cuore per
far comprendere al Governo ed al Parlamento d’Italia la necessità di forti sbarramenti nelle Alpi
Marittime, sia per evitare le sorprese, rese ora più facili, del 1794 e 1796, sia per allestire la difesa di
quel forte passo ed eventualmente anche preparare una controffensiva, sia per mettere al riparo la
provincia di Cuneo e nel tempo stesso avere una base sicura per eventuali operazioni nel dipartimento
di Nizza.
Si cominciò modestamente, e con un errore, vale a dire colla costruzione di un forte nelle gole della
Roja, a livello della strada nazionale sotto San Dalmazzo di Tenda. Però, quando il forte mal concepito
era appena ad un metro fuori del suolo, se ne riconobbe, un po’ tardi, per vero, l’assoluta inutilità
(giacchè era facilissimo girarlo dalle alture, bloccarlo e ridurlo all’impotenza), e lo si abbandonò, dopo
che si era sprecata una cospicua somma.
     I nuovi fortilizi furono invece progettati sul colle di Tenda, e sulle alture che circondano e
dominano questo colle, e che nel 1794 erano state in parte occupate dalle truppe sarde al comando di
Bellegarde e dai miliziani limonesi. La storia di quella campagna, in cui furono fatti tutti i tentativi,
bastava per suggerire chiaramente quello che si doveva fare.
     Dominare dall’alto, con buone artiglierie, l’augusta valle Roja, che è per lunghi tratti niente altro
che una serie di gole formate da rocce granitiche e calcaree che s’ergono verticalmente su ambi i fianchi
del fiume; poter spazzare le alture per cui potrebbe essere tentato di passare il nemico conscio della
difficoltà e dei pericolo d’inoltrarsi dal fondo della valle; impedire al nemico l’accesso al colle di Tenda
ed al bacino di Limone per la valle di Rio Freddo, confluente della Roja, e per quelle alture di Briga da
cui nasce il Tanaro; impedire, inoltre, il passaggio pel vallone di Caramagna ed il colle del Sabbione al
nemico che volesse avventurarsi all’ardua impresa di discendere su Entraque e Valdieri in val Gesso.
     A tutte queste esigenze si provvide con sei forti distaccati, ma inspirati tutti da uno stesso concetto,
e collegati fra di loro mediante strade carreggiabili.

n. 170 - 22.7.1888

     Al centro, presso le sorgenti della Roja, e a sinistra della strada nazionale che varca il colle a 1875
metri d’altezza, trovasi il forte Centrale, detto il Colle Alto.
     È a 1929 metri sul livello del mare. È congiunto alla strada nazionale da una ampia strada
carreggiabile d’accesso; ha vicino, un po’ più in basso un ampio baraccamento in solida muratura, in
cui hanno ricovero gran parte delle truppe ed è provvisto dell’acqua mediante una condotta proveniente
dal rio Canelli.
     A sinistra del forte del Colle Alto vi sono due altri forti che dominano ad un tempo la valle della
Roja e la valle laterale di Rio Freddo. Uno, quello di Taborda, è a 2050 metri sul livello del mare, ed è
il più avanzato verso il confine francese; l’altro, quello del monte Pepino, nella regione degli edelweiss,
è a 2269 metri e comanda i passi di Framosa, Boaria e Perla, da cui si potrebbe discendere su Limone
per la valle di San Giovanni.
     Da quei luoghi lo sguardo si estende fino ai monti altissimi da cui nascono il Tanaro e tutti i fiumi
che discendono nel Mediterraneo per la riviera ligure da Albenga a Ventimiglia; nei giorni di sole è uno
degli spettacoli più belli e grandiosi di cui occhio possa godere; nei giorni di fortunale, quando piove,
tira vento o nevica, uno può farsi un’idea della tremenda maestà delle bufere del Sinai con cui l’Eterno
nascondeva al popolo d’Israele la vista di Mosè.
     Una strada carreggiabile di 5 chilometri conduce dal forte di Colle Alto al forte di Taborda; un’altra
strada di 4800 metri conduce dal forte di Taborda al forte Pepino. Queste strade d’accesso, con grandi
difficoltà tagliate in quegli elevati monti, che non avevano mai avuto altro che sentieri di pecore e
capre, sono della larghezza di metri 3,20, e per esse si trasportano sopra solidi carri i grossi materiali per
la costruzione dei forti, vale a dire i grandi lastroni di pietre calcari, le piattaforme e gli affusti pei
cannoni ed i cannoni.
     Il forte di Pepino è poi ancora collegato col forte del Colle Alto mediante una ripida strada
mulattiera che dalla cima di Beccorosso scende per l’aspra e sassosa valletta della Cabanaira.
     Troppo costoso sarebbe stato trasportare a quelle altezze tutto il materiale di costruzione sui carri, o
a dorso di mulo o d’uomo. Si ricorse perciò ai mezzi meccanici, vale a dire alle linee aeree, che
mediante un giuoco di funi metalliche di trazione e di sospensione, sostenute da cavalletti di legno di
varia altezza, congegnate con cuscinetti, rulli, pulegge, carrucole e sostegni, il tutto messo in
movimento da buoni motori, trasportano in secchielli di ferro, di cui gli uni salgono mentre gli altri
scendono, il materiale minuto, vale a dire mattoni, ghiaia, malta, sabbia, acqua, ecc.
     Vi sono per questa ferrovia due bellissimi impianti, che servono già da anni e rendono grandi
servigi, permettendo di risparmiare e tempo e spesa. Uno di questi impianti, il più vecchio, è nel luogo
detto la Punta, sul versante di Tenda, a 1270 metri e serve a due linee, trasportano i materiali a sinistra
verso Taborda e il Pepino a 2106 metri con una linea di 2400 metri; e a destra del forte di Pernante, a
2116 metri, con una linea di 2600 metri.
L’altro impianto è nel vallone di Framosa, ove uno stesso motore mette in movimento una linea
aerea, lunga 800 metri, che sale fino al Pepino, a 2339 metri; una bella macchina che impasta la malta,
ed un macinatore Wappart che riduce la ghiaia silicea in sabbia. Senza di questo impianto intelligente il
forte di Pepino, che è uno dei più importanti, non si sarebbe potuto costrurre che in molto tempo, e
spendendo molti milioni, giacchè su quel greppo, ove sono ancora adesso le nevi, non v’è nulla di
utilizzabile salvo un po’ di ghiaia.
     Una piccola ferrovia a scartamento ridotto trasporta materiali dal forte di Taborda all’impianto di
Framosa, tagliando una costa che nasconde interessantissimi strati nummulitici, che portano ancora
l’impronta delle alghe e delle felci, e che si raccomandano all’attenzione di coloro che si dilettano di
geologia e di preistoria.
     Questo sul fianco sinistro del Colle di Tenda. Parleremo ancora delle opere del fianco destro, e della
coraggiosa impresa Maggia, che con tanta intelligenza, conoscenza d’arte e zelo s’assunse quegli
immani ed ardui lavori.

n. 171 – 23/24.7.1888

     Alla destra del forte Centrale e di Colle Alto, ve ne sono altri tre che portano i seguenti nomi dai
dirupi su cui sono costrutti: Margheria, Pernante e Giaura.
     Il forte Margheria, il più basso di tutti, è a 1855 metri sul livello del mare; esso è congiunto col
forte di Colle Alto con una strada carreggiabile lunga 2500 metri, ed un’erta via mulattiera aperta
nell’ardesia friabile del monte lo mette in comunicazione col superiore forte di Pernante. Mentre il forte
di Taborda batte da una parte il vallone di Rio Freddo e dall’altra i giri della vecchia strada del Colle di
Tenda e la costa a destra della Roja, il forte di Margheria, che sta di fronte a quello di Taborda, rivolge
contemporaneamente i suoi fuochi verso la costa sinistra, verso l’antica strada e verso il vallone di
Caramagna che conduce per aspre vie e pel malagevole colle del Sabbione ad Entraque. Così Colle
Alto, Margheria e Taborda, a poca differenza di livello l’uno dall’altro, e posti l’uno al centro, l’altro a
destra, l’altro a sinistra, si coordinano e si completano a vicenda chiudendo tutti i passi della val Roja e
contemporaneamente dominando buona parte dei valloni di Rio Freddo e Caramagna. La disposizione
di questi fortilizi appare eccellente a vista d’occhio anche ai profani d’arte militare.
     Il forte di Pernante, sito sopra una cresta che divide la valle della Vermenagna (versante del Po)
dalla valle Roja (versante del Mediterraneo), è a 2116 metri sul livello del mare, ed è congiunto col
forte Centrale mediante una strada carreggiabile a zig-zag di oltre quattro chilometri, aperta lungo una
costa in cui nel 1794 le truppe repubblicane francesi s’erano trincerate. Questo forte ha lo stesso
obbiettivo di quello di Margheria; ma essendo ad un’altezza maggiore, protegge più efficacemente
Colle Alto, Taborda e la strada di Taborda, batte una zona più alta del vallone di Caramagna e chiude
l’accesso alla Sella di Salauta ed alla Sella di Margheria, per le quali si potrebbe scendere sopra
Limonetto, e di là a Limone, e protegge anche la cosiddetta Cima di Salauta che s’interpone fra il
vallone dell’Abisso e il vallone di Caramagna, e si innalza fino a 2156 metri. Questa cima sarà più tardi
anche meglio adattata alla difesa con opportuni trinceramenti. Il forte di Pernante è fornito di una lunga
condotta d’acqua presa dalle vicinanze del lago dell’Abisso. Il pietrame e la sabbia per la costruzione
del forte vennero presi alle falde della cima di Salauta, e condotti in parte mediante un piano inclinato,
in parte mediante piccole ferrovie a scartamento ridotto, ed in parte, come già dissi, mediante la linea
aerea, lunga 2600 metri che dalla Punta sale fino a quell’altezza.
     Dopo il forte di Pernante viene, più alto di tutti, quello di Giaura, situato a 2266 metri sul livello del
mare, sulla cosiddetta Cima di Giaura, contrafforte che divide la parte superiore del vallone di
Caramagna. Questo forte non è dominato che dalla Rocca dell’Abisso, la punta più elevata di quei
monti (2775 metri), enorme pietraia, nelle cui forre sono perpetue le nevi ed alle cui gole non
s’affacciano che i camosci. Il vallone dell’Abisso, formato da rocce calcari d’un verde cupo, così ripide
da essere in alcuni luoghi quasi perpendicolari, è d’una tale maestà selvaggia che l’illustre ministro
Paleocapa lo suggeriva a coloro che vogliono ammirare “la bellezza dell’orrido”. La parte di esso che si
stende immediatamente sotto il lago non è che un grande ammasso di sassi staccati dalle rocce, e fu
battezzato dai montanari col nome di valle d’Inferno. Il lago, gelato d’inverno e coperto di neve, gelido
l’estate, ha acque limpidissime; però esse appaion verdi perché specchiano le rocce, che lo circondano.
Quel lago sia detto di passaggio, può avere la sua pagina nella storia delle delusioni umane. Antiche
tradizioni, mantenutesi vive, dicevano che una specie di eremita che viveva lassù, in un anno in cui il
lago, per non si sa qual motivo tellurico o meteorologico, restò asciutto, vi trovò della polvere d’oro che
vendette ad un orefice di Torino. Alcuni anni fa, parecchie persone, delle quali alcune di Cuneo e di
Torino, si misero in animo di prosciugare il lago per ricercarvi la vantata polvere d’oro; ma le loro
pompe, forse perché insufficienti o perché mal collocate, non riuscirono a toglier l’acqua fino in fondo,
e l’oro fu sprecato invano per cercare altr’oro. Ma due anni fa, pei bisogni del forte di Pernante
l’impresa Maggia, che non andava in cerca di altri tesori che quelli d’un intelligente lavoro, riuscì a
prosciugarlo; essa non vi trovò che pietre calcari e sabbia silicea, neanche buona per far vetri! Oh,
miraggio della ricchezza quanti uomini inganni e quante castronaggini fai commettere!
     Il forte di Giaura, dunque, superbo della sua altimetria, sta a cavallo del confine di Tenda e Limone,
e signoreggia coi suoi fuochi su tutto l’alto bacino della Roja e dei suoi confluenti. Posto lassù, nella
regione di quelle burrasche montane che nelle Alpi si chiamano tormente, e ai piedi delle nevi eterne;
ampio e basso nelle opere murarie, sopra un dirupo inaccessibile, pare attenda impavido le burrasche
politiche, e dica agli altri forti che gli stan sotto: “State tranquilli; ci son qua io!”
     Il difficile stava nel trasportare fin lassù il grosso materiale, giacchè l’acqua si potè derivare dalla
Rocca dell’Abisso e dal lago di Peirafica posto a 2387 metri; il pietrame fu con una piccola ferrovia
condotto dalle falde della stessa rocca; e la sabbia, una sabbia silicea, bianca come farina, e finissima, si
trovò in seno al monte, ove vennero a colpi di piccone scavate profonde gallerie che danno una idea
degli antri dei Trogloditi. Mancavano le pietre da taglio, che per tutti i forti furono prese nella valle del
Panice, e i lastroni di calcare verdognolo provenienti tutti dalla cava del Fenale, presso Tenda. Per
trasportare queste pietre, questi lastroni, i cannoni e i loro affusti, le loro piattaforme, e pel
munizionamento normale del forte ci voleva una strada carreggiabile. Questa strada, lunga 5 chilometri
dal forte di Pernante a quello di Giaura, fu costrutta a ridosso delle cime di Salauta e Margherita e nelle
rupi del fianco sinistro del vallone dell’Abisso. Si dovette tagliar la roccia in alcuni luoghi a picco, ed
erigere solidi muraglioni di sostegno forniti di barriere in legno. Per lavorare a quelle altezze
vertiginose, in quelle rupi quasi perpendicolari, coraggiosi operai lavorarono nel modo più malagevole
appesi alle corde assicurate in alto; disgraziatamente, quel titanico lavoro volle parecchie vittime. Ora la
strada tagliata nel sasso, sostenuta da forti opere murarie, s’inerpica a meandri in quell’orrendo
anfiteatro di rocce verdastre nelle quali non avevano trovato sede finora che aquile, camosci, ghiacci,
nevi e valanghe e costituisce una vera meraviglia di costruzione alpina. Così la salita fino alla bella e
maestosa altura della cima di Giaura, da cui si gode tutto il panorama delle Alpi Marittime, e da cui con
un buon cannocchiale s’intravedono, nei giorni limpidi, le vette dei monti della Corsica (giacchè
l’altezza abbrevia le distanze e sopprime la curva del mare), diventa comoda anche pei non alpinisti, ed
una visita all’Abisso, che alcuni anni fa era un’impresa per pochi coraggiosi, può diventar cosa comune.
E le Alpi Marittime, finora così poco battute, e tanto oscurate dal Club Alpino, quantunque così
interessanti, varie e belle, potranno essere più frequentate e meglio conosciute.

n. 172- 25.7.1888

    I lavori di difesa del Colle di Tenda e alture vicine cominciarono nel 1881. I forti di Colle Alto e
Margherita sono già terminati, armati e occupati dalle truppe. Quello di Taborda sarà terminato entro
l’anno, ed è già armato anch’esso. Pernante sarà nell’anno terminato e armato esso pure. Pepino e
Giaura non saranno terminati che più tardi, ma saranno anche essi armati quest’anno. Dopo ciò, si
faranno i lavori di trinceramento per rendere più efficace e sicura la difesa mobile. I lavori di
costruzione di tutti i forti e delle difficili strade d’accesso furono affidati tutti ad uno solo impresario, il
signor Giuseppe Maggia.
    Fu una scelta felicissima. Il Maggia, uomo venuto dal nulla, con una vita sobria, laboriosa, studiosa
ed onesta, si guadagnò una bella ricchezza, e noi lo contiamo ora a Torino fra i primi costruttori nelle
opere di sventramento. Egli aveva già dimostrata la sua capacità per simili lavori nella costruzione della
strada di Sostegno, di un tronco di Strada nella valle Introna, di diverse opere al forte di Fenestrelle,
delle fortificazioni del Colle dell’Assietta, compreso il monumento commemorativo della eroica
battaglia, di quel colle e le strada che da Finestrelle va fino a quelle gloriose trincee alpine. Egli aveva
poi anche già fatti i primi lavori dell’abbandonato forte di San Dalmazzo.
    I suoi lavori si distinguevano per lo scrupolo, la coscienza, l’esattezza e la solidità con cui erano
eseguiti, e per la puntualità con cui egli ne faceva la consegna a tempo fisso; anzi, la maggior parte delle
volte, li consegnava prima del termine della scadenza dei capitolati d’oneri.
    In pochi anni di continuo e perseverante lavoro, condotto in mezzo a mille difficoltà, in stagioni
anche rigide, le alture di Tenda furono trasformate e munite di fortilizi e di strade. Tutti i mezzi che
potevano accelerare e rendere meno costoso il lavoro furono impiegati, e ne fanno prova i belli impianti
delle linee aeree alla Punta e nel vallone di Framosa, le macchine per impastare la malta e per far la
sabbia, le lunghe ed ampie strade d’accesso, e le condotte d’acqua.
     Quanto ai forti, si può dire con piena sicurezza che ad essi non si potranno fare gli appunti fatti a
quelli dell’Appennino, e che non lasciano nulla a desiderare per solidità. Ultimamente ancora, nel mese
scorso, li visitavano tre generali e se ne dichiaravano pienamente soddisfatti.
     Una giusta lode merita anche il direttore dei lavori sul colle di Tenda, il giovane ingegnere
Giovanni Battista Tarizzo, il quale gode meritatamente di tutta la fiducia del signor Maggia. Da mane a
sera egli è sempre sul lavoro, sempre in giro da un forte all’altro fra i venti e le piogge, attento a
sorvegliare minutamente opere e lavoratori, ad impartire ordini, a correggere errori. Coadiuvato da
volenterosi ed abili assistenti, da anni acclimati a quelle aure forti ed abituati a quel genere di lavori,
egli spinge con instancabile attività e solerzia le opere, e si fa un punto d’onore che siano condotte a
tempo e bene, e siano approvate dall’autorità militare che ne vigila l’esecuzione. Energico ma nel tempo
stesso affabile e conciliante sa dare tutto il loro peso alle osservazioni degli ufficiali di Colle Alto, e pur
facendo gli interessi dell’impresa, vivere con essi in buona armonia.
     I lavoratori di diverso genere (muratori, minatori, terraioli, carrettieri, mulattieri) erano alla fine
dello scorso giugno 800, divisi a squadre, ma presto saranno portati a 1200 e lavoreranno finchè lo
consenta la stagione. Appartengono in gran parte alle valli delle Alpi, ma vi sono anche molti operai
veneti, che si acclimarono senza gravi disagi. Il lavoro sul forte è in media di 5 mesi dell’anno; il lavoro
attivissimo e generale è di tre mesi.
     Gli operai sono dall’impresa Maggia trattati bene, e se ne ha la prova nelle continue domande di
lavoro che essa riceve ogni giorno. Quantunque sia obbligata soltanto alla cura dei feriti, l’impresa fa
curare anche gli altri malati. Nel baraccamento di Colle Alto ha formato un’infermeria per le prime
cure, e nell’ospedale della Congregazione di Santo Spirito in Limone, ha una sala riservata ai suoi
operai, i quali sono curati dal giovane ed attivo dottor B. Tabacco, che più volte la settimana sale fino ai
forti.
     In pochi anni, dunque, il Colle di Tenda è diventato una specie di campo trincerato, all’altezza da
1900 a 2300 metri.
     Quelle porte d’Italia si possono ora, fortunatamente, considerare come chiuse e sbarrate. I forti petti
dei nostri soldati italiani all’occorrenza faranno il resto.

                                                                                                 LIMONTINO.

                                       ____________________________

*L'articolo venne pubblicato sulla Gazzetta Piemontese dal 12 al 20 luglio 1888, con testo più esteso,
soprattutto nella prima parte.

Limone Piemonte 2011
Marco Bellone
Puoi anche leggere