BEYOND E-LEARNING - SILVANO TAGLIAGAMBE CAGLIARI 11 MAGGIO 2017 - Convegni

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BEYOND E-LEARNING - SILVANO TAGLIAGAMBE CAGLIARI 11 MAGGIO 2017 - Convegni
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SILVANO TAGLIAGAMBE CAGLIARI 11 MAGGIO 2017
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IL RAPPORTO CORPO/MENTE

Il modello della mente estesa propone l’idea di una stretta e inscindibile
connessione tra il sistema vivente e l’ambiente, in sintonia con la teoria
dell’unidualità tra questi due aspetti.
Sulla base di questo modello l’ambiente costituisce una sorta di “doppio del
cervello”, indissolubilmente legato a quest’ultimo, sebbene da esso
funzionalmente distinguibile.
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IL MODELLO DELLA ”MENTE ESTESA”

Si tratta quindi di un’idea che si pone, in qualche modo, in linea di continuità con il
modello proposto da Gregory Bateson in una conferenza dal titolo Forma, sostanza,
differenza, tenuta il 9 gennaio 1970 per il diciannovesimo Annual Korzybski
Memorial, nella quale egli dava la seguente risposta alla domanda: “Che cosa
intendo per ‘mia’ mente?”: “La mente individuale è immanente, ma non solo nel
corpo; essa è immanente anche in canali e messaggi esterni al corpo; e vi è una più
vasta mente di cui la mente individuale è solo un sottosistema. … La psicologia
freudiana ha dilatato il concetto di mente verso l’interno, fino a includervi l’intero
sistema di comunicazione all’interno del corpo (la componente neurovegetativa,
quella dell’abitudine, e la vasta gamma dei processi inconsci). Ciò che sto dicendo
dilata la mente verso l’esterno”.
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IL MODELLO DELLA ”MENTE ESTESA”

In estrema sintesi il modello della mente estesa afferma che i processi mentali sono
esempi di elaborazione cognitiva incorporata e distribuita. Il che significa:

 Che non solo il cervello, ma anche il corpo e l’ambiente cooperano al
  raggiungimento dei nostri fini cognitivi;
 Che ciò è ottenuto in un modo così fluido e interconnesso da originare un unico
  flusso causale integrato, nel cui ambito (e per gli scopi scientifici dell’analisi del
  comportamento) le usuali distinzioni di interno ed esterno perdono ogni utilità ed
  efficacia.

Possiamo quindi dire che la mente si estende al di là dei confini del cranio, e permea
la struttura fisica del corpo e quella fisica e culturale dell’ambiente esterno.
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IL MODELLO DELLA ”MENTE ESTESA”

Questa prospettiva è radicalmente alternativa alle molteplici versioni della filosofia
della mente che riducono la questione della relazione mente-corpo alla relazione
mente-cervello, identificando l’intero corpo con una sua parte, sia pure di importanza
primaria, e la psiche con la mente. Il senso di questo mutamento di prospettiva è
stato ben colto ed espresso da Gargani, che ha sottolineato la necessità di
cominciare a “pensare il mentale in termini di una diversa disposizione, di una
disposizione sintonica, di una disposizione solidaristica, relazionale. Paragonare la
mente non tanto a un processo occulto che avviene dentro la scatola cranica di
ciascuno e pensare invece il mentale come un’atmosfera che ci circonda che
possiamo anche toccare, così come nelle varie fasi di una giornata si provano
momenti di pesantezza e poi di sollievo. Questa è la mente, questo è il mentale, un
contesto e uno spazio che condividiamo”. Uno spazio intermedio tra l’uomo e il suo
ambiente.
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IL MODELLO DELLA ”MENTE ESTESA”

Questa idea della mente come spazio intermedio tra l’uomo e il suo ambiente, che
svolge, di fatto, la funzione di interfaccia tra universo interiore e realtà esterna pone
al centro dell’attenzione il problema dei confini del corpo, che hanno una duplice
funzione:

 da un lato quella di linea di demarcazione che identifica il corpo e lo separa
  dall’ambiente in cui è immerso e dal suo prossimo;
 dall’altro come ponte, linea di collegamento, interfaccia, che mette costantemente
  in relazione il corpo con il contesto in cui vive in tutte le sue molteplici
  articolazioni.
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UNIDUALITÀ: L’AMBIENTE COME DOPPIO DEL SISTEMA

Se prendiamo un sistema qualunque A, dal punto di vista del bilanciamento dei
flussi, per esempio di energia e di informazione, tra esso e il suo ambiente,
quest’ultimo può essere considerato nel suo complesso come un sistema che riceve
da A, quanto da A esce, e cede ad A quanto A riceve: “out” per A è “in” per
l’ambiente, e viceversa, “in” per A e` “out” per l’ambiente. In termini formali questo
“scambio” in  out è descritto invertendo il segno del tempo nella descrizione
dell’ambiente, che allora risulta essere l’immagine nello “specchio del tempo” del
sistema A. Poiché l’ambiente rappresenta ciò che bilancia i flussi per il sistema A
(cioè relativamente al sistema A, o “dal punto di vista” del sistema A), esso è detto il
Doppio di A. Lo stato del sistema unitario costituito da A e dal suo ambiente risulta
essere uno stato coerente in cui queste due componenti sono inscindibilmente
intrecciate l’una all’altra, in conformità al principio di entanglement della meccanica
quantistica.
UNIDUALITÀ: L’AMBIENTE COME DOPPIO DEL SISTEMA
Questo nesso con il contesto di riferimento acquista una duplice
valenza: da un lato è relazione inderogabile con l’ambiente e con la rete
di scambi e di traffici in cui esso si articola; dall’altro è riferimento
imprescindibile al soggetto che vede, con l’archivio di dati, informazioni,
saperi di cui dispone; per l’altro. Nell’atto del vedere c’è dunque un
duplice riferimento relazionale: da una parte, il rapporto con il contesto,
che incide sul significato, dall’altro il passaggio attraverso il filtro
costituito dall’universo interiore dell’osservatore dal quale scaturisce
quella continua ricomposizione dell’oggettivo nel soggettivo, e viceversa,
che arricchisce continuamente e integra l’informazione ricevuta e la
conferisce quella specifica impronta legata al fluire della propria
corporeità e alle reazioni emotive che esso determina.
UNIDUALITÀ: L’AMBIENTE COME DOPPIO DEL SISTEMA

Interessante è l’ipotesi, avanzata di recente da Freeman e Vitiello, che si fonda su
un’analisi radicata nello studio del cervello come sistema fisico in tutta la sua
complessità, derivante dai suoi componenti cellulari e biochimici, caratterizzato
tuttavia dall’essere un sistema aperto, il cui studio richiede l’adozione di una
strategia basata, come si è visto, sull’introduzione del “Doppio”. Nel modello
dissipativo che ne deriva, che tiene conto dei risultati della meccanica quantistica,
l’ambiente in cui il cervello è immerso costituisce il serbatoio dove fluisce e da cui
deriva l’energia scambiata con il cervello medesimo. È per tale ineludibile “esigenza
di scambio” che il cervello costruisce, partendo dalla percezione, la sua specifica
visione del mondo più adeguata alle finalità di questo scambio, e che proprio per
questo può essere considerata il suo Doppio. Questo doppio è una sorta di “mente
estesa”, indissolubilmente legata al cervello, sebbene da esso funzionalmente
distinguibile.
UNIDUALITÀ: L’AMBIENTE COME DOPPIO DEL SISTEMA

La possibilità, offerta dal modello dissipativo di Freeman e Vitiello, di
descrivere la dinamica dei processi che legano l’attività della massa
corticale dei neuroni con l’attività mentale, attraverso il dialogo tra il sé e
il Doppio, è interessante perché fa intravvedere una possibile soluzione
al problema di colmare il gap tra l’attività strettamente neuronale e la
“qualità” dell’esperienza soggettiva mentale, che costituisce il problema
fondamentale della coscienza. Secondo questo approccio l’azione è del
cervello, ma, per risultare efficace, essa deve essere programmata sulla
base dell’immaginazione di quanto accadrà nel mondo: questa
previsione, legata alla percezione, è compito specifico del Doppio.
UNIDUALITÀ: L’AMBIENTE COME DOPPIO DEL SISTEMA

Questa idea di azione presuppone il superamento di un’idea meramente predittiva
e asettica della scienza. Noi non siamo osservatori passivi, ma interpreti ed agenti,
per cui dobbiamo liberarci, come ci invitava a fare Bruno De Finetti, dal desiderio di
sapere come le cose andranno… come se andassero per conto loro! […] È un
problema di decisione, non di previsione”.
Questo è il punto: per l’uomo la previsione non è un fine, ma un mezzo, uno
strumento per assumere decisioni efficaci, per cui si tratta di abbandonare l’idea
unidimensionale di “previsione” per passare a quella più complessa di “strategia” e
del ruolo attivo dell’osservatore. Il passaggio in questione segna quella che
possiamo definire la pratica di costruzione degli scenari futuri, il cui scopo non è
solo né prioritariamente la previsione, ma piuttosto la costruzione del senso e della
conoscenza sulle possibili traiettorie future delle quali i soggetti che partecipano alla
costruzione degli scenari si possono appropriare per mobilitarsi all’azione e per il
coordinamento collettivo.
KANT: REALITÄT ED EXISTENZ
In questo quadro è interessante richiamare la distinzione, netta e
 precisa, proposta da Kant tra la Realität, categoria della qualità,
 corrispondente al giudizio affermativo, da una parte, e il concetto di
 Dasein e quelli di Existenz e di Wirklichkeit, cioè di esistenza e di
 effettualità, strettamente associati a esso, dall'altra, che rientrano
 invece nell'ambito delle categorie della modalità. Ciò che emerge
 da questa distinzione è che la realtà in quanto categoria della
 qualità non si riferisce all'esistenza effettiva di un qualcosa nel
 "mondo" esterno, bensì alle determinazioni e ai contenuti che sono
 propri di un qualcosa in quanto res, cioè alla determinazione del
 contenuto di una cosa in quanto cosa.
KANT: REALITÄT ED EXISTENZ
Quale sia il senso e quale l’oggetto di questo sguardo rivolto verso la
 cerchia dei possibili e puntato su ciò che ne traccia i limiti è ben
 illustrato e spiegato dall'esempio, proposto nella Critica della Ragion
 pura, là dove si afferma che cento talleri possibili non si distinguono
 affatto da cento talleri effettivi, se questi ultimi vengono considerati
 dal punto di vista che Kant ci invita ad assumere, quello del
 Gegenstand e della sua Position an sich selbst, cioè della res, che
 non può variare, sia che venga considerata come possibile o come
 effettiva, dal momento che si tratta, nell'un caso e nell'altro, dello
 stesso quid.
KANT: REALITÄT ED EXISTENZ
Questo quid è l'essenza al quale l'effettualità non fa che aggiungersi
 successivamente, per cui si può dire che anche l'esistenza ha il
 valore e il significato d'una realtà. Ma è il quid in se stesso, in quanto
 tale, che consente all'oggetto di definirsi, di qualificarsi in un modo
 specifico che sia sufficiente a differenziarlo da ogni altro: esso,
 pertanto, costituisce la risposta appropriata e sufficiente alla
 domanda tendente a stabilire ciò che una cosa è, e non ad appurare
 se tale cosa esista. Intesa in questo modo la realtà designa la totalità
 della determinazione possibile della res.
KANT: REALITÄT ED EXISTENZ
Cerchiamo di capire meglio il significato di questa distinzione. Con il termine realtà

  intendiamo tutto ciò di cui dobbiamo disporre per afferrare il concetto e il contenuto di

  un oggetto qualsiasi. Se ci riferiamo a una casa, ad esempio, della sua realtà fanno

  parte in modo imprescindibile le fondamenta, il tetto, la porta, la grandezza,

  l’estensione, i colori, insomma tutto ciò che mi serve per potermene fare un’idea

  corretta ed esaustiva, e quindi tutti i suoi predicati e le determinazioni possibili. Il fatto

  che essa sussista effettivamente oppure no è inessenziale ai fini della costruzione

  dell’idea e della sua corrispondente espressione, intesa non nel senso puramente

  rappresentativo che abbiamo appena finito di precisare. Proprio per questo

  l’esistenza di ciò che esiste, la sua effettività, non è un predicato reale. Essa

  concerne non il che cosa dell’oggetto casa, ma il suo come, cioè il rapporto che

  questo oggetto ha con il soggetto conoscente e con la facoltà del conoscere.
KANT: REALITÄT ED EXISTENZ
Kant è preciso ed esplicito su questo punto. All’inizio del “Chiarimento” dei “Postulati del
pensiero empirico in generale” egli infatti dice con molta chiarezza:

«Le categorie della modalità hanno questo di particolare, che non accrescono
menomamente, come determinazione dell’oggetto, il concetto al quale sono unite, ma
esprimono soltanto il rapporto con la facoltà conoscitiva. Quando il concetto di una cosa
è già del tutto completo, io posso chiedermi sempre se questo oggetto sia solamente
possibile o reale, e, in questo caso, se sia anche necessario».

Mentre quando parlo di realtà mi riferisco alle determinazioni della cosa in quanto tale,
a tutto ciò che risulta necessario per poterla pensare in tutta la sua estensione
possibile, in tutte le sue possibili varianti e modalità di presentazione, quando parlo
invece di effettualità non aggiungo un elemento o aspetto che riguardi la cosa “in e per
sé stessa” ma pongo questa stessa cosa nella relazione conoscitiva. Ed è soltanto in
questa relazione, secondo Kant, che il reale si legittima come effettivo. Kant, I. (1957),
Critica della ragion pura, Torino: Einaudi, 229.
KANT: REALITÄT ED EXISTENZ
Questa distinzione di Kant ci consente di capire in che cosa
consistono la creatività e la capacità di progettare.
Progettare significa riuscire a vedere e a pensare altrimenti
l’effettualità (l’oggetto che si ha di fronte, qui e ora, nello spazio e
nel tempo) cogliendo le alternative della sua modalità di
presentazione, insite nel suo specifico orizzonte di realtà. Così
facendo non si esce, ovviamente, dalla totalità della
determinazione possibile dell’oggetto medesimo, cioè dalla sua
realtà: si va invece al di là dello specifico modo in cui si è abituati
a considerarlo sulla base delle modalità percettive usuali ed
egemoni.
LEOPARDI: LA VISIONE DOPPIA
Quelle modalità percettive usuali ed egemoni che Leopardi, non a
caso, invita a superare, integrandole con l’immaginazione:
«All'uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono
vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il
mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli
occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono
d'una campana; e nel tempo stesso coll'immaginazione vedrà
un'altra torre, un'altra campagna, udrà un altro suono. In questo
secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle
cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che
non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli
soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la
sensazione».
Leopardi, G. Zibaldone di pensieri, Firenze 30 novembre 1828.
PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE
Viktor Sklovskij (1893-1984): “lo scrittore, con l’intreccio, lava il mondo. Il
mondo non fa che confondersi e impolverarsi. Lo scrittore, con l’intreccio,
strofina lo specchio della coscienza”.
“Se ci mettiamo a riflettere sulle leggi generali della percezione, vediamo
che, diventando abituali, le azioni diventano meccaniche…
Col processo dell’automatizzazione si spiegano anche le leggi del nostro
linguaggio prosaico, con le sue frasi non completate e le sue parole
pronunciate a metà.
L’oggetto passa vicino a noi come imballato, sappiamo che cosa è per il
posto che occupa, ma ne vediamo solo la superficie. Per influsso di tale
percezione, l’oggetto si inaridisce, dapprima solo come percezione, ma
poi anche nella sua riproduzione…
PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE

Ed ecco che per restituire il senso della vita, per ‘sentire’ gli oggetti, per
far sì che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo
dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come ‘visione’ e non
come ‘riconoscimento’: procedimento dell’arte è il procedimento dello
straniamento (ostranenie) degli oggetti e il procedimento della forma
oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione, dal
momento che il processo percettivo, nell’arte, è fine a se stesso e deve
essere prolungato; l’arte è una maniera di ‘sentire’ il divenire dell’oggetto,
mentre il ‘già compiuto’ non ha importanza nell’arte”.
“Ogni opera letteraria è un nuovo montaggio del mondo, una nuova
sorpresa, una nuova apparizione”.
PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE

Nella fase di costruzione della singolarità, di emergenza di una nuova idea
abbiamo necessariamente una forte contrapposizione tra creatività e
automatismo, in quanto l’elaborazione di un nuovo stile, di un nuovo modo di
raccontare il mondo, di un nuovo modo di vedere le cose e i domini dell’esperienza
presuppone e comporta, inevitabilmente, un distacco dalle routines, dai modi usuali
ed egemoni di percepire la realtà. Questo distacco presuppone e comporta altresì
la necessità di prendere le distanze da un naturalismo e da un realismo intesi come
possibilità di trarre dalle cose stesse, dal loro ordine, dalle loro modalità di
presentazione la loro rappresentazione, in quanto così facendo, si rimarrebbe
prigionieri delle modalità ricorrenti di vedere e di organizzare lo spazio circostante e
l’esperienza quotidiana.
PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE

Ecco perché, nella fase che definiamo “creativa”, l’artista e il progettista devono
prendere le distanze da quella che possiamo chiamare una “combinatoria di
oggetti già dotati di significato”, all’interno della quale vi sia una corrispondenza
già definita e in qualche modo vincolata tra i segni del linguaggio usato
(qualunque esso sia: quello della poesia, della pittura, della musica e via di
seguito) e gli oggetti e i processi della realtà da descrivere, da rappresentare o
alla quale comunque ci si intenda riferire. Essi devono cioè liberarsi dall’egemonia
del senso della realtà per esplorare il senso della possibilità, il possibile in
tutta la sua ampiezza e potenzialità, affidandosi a un sistema combinatorio che,
proprio in quanto non vincolato dall’assegnazione di un significato preciso ai
segni, sia in grado di rendere conto di tutta la gamma e la molteplicità delle
soluzioni teoricamente possibili (e, ricordiamo, che i mondi possibili e il senso
della possibilità risultano vincolati dalla sola esigenza di essere internamente
coerenti, cioè di non violare il principio di non contraddizione).
PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE

Orientarsi verso il senso della possibilità e lasciarsi guidare da
esso significa dunque cercare di cogliere l’infinita varietà della
realtà intesa non già come effettualità, come ciò che è presente
qui e ora e che è già visibile e rappresentabile, ma negli aspetti
per i quali essa non è ancora nota, o nei modi e negli stili nuovi
che possono permettere di “lavare il mondo”, cioè di conferire
significati inediti alle cose già note.
SISTEMI CHIUSI E FRECCIA DEL TEMPO

Nei sistemi chiusi l’energia è una quantità conservata e non esistono
perdite o guadagni di questa grandezza fisica: se prendiamo in
considerazione le equazioni che ne descrivono l’evoluzione nel tempo,
ciò che constatiamo è che esse non cambiano il loro aspetto formale (la
loro forma) quando la posizione dell’origine sull’asse della variabile tempo
viene spostata di una quantità costante. L’operazione è simile a quanto
avviene regolando gli orologi di un’ora in avanti o indietro, quando si
introduce l’ora legale o si torna a quella solare. In questo caso, dunque, la
posizione esatta dell’origine sull’asse del tempo non ha un valore
sostanziale, dato che può essere spostata a piacimento. Il tempo non ha
un valore assoluto, solo gli intervalli di tempo sono importanti perché
restano immutati sotto traslazione dell’origine dell’asse temporale.
SISTEMI CHIUSI E FRECCIA DEL TEMPO

Non esistono quindi nozioni quali presente, “ora”, “in questo momento”,
né concetti di passato o di futuro. L’uno può fluire nell’altro senza
cambiamenti osservabili nel sistema. Non ci sono pertanto orologi da
sincronizzare, né esiste una “direzione del tempo” univoca, dal momento
che l’origine del tempo può essere spostata anche “all’indietro”, come
accade nei sistemi presi in considerazione dalla meccanica classica. Non
c’è freccia del tempo, e dunque non c’è storia, né inizio, né fine. Il fluire
del tempo distrugge ogni origine che fittiziamente possa essere
assegnata sul suo asse.
SISTEMI APERTI E MEMORIA

Per i sistemi aperti al contrario la dissipazione implica che l’energia
non si conservi e non può accadere che ci sia simmetria sotto
traslazione spaziale. In tal caso, infatti, avremmo conservazione
dell’energia, il che non accade. Ne consegue che l’origine sull’asse
temporale è fissata, non traslabile a piacere. Essa segna, ricorda la
“nascita” del nostro sistema che non può essere modificata. La
memoria diventa non solo possibile, ma imprescindibile, e acquista
un significato ben preciso anche dal punto di vista prettamente
fisico. Il sistema dissipativo ha una storia, invecchia e ha un tempo
di vita. Non ci sono orologi arbitrari. La direzione del tempo non è
invertibile, esiste la freccia del tempo. Va dunque sottolineato che
la teoria dei sistemi aperti valorizza e rende imprescindibile la
funzione della memoria.
SISTEMI APERTI E MEMORIA

Sulla base di queste premesse risulta particolarmente rilevante
descrivere e spiegare come il nostro cervello, che è un sistema
aperto, dissipativo, si relazioni al mondo . La sua attività funzionale,
nel suo rapporto con l’ambiente esterno, è caratterizzata dal ciclo
azione-percezione. Il cervello può essere considerato come un
sistema che cerca di collocarsi nell’ambiente in cui è inserito
formulando ipotesi e sottoponendole a verifica con azioni
intenzionali attraverso tentativi-ed-errori (trial-and-error), in un
processo di costruzione di conoscenza. Gli stimoli cui esso è
sottoposto nel suo rapporto con l’ambiente attraverso i canali
percettivi vengono inquadrati nell’ambito delle esperienze
percettive acquisite in precedenza, nel passato, ed è in tale
processo che le informazioni diventano “significati”.
SISTEMI APERTI E MEMORIA

È importante però capire bene come incida questo rapporto con il
passato e come, di conseguenza, vada intesa la memoria. Non si
tratta di aggiungere ogni nuova percezione all’esperienza
percettiva già acquisita, che rimane immutata in seguito a questa
nuova acquisizione, come accade nel caso di una nuova “voce”
aggiunta a un elenco di voci già compilato, in un’enciclopedia. Nel
caso del cervello, ogni nuova percezione modifica l’intero
paesaggio dei significati formatisi fino ad allora. La memoria non è
memoria di informazioni, ma memoria di significati che variano
sulla base dei nuovi apporti.
SISTEMI APERTI E MEMORIA

È fondamentale rendersi conto che questa concezione dinamica deve
essere applicata anche ai ricordi, in linea con la concezione, proposta da
Edelman, secondo la quale non si può che ritenere del tutto erronea
qualsiasi concezione della memoria che la assimili a un contenitore, a un
“archivio” di ricordi. Non solo non esiste l’archivio, ma neppure è corretto
parlare di ricordi, in quanto al livello della memoria così concepita e
intesa, che è una costante attività di attribuzione di significati sempre
nuovi alle risposte agli stimoli, il richiamo nel presente di una particolare
risposta del passato, che avviene sempre in situazioni continuamente
mutevoli, non può che modificare “la struttura e la dinamica delle
popolazioni neurali implicate nella categorizzazione originaria [...]. Un
tale richiamo può dare origine a una risposta simile a una risposta data
in precedenza (un ‘ricordo’), ma in generale la risposta è modificata o
arricchita dai mutamenti in corso.
SISTEMI APERTI E RICORDI
Come sottolinea LeDoux, negli ultimi anni sono state effettuate diverse
ricerche dirette a stabilire tempi e modalità di questo processo di
reinterpretazione. Già a partire dagli anni Sessanta una lunga linea di
ricerca aveva mostrato che alcuni farmaci, in particolare gli inibitori della
sintesi proteica, somministrati subito dopo un apprendimento, ne
interrompevano il consolidamento, cioè la conversione della memoria
temporale a breve termine in memoria persistente a lungo termine. Dagli
sviluppi di queste ricerche è emerso che il ricordo, finché non viene
stabilizzato dalla sintesi proteica, si trova in uno stato fragile e può
essere distrutto. La finestra temporale durante cui esso può essere
distrutto o alterato va dalle 4 alle 6 ore successive al momento in cui è
stato acquisito. Dopo di che diventa stabile e persistente.
J. LeDoux, Ansia. Come il cervello ci aiuta a capirla, Raffaello Cortina, Milano 2016,
pp. 437-38.
SISTEMI APERTI E RICORDI

Ciò ha portato alla concezione standard che un ricordo viene
memorizzato una sola volta: poi, allorché si presenta qualche stimolo
che sembra avere a che fare con esso, il ricordo originale viene attivato
ed espresso in virtù dell’analogia, più o meno effettiva o semplicemente
avvertita come tale dal soggetto coinvolto, tra la situazione attuale e
quella del passato “fissata” nel ricordo medesimo. Nel momento in cui il
ricordo viene recuperato in questo modo, esso diventa però labile e
distruttibile. È come se il recupero riaprisse e mettesse in discussione il
processo di consolidamento acquisito, così che, per poter persistere
dopo questa fase, esso debba essere ripristinato o riconsolidato. Questa
ipotesi, inizialmente respinta dai principali ricercatori, ha poi goduto di
una certa riconsiderazione negli anni novanta grazie al lavoro di Susan
Sara, ma non divenne comunque popolare.
SISTEMI APERTI E RICORDI

«Lo scopo del meccanismo di riconsolidamento non è quello di rendere
distruttibile il ricordo, ma di consentirne l’aggiornamento. […]
Inizialmente avevamo pensato che tutti i ricordi potessero essere
soggetti a distruzione in seguito al blocco del riconsolidamento. Ma
Nader, che ora è docente alla McGill University, ha scoperto che i ricordi
fortemente condizionati (quelli condizionati con uno SI particolarmente
intenso) erano protetti dal blocco del riconsolidamento. […] Ma Diaz-
Mataix e Doyère hanno scoperto che pure i ricordi forti, in realtà,
possono subire il riconsolidamento, purché in essi venga incorporata
nuova informazione: in altre parole purché la memoria venga
aggiornata».
SISTEMI APERTI E RICORDI

Alla luce di queste recenti acquisizioni non solo è possibile, ma è
necessario arricchire costantemente i ricordi di nuova informazione e
conoscenza, per favorirne il radicamento ed evitare che si disperdano.
Ciò ha una conseguenza rilevante per quanto riguarda il rapporto della
memoria con il tempo, in quanto implica una sua dipendenza
imprescindibile dal momento di acquisizione di questa nuova
informazione, cioè dal presente. Perché il passato e le sue tracce nei
ricordi non si disperdano, è dunque necessario rivitalizzarlo e
riattualizzarlo continuamente attraverso il carburante fornito dalla nuova
conoscenza, il che comporta una prima e significativa inversione della
freccia del tempo. Come ci dice Gustav Mahler in un suo celeberrimo
aforisma, la «tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione della
cenere».
SPAZIO E TEMPO QUANTISTICI

A questo punto occorre però interrogarsi sul concetto di “presente” e la
nozione di “ora” alla luce delle acquisizioni, in particolare, della
meccanica quantistica. Per farlo è opportuno partire da un’analogia con il
problema dello spazio e la nozione di “qui”. Come ricorda Carlo Rovelli,
già negli anni Trenta del secolo scorso in due brevi e illuminanti articoli,
nell’URSS un allievo di Lev Landau, Matvej Petrovič Bronštejn, aveva
mostrato che la meccanica quantistica e la teoria della relatività generale,
prese insieme, implicano che esista un limite alla divisibilità dello spazio,
con conseguente necessità di modificare le nostre basi concettuali. Alla
scala della “lunghezza di Planck”, che in numeri vale 10-33 cm., lo spazio
e il tempo cambiano natura, diventando “spazio e tempo quantistici”. È
importante comprendere che cosa comporti questa nuova natura.
C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Cortina, Milano 2014,
pp. 133-134.
IL «QUI» E «ORA»

Heisenberg aveva capito che non si può localizzare una particella in un punto dello
spazio per più di un solo istante. Poi scappa. Come afferma il principio di
indeterminazione dello stesso Heisenberg, più si cerca di localizzare la particella in
una regione piccola, più grande sarà la velocità con cui si allontanerà: se la particella
scappa a grande velocità, vuol dire che ha tanta energia. Questa energia, in base alla
teoria della relatività generale di Einstein, fa incurvare lo spazio: tanta energia vuol dire
incurvare molto lo spazio. Se si concentra molta energia in una regione molto piccola,
il risultato è che lo spazio viene incurvato troppo, sprofondando in un buco nero, come
una stella che collassa. Ma se la particella sprofonda dentro un buco nero, non la si
vede più. Non la si può quindi usare per fissare una regione di spazio. Insomma non è
possibile arrivare a misurare regioni arbitrariamente piccole di spazio perché, se si
cerca di farlo, queste regioni spariscono dentro un buco nero. Il risultato è generale: la
meccanica quantistica e la relatività generale, prese insieme, implicano che esista un
limite alla divisibilità dello spazio: al di sotto di una certa scala non c’è più nulla di
accessibile, anzi nulla di esistente.
IL «QUI» E «ORA»

Dato che ora sappiamo, grazie a Hermann Minkowski e ad Albert Einstein,
che il tempo è la quarta dimensione dello spazio, il ragionamento fatto va
applicato anche a esso. Deve esistere un limite estremamente piccolo alla
divisibilità del tempo, per cui, come il concetto di “qui”, anche il concetto di
“ora” va riconsiderato alla luce della sua natura quantistica. Se parliamo di
presente e di “ora” non possiamo che identificarlo con quell’istante di
tempo minimo, al di sotto del quale, come nel caso dello spazio, non c’è
più nulla di accessibile: si tratta di una dimensione talmente minuta da far
pensare che la sua funzione sia soprattutto quella di trait d’union, un
semplice segno di connessione e di relazione tra il passato e il futuro.
IL «QUI» E «ORA»
L’idea che questa sia la sua funzione prevalente è corroborata da ciò che
emerge dagli sviluppi delle neuroscienze e in particolare dall’idea, sempre
più confermata dagli esperimenti, che ci sia un ponte ben preciso di
collegamento tra il sistema motorio, il linguaggio e il ragionamento, tra il
corpo, le parole e i concetti. Ne scaturisce un sincronismo tra agire,
pensare e parlare che confuta il modello tradizionale di un processo di
elaborazione delle informazioni sensoriali in entrata che, sviluppandosi in
modo lineare, si conclude con la produzione di un’uscita motoria, di
un’azione. Quest’ultima, invece, non è l’esito finale dell’esecuzione del
processo percettivo, ma è parte integrante di questo processo e
inscindibile dallo stimolo sensoriale, in quanto contenuta in esso. Su
questi risultati si fonda una fisiologia dell’azione che conferisce inedita
dignità teorica alle operazioni concrete, alla manipolazione, al “pensare
con le mani”.
L’ORIENTAMENTO E LA TENSIONE VERSO UNO SCOPO

Oggi le neuroscienze confermano che ogni azione, qualunque essa sia, è
caratterizzata dalla presenza di uno scopo. Gli stessi movimenti, come
flettere le dita di una mano, possono essere eseguiti per conseguire
obiettivi diversi (afferrare una tazzina, grattarsi il capo, giocherellare con le
dita ecc.). La presenza di finalità diverse fa di quegli stessi movimenti
degli atti motori diversi.
Il sistema motorio non è pertanto un semplice controllore di movimenti:
alla base della sua organizzazione funzionale c’è la nozione teleologica di
scopo. Ciò che fa di un movimento un’azione è il finalismo, vale a dire il
progetto d’azione e il fine perseguito, che sono alla base del modo con cui
il nostro sistema cervello-corpo-mente struttura e organizza la nostra
interazione con il mondo.
L’ORIENTAMENTO E LA TENSIONE VERSO UNO SCOPO

La correlazione di azione e scopo emerge chiaramente da una serie di esperimenti in
cui gli stessi neuroni premotori dell’area F5 sono stati registrati mentre la scimmia
afferrava oggetti con una pinza che, per la sua particolare conformazione, la obbligava
a eseguire movimenti della mano opposti a quelli normalmente impiegati per afferrare
un pezzo di cibo; i neuroni per l’afferramento continuavano a scaricare durante
l’afferramento del cibo con la pinza, anche se il conseguimento dello scopo era
raggiunto impiegando movimenti del tutto opposti a quelli naturali. Si tratta di risultati
che corroborano la conclusione che ciò che tali neuroni rappresentano/controllano è lo
scopo dell’atto motorio e non i mezzi, cioè i movimenti, richiesti per conseguirlo. In
questo modo le immagini del corpo che reagisce agli stimoli e all’incidenza
dell’ambiente, modificandosi, si integrano con quelle che sono invece il prodotto
dell’azione proattiva del soggetto, delle sue decisioni e scelte degli oggetti con i quali
interagire e del modo di farlo, in base a un preciso principio di “coerenza col proprio
sentire nel contesto determinato e nella specifica situazione in cui si trova.
LA PERCEZIONE COME SELEZIONE

Questi risultati pongono, pertanto, il progetto d’azione, e quindi la tensione
verso il futuro, e lo scopo che s’intende perseguire tramite esso, all’inizio e
non a conclusione del processo percettivo e dell’entrata in scena delle
funzioni cognitive superiori da esso innescato. È infatti sulla base di
questo progetto e delle sue finalità che si provvede a selezionare, tra tutte
le risorse informative che l’ambiente ci mette a disposizione, quelle che
appaiono funzionali al progetto e allo scopo medesimi, e pertinenti rispetto
a esso. Di conseguenza la percezione, più che risultato di un processo di
generalizzazione induttiva che porta al riconoscimento delle forme e
all’assegnazione di uno specifico oggetto all’insieme di cui fa parte
(“Questa che ho di fronte è una bottiglia”), appare il risultato di una
selezione diretta a discriminare tra informazioni pertinenti e informazioni
non pertinenti.
LA PERCEZIONE COME SELEZIONE

Non può trattarsi, ovviamente, di una distinzione valida in assoluto, dal
momento che non sussistono dati e informazioni che siano pertinenti o
non pertinenti, significative o non significative, ridondanti o no, superflue o
no in assoluto, ma sempre relativamente e rispetto al preciso scopo che
s’intende perseguire e al progetto d’azione che si vuole attuare. Le
immagini “proattive” del corpo che agisce si saldano con il progetto
d’azione e con il movimento che viene compiuto per attuarlo e si nutrono
così dell’ulteriore significato derivante da questa sua fusione col gesto,
che a sua volta, in seguito a questa relazione con il linguaggio iconico,
diventa un gesto con una precisa valenza narrativa, un gesto che
racconta.
PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE

All’interno della infinita varietà della realtà come “intreccio” di
realtà e possibilità, di percezione e immaginazione bisogna saper
cogliere e selezionare gli aspetti pertinenti, vale a dire quelli
necessari e sufficienti per riuscire a cogliere e a rappresentare ciò
che sentiamo e vogliamo esprimere attraverso questo intreccio di
percezione e immaginazione.
LA PRIORITÀ FONDAMENTALE
                               Bruno Munari
” Tutti sono in grado di complicare, pochi sono in grado di semplificare. Per semplificare
bisogna saper togliere e per togliere bisogna sapere cosa c’è da togliere”.

E’ molto più difficile semplificare che complicare.
E’ molto più difficile togliere che aggiungere.
E’ molto più difficile procedere per intersezioni
e per incastro che per sommatoria.

Per sapere cosa togliere e perché bisogna disporre
di un PROGETTO ben definito e dagli obiettivi chiari.
Henri Matisse
   Uno splendido esempio di questa
   capacità di togliere, che non è
   comunque d’ostacolo al riconoscimento
   (tutt’altro) è la face de femme del
   1935 di Matisse.
   Pochi tratti essenziali sono sufficienti
   per far scattare la nostra capacità di
   classificare correttamente questa figura
   e di interpretarla come faremmo con
   una fotografia ben più ricca di dettagli.

   La percezione è selettiva
   Anche l’apprendimento lo è.
PICASSO LE TAUREAU - DICEMBRE 1945
PICASSO
    LE
TAUREAU
DICEMBRE
   1945
PICASSO GUERNICA 1937
KANT: REALTÀ ED EFFETTUALITÀ

Porre il progetto e lo scopo, e quindi la tensione e proiezione verso il futuro,
all’inizio dei processi percettivi, a loro volta base e presupposto delle funzioni
cognitive superiori, significa che il ruolo di selezione delle informazioni
pertinenti, da un lato, e di richiamo e reinterpretazione dei ricordi, dall’altro, più
che al presente spetta, appunto, al futuro. La centralità di questa dimensione del
tempo ha l’ulteriore pregio di rendere ancora più chiara la distinzione, operata
da Kant, tra la Realität e i concetti di Dasein, di Existenz e di Wirklichkeit, cioè
tra la realtà, da una parte, e l’effettualità, come dominio del «qui e ora»
dall’altra.
KANT: REALTÀ ED EFFETTUALITÀ
Questa distinzione non solo ci suggerisce, ma ci impone, di superare la
tradizionale coppia opposizionale realtà/possibilità per accedere invece
alla contrapposizione effettuale/virtuale. Progettare significa infatti riuscire
a connettere passato e futuro, tradizione e innovazione, acquisendo la
capacità di vedere e pensare l’effettualità (l’oggetto che si ha di fronte, qui
e ora, nello spazio e nel tempo) in un modo alternativo, che non è però
generico e incondizionato, ma è legato all’insieme di possibilità, insite nel
suo specifico orizzonte di realtà; cioè, per esprimerci facendo uso della
terminologia kantiana, alla totalità della determinazione possibile
dell’oggetto medesimo, dalla quale non è lecito uscire, in quanto essa
costituisce un vincolo per la nostra percezione e i nostri concetti della
cosa medesima. Questo vedere e pensare altrimenti è ciò che ci mette in
condizione di andare al di là del modo in cui si è abituati a considerare
uno specifico oggetto sulla base delle modalità percettive usuali.
IL PRESENTE COME “CUNICOLO TEMPORALE”

Inquadrato in questo modo, il processo di attribuzione dei significati a ciò di
fronte a cui ci troviamo diventa quindi un processo che va dalla tensione
verso il futuro al passato, dai progetti ai ricordi, attraverso quel ponte
sottilissimo costituito da un presente che ha soprattutto, come detto, la
funzione di “cunicolo temporale”, che accorcia il percorso tra il passato e il
futuro, mettendoli così in comunicazione reciproca.
“RIPARARE” IL PASSATO

Le ricerche, menzionate da LeDoux, sui ricordi e sul loro riconsolidamento,
 he ne consente l’aggiornamento, suggeriscono che anche per essi debba
 alere il riferimento alla nozione ampia di realtà, come totalità della loro
determinazione possibile, piuttosto che quello più ristretto e unidimensionale
di effettualità. Ciò rende del tutto lecita la possibilità di “riparare il passato”,
 ioè di reinterpretare i ricordi senza tradirli, vale a dire rispettandone
 intrinseca natura e la qualità (la loro specifica “realtà”), sottraendoci alla
maledizione della “coazione a ripetere”, alla tirannia di un destino
neluttabile, segnato dall’irreversibilità di determinati eventi.
IL CARATTERE DELL’UOMO È IL SUO DEMONE

Viene in mente il bellissimo frammento di Eraclito (119 DK), secondo cui ethos
anthropo daimon, «il carattere dell’uomo è il [suo] demone». Il testo è a tal punto
enigmatico da potersi prestare alle interpretazioni più diverse. Suggestiva è quella che
fa dell’”ethos”, del carattere, un “daimon”. Un demone e quindi una forza divina. È
suggestiva perché suggerisce l’idea che gli uomini credono che a guidarli sia un
demone, una forza esteriore e superiore, mentre in realtà questa forza è dentro di
essi, è il loro carattere che, se non viene sufficientemente conosciuto nella sua
complessità, sembra imporsi come una forza demoniaca. Se è corretta questa
interpretazione l’idea che ne emerge è pertanto che le nostre vite siano in ultima
analisi determinate da “come siamo fatti intimamente”, che la nostra realizzazione
individuale dipenda da questa nostra originaria e profonda strutturazione della
personalità – come un nocciolo duro al fondo delle “sovrastrutture” sociali e culturali
che assorbiamo nel tempo – e dalle dinamiche che si sprigionano intorno a questo
nucleo costitutivo che reagisce alle variazioni del mondo circostante in tutte le sue
articolazioni.
ENTROPIA E SINTROPIA

Un geniale matematico italiano, Luigi Fantappié (1901-1956), nel tentativo di
formulare una teoria unitaria del mondo fisico e biologico, aveva introdotto una
interessante distinzione tra fenomeni sintropici ed entropici, intendendo con il primo
termine tutti quelli mossi da una finalità che, seguendo leggi loro proprie, risultano
spontanei, irriproducibili, unici e non verificabili in laboratorio. Secondo il
matematico, in questa categoria possono rientrare i fenomeni psichici che in questo
quadro concettuale di riferimento, sono fenomeni sintropici tipici.
Detta in altri termini, Fantappié postulò che la legge dell’entropia descrive la
tendenza dell’energia a divergere e a distribuirsi in modo uniforme, fino alla
cessazione di qualunque movimento o attività; viceversa, secondo una legge
simmetrica a quella di entropia, che egli denominò sintropia, gli effetti si propagano a
ritroso nel tempo.
Alanis Morissette 1998
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