BEYOND E-LEARNING - SILVANO TAGLIAGAMBE CAGLIARI 11 MAGGIO 2017 - Convegni
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IL RAPPORTO CORPO/MENTE Il modello della mente estesa propone l’idea di una stretta e inscindibile connessione tra il sistema vivente e l’ambiente, in sintonia con la teoria dell’unidualità tra questi due aspetti. Sulla base di questo modello l’ambiente costituisce una sorta di “doppio del cervello”, indissolubilmente legato a quest’ultimo, sebbene da esso funzionalmente distinguibile.
IL MODELLO DELLA ”MENTE ESTESA” Si tratta quindi di un’idea che si pone, in qualche modo, in linea di continuità con il modello proposto da Gregory Bateson in una conferenza dal titolo Forma, sostanza, differenza, tenuta il 9 gennaio 1970 per il diciannovesimo Annual Korzybski Memorial, nella quale egli dava la seguente risposta alla domanda: “Che cosa intendo per ‘mia’ mente?”: “La mente individuale è immanente, ma non solo nel corpo; essa è immanente anche in canali e messaggi esterni al corpo; e vi è una più vasta mente di cui la mente individuale è solo un sottosistema. … La psicologia freudiana ha dilatato il concetto di mente verso l’interno, fino a includervi l’intero sistema di comunicazione all’interno del corpo (la componente neurovegetativa, quella dell’abitudine, e la vasta gamma dei processi inconsci). Ciò che sto dicendo dilata la mente verso l’esterno”.
IL MODELLO DELLA ”MENTE ESTESA” In estrema sintesi il modello della mente estesa afferma che i processi mentali sono esempi di elaborazione cognitiva incorporata e distribuita. Il che significa: Che non solo il cervello, ma anche il corpo e l’ambiente cooperano al raggiungimento dei nostri fini cognitivi; Che ciò è ottenuto in un modo così fluido e interconnesso da originare un unico flusso causale integrato, nel cui ambito (e per gli scopi scientifici dell’analisi del comportamento) le usuali distinzioni di interno ed esterno perdono ogni utilità ed efficacia. Possiamo quindi dire che la mente si estende al di là dei confini del cranio, e permea la struttura fisica del corpo e quella fisica e culturale dell’ambiente esterno.
IL MODELLO DELLA ”MENTE ESTESA” Questa prospettiva è radicalmente alternativa alle molteplici versioni della filosofia della mente che riducono la questione della relazione mente-corpo alla relazione mente-cervello, identificando l’intero corpo con una sua parte, sia pure di importanza primaria, e la psiche con la mente. Il senso di questo mutamento di prospettiva è stato ben colto ed espresso da Gargani, che ha sottolineato la necessità di cominciare a “pensare il mentale in termini di una diversa disposizione, di una disposizione sintonica, di una disposizione solidaristica, relazionale. Paragonare la mente non tanto a un processo occulto che avviene dentro la scatola cranica di ciascuno e pensare invece il mentale come un’atmosfera che ci circonda che possiamo anche toccare, così come nelle varie fasi di una giornata si provano momenti di pesantezza e poi di sollievo. Questa è la mente, questo è il mentale, un contesto e uno spazio che condividiamo”. Uno spazio intermedio tra l’uomo e il suo ambiente.
IL MODELLO DELLA ”MENTE ESTESA” Questa idea della mente come spazio intermedio tra l’uomo e il suo ambiente, che svolge, di fatto, la funzione di interfaccia tra universo interiore e realtà esterna pone al centro dell’attenzione il problema dei confini del corpo, che hanno una duplice funzione: da un lato quella di linea di demarcazione che identifica il corpo e lo separa dall’ambiente in cui è immerso e dal suo prossimo; dall’altro come ponte, linea di collegamento, interfaccia, che mette costantemente in relazione il corpo con il contesto in cui vive in tutte le sue molteplici articolazioni.
UNIDUALITÀ: L’AMBIENTE COME DOPPIO DEL SISTEMA Se prendiamo un sistema qualunque A, dal punto di vista del bilanciamento dei flussi, per esempio di energia e di informazione, tra esso e il suo ambiente, quest’ultimo può essere considerato nel suo complesso come un sistema che riceve da A, quanto da A esce, e cede ad A quanto A riceve: “out” per A è “in” per l’ambiente, e viceversa, “in” per A e` “out” per l’ambiente. In termini formali questo “scambio” in out è descritto invertendo il segno del tempo nella descrizione dell’ambiente, che allora risulta essere l’immagine nello “specchio del tempo” del sistema A. Poiché l’ambiente rappresenta ciò che bilancia i flussi per il sistema A (cioè relativamente al sistema A, o “dal punto di vista” del sistema A), esso è detto il Doppio di A. Lo stato del sistema unitario costituito da A e dal suo ambiente risulta essere uno stato coerente in cui queste due componenti sono inscindibilmente intrecciate l’una all’altra, in conformità al principio di entanglement della meccanica quantistica.
UNIDUALITÀ: L’AMBIENTE COME DOPPIO DEL SISTEMA Questo nesso con il contesto di riferimento acquista una duplice valenza: da un lato è relazione inderogabile con l’ambiente e con la rete di scambi e di traffici in cui esso si articola; dall’altro è riferimento imprescindibile al soggetto che vede, con l’archivio di dati, informazioni, saperi di cui dispone; per l’altro. Nell’atto del vedere c’è dunque un duplice riferimento relazionale: da una parte, il rapporto con il contesto, che incide sul significato, dall’altro il passaggio attraverso il filtro costituito dall’universo interiore dell’osservatore dal quale scaturisce quella continua ricomposizione dell’oggettivo nel soggettivo, e viceversa, che arricchisce continuamente e integra l’informazione ricevuta e la conferisce quella specifica impronta legata al fluire della propria corporeità e alle reazioni emotive che esso determina.
UNIDUALITÀ: L’AMBIENTE COME DOPPIO DEL SISTEMA Interessante è l’ipotesi, avanzata di recente da Freeman e Vitiello, che si fonda su un’analisi radicata nello studio del cervello come sistema fisico in tutta la sua complessità, derivante dai suoi componenti cellulari e biochimici, caratterizzato tuttavia dall’essere un sistema aperto, il cui studio richiede l’adozione di una strategia basata, come si è visto, sull’introduzione del “Doppio”. Nel modello dissipativo che ne deriva, che tiene conto dei risultati della meccanica quantistica, l’ambiente in cui il cervello è immerso costituisce il serbatoio dove fluisce e da cui deriva l’energia scambiata con il cervello medesimo. È per tale ineludibile “esigenza di scambio” che il cervello costruisce, partendo dalla percezione, la sua specifica visione del mondo più adeguata alle finalità di questo scambio, e che proprio per questo può essere considerata il suo Doppio. Questo doppio è una sorta di “mente estesa”, indissolubilmente legata al cervello, sebbene da esso funzionalmente distinguibile.
UNIDUALITÀ: L’AMBIENTE COME DOPPIO DEL SISTEMA La possibilità, offerta dal modello dissipativo di Freeman e Vitiello, di descrivere la dinamica dei processi che legano l’attività della massa corticale dei neuroni con l’attività mentale, attraverso il dialogo tra il sé e il Doppio, è interessante perché fa intravvedere una possibile soluzione al problema di colmare il gap tra l’attività strettamente neuronale e la “qualità” dell’esperienza soggettiva mentale, che costituisce il problema fondamentale della coscienza. Secondo questo approccio l’azione è del cervello, ma, per risultare efficace, essa deve essere programmata sulla base dell’immaginazione di quanto accadrà nel mondo: questa previsione, legata alla percezione, è compito specifico del Doppio.
UNIDUALITÀ: L’AMBIENTE COME DOPPIO DEL SISTEMA Questa idea di azione presuppone il superamento di un’idea meramente predittiva e asettica della scienza. Noi non siamo osservatori passivi, ma interpreti ed agenti, per cui dobbiamo liberarci, come ci invitava a fare Bruno De Finetti, dal desiderio di sapere come le cose andranno… come se andassero per conto loro! […] È un problema di decisione, non di previsione”. Questo è il punto: per l’uomo la previsione non è un fine, ma un mezzo, uno strumento per assumere decisioni efficaci, per cui si tratta di abbandonare l’idea unidimensionale di “previsione” per passare a quella più complessa di “strategia” e del ruolo attivo dell’osservatore. Il passaggio in questione segna quella che possiamo definire la pratica di costruzione degli scenari futuri, il cui scopo non è solo né prioritariamente la previsione, ma piuttosto la costruzione del senso e della conoscenza sulle possibili traiettorie future delle quali i soggetti che partecipano alla costruzione degli scenari si possono appropriare per mobilitarsi all’azione e per il coordinamento collettivo.
KANT: REALITÄT ED EXISTENZ In questo quadro è interessante richiamare la distinzione, netta e precisa, proposta da Kant tra la Realität, categoria della qualità, corrispondente al giudizio affermativo, da una parte, e il concetto di Dasein e quelli di Existenz e di Wirklichkeit, cioè di esistenza e di effettualità, strettamente associati a esso, dall'altra, che rientrano invece nell'ambito delle categorie della modalità. Ciò che emerge da questa distinzione è che la realtà in quanto categoria della qualità non si riferisce all'esistenza effettiva di un qualcosa nel "mondo" esterno, bensì alle determinazioni e ai contenuti che sono propri di un qualcosa in quanto res, cioè alla determinazione del contenuto di una cosa in quanto cosa.
KANT: REALITÄT ED EXISTENZ Quale sia il senso e quale l’oggetto di questo sguardo rivolto verso la cerchia dei possibili e puntato su ciò che ne traccia i limiti è ben illustrato e spiegato dall'esempio, proposto nella Critica della Ragion pura, là dove si afferma che cento talleri possibili non si distinguono affatto da cento talleri effettivi, se questi ultimi vengono considerati dal punto di vista che Kant ci invita ad assumere, quello del Gegenstand e della sua Position an sich selbst, cioè della res, che non può variare, sia che venga considerata come possibile o come effettiva, dal momento che si tratta, nell'un caso e nell'altro, dello stesso quid.
KANT: REALITÄT ED EXISTENZ Questo quid è l'essenza al quale l'effettualità non fa che aggiungersi successivamente, per cui si può dire che anche l'esistenza ha il valore e il significato d'una realtà. Ma è il quid in se stesso, in quanto tale, che consente all'oggetto di definirsi, di qualificarsi in un modo specifico che sia sufficiente a differenziarlo da ogni altro: esso, pertanto, costituisce la risposta appropriata e sufficiente alla domanda tendente a stabilire ciò che una cosa è, e non ad appurare se tale cosa esista. Intesa in questo modo la realtà designa la totalità della determinazione possibile della res.
KANT: REALITÄT ED EXISTENZ Cerchiamo di capire meglio il significato di questa distinzione. Con il termine realtà intendiamo tutto ciò di cui dobbiamo disporre per afferrare il concetto e il contenuto di un oggetto qualsiasi. Se ci riferiamo a una casa, ad esempio, della sua realtà fanno parte in modo imprescindibile le fondamenta, il tetto, la porta, la grandezza, l’estensione, i colori, insomma tutto ciò che mi serve per potermene fare un’idea corretta ed esaustiva, e quindi tutti i suoi predicati e le determinazioni possibili. Il fatto che essa sussista effettivamente oppure no è inessenziale ai fini della costruzione dell’idea e della sua corrispondente espressione, intesa non nel senso puramente rappresentativo che abbiamo appena finito di precisare. Proprio per questo l’esistenza di ciò che esiste, la sua effettività, non è un predicato reale. Essa concerne non il che cosa dell’oggetto casa, ma il suo come, cioè il rapporto che questo oggetto ha con il soggetto conoscente e con la facoltà del conoscere.
KANT: REALITÄT ED EXISTENZ Kant è preciso ed esplicito su questo punto. All’inizio del “Chiarimento” dei “Postulati del pensiero empirico in generale” egli infatti dice con molta chiarezza: «Le categorie della modalità hanno questo di particolare, che non accrescono menomamente, come determinazione dell’oggetto, il concetto al quale sono unite, ma esprimono soltanto il rapporto con la facoltà conoscitiva. Quando il concetto di una cosa è già del tutto completo, io posso chiedermi sempre se questo oggetto sia solamente possibile o reale, e, in questo caso, se sia anche necessario». Mentre quando parlo di realtà mi riferisco alle determinazioni della cosa in quanto tale, a tutto ciò che risulta necessario per poterla pensare in tutta la sua estensione possibile, in tutte le sue possibili varianti e modalità di presentazione, quando parlo invece di effettualità non aggiungo un elemento o aspetto che riguardi la cosa “in e per sé stessa” ma pongo questa stessa cosa nella relazione conoscitiva. Ed è soltanto in questa relazione, secondo Kant, che il reale si legittima come effettivo. Kant, I. (1957), Critica della ragion pura, Torino: Einaudi, 229.
KANT: REALITÄT ED EXISTENZ Questa distinzione di Kant ci consente di capire in che cosa consistono la creatività e la capacità di progettare. Progettare significa riuscire a vedere e a pensare altrimenti l’effettualità (l’oggetto che si ha di fronte, qui e ora, nello spazio e nel tempo) cogliendo le alternative della sua modalità di presentazione, insite nel suo specifico orizzonte di realtà. Così facendo non si esce, ovviamente, dalla totalità della determinazione possibile dell’oggetto medesimo, cioè dalla sua realtà: si va invece al di là dello specifico modo in cui si è abituati a considerarlo sulla base delle modalità percettive usuali ed egemoni.
LEOPARDI: LA VISIONE DOPPIA Quelle modalità percettive usuali ed egemoni che Leopardi, non a caso, invita a superare, integrandole con l’immaginazione: «All'uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una campana; e nel tempo stesso coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione». Leopardi, G. Zibaldone di pensieri, Firenze 30 novembre 1828.
PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE Viktor Sklovskij (1893-1984): “lo scrittore, con l’intreccio, lava il mondo. Il mondo non fa che confondersi e impolverarsi. Lo scrittore, con l’intreccio, strofina lo specchio della coscienza”. “Se ci mettiamo a riflettere sulle leggi generali della percezione, vediamo che, diventando abituali, le azioni diventano meccaniche… Col processo dell’automatizzazione si spiegano anche le leggi del nostro linguaggio prosaico, con le sue frasi non completate e le sue parole pronunciate a metà. L’oggetto passa vicino a noi come imballato, sappiamo che cosa è per il posto che occupa, ma ne vediamo solo la superficie. Per influsso di tale percezione, l’oggetto si inaridisce, dapprima solo come percezione, ma poi anche nella sua riproduzione…
PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE Ed ecco che per restituire il senso della vita, per ‘sentire’ gli oggetti, per far sì che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come ‘visione’ e non come ‘riconoscimento’: procedimento dell’arte è il procedimento dello straniamento (ostranenie) degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione, dal momento che il processo percettivo, nell’arte, è fine a se stesso e deve essere prolungato; l’arte è una maniera di ‘sentire’ il divenire dell’oggetto, mentre il ‘già compiuto’ non ha importanza nell’arte”. “Ogni opera letteraria è un nuovo montaggio del mondo, una nuova sorpresa, una nuova apparizione”.
PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE Nella fase di costruzione della singolarità, di emergenza di una nuova idea abbiamo necessariamente una forte contrapposizione tra creatività e automatismo, in quanto l’elaborazione di un nuovo stile, di un nuovo modo di raccontare il mondo, di un nuovo modo di vedere le cose e i domini dell’esperienza presuppone e comporta, inevitabilmente, un distacco dalle routines, dai modi usuali ed egemoni di percepire la realtà. Questo distacco presuppone e comporta altresì la necessità di prendere le distanze da un naturalismo e da un realismo intesi come possibilità di trarre dalle cose stesse, dal loro ordine, dalle loro modalità di presentazione la loro rappresentazione, in quanto così facendo, si rimarrebbe prigionieri delle modalità ricorrenti di vedere e di organizzare lo spazio circostante e l’esperienza quotidiana.
PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE Ecco perché, nella fase che definiamo “creativa”, l’artista e il progettista devono prendere le distanze da quella che possiamo chiamare una “combinatoria di oggetti già dotati di significato”, all’interno della quale vi sia una corrispondenza già definita e in qualche modo vincolata tra i segni del linguaggio usato (qualunque esso sia: quello della poesia, della pittura, della musica e via di seguito) e gli oggetti e i processi della realtà da descrivere, da rappresentare o alla quale comunque ci si intenda riferire. Essi devono cioè liberarsi dall’egemonia del senso della realtà per esplorare il senso della possibilità, il possibile in tutta la sua ampiezza e potenzialità, affidandosi a un sistema combinatorio che, proprio in quanto non vincolato dall’assegnazione di un significato preciso ai segni, sia in grado di rendere conto di tutta la gamma e la molteplicità delle soluzioni teoricamente possibili (e, ricordiamo, che i mondi possibili e il senso della possibilità risultano vincolati dalla sola esigenza di essere internamente coerenti, cioè di non violare il principio di non contraddizione).
PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE Orientarsi verso il senso della possibilità e lasciarsi guidare da esso significa dunque cercare di cogliere l’infinita varietà della realtà intesa non già come effettualità, come ciò che è presente qui e ora e che è già visibile e rappresentabile, ma negli aspetti per i quali essa non è ancora nota, o nei modi e negli stili nuovi che possono permettere di “lavare il mondo”, cioè di conferire significati inediti alle cose già note.
SISTEMI CHIUSI E FRECCIA DEL TEMPO Nei sistemi chiusi l’energia è una quantità conservata e non esistono perdite o guadagni di questa grandezza fisica: se prendiamo in considerazione le equazioni che ne descrivono l’evoluzione nel tempo, ciò che constatiamo è che esse non cambiano il loro aspetto formale (la loro forma) quando la posizione dell’origine sull’asse della variabile tempo viene spostata di una quantità costante. L’operazione è simile a quanto avviene regolando gli orologi di un’ora in avanti o indietro, quando si introduce l’ora legale o si torna a quella solare. In questo caso, dunque, la posizione esatta dell’origine sull’asse del tempo non ha un valore sostanziale, dato che può essere spostata a piacimento. Il tempo non ha un valore assoluto, solo gli intervalli di tempo sono importanti perché restano immutati sotto traslazione dell’origine dell’asse temporale.
SISTEMI CHIUSI E FRECCIA DEL TEMPO Non esistono quindi nozioni quali presente, “ora”, “in questo momento”, né concetti di passato o di futuro. L’uno può fluire nell’altro senza cambiamenti osservabili nel sistema. Non ci sono pertanto orologi da sincronizzare, né esiste una “direzione del tempo” univoca, dal momento che l’origine del tempo può essere spostata anche “all’indietro”, come accade nei sistemi presi in considerazione dalla meccanica classica. Non c’è freccia del tempo, e dunque non c’è storia, né inizio, né fine. Il fluire del tempo distrugge ogni origine che fittiziamente possa essere assegnata sul suo asse.
SISTEMI APERTI E MEMORIA Per i sistemi aperti al contrario la dissipazione implica che l’energia non si conservi e non può accadere che ci sia simmetria sotto traslazione spaziale. In tal caso, infatti, avremmo conservazione dell’energia, il che non accade. Ne consegue che l’origine sull’asse temporale è fissata, non traslabile a piacere. Essa segna, ricorda la “nascita” del nostro sistema che non può essere modificata. La memoria diventa non solo possibile, ma imprescindibile, e acquista un significato ben preciso anche dal punto di vista prettamente fisico. Il sistema dissipativo ha una storia, invecchia e ha un tempo di vita. Non ci sono orologi arbitrari. La direzione del tempo non è invertibile, esiste la freccia del tempo. Va dunque sottolineato che la teoria dei sistemi aperti valorizza e rende imprescindibile la funzione della memoria.
SISTEMI APERTI E MEMORIA Sulla base di queste premesse risulta particolarmente rilevante descrivere e spiegare come il nostro cervello, che è un sistema aperto, dissipativo, si relazioni al mondo . La sua attività funzionale, nel suo rapporto con l’ambiente esterno, è caratterizzata dal ciclo azione-percezione. Il cervello può essere considerato come un sistema che cerca di collocarsi nell’ambiente in cui è inserito formulando ipotesi e sottoponendole a verifica con azioni intenzionali attraverso tentativi-ed-errori (trial-and-error), in un processo di costruzione di conoscenza. Gli stimoli cui esso è sottoposto nel suo rapporto con l’ambiente attraverso i canali percettivi vengono inquadrati nell’ambito delle esperienze percettive acquisite in precedenza, nel passato, ed è in tale processo che le informazioni diventano “significati”.
SISTEMI APERTI E MEMORIA È importante però capire bene come incida questo rapporto con il passato e come, di conseguenza, vada intesa la memoria. Non si tratta di aggiungere ogni nuova percezione all’esperienza percettiva già acquisita, che rimane immutata in seguito a questa nuova acquisizione, come accade nel caso di una nuova “voce” aggiunta a un elenco di voci già compilato, in un’enciclopedia. Nel caso del cervello, ogni nuova percezione modifica l’intero paesaggio dei significati formatisi fino ad allora. La memoria non è memoria di informazioni, ma memoria di significati che variano sulla base dei nuovi apporti.
SISTEMI APERTI E MEMORIA È fondamentale rendersi conto che questa concezione dinamica deve essere applicata anche ai ricordi, in linea con la concezione, proposta da Edelman, secondo la quale non si può che ritenere del tutto erronea qualsiasi concezione della memoria che la assimili a un contenitore, a un “archivio” di ricordi. Non solo non esiste l’archivio, ma neppure è corretto parlare di ricordi, in quanto al livello della memoria così concepita e intesa, che è una costante attività di attribuzione di significati sempre nuovi alle risposte agli stimoli, il richiamo nel presente di una particolare risposta del passato, che avviene sempre in situazioni continuamente mutevoli, non può che modificare “la struttura e la dinamica delle popolazioni neurali implicate nella categorizzazione originaria [...]. Un tale richiamo può dare origine a una risposta simile a una risposta data in precedenza (un ‘ricordo’), ma in generale la risposta è modificata o arricchita dai mutamenti in corso.
SISTEMI APERTI E RICORDI Come sottolinea LeDoux, negli ultimi anni sono state effettuate diverse ricerche dirette a stabilire tempi e modalità di questo processo di reinterpretazione. Già a partire dagli anni Sessanta una lunga linea di ricerca aveva mostrato che alcuni farmaci, in particolare gli inibitori della sintesi proteica, somministrati subito dopo un apprendimento, ne interrompevano il consolidamento, cioè la conversione della memoria temporale a breve termine in memoria persistente a lungo termine. Dagli sviluppi di queste ricerche è emerso che il ricordo, finché non viene stabilizzato dalla sintesi proteica, si trova in uno stato fragile e può essere distrutto. La finestra temporale durante cui esso può essere distrutto o alterato va dalle 4 alle 6 ore successive al momento in cui è stato acquisito. Dopo di che diventa stabile e persistente. J. LeDoux, Ansia. Come il cervello ci aiuta a capirla, Raffaello Cortina, Milano 2016, pp. 437-38.
SISTEMI APERTI E RICORDI Ciò ha portato alla concezione standard che un ricordo viene memorizzato una sola volta: poi, allorché si presenta qualche stimolo che sembra avere a che fare con esso, il ricordo originale viene attivato ed espresso in virtù dell’analogia, più o meno effettiva o semplicemente avvertita come tale dal soggetto coinvolto, tra la situazione attuale e quella del passato “fissata” nel ricordo medesimo. Nel momento in cui il ricordo viene recuperato in questo modo, esso diventa però labile e distruttibile. È come se il recupero riaprisse e mettesse in discussione il processo di consolidamento acquisito, così che, per poter persistere dopo questa fase, esso debba essere ripristinato o riconsolidato. Questa ipotesi, inizialmente respinta dai principali ricercatori, ha poi goduto di una certa riconsiderazione negli anni novanta grazie al lavoro di Susan Sara, ma non divenne comunque popolare.
SISTEMI APERTI E RICORDI «Lo scopo del meccanismo di riconsolidamento non è quello di rendere distruttibile il ricordo, ma di consentirne l’aggiornamento. […] Inizialmente avevamo pensato che tutti i ricordi potessero essere soggetti a distruzione in seguito al blocco del riconsolidamento. Ma Nader, che ora è docente alla McGill University, ha scoperto che i ricordi fortemente condizionati (quelli condizionati con uno SI particolarmente intenso) erano protetti dal blocco del riconsolidamento. […] Ma Diaz- Mataix e Doyère hanno scoperto che pure i ricordi forti, in realtà, possono subire il riconsolidamento, purché in essi venga incorporata nuova informazione: in altre parole purché la memoria venga aggiornata».
SISTEMI APERTI E RICORDI Alla luce di queste recenti acquisizioni non solo è possibile, ma è necessario arricchire costantemente i ricordi di nuova informazione e conoscenza, per favorirne il radicamento ed evitare che si disperdano. Ciò ha una conseguenza rilevante per quanto riguarda il rapporto della memoria con il tempo, in quanto implica una sua dipendenza imprescindibile dal momento di acquisizione di questa nuova informazione, cioè dal presente. Perché il passato e le sue tracce nei ricordi non si disperdano, è dunque necessario rivitalizzarlo e riattualizzarlo continuamente attraverso il carburante fornito dalla nuova conoscenza, il che comporta una prima e significativa inversione della freccia del tempo. Come ci dice Gustav Mahler in un suo celeberrimo aforisma, la «tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere».
SPAZIO E TEMPO QUANTISTICI A questo punto occorre però interrogarsi sul concetto di “presente” e la nozione di “ora” alla luce delle acquisizioni, in particolare, della meccanica quantistica. Per farlo è opportuno partire da un’analogia con il problema dello spazio e la nozione di “qui”. Come ricorda Carlo Rovelli, già negli anni Trenta del secolo scorso in due brevi e illuminanti articoli, nell’URSS un allievo di Lev Landau, Matvej Petrovič Bronštejn, aveva mostrato che la meccanica quantistica e la teoria della relatività generale, prese insieme, implicano che esista un limite alla divisibilità dello spazio, con conseguente necessità di modificare le nostre basi concettuali. Alla scala della “lunghezza di Planck”, che in numeri vale 10-33 cm., lo spazio e il tempo cambiano natura, diventando “spazio e tempo quantistici”. È importante comprendere che cosa comporti questa nuova natura. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Cortina, Milano 2014, pp. 133-134.
IL «QUI» E «ORA» Heisenberg aveva capito che non si può localizzare una particella in un punto dello spazio per più di un solo istante. Poi scappa. Come afferma il principio di indeterminazione dello stesso Heisenberg, più si cerca di localizzare la particella in una regione piccola, più grande sarà la velocità con cui si allontanerà: se la particella scappa a grande velocità, vuol dire che ha tanta energia. Questa energia, in base alla teoria della relatività generale di Einstein, fa incurvare lo spazio: tanta energia vuol dire incurvare molto lo spazio. Se si concentra molta energia in una regione molto piccola, il risultato è che lo spazio viene incurvato troppo, sprofondando in un buco nero, come una stella che collassa. Ma se la particella sprofonda dentro un buco nero, non la si vede più. Non la si può quindi usare per fissare una regione di spazio. Insomma non è possibile arrivare a misurare regioni arbitrariamente piccole di spazio perché, se si cerca di farlo, queste regioni spariscono dentro un buco nero. Il risultato è generale: la meccanica quantistica e la relatività generale, prese insieme, implicano che esista un limite alla divisibilità dello spazio: al di sotto di una certa scala non c’è più nulla di accessibile, anzi nulla di esistente.
IL «QUI» E «ORA» Dato che ora sappiamo, grazie a Hermann Minkowski e ad Albert Einstein, che il tempo è la quarta dimensione dello spazio, il ragionamento fatto va applicato anche a esso. Deve esistere un limite estremamente piccolo alla divisibilità del tempo, per cui, come il concetto di “qui”, anche il concetto di “ora” va riconsiderato alla luce della sua natura quantistica. Se parliamo di presente e di “ora” non possiamo che identificarlo con quell’istante di tempo minimo, al di sotto del quale, come nel caso dello spazio, non c’è più nulla di accessibile: si tratta di una dimensione talmente minuta da far pensare che la sua funzione sia soprattutto quella di trait d’union, un semplice segno di connessione e di relazione tra il passato e il futuro.
IL «QUI» E «ORA» L’idea che questa sia la sua funzione prevalente è corroborata da ciò che emerge dagli sviluppi delle neuroscienze e in particolare dall’idea, sempre più confermata dagli esperimenti, che ci sia un ponte ben preciso di collegamento tra il sistema motorio, il linguaggio e il ragionamento, tra il corpo, le parole e i concetti. Ne scaturisce un sincronismo tra agire, pensare e parlare che confuta il modello tradizionale di un processo di elaborazione delle informazioni sensoriali in entrata che, sviluppandosi in modo lineare, si conclude con la produzione di un’uscita motoria, di un’azione. Quest’ultima, invece, non è l’esito finale dell’esecuzione del processo percettivo, ma è parte integrante di questo processo e inscindibile dallo stimolo sensoriale, in quanto contenuta in esso. Su questi risultati si fonda una fisiologia dell’azione che conferisce inedita dignità teorica alle operazioni concrete, alla manipolazione, al “pensare con le mani”.
L’ORIENTAMENTO E LA TENSIONE VERSO UNO SCOPO Oggi le neuroscienze confermano che ogni azione, qualunque essa sia, è caratterizzata dalla presenza di uno scopo. Gli stessi movimenti, come flettere le dita di una mano, possono essere eseguiti per conseguire obiettivi diversi (afferrare una tazzina, grattarsi il capo, giocherellare con le dita ecc.). La presenza di finalità diverse fa di quegli stessi movimenti degli atti motori diversi. Il sistema motorio non è pertanto un semplice controllore di movimenti: alla base della sua organizzazione funzionale c’è la nozione teleologica di scopo. Ciò che fa di un movimento un’azione è il finalismo, vale a dire il progetto d’azione e il fine perseguito, che sono alla base del modo con cui il nostro sistema cervello-corpo-mente struttura e organizza la nostra interazione con il mondo.
L’ORIENTAMENTO E LA TENSIONE VERSO UNO SCOPO La correlazione di azione e scopo emerge chiaramente da una serie di esperimenti in cui gli stessi neuroni premotori dell’area F5 sono stati registrati mentre la scimmia afferrava oggetti con una pinza che, per la sua particolare conformazione, la obbligava a eseguire movimenti della mano opposti a quelli normalmente impiegati per afferrare un pezzo di cibo; i neuroni per l’afferramento continuavano a scaricare durante l’afferramento del cibo con la pinza, anche se il conseguimento dello scopo era raggiunto impiegando movimenti del tutto opposti a quelli naturali. Si tratta di risultati che corroborano la conclusione che ciò che tali neuroni rappresentano/controllano è lo scopo dell’atto motorio e non i mezzi, cioè i movimenti, richiesti per conseguirlo. In questo modo le immagini del corpo che reagisce agli stimoli e all’incidenza dell’ambiente, modificandosi, si integrano con quelle che sono invece il prodotto dell’azione proattiva del soggetto, delle sue decisioni e scelte degli oggetti con i quali interagire e del modo di farlo, in base a un preciso principio di “coerenza col proprio sentire nel contesto determinato e nella specifica situazione in cui si trova.
LA PERCEZIONE COME SELEZIONE Questi risultati pongono, pertanto, il progetto d’azione, e quindi la tensione verso il futuro, e lo scopo che s’intende perseguire tramite esso, all’inizio e non a conclusione del processo percettivo e dell’entrata in scena delle funzioni cognitive superiori da esso innescato. È infatti sulla base di questo progetto e delle sue finalità che si provvede a selezionare, tra tutte le risorse informative che l’ambiente ci mette a disposizione, quelle che appaiono funzionali al progetto e allo scopo medesimi, e pertinenti rispetto a esso. Di conseguenza la percezione, più che risultato di un processo di generalizzazione induttiva che porta al riconoscimento delle forme e all’assegnazione di uno specifico oggetto all’insieme di cui fa parte (“Questa che ho di fronte è una bottiglia”), appare il risultato di una selezione diretta a discriminare tra informazioni pertinenti e informazioni non pertinenti.
LA PERCEZIONE COME SELEZIONE Non può trattarsi, ovviamente, di una distinzione valida in assoluto, dal momento che non sussistono dati e informazioni che siano pertinenti o non pertinenti, significative o non significative, ridondanti o no, superflue o no in assoluto, ma sempre relativamente e rispetto al preciso scopo che s’intende perseguire e al progetto d’azione che si vuole attuare. Le immagini “proattive” del corpo che agisce si saldano con il progetto d’azione e con il movimento che viene compiuto per attuarlo e si nutrono così dell’ulteriore significato derivante da questa sua fusione col gesto, che a sua volta, in seguito a questa relazione con il linguaggio iconico, diventa un gesto con una precisa valenza narrativa, un gesto che racconta.
PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE All’interno della infinita varietà della realtà come “intreccio” di realtà e possibilità, di percezione e immaginazione bisogna saper cogliere e selezionare gli aspetti pertinenti, vale a dire quelli necessari e sufficienti per riuscire a cogliere e a rappresentare ciò che sentiamo e vogliamo esprimere attraverso questo intreccio di percezione e immaginazione.
LA PRIORITÀ FONDAMENTALE Bruno Munari ” Tutti sono in grado di complicare, pochi sono in grado di semplificare. Per semplificare bisogna saper togliere e per togliere bisogna sapere cosa c’è da togliere”. E’ molto più difficile semplificare che complicare. E’ molto più difficile togliere che aggiungere. E’ molto più difficile procedere per intersezioni e per incastro che per sommatoria. Per sapere cosa togliere e perché bisogna disporre di un PROGETTO ben definito e dagli obiettivi chiari.
Henri Matisse Uno splendido esempio di questa capacità di togliere, che non è comunque d’ostacolo al riconoscimento (tutt’altro) è la face de femme del 1935 di Matisse. Pochi tratti essenziali sono sufficienti per far scattare la nostra capacità di classificare correttamente questa figura e di interpretarla come faremmo con una fotografia ben più ricca di dettagli. La percezione è selettiva Anche l’apprendimento lo è.
PICASSO LE TAUREAU - DICEMBRE 1945
PICASSO LE TAUREAU DICEMBRE 1945
PICASSO GUERNICA 1937
KANT: REALTÀ ED EFFETTUALITÀ Porre il progetto e lo scopo, e quindi la tensione e proiezione verso il futuro, all’inizio dei processi percettivi, a loro volta base e presupposto delle funzioni cognitive superiori, significa che il ruolo di selezione delle informazioni pertinenti, da un lato, e di richiamo e reinterpretazione dei ricordi, dall’altro, più che al presente spetta, appunto, al futuro. La centralità di questa dimensione del tempo ha l’ulteriore pregio di rendere ancora più chiara la distinzione, operata da Kant, tra la Realität e i concetti di Dasein, di Existenz e di Wirklichkeit, cioè tra la realtà, da una parte, e l’effettualità, come dominio del «qui e ora» dall’altra.
KANT: REALTÀ ED EFFETTUALITÀ Questa distinzione non solo ci suggerisce, ma ci impone, di superare la tradizionale coppia opposizionale realtà/possibilità per accedere invece alla contrapposizione effettuale/virtuale. Progettare significa infatti riuscire a connettere passato e futuro, tradizione e innovazione, acquisendo la capacità di vedere e pensare l’effettualità (l’oggetto che si ha di fronte, qui e ora, nello spazio e nel tempo) in un modo alternativo, che non è però generico e incondizionato, ma è legato all’insieme di possibilità, insite nel suo specifico orizzonte di realtà; cioè, per esprimerci facendo uso della terminologia kantiana, alla totalità della determinazione possibile dell’oggetto medesimo, dalla quale non è lecito uscire, in quanto essa costituisce un vincolo per la nostra percezione e i nostri concetti della cosa medesima. Questo vedere e pensare altrimenti è ciò che ci mette in condizione di andare al di là del modo in cui si è abituati a considerare uno specifico oggetto sulla base delle modalità percettive usuali.
IL PRESENTE COME “CUNICOLO TEMPORALE” Inquadrato in questo modo, il processo di attribuzione dei significati a ciò di fronte a cui ci troviamo diventa quindi un processo che va dalla tensione verso il futuro al passato, dai progetti ai ricordi, attraverso quel ponte sottilissimo costituito da un presente che ha soprattutto, come detto, la funzione di “cunicolo temporale”, che accorcia il percorso tra il passato e il futuro, mettendoli così in comunicazione reciproca.
“RIPARARE” IL PASSATO Le ricerche, menzionate da LeDoux, sui ricordi e sul loro riconsolidamento, he ne consente l’aggiornamento, suggeriscono che anche per essi debba alere il riferimento alla nozione ampia di realtà, come totalità della loro determinazione possibile, piuttosto che quello più ristretto e unidimensionale di effettualità. Ciò rende del tutto lecita la possibilità di “riparare il passato”, ioè di reinterpretare i ricordi senza tradirli, vale a dire rispettandone intrinseca natura e la qualità (la loro specifica “realtà”), sottraendoci alla maledizione della “coazione a ripetere”, alla tirannia di un destino neluttabile, segnato dall’irreversibilità di determinati eventi.
IL CARATTERE DELL’UOMO È IL SUO DEMONE Viene in mente il bellissimo frammento di Eraclito (119 DK), secondo cui ethos anthropo daimon, «il carattere dell’uomo è il [suo] demone». Il testo è a tal punto enigmatico da potersi prestare alle interpretazioni più diverse. Suggestiva è quella che fa dell’”ethos”, del carattere, un “daimon”. Un demone e quindi una forza divina. È suggestiva perché suggerisce l’idea che gli uomini credono che a guidarli sia un demone, una forza esteriore e superiore, mentre in realtà questa forza è dentro di essi, è il loro carattere che, se non viene sufficientemente conosciuto nella sua complessità, sembra imporsi come una forza demoniaca. Se è corretta questa interpretazione l’idea che ne emerge è pertanto che le nostre vite siano in ultima analisi determinate da “come siamo fatti intimamente”, che la nostra realizzazione individuale dipenda da questa nostra originaria e profonda strutturazione della personalità – come un nocciolo duro al fondo delle “sovrastrutture” sociali e culturali che assorbiamo nel tempo – e dalle dinamiche che si sprigionano intorno a questo nucleo costitutivo che reagisce alle variazioni del mondo circostante in tutte le sue articolazioni.
ENTROPIA E SINTROPIA Un geniale matematico italiano, Luigi Fantappié (1901-1956), nel tentativo di formulare una teoria unitaria del mondo fisico e biologico, aveva introdotto una interessante distinzione tra fenomeni sintropici ed entropici, intendendo con il primo termine tutti quelli mossi da una finalità che, seguendo leggi loro proprie, risultano spontanei, irriproducibili, unici e non verificabili in laboratorio. Secondo il matematico, in questa categoria possono rientrare i fenomeni psichici che in questo quadro concettuale di riferimento, sono fenomeni sintropici tipici. Detta in altri termini, Fantappié postulò che la legge dell’entropia descrive la tendenza dell’energia a divergere e a distribuirsi in modo uniforme, fino alla cessazione di qualunque movimento o attività; viceversa, secondo una legge simmetrica a quella di entropia, che egli denominò sintropia, gli effetti si propagano a ritroso nel tempo.
Alanis Morissette 1998
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