SEMIOTICA 2020-21 II MODULO 28-30 APRILE 2021 - PROF. ILARIA TANI - Facoltà di Lettere e Filosofia
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SEMIOTICA 2020-21 II MODULO 28-30 APRILE 2021 PROF. ILARIA TANI
Forme linguistiche della soggettività La determinazione del mondo degli oggetti e quella dell’io sono strettamente correlate e si determinano a vicenda: «Ogni nuova forma del mondo oggettivo, ad esempio la sua concezione e individuazione spazio-temporale e numerica, produceva perciò ad un tempo un quadro modificato della realtà soggettiva e rivelava nuovi tratti anche in questo mondo puramente “interno”» (FFS, I: 251). Le determinazioni spaziali legate alle particelle dimostrative consentono di elaborare anche la nozione di soggetto: «Esso potè diventare “portatore” dell’azione solo in quanto gli si attribuì un determinato segno localizzante, una determinazione spaziale» (FFS, I: 184)
Il linguaggio nella costituzione della forma soggettiva (cfr. La lingua e il campo della intuizione interna – Le fasi del concetto di io, pp. 251-293) Per Kant, l’io può divenire cosciente della sua attività di soggetto pensante (dell’interno) solo in quanto si riferisce a qualcosa di esistente e di permanente nello spazio (a qualcosa di esterno). Per Cassirer «Il linguaggio mostra come il concreto sentimento di se stessi rimanga ancora legato alla concreta intuizione del proprio corpo e delle sue singole membra». Si genera qui una situazione analoga a quella osservata nel campo dell’espressione delle determinazioni di spazio, che mostrano un generale orientamento verso l’essere fisico e in particolare verso il corpo umano (FFS, I: 254). «La comparsa del pronome nel linguaggio reale è accompagnata da grandi difficoltà» (FFS, I: 226), e tuttavia, in quanto mezzo di «oggettivazione linguistica che serve alla soggettivazione», il pronome conduce alla conoscenza dell’Io inteso kantianamente come ciò «in rapporto a cui le rappresentazioni hanno l’unità sintetica» (FFS, I: 275) e costituisce così il presupposto per l’espressione di giudizi linguistici dotati di una chiara forma logica.
Come portare ad espressione l’io? L’io nel linguaggio diviene protagonista di un’antinomia: per potersi pensare il soggetto deve farsi oggetto a sé stesso: «l’essenza dell’io consiste nell’essere un soggetto, mentre, d’altra parte, nel pensiero e nel linguaggio ogni concetto per il soggetto realmente pensante deve diventare oggetto». Il processo di sviluppo delle espressioni personali prende il via da forme come i pronomi possessivi, i prefissi e gli articoli personali. In particolare l’idea di possesso è intermedia tra il campo della soggettività e quello dell’oggettività.
Lo statuto del pronome personale Cassirer mette in discussione la presunta derivazione del pronome dal nome: «già Humboldt si era opposto a questa “concezione strettamente grammaticale”», che considera «il pronome come la parte del discorso più tardiva nel linguaggio», al contrario se si parte dal discorso «l’elemento primo è la persona stessa di colui che parla». Ma – osservava ancora Humboldt – «nell’io, come è ovvio, è dato anche il tu e mediante una nuova contrapposizione sorge la terza persona, la quale però, poiché ora la sfera di colui che sente e parla viene abbandonata, si allarga a comprendere anche le cose inanimate». A partire da questa concezione speculativa, «anche lo studio empirico del linguaggio ha spesso intrapreso il tentativo di fare apparire i pronomi personali, per così dire, come una “roccia primitiva della creazione del linguaggio”, come la struttura più antica ed oscura, ma anche più salda e permanente di tutte le lingue» (FFS, I: 252).
Sentimento dell’io e sua espressione Il sentimento dell’io non dipende dall’uso del pronome io: «La filosofia del linguaggio rimarrebbe essa stessa nell’angusta concezione logico-grammaticale da essa combattuta se intendesse misurare la forma e la struttura della coscienza dell’io solamente sullo sviluppo di questa denominazione. Nell’analisi psicologica del linguaggio infantile e nella sua valutazione si è spesso incorsi nell’errore di vedere nella prima apparizione della parola “io” anche la fase primitiva e più remota del sentimento dell’io. Ma qui non si pensa che il contenuto spirituale interno e psichico e la sua forma di espressione linguistica non coincidono mai puramente e semplicemente e che, in particolare, l’unità di questo contenuto non ha affatto bisogno di rispecchiarsi nella semplicità dell’espressione» (FFS, I: 253.)
Strumenti linguistici per l’espressione dell’io «La lingua […] per mediare e presentare una determinata intuizione fondamentale dispone di molti differenti mezzi di espressione e solo partendo dalla totalità e dalla comune azione di essi si può chiaramente riconoscere il senso della determinazione che essa contiene in sé. La formazione del concetto dell’io non è perciò legata al pronome, ma essa ha luogo ugualmente attraverso altre sfere linguistiche, come ad esempio mediante il nome e mediante il verbo. In particolare in quest’ultimo si possono esprimere le più sottili particolarità e sfumature del sentimento dell’io, poiché nel verbo la concezione oggettiva di ciò che avviene si compenetra in un modo tutto speciale con la concezione dell’azione, e poiché in questo senso i verbi, per usare l’espressione dei grammatici cinesi, si distinguono in modo caratteristico come “parole vive” dai nomi “parole morte”» (FFS, I: 253).
Ancoraggio corporeo del sentimento dell’io Le indagini glottologiche mostrano come in diverse lingue – altaiche, ebraico, copto, latino, tedesco, sanscrito – «il concreto sentimento di se stessi inizialmente rimanga ancora legato alla concreta intuizione del proprio corpo e delle sue singole membra» (ivi: 254), con la frequente aggiunta dell’aggettivo possessivo (FFS; I: 254). La funzione del pronome di prima persona viene dunque ricoperta da espressioni che significano all’incirca «la mia esistenza, il mio essere o anche, in “maniera drasticamente materiale”, il mio corpo, il mio petto», o un più generico “centro” (ivi: 254), le espressioni pronominali restano cioè a lungo mescolate a quelle nominali (ivi: 255). Anche quando il linguaggio esprime già in maniera determinata l’idea dell’io, dovrà pertanto da principio darle ancora una forma oggettiva: solo nella denominazione di ciò che è oggettivo dovrà, per così dire, trovare quella dell’io» (FFS, I: 266).
Rilevanza dei possessivi L’idea del possesso ha una particolare posizione intermedia fra il campo dell’oggettività e quella della soggettività. Ciò che viene posseduto è un’entità o un oggetto: un alcunché il quale già per il fatto di diventare un possesso si fa riconoscere come semplice cosa. Senonché ora questa cosa, proprio per il fatto di essere dichiarata proprietà, assume un carattere nuovo, passando dalla sfera dell’esistenza semplicemente naturale a quella dell’esistenza personale e spirituale. È per così dire una prima vivificazione, una conversione della forma dell’essere nella forma dell’io, che qui si annuncia» (FFS, I: 266-267)
L’io non può cogliersi sin dall’inizio come pura spontaneità, «ma si scorge, direi quasi, nell’immagine dell’oggetto che egli attribuisce a se stesso come “suo”. […] nello sviluppo del linguaggio infantile [...] il proprio io viene indicato molto prima mediante pronomi possessivi che non mediante pronomi personali». Ma soprattutto le ricerche storiche sulle lingue «mostrano che la formazione compiuta e precisa del concetto di io nel linguaggio suole essere preceduta da uno stadio di indistinzione in cui le espressioni dell’”io” e del “mio”, del “tu” e del “tuo” ecc. non si sono ancora separate [...] cosicché, per esempio, l’espressione che indica “io vado” significa propriamente “il mio andare”; così pure le espressioni che vogliono dire “io costruisco”, “tu costruisci”, “egli costruisce” hanno una struttura esattamente uguale a quelle che significano “la mia casa”, “la tua casa”, “la sua casa”» (FFS, I: 267-268)
Stratificazione dell’oggettività nel linguaggio «per l’intuizione del linguaggio la realtà oggettiva non forma un’unica massa omogenea che semplicemente si contrappone come un tutto al mondo dell’io, ma vi sono diversi piani di questa realtà; non vi è semplicemente un rapporto generale e astratto fra oggetto e soggetto, ma si distinguono chiaramente diversi gradi di oggettività a seconda della maggiore o minore vicinanza all’io» (FFS, I: 270).
Stratificazione della soggettività nel linguaggio L’ “io puro” è pensato come «assoluta unità»: «L’io concepito come forma pura della coscienza non ha in sé alcuna possibilità di interne distinzioni, giacché tali distinzioni appartengono solo al mondo dei contenuti». «Ma il linguaggio non può giungere direttamente a questa intuizione del puro “io trascendentale” e della sua unità. Infatti, siccome per esso la sfera personale si sviluppa poco per volta dalla sfera possessiva, siccome l’intuizione della persona è legata a quella del possessivo oggettivo, la molteplicità che si trova nel semplice rapporto possessivo deve reagire anche sull’espressione della relazione con l’io. Effettivamente il mio braccio, che è legato in modo organico alla totalità del mio corpo, mi appartiene in maniera diversa rispetto alla mia arma o al mio utensile; i miei genitori e mio figlio mi sono legati in maniera diversa, più diretta e più naturale rispetto al mio cavallo o al mio cane; e anche nel campo delle semplice cose inanimate che si possiedono vi è una sensibile differenza fra i beni mobili e i beni immobili di un individuo» (FFS, I: 271).
Varietà originaria di “sostantivi possessivi” «Il linguaggio da principio si adatterà a tutte queste differenze: invece di un’espressione unitaria e generale del rapporto di possesso cercherà di sviluppare per esso tante diverse denominazioni quante sono le classi chiaramente distinte di appartenenza concreta. […] In origine tutte queste diverse espressioni del rapporto di possesso sono nomi, il che si manifesta formalmente nel fatto che possono essere precedute da preposizioni. Questi nomi presentano sfumature tali che distinguono le differenti specie di proprietà, di possesso, di appartenenza» (FFS, I: 271-272). L’espressione omogenea del possesso è un prodotto piuttosto tardo della formazione del linguaggio, che risponde al medesimo percorso dal concreto all’astratto, dall’espressione di cose all’espressione di rapporti (FFS, I: 273). Nel linguaggio tale passaggio è rappresentato dall’introduzione del caso genitivo al posto del pronome possessivo. Il genitivo esprime infatti “appartenenza in generale”, senza più limitarsi a un caso particolare di possesso (ibid.).
L’io linguistico prepara il terreno alla pura appercezione trascendentale L’io «non è uno speciale contenuto rappresentabile o intuibile, ma – per dirla con Kant – unicamente “ciò in rapporto a cui le rappresentazioni hanno l’unità sintetica”. In questo senso la rappresentazione dell’io è “la più povera di tutte” perché sembra essere vuota di ogni contenuto concreto, senonché in questa mancanza di contenuto essa ha in sé al tempo stesso una funzione del tutto nuova e un nuovo significato. Per questo significato il linguaggio non ha più certamente alcuna espressione adeguata, giacché esso, anche nella sua più alta spiritualità, rimane legato alla sfera della intuizione sensibile e quindi non può più raggiungere quella “pura rappresentazione intellettuale” dell’io, dell’io dell’”appercezione trascendentale”. Può però almeno prepararle indirettamente il terreno esprimendo, col suo progredire, in maniera sempre più esatta e rigorosa l’opposizione fra l’essere oggettivo delle cose e l’essere soggettivo della persona e determinando per diverse vie e con diversi mezzi il rapporto di entrambi» (FFS, I: 275).
Arbitrarietà delle categorie linguistiche e diversità delle lingue Per Cassirer non si può parlare di un sistema di categorie linguistiche fisse che costituisca il percorso di evoluzione del linguaggio (né dal punto di vista cronologico né dal punto di vista logico). Ogni singola lingua (in quanto forma creatrice) è un insieme dinamico di motivi linguistici e dei loro rapporti. «Quanto più si cerca di cogliere con esattezza questo processo nella diversificazione che esso subisce nelle singole lingue, tanto più chiaramente risulta che qui le singole classi di parole che la nostra analisi grammaticale suol distinguere: il sostantivo, l’aggettivo, il pronome e il verbo, né esistono fin da principio, né si comportano fra loro come salde unità sostanziali, ma per così dire, si richiamano e si limitano reciprocamente» (FFS, I: 280). Se non è possibile, né desiderabile, «fissare uno schema generale» dell’evoluzione delle lingue, giacché la diversità di costruzione dei sistemi linguistici è una ricchezza, tuttavia è possibile individuare «certi tipi fondamentali» di funzionamento delle lingue (FFS, I: 283): alcune esaltano l’intuizione oggettiva (l’essere) (tipo nominale), altre esaltano l’espressione dell’accadere (divenire), dando centralità nella struttura grammaticale e sintattica al verbo (tipo verbale) (FFS, I: 283-287).
Considerazioni conclusive. La specie simbolica L’antica definizione dell’uomo come animal rationale lascia il posto alla sua definizione come animal symbolicum, sempre situato entro un mondo culturale pluralizzato «che lo configura nella sua ontogenesi e nel quale svolge la propria vita, confrontato senza posa alle lingue, ai miti, alle arti, alle religioni. Insomma, un uomo di segni» (Rastier, Introduzione a Cassirer, Lo strutturalismo nella linguistica moderna (1945), 2017: 31) (cfr. Peirce: “l’uomo è un segno”). «Le forme semiotiche non si definiscono soltanto mediante la loro evoluzione e la loro storia interna, ma anche attraverso le forme vicine nel medesimo ambiente semiotico», diversamente dalle forme biologiche, che «non si definiscono le une rispetto alle altre» (Rastier, cit.: 33-34).
Sulla logica delle scienze della cultura «La simbolica linguistica apre una nuova fase della vita spirituale. Al posto della vita puramente istintuale, tutta immersa nella immediatezza delle impressioni e dei bisogni del momento, subentra la vita secondo “significati”. Questi significati sono qualcosa di replicabile e ripetibile, qualcosa che non è bloccato al semplice qui e ora, ma che è pensato e inteso come uguale a se stesso, come identico, in innumerevoli momenti dell’esistenza e nell’adozione e nell’uso da parte di altrettanto innumerevoli soggetti. In virtù di questa comunanza di significato, al di là della multiforme varietà delle impressioni momentanee emerge lentamente e gradualmente una certa “continuità”, un “cosmo comune”. Ciò che noi chiamiamo imparare una lingua non è quindi mai un processo meramente ricettivo e riproduttivo, ma un processo produttivo al più alto grado» (ivi: 13). «Il linguaggio è il primo “mondo comune” di cui entra a far parte l’individuo» (ivi: 14).
Cultura come mondo intersoggettivo La cultura è «un mondo intersoggettivo»; un mondo che non esiste in me, ma che deve essere accessibile a tutti e al quale tutti devono partecipare. La forma di tale partecipazione, però, è del tutto diversa che nel mondo fisico. Invece di rapportarsi allo stesso universo spazio-temporale di cose, i soggetti si incontrano e si uniscono in un fare comune. In questo agire insieme essi si conoscono e si comprendono l’un l’altro entro il medio dei diversi mondi di forme di cui è costituita la cultura. Anche qui il primo e decisivo passo, quello che porta dall’”io” al “tu” deve farlo la percezione. Ma qui la passiva esperienza percettiva è tanto poco sufficiente quanto lo è la pura sensazione, la semplice “impressione”, per la conoscenza oggettiva. La vera “sintesi” si realizza solo in quell’attivo scambio che ritroviamo nella sua forma tipica in ogni comunicazione linguistica. Il tipo di costante che qui si richiede non è quella di proprietà o leggi, ma è la costanza di significati […]. Noi viviamo nelle parole della lingua, nelle immagini della poesia e delle arti figurative, nelle forme della musica, nelle figure della credenza religiosa. E soltanto in ciò abbiamo “conoscenza” l’uno dell’altro» (LSC: 70).
Natura e cultura «La “libertà” che l’uomo è in grado di conquistarsi non significa che egli possa tirarsi fuori dalla natura e sottrarsi alla sua realtà e alla sua azione. L’uomo non può superare i limiti organici che sono posti a lui come a qualsiasi altro essere vivente. All’interno e sulla base stessa di quei limiti si crea però un’ampiezza e indipendenza di movimento quale egli solo è in grado di raggiungere […]. Il divenire cosciente è il principio e la fine, l’alfa e l’omega della libertà concessa all’uomo; la conoscenza e accettazione della necessità è il vero processo di liberazione che lo “spirito” ha da compiere nei confronti della “natura”. Di questo processo costituiscono la condizione ineliminabile le diverse “forme simboliche” [...] media specifici che l’uomo si crea per potersi, per loro tramite, separare dal mondo, e appunto in questa separazione congiungersi ancora più strettamente con esso. Questa disposizione alla mediazione caratterizza ogni conoscenza umana, come anche è tipica di ogni attività umana» (LSC, 1979: 22) «Al “mondo percettivo” e al “mondo reattivo” se ne è aggiunto nella sfera umana uno nuovo, il “mondo ideativo”; ed è questo che ha progressivamente acquistato sull’uomo un potere sempre maggiore» (ivi: 24).
Possibili ampliamenti • La riflessione di Cassirer trova consonanze in W. Deacon, The Symbolic Species. The co-evolution of language and brain, 1997; tr. it. La specie simbolica, Giovanni Fioriti editore, 2001). • Per Deacon il linguaggio umano è un unicum nel mondo animale, la mente umana è dotata di una capacità simbolica prodotta dalla co-evoluzione di linguaggio e cervello. • La prospettiva di Deacon si colloca all’interno della “rivoluzione cognitiva” di seconda generazione, quella delle cosiddette scienze cognitive incarnate, in cui confluiscono diversi modelli teorici: oltre al costruttivismo di Piaget, la concezione olistico- organismica della cultura tedesca degli anni ‘20 (Cassirer, Heinz Werner), la semiotica di Peirce. • Al centro di questa prospettiva sta una concezione dinamica del simbolo, che si contrappone alla concezione statica del cognitivismo computazionale, secondo cui la mente rappresenta il mondo mediante la manipolazione di simboli (basata su una relazione oggettiva fissa tra uno stato mentale e un corrispondente stato di cose). L’oggettivismo presuppone una rigida dicotomia soggetto/oggetto. In linguistica questo tipo di cognitivismo è rappresentato da Chomsky, per il quale il linguaggio è una funzione autonoma della mente, indipendente da altre funzioni cognitive. Chomsky privilegia la sintassi, la morfologia e la fonetica, lasciando ai margini aspetti più propriamente linguistici come la semantica, la pragmatica e l’evoluzione del linguaggio.
Charles Sanders Peirce (Cambridge Mass. 1839 – Harvard 1914)
• Considerato il più grande pensatore degli Stati Uniti, poliedrico e dai vasti interessi (logico, matematico, chimico, fisico, filosofo, esperto anche di psicologia, storia, economia e tanto altro ancora). • La conoscenza di Peirce in Italia si deve inizialmente a Nicola Abbagnano e a Nynfa Bosco (anni cinquanta) e poi agli studi semiotici: è riconosciuto come uno dei due fondatori della semiotica moderna (accanto a Saussure). «In breve, la mia filosofia può essere descritta come il tentativo di un fisico di avanzare, riguardo alla costituzione dell’universo, ipotesi consentite dai metodi della scienza, con l’aiuto di tutto ciò che è stato fatto da precedenti filosofi. […] Prove dimostrative, non c’è nemmeno da pensarci…[…] Il massimo che si può fare è fornire un’ipotesi, non priva di una sua verosimiglianza, che si collochi nella linea generale di crescita delle idee scientifiche, e che sia capace di venire confutata o verificata da successivi osservatori» (CP 1.7)
Considerazioni editoriali La riflessione di Peirce è ampia e frammentata, dispersa in numerosi articoli, pubblicati su importanti riviste scientifiche dell’epoca. Ciò comporta un primo problema di ricostruzione del suo pensiero. Due possibili vie: 1) cronologica; 2) tematica. • Edizioni principali dei suoi scritti • Collected Papers, Harvard University Press (voll. I-VI: 1931-1935; voll. VII-VIII: 1958) • Writings of Charles Sanders Peirce (1859-1890), Indiana University Press1982-2010. • Annotated Catalogue of the Papers of Charles S. Peirce (Manoscritti), The University of Massachussets Press1967 • Charles Sanders Peirce, Scritti scelti, a cura di G. Maddalena, Torino, Utet, 2005-2013 (selezione: 53-103; 411-433): • Una nuova lista di categorie (On a New List of Categories), 1867 • Questioni riguardo a certe pretese capacità umane (Questions Concerning Certain Faculties Claimed for Man), 1868 • Alcune conseguenze di quattro incapacità (Some Consequences of Four Incapacities), 1868 • Pragmatismo (Pragmatism), 1907
Metodo e obiettivi «Tutto ciò che sono arrivato a fare è dovuto a due cose, la prima, una perseveranza come quella di una vespa in una bottiglia, e, seconda, al felice accidente che mi son presto imbattuto in un metodo di pensiero che ogni persona intelligente può padroneggiare, che sono così lontano dall’aver esaurito che l’ho lasciato allo stesso punto in cui l’avevo trovato» (MS L 387) È un pensatore profondamente sistematico, dichiara di voler «fare una filosofia come quella di Aristotele: cioè, delineare una teoria così comprensiva che, per lungo tempo a venire, l’intera opera della ragione umana, nella filosofia di ogni scuola e genere, in matematica, in psicologia, nella scienza fisica, in storia, in sociologia e in qualsiasi altro campo possibile, dovrà apparire unicamente come il completamento dei suoi dettagli. […] la mia preoccupazione dovrà essere non tanto quella di sistemare ciascun mattone con la massima accuratezza possibile, quanto quella di porre fondamenta profonde e massicce» (CP I.I)
Anti-cartesianismo e anti-intuizionismo • Per Peirce ogni conoscenza è il risultato di una rete infinita di relazioni rappresentative. • Esempio della cipolla, composta di strati: se tolgo uno strato dopo l’altro non ottengo la cipolla vera ma solo la distruzione della cipolla stessa. Analogamente non c’è realtà se non attraverso le sue rappresentazioni e la nostra facoltà conoscitiva è a sua volta fatta di tipi di rappresentazioni e opera attraverso inferenze, che sono rapporti rappresentativi. • Non c’è dunque qualcosa di chiaro e distinto, come vuole la tradizione cartesiana e non c’è una facoltà a sé stante in grado di cogliere questa chiarezza e distinzione. La conoscenza è sempre interpretazione di segni, è sempre conoscenza mediata, il che non vuol dire che le interpretazioni siano arbitrarie, ma solo che la conoscenza è sempre mediata (cfr. Maddalena, Peirce, 2015: 93).
Una nuova lista di categorie (1867) in Peirce, Scritti scelti, a cura di Maddalena, 2013: 53-61 • In una lettera a Calderoni del 1905 Peirce definisce questo saggio il suo «solo contributo alla storia della filosofia» (CP 8.213). In effetti qui c’è la radice di tutto il suo successivo percorso. • Kant rappresenta per Peirce la porta d’accesso alla filosofia. Da Kant assume l’idea che è la logica a fornire le categorie su cui si basa tutta la filosofia, tuttavia non accoglie la logica di Kant e contro Kant arriva presto ad affermare che non vi sono intuizioni, non vi sono prime rappresentazioni e non vi è un’inconoscibile cosa in sé. • Al centro di questo scritto sta lo studio del segno, inteso come rappresentazione che consente di passare dalla molteplicità dei sensi all’unità dell’essere e viceversa.
Sensibilità e intelletto in Kant In Kant la conoscenza richiede l’intervento di un agente interno, l’intelletto, che organizza per mezzo di concetti il materiale sensoriale proveniente dall’esterno: gli oggetti dunque ci vengono dati per mezzo della sensibilità, che sola ci fornisce le intuizioni, ma queste vengono pensate dall’intelletto, da cui derivano i concetti. L’intuizione sensibile o empirica è il primo gradino della conoscenza dopo la semplice sensazione. Ad essa si applicano i concetti dell’intelletto. L’intuizione è distinta in una parte formale e una parte materiale. La parte formale è l’intuizione pura, che non si trova nella sensazione ma a priori nello spirito (l’intuizione dunque non è conoscenza diretta dell’oggetto). Vi sono due forme pure a priori dell’intuizione sensibile, spazio e tempo. A priori significa indipendentemente dalla presenza effettiva di un oggetto dei sensi. In breve: il molteplice delle impressioni viene formato in primo luogo dalle due intuizioni pure a priori, quindi viene organizzato per mezzo di concetti generali detti categorie, o concetti puri dell’intelletto.
Forme di giudizio • Considerando la sola forma del giudizio, Kant individua 4 tipi di giudizio, ognuno dei quali comprende 3 momenti, dunque otteniamo 12 forme di giudizio. • I giudizi sono applicazioni di concetti a rappresentazioni, ma anche i concetti sono rappresentazioni, si tratta dunque di unioni di rappresentazioni. Tale unione è la sintesi. • I concetti che consentono la sintesi esistono nella spontaneità dell’intelletto; essi consentono la formulazione dei giudizi. Tali concetti sono puri, rappresentano cioè a priori la possibilità dei giudizi, sono le funzioni secondo cui l’intelletto opera i giudizi. Tavola delle categorie o concetti puri dell’intelletto: • Quantità: unità, pluralità, totalità • Qualità: realtà, negazione, limitazione • Relazione: inerenza e sussistenza; causalità e dipendenza (causa ed effetto), reciprocità (tra agente e paziente) • Modalità: possibilità/impossibilità;esistenza/inesistenza; necessità/contingenza
La posizione di Peirce L’Analitica trascendentale è il punto di partenza della ricerca di Peirce sulle categorie. 1. Innanzitutto nega che vi siano intuizioni pure a priori: sia lo spazio che il tempo sono costruzioni cognitive, non forme presenti a priori nell’intelletto. Le categorie si applicano direttamente al molteplice delle impressioni, unificandole senza altre mediazioni. 2. Inoltre coglie un aspetto non del tutto esplicito in Kant: le categorie sono divise in 4 classi di 3, e i membri di ogni classe sono mutuamente esclusivi (l’unità ad esempio non può coesistere con la pluralità), però le 4 classi non sembrano escludersi a vicenda, anzi sembra plausibile che in ogni giudizio debba apparire una categoria di ogni classe. Ciò significa che le classi di categorie si applicano tutte e a tutti i tipi di sintesi di rappresentazioni.
3. Se le categorie unificano direttamente il molteplice delle impressioni, la loro importanza è superiore a quella che hanno in Kant, anzi il loro ruolo è fondamentale. 4. Se le 4 classi si applicano a tutte le sintesi, allora esse sono le vere categorie, in quanto sono presenti in ogni atto cognitivo. Ispirandosi al pensiero classico e medievale, Peirce distingue due tipi di categorie: particolari (che si applicano solo a certe speciali collezioni di impressioni) e universali (che si applicano a tutte le collezioni di impressioni). Le categorie di Peirce, diversamente da quelle di Kant, sono universali, sono presenti in ogni cognizione. 5. Le categorie corrispondono a momenti successivi della formazione e dell’analisi del giudizio: esse si applicano successivamente l’una sull’altra, dalla più immediata a quella che porta a compimento la sintesi
Una revisione della filosofia kantiana Assunto kantiano: conoscere significa operare una sintesi delle impressioni per mezzo di concetti generali (categorie). Peirce: la proposizione è rappresentazione della sintesi del giudizio. «L’unità a cui l’intelletto riduce le impressioni è l’unità della proposizione». Analizzare la proposizione nelle sue parti consentirà di ottenere le parti della sintesi delle impressioni. In Kant il giudizio è un’entità logica, mentre la sintesi delle impressioni è un’entità estetica. Peirce non mantiene la differenza kantiana tra logica generale ed estetica trascendentale: influenzato dalla logica medievale, appiattisce il percettivo sul logico.
• Problema kantiano: come ridurre la molteplicità a unità? come si creano i concetti? In cosa consiste la conoscenza? Come è possibile rappresentare nell’unità della proposizione la molteplicità dei dati? In che rapporto sta con la pratica? «1. Questo articolo si basa sulla teoria già stabilita che la funzione dei concetti è quella di ridurre a unità la molteplicità delle impressioni sensoriali e che la validità di un concetto consiste nella impossibilità di ridurre il contenuto di coscienza a unità senza che quel concetto vi sia introdotto. 2. Da questa teoria nasce il concetto di gradazione fra concetti universali. Un concetto, infatti, può riunire la molteplicità sensoriale, ma ne serve un altro per riunire il concetto e la molteplicità sensoriale a cui esso è stato applicato, e così via» (Lista: 53)
Proposizione • La proposizione è una sorta di traduzione dell’atto del giudizio percettivo: i concetti necessari per formare una proposizione sono i concetti necessari per formare un giudizio. • L’unità della proposizione consiste nel sussumere un soggetto sotto un predicato. • I concetti universali (categorie) vengono dunque ricavatii dalla composizione della proposizione: questa è composta da soggetto, copula e predicato (Questa stufa è nera), quindi le categorie corrisponderanno a queste tre parti.
Sostanza La prima categoria (concetto universale) è ricavata da ciò che si offre ai sensi, da ciò che è più vicino al molteplice delle impressioni: è il «presente in generale». Questo “presente in generale” è il materiale grezzo su cui lavora l’attenzione. Esso non ha alcuna connotazione (cioè non ha determinazione, non “predica” nulla), ma è «pura capacità denotativa della mente», la mente è diretta verso “qualcosa”. È «il riconoscimento generico del contenuto dell’attenzione, non ha connotazione e, perciò, nessuna unità in senso proprio». La sua unica caratteristica è quella di essere “presente all’attenzione”, è un complesso di impressioni, che potrà diventare “il cane”, “la stufa”, “il pomodoro” ecc. Questo concetto del presente in generale (indicato nella tradizione filosofica come «sostanza»), Peirce lo chiama IT (esso). Prima di ogni altra determinazione, occorre riconoscere qualcosa come dato, come presente. Solo a partire da questo riconoscimento si potrà predicare qualcosa di questo it: la sostanza è ciò di cui tutto può essere predicato e «che non può essere usato a sua volta come predicato». Nella proposizione corrisponde al primo elemento, il soggetto.
Essere L’unità della proposizione richiede una copula, cui corrisponde il concetto di essere: «4. L’unità a cui l’intelletto riduce le impressioni è l’unità di una proposizione. Questa unità consiste nella connessione tra il predicato e il soggetto; dunque, ciò che è implicito nella copula, ossia il concetto di essere, conclude l’opera di riduzione della molteplicità a unità propria dei concetti. La copula (o meglio il verbo che in uno dei suoi sensi funge da copula) significa o «è di fatto» o «sarebbe», come nelle due proposizioni «Non c’è alcun grifone» e «Il grifone è un quadrupede alato». Il concetto di essere contiene soltanto il tipo di congiunzione tra predicato e soggetto permessa da entrambe le accezioni. È evidente, quindi, che il concetto di essere non ha contenuto». Pertanto l’essere è l’ultima categoria: L’essere è ciò che si può predicare di tutto e di cui nulla può essere predicato.
«La Sostanza e l’essere sono l’inizio e la fine di tutti i concetti. La sostanza non si può usare come predicato e l’essere non si può usare come soggetto» (54). Esse corrispondono a soggetto e copula. Sostanza e essere sono categorie perché sono concetti generalissimi, privi di specificazione, di determinazione. La sostanza, in quanto pura denotazione, è priva di contenuto: è “qualcosa”, il complesso di impressioni indicato dall’attenzione. L’essere è privo di denotazione, essendo «il carattere comune di tutte le cose», è la possibilità generale di predicazione, «l’essere implica una determinabilità infinita del predicato». Sostanza e essere sono parti universali della proposizione in senso generale, forma comune a tutte le proposizioni: “Questa sostanza è – – –” Nella proposizione avviene però anche una predicazione, l’attribuzione di una qualità a una sostanza tramite l’essere.
Categorie intermedie • Perché la forma generale della proposizione divenga una proposizione specifica l’essere deve assumere la predicazione di una qualità specifica: “La stufa è nera”. Questo riempimento comporta una perdita di generalità (la forma generale della proposizione diventa una proposizione specifica) e l’ingresso di altre categorie intermedie (accidenti), che costituiscono la predicazione. • Il passaggio dalla sostanza, quale si dà senza alcuna predicazione (IT), all’essere (being) in quanto predicazione della sostanza in una proposizione, è infatti reso possibile da tre categorie (che resteranno al centro della sua riflessione): • Qualità (ground: base) • Relazione (Correlato) • Rappresentazione (riferimento a un interpretante) • Tali concetti devono venire dopo la sostanza (dal punto di vista logico, non cronologico). • Essi devono essere tutti presenti al momento della unificazione, che perciò li suppone.
Nuova lista delle categorie ESSERE Qualità (riferimento a una base) accidenti Relazione (riferimento a un Correlato) Rappresentazione (riferimento a un Interpretante) SOSTANZA Questi concetti sono tutto ciò di cui abbiamo bisogno per erigere l’edificio della logica. Si possono dare due direzioni: dall’essere alla sostanza o dalla sostanza all’essere: non si dà comunque sostanza se non correlata all’essere, non c’è pensiero senza giudizio (contro l’intuizionismo).
Qualità, Relazione, Rappresentazione Bonfantini (1980: 19-20): Queste tre categorie intermedie vengono inserite secondo due ordini o processi, uno discendente (dall’essere alla sostanza), l’altro ascendente (dalla sostanza all’essere), che sembrano costituire due successioni contrarie, logiche o cronologiche. Non si tratta di successioni reali: se si pensa che la qualità succeda all’essere, la relazione alla qualità e la rappresentazione alla relazione, si dovrà concludere che Peirce intenda fondare in modo trascendentalistico la proposizione con una serie di atti donatori di senso che, ricalcando un tracciato categoriale dato a priori, determinano progressivamente il concreto della sostanza-oggetto. Se si crede, viceversa, che la rappresentazione succeda alla sostanza, la relazione alla rappresentazione e la qualità alla relazione, si sarà indotti a pensare che Peirce voglia fondare in modo empirista la proposizione come risultato di una serie di combinazioni di elementi prima isolati e sconnessi. I due ordini vanno intesi come risultanze di due convergenti moduli analitici: il primo fa centro sulla proposizione assunta come unità data e individua i concetti immediatamente e via via mediatamente presupposti nella unificazione del giudizio proposizionale; il secondo fa centro sulla sostanza astrattamente considerata e individua i concetti che via via insorgono come elementi primi e costitutivi della possibilità della sua predicazione. È vero che l’essere della copula unifica e organizza nella proposizione la molteplicità della sostanza, ma i due concetti si implicano: non si dà sostanza riconosciuta come tale se non rapportata all’essere e determinata dalla qualità predicata. Analogamente le tre categorie sono interdipendenti e si comportano vicendevolmente.
Prospettiva anti-cartesiana «Non si possono concepire compiutamente le impressioni (o i concetti più immediati) né vi si può prestare attenzione senza che un concetto elementare le riduca a unità. D’altro canto, una volta ottenuto un concetto di questo tipo, di solito posso trascurare le premesse che lo hanno generato e pertanto si può spesso prescindere il concetto esplicativo da quelli più immediati e dalle impressioni» (54). • Viene così rifiutata ogni forma di intuizionismo e di introspezione: «negli elementi soggettivi della coscienza non si assume nulla che non possa essere inferito con sicurezza a partire dagli elementi oggettivi» (55): non si può avere alcuna conoscenza diretta dell’oggetto trascendentale, ogni nostra conoscenza è sempre mediata da altre precedenti conoscenze. L’oggetto non è dato come qualcosa di indipendente dal processo semiotico, ma è un termine ideale, che coincide con la rappresentazione che ne abbiamo. • Ciò che è, la sostanza, è sempre una rappresentazione mediata, non una intuizione diretta, sensibile o intellettuale.
Qualità Il concetto di predicazione è un generale, ed è uno, ma i predicati sono molti. Le categorie intermedie perciò possiedono minore generalità e sono determinate: il loro ingresso consente al giudizio in generale di divenire un giudizio specifico. Per avere una predicazione devo avere una qualità-predicato che si predica della sostanza-soggetto. La Qualità è dunque la prima categoria intermedia. «Il concetto di essere nasce dalla formazione di una proposizione. Una proposizione, oltre a un termine che esprime sostanza, ne ha sempre un altro per esprimere la qualità di quella sostanza; e la funzione del concetto di essere è di unire la qualità alla sostanza. Pertanto la qualità, intesa in senso molto ampio, è il primo concetto per passare dall’essere alla sostanza» (55). Il concetto di qualità è un universale, ma nella proposizione avremo qualità specifiche, generali ma non universali: “rosso”, “nero”, “duro”, “leggero”. Ogni singola qualità è un concetto generale: se predico di un oggetto l’essere “leggero”, ciò significa che lo riporto al concetto di “leggerezza”.
«Una proposizione asserisce l’applicabilità di un concetto mediato a uno più immediato». In quanto asserito, «il concetto più mediato è considerato indipendente dalla circostanza che lo ha fatto sorgere […]. Dunque, per asserire che il concetto mediato è applicabile all’altro, occorre prima considerarlo a prescindere da questa circostanza e prenderlo immediatamente. Ma, preso immediatamente, trascende ciò che è dato (il concetto più immediato) e la sua applicabilità a quest’ultima è ipotetica. Si prenda ad esempio la proposizione “Questa stufa è nera”. In questo caso il concetto di “questa stufa” è il più immediato, quello di “nero” il più mediato; quest’ultimo, per essere predicato del primo, deve essere discriminato da esso e considerato in se stesso, non in quanto applicato a un oggetto, ma solo in quanto incarna una qualità, la nerezza. Ora, questa nerezza è una specie pura o astrazione e la sua applicazione a “questa stufa” è totalmente ipotetica […]. Incarnare la nerezza è l’equivalente di nero [...]. Il concetto di un’astrazione pura è indispensabile perché non possiamo comprendere un accordo fra due cose che non sia un accordo secondo un certo rispetto; questo rispetto è una pura astrazione come la nerezza. Una tale astrazione pura, il riferimento alla quale costituisce una qualità o un attributo generale, può essere indicato con il termine base (ground)» (55).
L’espressione «La stufa è nera» significa la stessa cosa dell’espressione «c’è nerezza nella stufa», giacché «incarnare la nerezza è l’equivalente di nero» (55). La predicazione è un atto col quale un aspetto della sostanza, ritagliato dall’attenzione, viene separato e messo in relazione con un concetto. L’attribuzione della nerezza alla stufa avviene in quanto la qualità discriminata viene riconosciuta come essere nero assimilandola al concetto generale ground (base) o astrazione pura. La qualità è dunque riferimento a un ground. In questo modo la sostanza acquista determinazione, ma tutto il processo di predicazione resta nel campo dei concetti generali: il ground è infatti un generale, essendo il concetto di una qualità. L’applicazione del ground alla sostanza è «interamente ipotetica». Questo punto verrà ripreso nei saggi del 1868 e posto alla base dei successivi sviluppi della teoria della percezione; il legame tra il concetto di qualità e quello di sostanza non è un legame formale e necessario: il primo può essere discriminato dal secondo, cioè una sostanza non suppone necessariamente una determinata qualità: è la predicazione che compie la sintesi in via ipotetica.
• Ground o base è il contenuto del segno in quanto rivolto all’oggetto: il segno illumina certi aspetti dell’oggetto, ne coglie delle qualità. • L’oggetto può essere illuminato solo a patto di essere interpretato; l’interpretazione è il frutto della mediazione creativa. Ma in quanto interpretazione la rappresentazione può essere sempre erronea: è essenzialmente un’ipotesi. • La qualità è un’immagine organizzata che avanza un’ipotesi sull’oggettività. Peirce la chiamerà oggetto immediato: un’idea, un’immagine, un’icona, più o meno complessamente strutturata. • L’iconicità è presente in tutti i livelli possibili della semiosi: la ritroviamo nella percezione (sorta di giudizio virtuale) e poi nei predicati dei giudizi percettivi. Iconico è il significato dei predicati, come frutto di sintesi di immagini o come strutturazione di immagini in una relazione. • L’icona ha sempre alla sua origine dei percepiti e quindi degli oggetti esterni. Ma dalle radici sensoriali l’icona si eleva alla sua natura di rappresentazione immaginativa, che è sempre intrinsecamente creativa e autosignificante.
Relazione o riferimento a un correlato Con il concetto di qualità è stato introdotto il concetto di riferimento: la qualità si costituisce attraverso la messa in relazione della sostanza con il ground. Il concetto di relazione implica l’esistenza di due termini: il relato e il correlato. Tale relazione può essere di due tipi: contrasto o similarità. Relazione di similarità: “Questo pomodoro è rosso – come il rosso che costituisce il ground di accordo” Relazione di contrasto: “Questo pane è caldo – cioè la sua temperatura è maggiore della mia temperatura o ground di contrasto”. Il riferimento a un correlato non può prescindere dal riferimento a una base, mentre questo ne può prescindere. «Il riferimento a un correlato non può essere prescisso dal riferimento a una base, ma il riferimento a una base può essere prescisso dal riferimento a un correlato».
Secondo la psicologia empirica «possiamo conoscere una qualità solo per contrasto o somiglianza con un’altra qualità» (correlato) (55). Per avere una relazione di contrasto o similarità devo eseguire una comparazione: accostare due colori, o due temperature, due lettere, due concetti correlati, parole corrispondenti in lingue diverse: Primo esempio: «immaginiamo di voler comparare la lettera p e la lettera b. Possiamo immaginare che una di esse sia capovolta sulla linea di scrittura come intorno a un’asse […]. In questo modo formiamo una nuova imagine che media tra le immagini delle due lettere, in quanto rappresenta l’una (capovolta) come copia dell’altra» (56). Secondo esempio: nel concetto di assassinio «viene presentata la relazione tra un assassino (o un assassinio) e la presenza dell’assassinato, così ricorriamo ancora una volta a una rappresentazione mediatrice, che rappresenta il relato in quanto sta per un correlato, con il quale la rappresentazione mediatrice è in relazione a sua volta». Terzo esempio: «Immaginiamo di cercare la parola homme in un dizionario francese- inglese; troveremo che la sua traduzione è man, che, messo in quella posizione, rappresenta homme che rappresenta la stessa creatura bipede rappresentata da man».
Rappresentazione Nella relazione di contrasto o di similarità devo eseguire un confronto, il che richiede il ricorso a una rappresentazione mediatrice: «Ogni comparazione richiede, oltre alla cosa in relazione, alla base e al correlato, anche una rappresentazione mediatrice che rappresenta il correlato rappresentato dalla medesima rappresentazione mediatrice». Questa rappresentazione mediatrice è l’interpretante: «svolge la funzione di un interprete, che dice che uno straniero dice la stessa cosa detta da lui». Il riferimento a un interpretante è detto rappresentazione. «Non può essere prescisso dal riferimento a un correlato», mentre quest’ultimo può essere prescisso dal riferimento all’interpretazione. «Il termine “rappresentazione” deve essere qui inteso in un senso molto ampio, che può essere spiegato meglio da esempi che da una definizione. In questo senso una parola rappresenta una cosa per il concetto che si forma nella mente dell’ascoltatore, un ritratto rappresenta la persona che vuole ritrarre per il concetto che si forma nel riconoscimento, una banderuola rappresenta la direzione del vento per il concetto di chi sa interpretarla, un avvocato rappresenta il suo cliente per il giudice e per la giuria che egli vuole influenzare» (56) (cfr. struttura triadica del segno).
Nella rappresentazione è presente un elemento di riflessività: il riferimento a un interpretante non è un rapporto di contiguità, in cui due elementi vengono semplicemente accostati. Un uomo che parla in una lingua a noi nota accanto a un uomo che parla in una lingua ignota non è un interprete: dobbiamo sapere che i due stanno dicendo le stesse cose. La stele di Rosetta non ha detto nulla del geroglifico, finché non si è immaginato che i messaggi avessero lo stesso contenuto. La rappresentazione non pone solo un elemento accanto a un altro, ma dice che l’uno sta per l’altro. Questa è la semiosi. «Un segno (o Representamen) è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità. Si rivolge a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse un segno più sviluppato. Questo segno che esso crea lo chiamo interpretante del primo segno»: CP: 2.228; trad. it. Peirce, Semiotica, a cura di Bonfantini, Einaudi 1980:132). Questo concetto è l’ultimo delle categorie intermedie perché mette fine alla confusione originata dalla differenziazione delle impressioni, unificandole, facendole nostre. Il riferimento a un interpretante è dunque la terza e ultima delle categorie intermedie. Per portare a unità la molteplicità delle impressioni, occorre comprenderle come nostre, riferendole a un concetto che è il loro interpretante. Nell’interpretante si realizza l’unità come appropriazione del giudizio da parte della coscienza. In questa nozione traspare la teoria kantiana dell’io penso dell’appercezione (Crpu, An. Trasc. I, II, sez. II, 16). Tutti i concetti in ultima istanza «sono soggetti all’unità di coerenza o Io penso che è il centro della coscienza» (WR 1:516, 1866c).
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