Alla viglia della "Giornata Mondiale della libertà di stampa"
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Il caso Fedez vs RAI: una grande lezione di libertà di parola e di democrazia proprio alla viglia della “Giornata Mondiale della libertà di stampa” È la notizia del giorno la tirata del cantante Fedez, fatta al sul palco del 1° Maggio, verso i vertici della RAI, colpevole secondo l’artista di aver fatto “pressioni” affinché il suo monologo fosse non solo vagliato, ma anche “ammorbidito” nei suoi passaggi più duri verso il Governo, il partito della Lega e tutta la faccenda che ruota intorno al Ddl Zan ancora bloccato fra le beghe della burocrazia parlamentare. Grazie a questo Federico Leonardo Lucia (questo il vero nome di Fedez) ha scritto un’importante pagina da ricordare soprattutto nella storia per la difesa della libertà di pensiero e di parola, ieri come oggi come domani. Il monologo trattava diversi colpe, di cui il Governo e soprattutto alcuni gruppi politici si sono resi responsabili, fra cui: la scarsa considerazione del fondamentale comparto culturale, la sostanziale differenza di valutazione fra il mondo del calcio e quello culturale, la quasi totale mancanza di sostegni a tutte le maestranze dello spettacolo, l’ostracismo di alcuni partiti verso il Ddl Zan (il Disegno di legge contro le discriminazioni basate su genere, sesso, disabilità e orientamento sessuale). Insomma, Fedez come d’abitudine ha usato la propria influenza e la sua posizione per sollevare delle giuste critiche e delle sacrosante domande verso il Governo, ed il fatto che il primo e più importante editore radiotelevisivo italiano, per giunta servizio pubblico, la RAI, abbia tentato di “annacquare” il testo del monologo e addirittura abbia fatto pressione per omettere nomi di politici e di partiti dallo stesso, è una cosa non solo gravissima, ma anche anacronistica.
Per chi, come chi scrive, ha qualche annetto sulle spalle, sembrava di vedere una censura rediviva come quella che in un passato non troppo recente, ma neanche così lontano, aveva colpito altri artisti “scomodi” come Pier Paolo Pasolini, Dario Fo e Franca Rame, Renato Zero, tanto per citare i più celebri. Tutta la faccenda, poi, diventa ancora più grave, quasi tragica, se pensiamo che il tutto si è consumato sul palco di un concerto simbolico per i diritti civili, non solo dei lavoratori, alla vigilia, quasi, della “Giornata Mondiale per la Liberta di Stampa”, che cade il 3 maggio e per la quale la RAI stessa ha alcune iniziative e programmi in palinsesto. Bene ha fatto il rapper Fedez a registrare e postare il video con la telefonata fra lui e i vertici della RAI, che già nelle prime ore di questo scandalo mediatico si affrettava a smentire o quantomeno ridimensionare tutta la faccenda. Lo sputtanamento, perché di questo si tratta, non sarà altrettanto gestibile, e sono sicuro che nei prossimi giorni qualche testa cadrà nella sede centrale RAI di viale Mazzini. La Rai smentisce la censura. Ecco la telefonata intercorsa ieri sera dove la vice direttrice di Rai 3 Ilaria capitani insieme ai suoi collaboratori mi esortano ad “adeguarmi ad un SISTEMA” dicendo che sul palco non posso fare nomi e cognomi pic.twitter.com/gu14BxM3G6 — Fedez (@Fedez) May 1, 2021 Ma alla fine, cosa ci dimostra questa misera storia di un tentativo di censura? Almeno due cose, a mio modo di vedere: la prima è che i poteri forti esistono e, soprattutto, agiscono a gradi e con intensità che noi possiamo solo immaginare e che raramente vengono a galla. La seconda, forse ancora più inquietante, è che questo sia successo a Fedez, un artista affermato, con migliaia di dischi venduti, con una posizione reddituale serena, uno che può permettersi di girare i tacchi e sbattere i pugni sul tavolo, perché è lui ed ha qualche migliaio di fan e follower che lo amano e lo seguono. Uno che è entrato nei cuori dei suoi fan anche e soprattutto perché spesso si batte per questioni sociali di genere, per gli emarginati e per i diritti dei lavoratori dello spettacolo, mettendoci non solo la faccia ma anche i propri soldi. Insomma se questa “pressione”, questo meschino e maldestro tentativo di censura viene fatto ad uno come lui, quali e quanti ne vengono fatti ogni giorno a quegli artisti, ma anche cittadini, che non hanno né la forza né le possibilità di opporsi a queste pressioni? Per ogni caso “eclatante”, come questo di Fedez vs RAI, che emerge sono molto di più, io credo, quelli che invece riescono nella loro opera di censura, il tutto in un Paese che si professa democratico e che dovrebbe non solo consentire, ma facilitare le voci del dissenso, perché sono quelle che innaffiano l’albero della libertà e rendono viva e florida la democrazia stessa. Spiace molto dover rilevare, ancor di più, come ho detto, ad un giorno dalla “Giornata Mondiale
per la Liberta di Stampa”, che la nostra democrazia è ancora acerba, imperfetta e in alcune sue manifestazioni sbagliata e che la lezione di Fedez è fondamentale per tutti noi ma ancor di più per gli intellettuali, scrittori e giornalisti che sono le vere sentinelle della libertà di espressione e i custodi a difesa della democrazia stessa e che non possono permettersi di essere indifferenti. Ed a proposito di “indifferenti”, credo che il monologo di Fedez di ieri, la sua indignazione durante la telefonata con la RAI, sarebbero piaciuti al grande Antonio Gramsci, che in un suo famoso libro scrisse: Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. Parole scritte durante il ventennio ma che, dopo ciò che è successo ieri, sembrano scritte per noi cittadini, oggi. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Frammenti segreti di ingerenze politiche nel cinema italiano
I primi due mesi del 2018, si sono vissuti interamente, o quasi, in campagna elettorale. Le elezioni si sa, catalizzano l’attenzione mediatica dei mass-media e diventano un po’ un fenomeno di costume. Oggi c’è Berlusconi, c’è Renzi e c’è Di Maio; una volta c’era la DC e c’era il PC. Oggi c’è la televisione, prima del 1954 invece no. C’era però il Cinema, con la sua proverbiale capacità trascinatrice. Oggi la politica entra dappertutto, come allora, come allora nel Cinema. E dato che parliamo di Cinema, proviamo ora a raccontarvi quattro storie di Cinema segrete, curiose, quattro storie di ingerenze politiche a cavallo tra Italia e Francia. Fissiamo l’inizio del nostro racconto nel 1951 e precisamente nell’estate del 1951, quando nella Bassa Padana arriva la gente del Cinema, da Roma, da Cinecittà, e inizia un folle giro tra le province di Parma, Reggio Emilia e Piacenza, alla ricerca di un borgo particolare. Questa è la genesi della avventure epocali di Don Camillo e del Sindaco comunista Peppone, sul quale produttori e registi, sapevano già che ci sarebbero stati parecchi problemi, e si cercò in maniera preventiva di trovare un accordo con la censura. La pellicola ovviamente trae spunto dalle avventure di Don Camillo e del sindaco Peppone, nati dalla sagace penna di Giovannino Guareschi, reazionario e comunque pesantemente schierato politicamente. G i n o C e r v i e F e r n a n d e l, ovvero Don Camillo e Peppone, sul set del film omonimo tratto dai racconti di Giovannino Guareschi. Il primo regista a essere interpellato fu Alessandro Blasetti, che cominciò a pensarci con entusiasmo e poi, visti i problemi di natura politica che ne sarebbero sorti, rifiutò in modo simpatico e cordiale. L’affare passò nelle mani del produttore Peppino Amato, che coinvolse la Cineriz di Angelo Rizzoli, e furono interpellati altri registi. Mario Camerini, che nel 1972 avrebbe diretto “Don Camillo e i giovani d’oggi”, non se la sentì di passare per anticomunista. Vittorio De Sica si vantò su “l’Unità” di aver rifiutato sdegnosamente l’offerta. Luigi Zampa, solo all’idea di mischiarsi a quel bifolco reazionario di Guareschi disse che non ci pensassero nemmeno. Lo scoglio politico pareva insormontabile, quanto meno in Italia. Vista la fermezza di Guareschi e visto che in Italia la fifa
faceva 90, Amato tentò all’estero. Il primo a essere interpellato fu Frank Capra, ma il regista americano si sarebbe liberato solo nel 1953, troppo tardi per i progetti del produttore. Finalmente si arrivò a Julièn Duvivier, uno dei cineasti di maggior successo in quel periodo, che accettò e ottenne la possibilità di riscriverne il copione. Affidare dunque ad uno straniero la direzione del film sembrò a tutti la direzione migliore per superare gli ostacoli di natura politica, che rischiarono di far naufragare il film. Si creò, comunque durante il film un grosso polverone politico e il frutto un simile baccano risultò essere la fifa a scoppio semiritardato di Duvivier. Fin dall’inizio aveva avuto qualche remora nell’associarsi a un reazionario dichiarato come Guareschi. Ma ora proprio voleva prenderne le distanze. Cominciò modificando la sceneggiatura e compiendo una vera e propria opera di depoliticizzazione lasciando spazio al solo umorismo. Eppure, quando il film andò nelle sale nel 1952, gli spettatori capirono ugualmente quello che Guareschi aveva voluto dire. Merito dei suoi personaggi, delle sue atmosfere, del suo sentimento della vita. E merito anche di quella accoppiata fantastica e bizzarra, ma azzeccata fatta da Fernandel e Gino Cervi. Pochi ci avrebbero scommesso al momento di metterli insieme, tanto che della serie ci saranno altre quattro riuscite pellicole negli anni a seguire. Stessa cosa grosso modo, accadde per “Ho scelto l’amore” del 1953, anche se in questo caso ancor di più si può parlare di ingerenze politiche che determinano il risultato della pellicola stessa. Anzi, il film venne messo in piedi appositamente per un interesse politico. Siamo alla vigilia delle elezioni del 1953 e la DC incarica la “Film costellazioni”, società di produzione cattolica dei democristiani Turi Vasile e Diego Fabbri, di realizzare un film di chiara satira anticomunista che screditasse il partito comunista in previsione delle imminenti elezioni nazionali. Il volto del protagonista è quello di Renato Rascel, in quel momento l’attore più acclamato del cinema italiano. La vicenda che ne segue è una bizzarra e incredibile storia di auto-censura della stessa censura. La censura, ovviamente era dunque un organo strettamente correlato con la situazione politica e quindi con il governo, e dunque con la DC, si poteva quindi facilmente ipotizzare che non ci sarebbero stati alcun problema di visto. Niente di più ipotizzabile. Ed infatti il film ottiene (guarda caso) senza problemi il visto pieno e completo il 23/ 02/ 1953, due mesi prima delle elezioni, quel che serviva alla Democrazia Cristiana.
R e n a t o R a s c e l n e l f i l m “ I l cappotto”. Senonché a fine febbraio muore Stalin, e all’ultimo momento viene stoppato e rinviato, per evitare scontri nel paese (l’Italia) dove l’ideologia comunista godeva ancora di un certo numero di sostenitori. La pellicola uscì comunque ad aprile e fece in tempo ad assolvere il compito per cui era stata concepita. E come per “Don Camillo”, la regia del film venne affidato ad uno straniero, Mario Zampi, regista italo-americano, nato a Sora nel 1903, ma che dalla metà degli anni ’30 viveva e lavorava stabilmente nel Regno Unito. Tutto ciò per prudenza, per una sorta di preventiva prudenza che governava su queste cose troppo grosse, troppo eccessive per quello che era il clima culturale, politico ed ideologico dell’Italia degli anni ’50. Addirittura l’intervento censorio venne esteso anche sulle locandine pubblicitarie correlate alle pellicole stesse, le quali non dovevano ovviamente ledere il buon costume e mostrare espliciti riferimenti a sesso, politica, religione o violenza. Tre casi su tutti vorrei qui enunciare. Per la locandina de “La famiglia Passaguai”(1952) di e con Aldo Fabrizi, venne censurata una delle locandine, perché Aldo Fabrizi mostra un disegno di un corpo di donna nudo, su cui aveva inserito il suo viso; e il manifesto del film “Poveri ma belli”, venne modificato, quindi censurato, su indicazione delle istituzioni ecclesiastiche, perchè il fondoschiena di Marisa Allasio era ben in evidenza; anche il manifesto di “Dove sta Zazà”, con Nino Taranto, venne censurato perchè la locandina mostrava chiaramente il disegno di una donna in costume da bagno.
V a l t e r C h i a r i e L u c a B a rbareschi sul set di Romance Ma le ingerenze politiche non si limitano soltanto alla censura di un film o alla sua creazione per scopi meramente politici. Come in molti concorsi, ahimé, la politica è parte integrante, spesso, dei risultati che scaturiscono dai Festival. Due casi spiacevoli su tutti, ci aiuteranno a capire questo concetto. Parliamo ancora di Renato Rascel e di quella che da molti è ritenuta una delle più belle interpretazioni della storia del cinema italiano, ovvero quella del “Cappotto”, di Alberto Lattuada. Il film è talmente tanto applaudito, da mettere d’accordo pubblico e critica (spesso, troppo spesso, in disaccordo) e unanime è l’apprezzamento per l’interpretazione di Rascel, che dal film riceve ampia notorietà e fama internazionale. Il film presentato in concorso alla quinta edizione del Festival di Cannes, riceve sonori e scroscianti applausi sia per la sua confezione che per l’interpretazione dell’attore protagonista; leggenda vuole che i giurati stiano per dare la coppa per la miglior interpretazione proprio a Renato Rascel, il film come detto piace molto, ma Marlon Brando con Viva Zapata gliela porta via. Tale fu il clamore suscitato da quell’incredibile ingerenza politica, neanche troppo malcelata, che sei anni più tardi, Renato è di nuovo a Cannes, sfila di nuovo sul red carpet del Festival francese, e questa volta il suo film in gara, “Policarpo, ufficiale di scrittura” vince il premio come miglior commedia della kermesse. Un risarcimento per l’efferato scippo di sei anni prima? Forse. Probabile. Ma peggio, molto peggio si fece nel 1986, con il grande Walter Chiari, rientrato dopo anni di faticosa risalita, alla ribalta, in seguito a quell’assurda storia di droga, che gli tolse fama e lavoro. Al film “Romance”, appunto presentato alla 43esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, resta legato un episodio molto spiacevole divenuto poi famosissimo. Proviamo a ricostruire il fattaccio. Era un settembre bollente e Venezia si era fatta bella per accogliere il meglio del cinema mondiale. Alla kermesse era presente anche un piccolo grande film, poetico,elegante, sincero, che
aveva riportato una vecchia volpe dello spettacolo come Walter Chiari, ai fasti di un tempo. Il titolo era “Romance” e il regista Massimo Mazzucco. Il film fu applauditissimo dal pubblico e osannato dalla critica, e da outsider, si issò ben presto addirittura, come il film favorito per la vittoria finale del Leone d’oro, o almeno per la Coppa Volpi al miglior attore. Il giorno prima della premiazione ad un Walter Chiari raggiante fu annunciato da un incaricato della giuria che avrebbe vinto il premio per la migliore interpretazione maschile. Lui pazzo di gioia chiamò amici e parenti al Lido, per vedere consegnare, durante la cerimonia finale, il premio ad un altro attore, Carlo Delle Piane, che proprio Walter aveva tenuto a battesimo in teatro fin dagli anni ’50. Così quello che avrebbe potuto essere un giusto riconoscimento per un grande attore giunto al termine della sua carriera si tramutò in una beffa feroce. Una brutta storia che conferma come il grande successo di Walter Chiari sia sempre stato scomodo a qualcuno. Questa fu quindi la storia di un tradimento allucinante, eclatante e orrendo. Nella notte prima della premiazione, secondo una ricostruzione alquanto attendibile, suonano i telefoni della giuria, una misteriosa voce dall’altra parte della cornetta li riunisce tutti, in piena notte e in grande segreto. La motivazione? Togliere il premio già assegnato a Walter Chiari e assegnarlo ad un altro, magari a Carlo Delle Piane, perché no. Lì c’è stata un’ingerenza politica talmente evidente che Grazzini sul Corriere della Sera scrisse: “vittoria artistica di Walter Chiari, vittoria politica di De Mita [allora a capo del Governo] e Pupi Avati”. Fu un grosso sgarbo fatto a Walter, tanto che la protesta dei fotografi che poggiarono le macchine a terra e i fischi della platea, al momento della consegna del premio a Carlo Delle Piane, sono rimasti nella storia. Curiosamente dieci anni dopo lo stesso Pupi Avati, consegnerà a Massimo Boldi il ruolo della vita, facendogli interpretare il personaggio di Walter Chiari e ricostruendo gli attimi concitati della 43esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e di tutto quello che successe in quella tormentata edizione della kermesse italiana. Il film si chiamerà proprio “Festival” e rappresenta la vetta artistica di un
Massimo Boldi sorprendente, per la prima e unica volta drammatico. Ed è tantissima roba. Ci siamo dilungati, ma se il mondo è pieno di ingerenze politiche, volte a rovesciare sovente i verdetti, per opportunità, per comodità o per scomodità, anche il Cinema bisogna ammettere non è scevro da questo cancro. Abbiamo elencato i casi più comuni, più eclatanti, quelli che hanno fatto storia e che, per colpa di ingerenze politiche, ci hanno regalato casi orribili, come quello capitato al povero Walter Chiari, che innanzitutto era una brava persona ed un’artista insuperabile e non avrebbe meritato questo tipo di trattamento. POP PORNO L’eterna lotta tra censura,
sesso e castità nella musica italiana D a c h e s e n e a b b i a m e m o r i a , la musica è stata espressione dei più alti pensieri d’amore, sono innumerevoli, infatti, i componimenti dedicati all’amata, all’amato o all’amore stesso come espressione dell’animo umano. Il discorso cambia quando, invece, i testi musicati debbano toccare argomenti meno aulici e più carnali, vuoi per un certo pudore, vuoi per un certo rapporto conflittuale tra gli animi sensibili dei compositori, più legati al concetto dell’amore che all’atto stesso. È lampante ad esempio, l’imbarazzo di Francesco Guccini di fronte al seno dell’amata in Canzone quasi d’amore (“…mi commuove il tuo seno …e di questa parola io quasi mi vergogno…”), e che dire del tremendo rapporto con il sesso del Timido ubriaco di Max Gazzè? Malessere espresso anche da Giovanni Lindo Ferretti nella canzone dei CCCP – Fedeli alla Linea, Mi ami?, in cui l’eccitazione sessuale mal si sposa con l’affinità elettiva, provocando un’erezione definita “triste per un coito molesto”. Eppure, in tutta la musica antica, dal medioevo in poi, e persino nei componimenti sacri, sono presenti riferimenti sessuali più o meno espliciti, velati da doppi sensi che diventano ancor più palesi nella musica di matrice popolare. Nonostante questo, canzoni che comunemente consideriamo innocenti e caste, nel corso dei decenni
scorsi, hanno subìto l’epurazione della censura, come accadde per Questo piccolo grande amore, canzone d’amore per eccellenza di Claudio Baglioni, che dovette cambiare “..la paura e la voglia di essere nudi..” in “..voglia di essere soli..” e “..mani sempre più ansiose di cose proibite..”, che diventarono “..scarpe bagnate..”. Senza contare poi, i “coiti anali” di Roberto Vecchioni, sostituiti con la parola “prostituzione”, nella malinconica canzone Luci a San Siro (nella versione originale “..parli di sesso, di coiti anali…di questo han voglia, se non l’ha capito già..”). Stessa sorte toccò anche alla canzone Niente da capire di Francesco De Gregori, che sotto la scure della censura, dovette rinunciare a “..Giovanna è stata la migliore, faceva dei giochetti da impazzire..” a favore di “…è un ricordo che vale dieci lire..” Questi sono solo alcuni esempi di come la censura abbia negli anni imbavagliato la musica italiana, privando il diritto di esprimersi liberamente, diritto rivendicato a gran voce, da Eugenio Bennato, nella canzone Signor censore del 1975. Riportando la discussione ai giorni nostri, non si può affrontare il legame tra musica leggera e pornografia, senza citare i Prophilax, un gruppo rock demenziale che emerse negli anni ’90 e che a suo modo, sdoganò tra i giovani, in modo goliardico, il rapporto con una sessualità spinta, raccontata senza peccato e senza peli sulla lingua. Non solo ironia e goliardia, ma anche temi forti e aspri sul buonismo falso di cui la musica leggera è impregnata, critica che emerge in modo preponderante nella canzone Mandami in radio col beep, estratta dall’album del 2008, Coito ergo sum, che denuncia tra gli altri, la mercificazione del corpo femminile, la falsa moralità, criticando aspramente il ruolo della Chiesa. Tematiche affrontate anche in molte canzoni degli Skiantos, come ad esempio, il brano contenuto nell’album del 1999, Doppia Dose, Il sesso è peccato farlo male, in cui si criticano istituzioni come Chiesa, scuola e famiglia, che non aiutano i giovani ad esprimere la propria libertà sessuale anche con l’utilizzo di anticoncezionali. Diversi invece, i temi affrontati da quelle canzoni che, non rivendicano sacrosanti diritti di libertà sessuale, ma mirano ad evidenziare, magari ironizzandolo, un vizio più o meno inconfessabile. È il caso di Pornobisogno del 2012, canzone del gruppo Management del dolore post- operatorio, in cui si utilizza il porno per raccontare in modo sarcastico, i vizi della politica italiana. Inconfessabile, invece, è il vizietto del professore “in preda alla mania della ragazza di periferia”, in Pornoromanzo, canzone del 2014 di Dario Brunori, ma ad onor del vero, delle depravazioni di rispettabili insegnanti, ne aveva parlato anche Fabrizio De André nella canzone La città vecchia. Ma può anche capitare che una canzone racconti con ironia la dipendenza dal porno, diventando un vero e proprio fenomeno virale. Esplosa sul web, la canzone Pop porno del duo salentino il Genio, diventa in poche settimane un autentico tormentone, grazie alla musica orecchiabile ed al testo originale ed accattivante.
Basata sul gioco di parole e velatamente ispirata alla canzone Je t’aime moi non plus di Serge Gainsburg, Pop porno ha il primato di portare alla ribalta un tema scottante, rendendolo veramente alla portata di tutti, anche se probabilmente, i due autori all’inizio non ne valutarono la potenza dell’impatto mediatico, che successivamente li travolse. Popolare ma tutt’altro che stupida, Pop porno, incarna i vizi della nostra società, dice quello che non si può dire, gioca ammiccante imbrogliando le parole, riflette la perversione ridicolizzandola, oscillando tra malizia e velato pudore. La musica, in fondo, come tutte le espressioni artistiche, nel corso dei secoli, è sempre stata specchio dei tempi, censurata o lasciata libera di esprimersi, ha segnato le epoche. C’è stato il tempo in cui la castità era l’unica virtù, il tempo in cui la rivendicazione della libertà sessuale andava a braccetto con le lotte politiche, il tempo attuale, che vede donne e uomini come oggetti da vendere e comprare, a volte, da ostentare. Oggi, sadomasochismo e pornografia fanno il pari col consumismo più sfrenato, fruito quasi sempre sul web, dove ormai, per distinguersi dalla massa, si va alla ricerca delle più bizzarre ed estreme perversioni sessuali. Forse in un mondo simile, dove reale e virtuale si mischiano fino a farne perdere la cognizione, fu profetico il grande Lucio Dalla che con la canzone Disperato erotico stomp, recitò che “l’impresa eccezionale è essere normale”, magari dando sfogo a sacrosanti e liberatori atti di onanismo. Pudore, amori e perversioni sessuali, hanno accompagnato ed accompagneranno sempre la vita di ogni essere umano, tra i sostenitori della vita morigerata e coloro i quali difenderanno la libertà di espressione sotto le lenzuola, come in una canzonetta, incarnando, per dirla con le parole di Franco Battiato, “l’eterna lotta tra sesso e castità”. Cinema italiano, politica e censura Domenico Palattella (122)
Nel rapporto ormai centenario tra Cinema e Politica, ha sempre avuto una posizione predominante la cosiddetta censura cinematografica. Un istituto quello della censura, che mai come in Italia, in 100 anni di storia, è riuscita a segnare profondamente il nostro cinema, attraversando le epoche, i regimi, gli anni della democrazia cristiana, la liberalizzazione post-sessantottina, i “mitici” anni ’80 arrivando fino ai giorni nostri. La storia di un istituto che ha visto nel corso degli anni, allargare sempre di più le sue maglie austere che hanno imbrigliato il cinema soprattutto a cavallo degli anni del regime fascista, fino agli inizi degli anni ’60. Ma la censura è stata quasi sempre un mezzo di ingerenze politiche essendo il complesso di procedimenti attraverso il quale una autorità o un ente attuano il controllo preventivo, in itinere, o successivo all’ uscita di un’opera cinematografica, limitando o negando la sua proiezione in pubblico. Lo Stato si è sempre riservato la possibilità di intervenire sui contenuti di rappresentazioni pubbliche, offensivi alla morale e al buon costume o pericolosi per l’ordine pubblico. U n a s c e n a del film Sciuscià del 1946 di Vittorio De Sica. E così produttori, registi e sceneggiatori hanno sempre dovuto averci a che fare, e in alcuni casi i più scaltri, impararono anche a confrontarsi. Numerosi sono i mezzi con cui operava la censura democristiana: dal ritardo nella concessione del visto per l’esportazione (“Sciuscià-1946, di Vittorio De Sica), al fermo in tutte le sale cinematografiche (“Adamo ed Eva”-1950, con Macario) in virtù dei tabù religiosi e di scene che rappresentavano donne in abiti succinti. Era l’Italia morale e moralizzatrice dei primi anni ’50, quando un bacio non poteva durare per più di tre secondi e le parolacce erano completamente bandite, come anche i nudi di donna. Lo spettacolo tuttavia, tentava ogni tanto di prendersi timide vendette. All’amante del suo predecessore Pepé, che risentita delle sue domande in atteggiamento comicamente pretesco gli chiede “Ma che fai?”, Totò le Mokò risponde: “Il democratico cristiano: censuro la tua anima”, assolutamente geniale! Era il 1949 di “Totò le Mokò”, una delle migliori totoate in assoluto.
L’asfissiante censura cinematografica, che nella maggior parte dei casi coincideva con l’effettuazione di tagli censori, che snaturavano il significato intrinseco del film, si sarebbe attenuata a partire dalla metà degli anni ’60. L’allentamento dei freni censori allargò le maglie della censura in maniera definitiva, netta e irreversibile. In quegli stessi anni le ingerenze politiche, non erano finalizzate soltanto nel bloccare eventuali attacchi eversivi scaturiti dalle pellicole, ma in alcuni casi le pellicole stesse erano finanziate o create dalla politica stessa. Il caso più importante, e forse anche il più misconosciuto, riguarda il film “Ho scelto l’amore”, del 1953, recitato da Renato Rascel e commissionato dalla Democrazia Cristiana, in persona. Stavolta l’ingerenza politica determina il risultato della pellicola stessa, non deve intervenire per evitare che ciò avvenga. Anzi, il film venne messo in piedi appositamente per un interesse politico. Siamo alla vigilia delle elezioni del 1953 e la DC incarica la “Film costellazioni”, società di produzione cattolica dei democristiani Turi Vasile e Diego Fabbri, di realizzare un film di chiara satira anticomunista che screditasse il partito comunista in previsione delle imminenti elezioni nazionali. Il volto del protagonista è quello di Renato Rascel, in quel momento l’attore più acclamato del cinema italiano. La vicenda che ne segue è una bizzarra e incredibile storia di auto-censura della stessa censura. La censura, ovviamente era dunque un organo strettamente correlato con la situazione politica e quindi con il governo, e dunque con la DC, si poteva quindi facilmente ipotizzare che non ci sarebbero stati alcun problema di visto. Niente di più ipotizzabile. Ed infatti il film ottiene ( guarda caso ) senza problemi il visto pieno e completo il 23/ 02/ 1953, due mesi prima delle elezioni, quel che serviva alla Democrazia Cristiana. Senonché a fine febbraio muore Stalin, e all’ultimo momento viene stoppato e rinviato, per evitare scontri nel paese ( l’Italia ) dove l’ideologia comunista godeva ancora di un certo numero di sostenitori. La pellicola uscì comunque ad aprile e fece in tempo ad assolvere il compito per cui era stata concepita. E come per “Don Camillo”, la regia del film venne affidato ad uno straniero, Mario Zampi, regista italo- americano, nato a Sora nel 1903, ma che dalla metà degli anni ’30 viveva e lavorava stabilmente nel Regno Unito. Tutto ciò per prudenza, per una sorta di preventiva prudenza che governava su queste cose troppo grosse, troppo eccessive per quello che era il clima culturale, politico ed ideologico dell’Italia degli anni ’50.
I l r e g i s t a E l i o Petri. Negli anni ’70, con l’allentamento definitivo dei freni censori, non è più la politica a condizionare le opere cinematografiche con l’istituto della censura, ma è il cinema che si erge a denunciare le corruzione dilagante della politica stessa. Il cinema d’autore degli anni ’70 effettua il proprio percorso affrontando tematiche differenti. Dalle regie di Maestri come Francesco Rosi e Elio Petri. si emancipa una nuova visone autoriale che vede nel cinema un mezzo ideale per denunciare corruzioni e malaffare, sia del sistema politico che del mondo industriale. Nasce così la struttura del film inchiesta che partendo dall’analisi neorealista dei fatti, aggiunge a essi un conciso giudizio critico, con il manifesto intento di scuotere le coscienze dell’opinione pubblica. Tale tipologia tocca volutamente questioni scottanti, spesso prendendo di mira il potere costituito, con l’intento di ricostruire una verità storica il più delle volte negata o celata. Il simbolo attoriale di tale genere, diventa Gian Maria Volonté, che con la sua recitazione duttile e spontanea, conquista le platee italiane. I l g r a n d i s simo attore Gian Maria Volontè. Uno dei punti di arrivo del percorso artistico di Francesco Rosi è senz’altro Il caso Mattei (1972); un rigoroso documento in cui il regista cerca di far luce sulla misteriosa scomparsa di Enrico Mattei, manager del più importante gruppo statale italiano: l’Eni. La pellicola, con Gian Maria Volonté protagonista, vince la Palma d’oro al festival di Cannes e diviene un vero modello per analoghi film di denuncia civile prodotti nei successivi decenni. Ormai Gian Maria Volontè è l’attore più richiesto da entrambi i registi ed è assolutamente strepitoso nel film di Elio Petri, “Indagine su un cittadino al
di sopra di ogni sospetto”(1970), il capolavoro del genere, che vinse l’Oscar come miglior film straniero. Volonté ottenuta la notorietà (Felice Laudadio lo definì “il più grande attore italiano del suo tempo”), decide di dedicarsi ad un tipo di cinema politicamente impegnato, recitando nel corso degli anni ’70 e ‘80, in film come “Uomini contro” di Francesco Rosi (1970), “Sacco e Vanzetti” di Giuliano Montaldo (1971), “Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio (1972), “Il caso Moro”(1986), di Giuseppe Ferrara. Ma è soprattutto con Petri e con Rosi che Volonté ha modo di esprimere in piena libertà il suo talento, dando vita ad una miriade di “uomini illustri” rappresentanti una dura critica alla classe dirigente dell’epoca, divenendo quindi un punto di riferimento del cinema d’impegno civile italiano. Parallelamente alla sua carriera d’attore, Volonté vi accosta un assorto attivismo politico portando avanti numerose battaglie, manifestazioni e scioperi per i diritti dei lavoratori. Il rapporto tra Cinema e Politica dunque, ha attraversato anni di scontri, collaborazioni, tagli censori, ed è per gli studiosi una vera e propria miniera, per capire la società italiana attraverso il Cinema, che come è noto è lo “specchio della società”.
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