Aiutare i giovani a diventare adulti. Quali le conseguenze sulla fecondità?

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Francesco C. BILLARI*, Alessandro ROSINA**

                Aiutare i giovani a diventare adulti.
               Quali le conseguenze sulla fecondità?

                  *Istituto di Metodi Quantitativi, Università Bocconi, Milano
                              E-mail: francesco.billari@uni-bocconi.it
      **Istituto di Studi su Popolazione e Territorio, Università Cattolica S.C., Milano
                                E-mail: alessandro.rosina@unicatt.it

1. Aiutare i giovani a diventare adulti “a modo loro”: quali le conseguenze sulla fecondità?1

Quanti figli ha una persona nel corso della propria vita? Il numero di figli – quello che i demografi
definiscono l’intensità totale della fecondità – è nelle società attuali l’esito di una serie di scelte, tra
loro strettamente interrelate, effettuate lungo il corso della propria vita. Di particolare rilevanza per
le decisioni procreative, oltre che per le decisioni lavorative ed economiche, sono le scelte
effettuate durante il periodo che si può definire della transizione allo stato adulto. Secondo la
definizione – ormai classica – data da Modell et al. (1976), la transizione allo stato adulto è un
processo segnato da alcuni eventi “marcatori” del passaggio da ruoli tipicamente giovanili a ruoli
cui si conferisce il crisma dell’”adultità”: la fine degli studi, l’inizio dell’attività lavorativa, l’uscita
dalla famiglia dei genitori, il primo matrimonio, la nascita del primo figlio. La cadenza (l’età di
sperimentazione) di, e l’ordine temporale (sequenza) tra questi eventi influenzano profondamente
quanto accadrà in seguito agli individui. Più recentemente si è aggiunto a tale insieme un altro
evento marcatore: la convivenza, che può anticipare o sostituire il matrimonio.
        Qual è il significato di “diventare adulti” che vogliamo utilizzare? Ed in che senso si può
pensare di “aiutare i giovani a diventare adulti”? Il processo di transizione allo stato adulto si
snoda, in modo non lineare, lungo due dimensioni: quella dell’autonomia e quella dell’assunzione
di impegni e responsabilità sociali. Significato e aspettative sottostanti a tale processo sono
profondamente cambiati negli ultimi decenni. Negli anni ’50 del XX secolo, diventare adulta per
una ragazza significava essere pronta ad assumere il ruolo di moglie, casalinga e madre. Per un
ragazzo l’essere in grado di mantenere una famiglia. Chi ha vissuto l’età della socializzazione in
tale periodo ha poi avuto figli che hanno affrontato la transizione allo stato adulto tra la fine degli
anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, in uno scenario profondamente cambiato. Per molti di coloro che
hanno interiorizzato il modello familiare degli anni ’50 non deve essere stato facile comprendere le
mutate sfide che il diventare adulti poneva sul cammino dei loro figli. Essere giovani acquisisce
infatti a partire dagli anni ’60 un significato fondamentalmente diverso da quanto valeva per le
generazioni precedenti. Le giovani generazioni, come i loro pari del resto dell’Europa occidentale,
divengono più insofferenti verso forme di autorità e di eterodirezione dei propri comportamenti, e,
soprattutto in Italia, diventano anche sempre più caute verso scelte che implicano assunzioni di
impegni e responsabilità. Si tende così ad evitare di fare scelte aventi alto grado di irreversibilità, o
comunque percepite come troppo vincolanti (cfr ad es. Micheli, 2000).
        Percorsi e tempi della transizione allo stato adulto si sono imposti all’attenzione degli
scienziati sociali e dei policy-makers per il processo di continuo rinvio dei tempi di formazione
della famiglia, potenzialmente connesso alla bassissima fecondità raggiunta in Italia. L’attenzione
è naturale, in un paese in cui convivono un modello peculiare di transizione allo stato adulto e la
bassissima fecondità. Ma più che una riflessione distaccata e possibilmente suffragata da adeguate
informazioni, si sono spesso viste prese di posizione che potremmo definire di tipo “normativo-
prescrittivo” su come debba realizzarsi una “sana” transizione allo stato adulto2.
        Dal punto di vista prescrittivi, che potremmo definire “tradizionale”, il rinvio del
matrimonio è percepito come il problema chiave della transizione allo stato adulto (anche per
quanto concerne le conseguenze sulla fecondità). Tale posizione si riscontra ad esempio sia nel
recente Libro Bianco sul Welfare (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2003) sia nel
volume di Brienza (2001)3. L’idea sottostante è che la fecondità trovi il suo ambito normale e da
privilegiare in una coppia vincolata dal matrimonio (magari avvenuto senza periodi di vita
autonoma rispetto ai genitori). Il rinvio del matrimonio è quindi percepito come una delle cause
cruciali per determinare la bassissima fecondità. La “ricetta” per aumentare la fecondità è dunque il
ritorno a percorsi e tempi “tradizionali” della transizione allo stato adulto.
        Il punto di vista prescrittivo “progressista” sembra invece considerare come problema
chiave della transizione allo stato adulto (anche per quanto concerne le conseguenze sulla

1
  Desideriamo ringraziare Romina Fraboni dell’ISTAT per aver fornito le elaborazioni dei dati ISTAT, Laura
Levi, Massimo Livi Bacci e Stefano Molina per commenti e suggerimenti.
2
  Sulle norme di transizione allo stato adulto, in particolare sull’incrocio tra prescrizione e proscrizione,
cadenza, intensità e sequenza di eventi, si veda Billari e Micheli (2001).
3
  La predilezione di percorsi che prevedono per i giovani il salto diretto dalla famiglia paterna al matrimonio
risulta chiara fin dall’autorevole prefazione. Viene sottolineato il fatto che il 90% degli italiani vive in
un’istituzione familiare di tipo tradizionale, e si accusa chi “preferisce soffermarsi sulle ‘nuove forme di
fecondità) la lunga permanenza dei giovani italiani nella casa dei genitori. Si è ipotizzato infatti che
la lunga permanenza dei giovani nella famiglia dei genitori influenzi in modo cruciale i livelli di
fecondità (Livi Bacci, 2001). Lasciare la famiglia di origine viene visto come il gesto che dà “fuoco
alle polveri” anche nelle scelte familiari4. Il riferimento inevitabile qui è a modelli prevalenti negli
Stati Uniti e nel Nord Europa. Vedremo più oltre che non necessariamente uscire dalla famiglia per
vivere indipendentemente da un partner ha l’effetto di aumentare la fecondità.
         A nostro avviso, per analizzare il legame tra percorsi e tempi di transizione allo stato adulto
e fecondità, occorrono due tipi di sforzo. In primo luogo, è necessario partire da una visione il
meno possibile prescrittiva. Se non si fa lo sforzo di comprendere cosa significa per i giovani di
oggi diventare adulti si rischia infatti di cadere in una fallacia del boy scout5. Se è vero che molti
ostacoli, di natura strumentale, si frappongono nel percorso di sperimentazione degli eventi cruciali
di acquisizione dei ruoli adulti, Si dovrebbe mirare a liberare quanto più possibile i percorsi più
congeniali ai giovani per rispondere alle sfide della modernità avanzata (Giddens 1990) ed al loro
modo di vivere la loro condizione, e non cercare invece di incanalarli forzatamente in percorsi
ritenuti auspicabili a priori. In secondo luogo, occorre compiere lo sforzo di districare la matassa
della transizione allo stato adulto, per evitare una fallacia del calderone6. Si desidera infatti isolare
il più possibile l’impatto dei diversi tempi di transizione allo stato adulto e dei percorsi (più
specificamente, separare l’effetto della lunga permanenza con i genitori da quello dell’ingresso in
unione e del tipo della stessa).
         In questo lavoro ci proponiamo di esplorare l’impatto sulla fecondità, a livello individuale,
del calendario di transizione allo stato adulto (percorsi e tempi). In particolare, concentriamo la
nostra attenzione sull’impatto dell’uscita dalla famiglia dei genitori precedente alla formazione di
una coppia, e sull’ingresso in unione per convivenza o matrimonio. Le nostre analisi hanno
l’essenziale scopo di proporre una prima valutazione sull’esito di possibili politiche rivolte ai
giovani per “aiutarli” durante la transizione allo stato adulto. Infatti, alcune politiche potrebbero
contribuire ad un innalzamento della fecondità, mentre altre sarebbero potenzialmente neutrali nei
confronti della fecondità, o addirittura con effetti di riduzione. Il lavoro è strutturato come segue.

famiglia’, che interessano in realtà gruppi sociali ristretti, invece di affrontare la grande questione su cosa si
possa fare per rafforzare concretamente il ruolo delle famiglie realmente esistenti nel nostro Paese”.
4
   In un articolo apparso l’anno scorso su Le Monde (“L'Italie malade de sa famille”, 19 febbraio 2002) il
sociologo Mendras, riflettendo le posizioni di molti colleghi italiani, individua proprio nella lunghissima
permanenza dei giovani nella famiglia di origine una delle principali cause della bassissima fecondità in
Italia. Per evitare il rischio di estinzione della popolazione della terra di Dante, Mendras invita accoratamente
le mamme italiane a buttare fuori di casa i figli il prima possibile.
5
   Con tale espressione intendiamo l’errore nel quale incorre il boy scout che vuole a tutti i costi aiutare la
vecchietta ad attraversare la strada, anche quando la vecchietta non ha alcuna intenzione di farlo
(quantomeno non in quel punto della strada o non in quel momento).
6
  Con tale espressione intendiamo l’errore nel quale incorre il ricercatore quando rinuncia a scomporre le
componenti che influenzano un processo, e così facendo, mettendo tutto “nel calderone”, non riesce a
ipotizzare l’effetto di interventi pratici.
Nel paragrafo 2 discutiamo la situazione italiana sia in confronto ad altre situazioni europee, sia per
quanto concerne i cambiamenti nel corso del tempo. Nel paragrafo 3 presentiamo l’impostazione
teorica delle nostre analisi, basata sulla letteratura esistente sui legami tra percorsi e tempi di
transizione allo stato adulto. Il paragrafo 4 contiene alcuni risultati empirici derivanti da analisi dei
dati micro. Le implicazioni a livello di politiche dei risultati sono discusse nel paragrafo 5.

2. Lunga permanenza a casa dei genitori, matrimonio diretto, bassa fecondità: le coorti
italiane nel quadro europeo

Nei paesi occidentali, l’andamento della nuzialità si è invertito a partire soprattutto dalle
generazioni nate nel secondo dopoguerra, dopo un periodo di anticipo dell’età alle nozze e di
riduzione della quota di persone che non si sposavano. È così iniziata una nuova fase di continua e
sostenuta posticipazione del matrimonio con conseguente aumento alle varie età della quota di
nubili e celibi. Iniziato nei paesi scandinavi, tale fenomeno ha presto coinvolto tutti i paesi
occidentali (si veda ad es. Saraceno 1996). Le esperienze sono però diverse: mentre negli altri paesi
occidentali la posticipazione delle nozze ha liberato spazio per esperienze di vita autonoma o in
unione informale, nei paesi dell’Europa mediterranea lo spostamento del matrimonio in età sempre
più avanzata si è quasi completamente convertito in una (ancor più) prolungata permanenza dei
giovani nella casa dei genitori.
        Il legame a livello macro tra diffusione delle convivenze ed età di entrata in prima unione
risulta evidente dai dati riportati in tab. 1. Quasi la metà delle italiane nate alla fine degli anni ’60,
sono arrivate nella classe 25-29 anni senza mai aver formato un’unione. Tra chi aveva formato
un’unione più dell’85% si era sposata direttamente. Meno del 15% quindi aveva scelto una
convivenza (trasformata poi quasi sempre in un successivo matrimonio). Tale comportamento è in
larga parte condiviso dalla Spagna. Mentre nei paesi nei quali le convivenze sono più diffuse
(ovvero il matrimonio diretto è meno popolare) la percentuale di donne già entrate in unione nella
classe 25-29 anni è molto elevata. Il caso opposto a quello dei paesi mediterranei è quello dei paesi
scandinavi, dove quasi tutte le donne formano un’unione prima dei 30 anni e la stragrande
maggioranza inizia la vita di coppia tramite con una coabitazione informale.

        TABELLA 1 CIRCA QUI

        L’istituto del matrimonio sembra quindi mantenere nel nostro paese una sua forte centralità
sia come motivo di uscita dalla famiglia di origine che come forma di prima unione. A ciò si unisce
il fatto che, a differenza di molti altri paesi occidentali, il vincolo coniugale rimane generalmente
una condizione necessaria (anche se sempre meno sufficiente) per la riproduzione7. Allo
slittamento in avanti dell’entrata in prima unione corrisponde quindi una posticipazione di tutti gli
eventi di formazione della famiglia. A ciò risulta inoltre associata anche una discendenza finale
particolarmente bassa.
        La posticipazione in età più matura della formazione della famiglia sembra iniziare in Italia
timidamente con le nate alla fine degli anni ’50, ma diventa rilevante a partire dalle coorti
successive. Per le generazioni degli anni ’50, le maggiori aspirazioni verso la realizzazione
personale - acquisite con una più elevata scolarizzazione rispetto alle generazioni precedenti in un
contesto complessivamente rigido e tradizionale nei modelli familiari, nei rapporti di genere nella
coppia, dell’organizzazione del lavoro - aumentano la conflittualità dei ruoli lavorativo e familiare.
Il tentativo di investimento parallelo nella dimensione lavorativa e familiare (“sincronicità
quotidiana”) si scontra con fatica, disagi, scarsità di strumenti sociali e ostilità del clima culturale.
Se ne esce con il sacrificio di uno dei due ruoli (Piazza 1994). Solo a partire dalle donne che
entrano in età adulta nella seconda metà degli anni ’80 (quindi nate negli anni ’60) sembra
prefigurarsi la strategia della “diacronicità”, connotata da rinvio e recupero della maternità e da
maggiore flessibilità nell’uso del tempo lavorativo. Per tali donne diminuisce in effetti la rinuncia
al matrimonio rispetto alle generazioni della seconda metà degli anni ‘50. La riduzione delle nozze
dirette viene infatti compensata dai matrimoni a cui si arriva dopo un periodo di autonomia dai
genitori. Inoltre comincia ad aumentare la fecondità dopo i 30 anni. Emergono quindi segnali di
diminuzione della rigidità delle biografie femminili, unita ad un aumento della possibilità/capacità
di gestione efficiente del tempo in vari ambiti di vita (Rosina 1999). Anche le unioni informali
sembrano sempre più frequentemente entrare nel bagaglio degli strumenti utilizzati per rendere più
elastico il percorso di transizione allo stato adulto adattandolo alla sempre maggiore complessità
della modernità avanzata (Giddens, 1990) ed in particolare alla sempre maggiore flessibilità del
mercato del lavoro (Oppenheimer, 1988). La diffusione delle convivenze senza matrimonio appare
infatti in forte accelerazione nel Nord-centro Italia, non solo nei grandi centri ma anche nei comuni
minori (fig. 1).

        FIGURA 1 CIRCA QUI

        La lettura dei comportamenti secondo l’evoluzione per generazioni fornisce un quadro
meno tradizionale e meno statico rispetto a quanto emerge da confronti trasversali tra Italia ed altri
paesi. Tutto ciò però non significa necessariamente che osserveremo nel prossimo futuro

7
 “In southern Europe, out-of-wedlock childbearing […] still remains very rare” (Macura et al. 2002). Si
vedano anche Dalla Zuanna e Righi (1999), De Sandre (2000).
un’automatica convergenza verso i modelli dell’Europa settentrionale ed atlantica. È ingenuo
pensarlo, perché il processo di autonomia dei giovani dalla famiglia di origine in Italia – e nei paesi
dell’Europa mediterranea più in generale – è non solo inserito in un sistema di welfare meno
favorevole (Aassve et al., 2002; Billari et al., 2001 e 2002), ma assume soprattutto un significato
profondamente diverso rispetto a quello che assume in altri paesi occidentali. In particolare tale
processo è strettamente connotato dal forte legame tra genitori e figli, antropologicamente alla base
della società italiana (Reher, 1998; Micheli, 2001; Dalla Zuanna, 2002). Tale forte legame non
vincola comunque necessariamente ad una prolungata coresidenza, anche se la favorisce. Ciò che
caratterizza tale relazione è infatti soprattutto il permanere di un forte interscambio affettivo e
materiale anche dopo l’entrata dei figli in età adulta (Barbagli, 1997; Tomassini et al., 2003). Si
può ipotizzare che il forte legame verticale alla base della famiglia mediterranea sia compatibile
con la scelta di un’unione non tradizionale da parte dei giovani, solo a condizione che tale scelta
non entri in insanabile contrasto con i valori dei genitori e che sia socialmente accettata nel
contesto di origine. In tal caso, infatti, il comportamento innovativo dei giovani non compromette
la prossimità (fisica, affettiva, strumentale) con i genitori. Il fatto che le unioni informali si stiano
diffondendo anche nei comuni minori del Nord-centro, oltre che consolidare l’impressione di un
forte processo di diffusione in atto, sembra configurare anche la possibilità di una conciliazione con
il modello familiare mediterraneo (Rosina, 2002). In base alle informazioni disponibili, sembra
delinearsi una diffusione di “convivenze all’italiana”. Possiamo dunque pensare di assistere nel
prossimo futuro a prime unioni di tipo informale, di carattere soprattutto pre-matrimoniale e
fisicamente stabilite in prossimità delle famiglie di origine. Si tratterebbe di una scelta di “rottura
nella continuità”. L’innovazione relativa all’adozione di un modo (più flessibile) di entrata in prima
unione si realizzerebbe così senza indebolire l’interdipendenza affettiva e strumentale tra genitori e
figli. La maggiore apertura delle generazioni di genitori entrate in età adulta a partire dagli anni ’60
e con più alto livello culturale verso la possibilità che i giovani in una fase connotata ancora da
instabilità, incertezza e provvisorietà occupazionale e abitativa, possano iniziare la loro vita di
coppia con una convivenza anziché rimanere nella casa paterna, sembra andare in questa direzione
(Rosina et al., 2003; Rosina e Billari 2003; Barbagli et al., 2003). La diffusione in Italia delle
unioni informali tra i giovani, come avvenuto negli altri paesi occidentali, potrebbe favorire un
anticipo dell’età di entrata in unione. Considerate però le differenze di tipo antropologico nel
processo di autonomia dei figli, è difficile credere che in breve tempo la quota di giovani italiani
che escono dalla famiglia di origine prima dei 25 anni possa passare dai valori attuali (poco più di
uno su tre) ai livelli Nord-europei (circa tre su quattro). Una permanenza nella casa paterna non più
lunghissima (a ridosso dei 30 anni) ma comunque lunga (fino a buona metà del terzo decennio di
vita) è lo scenario più verosimile.
Delineato il quadro delle più recenti trasformazioni nei percorsi di transizione allo stato
adulto, passiamo a valutare le conseguenze attese sulla fecondità finale.

3. Il “lungo” impatto della lunga transizione allo stato adulto sulla fecondità: alcune ipotesi

Alcuni studi in letteratura hanno fatto uso di informazioni longitudinali per analizzare l’influenza a
livello individuale – nel corso di vita – dei calendari e dei percorsi di transizione allo stato adulto
sulla formazione della famiglia nei paesi a bassa e bassissima fecondità. Si è ad esempio mostrato
l’importante ruolo giocato dalla prolungata permanenza nel sistema dell’istruzione anche superiore
delle donne nello spostare in avanti i calendari della vita (Billari et al., 2002); si sono evidenziate le
conseguenze del posporre l’età all’ingresso sul mercato del lavoro sul rinvio dell’età al primo figlio
(Kohler et al., 2002); si è sottolineato il ruolo causalmente influente del rinvio delle unioni,
coniugali o meno, sull’età al primo figlio (Baizán et al., 2003); si è evidenziata la presenza di un
importante effetto del rinvio dei tempi della prima nascita sulla fecondità totale (si veda la rassegna
sul tema in Billari e Rosina, 2003). Meno diffusi sono i risultati sull’impatto in termini di fecondità
sequenza degli eventi di transizione allo stato adulto.
         La stretta relazione tra gli eventi di transizione allo stato adulto, inclusa la transizione alla
genitorialità è al centro dell’attenzione nella letteratura sul tema da diverso tempo (Marini, 1985).
Ciò che interessa in modo particolare nel presente contributo è il ruolo che i percorsi di transizione
allo stato adulto, riassunti nella sequenza tra eventi, ha nell’influenzare la fecondità nei paesi a
bassissima fecondità come l’Italia. Più che un’attenzione ai percorsi di transizione per se, quello
che interessa è il loro effetto di lungo periodo, ove il lungo periodo è letto sulla scala del corso di
vita della donna (Bumpass et al., 1978; Morgan e Rindfuss, 1999). Cerchiamo inoltre di rifuggire il
più possibile alla fallacia del calderone e di ipotizzare effetti di tipo separato per tempi e percorsi
rilevanti.
         Nel caso degli effetti dell’uscita dalla famiglia di origine prima della formazione di una
coppia sulla fecondità, non si può facilmente ipotizzare a priori né l’esistenza, né il segno, di un
effetto sulla fecondità. Un’uscita dalla famiglia più precoce, prima dell’ingresso in unione,
potrebbe infatti “spingere” un giovane a diventare adulto, superando un’eventuale sindrome da
“Peter Pan”, il che potrebbe condurlo ad una genitorialità più precoce, e, seguendo quanto illustrato
in precedenza, ad un’intensità finale della fecondità più elevata, spiegando così a livello “micro” le
correlazioni macro nella stessa direzione. Come abbiamo già avuto modo di notare, un tale effetto è
ipotizzato ad esempio da Livi Bacci (2001). D’altra parte, vi è anche la possibilità che, al netto di
determinanti comuni che spingono i giovani a compiere tutte le transizioni più precocemente,
trascorrere dei periodi della propria vita da single contribuisca a sviluppare, o a rafforzare, valori
individualisti che conducono poi ad una fecondità finale più bassa. Uscire dalla famiglia prima di
formare un’unione potrebbe dunque contribuire all’abbassamento della fecondità, anche attraverso
il rinvio dell’ingresso in unione. In questa direzione troviamo i risultati di alcune analisi su dati
longitudinali statunitensi (Goldscheider e Waite, 1993) e olandesi (Beets et al., 1993), nonché le
analisi da noi effettuate in Billari e Rosina (2003). Quindi non possiamo formulare un’ipotesi sulla
direzione dell’impatto sulla fecondità di un’uscita dalla famiglia precedente alla prima unione.
        Per quanto riguarda il tipo di prima unione, l’effetto sull’intensità finale della fecondità di
una prima unione di tipo non coniugale potrebbe essere di tipo negativo. Il matrimonio implica un
legame più stabile, meno facilmente dissolubile e, comunque, con una regolazione adeguata dello
scioglimento; le convivenze in questo senso, soprattutto in un sistema di welfare come quello
italiano, forniscono meno “garanzie” per la procreazione. Esiste poi la possibilità che il legame sia
di tipo associativo e non causale (coloro che iniziano una prima unione come convivenza hanno un
“minore” orientamento alla famiglia), oppure che durante il periodo di convivenza si rinforzino
orientamenti di valore più individualisti e meno favorevoli ad elevate dimensioni della famiglia,
come nel caso della vita da single. Ancora una volta è utile menzionare alcune analisi cross-
national, che mostrano come dagli anni ’70 agli anni ’90 sia cambiato il segno della correlazione
tra fecondità totale e della percentuale di nascite fuori dal matrimonio sul totale delle nascite, con
una correlazione a oggi positiva (Billari e Kohler, 2002). A livello individuale, sulla Spagna,
l’analisi di Baizán et al. (2003) conferma l’impatto causale dell’ingresso in unione sulla fecondità
di primo ordine, ed il maggiore impatto della convivenza rispetto al matrimonio. Tuttavia, il
maggiore impatto del matrimonio risulta assai meno rilevante in contesti dalla più avanzata
diffusione delle convivenze, come quello svedese (Pinnelli et al., 2002). Ove la convivenza è più
diffusa, inoltre la distinzione tra prima unione coniugale e convivenza potrebbe avere un significato
meno importante, anche in seguito ad una maggiore accettabilità sociale della convivenza come
istituzione (Manting, 1996). Poiché le convivenze tendono ad avvenire ad età inferiori, data la
natura più “flessibile” dell’unione (Rosina e Billari, 2003), possiamo ipotizzare che esista
un’interazione tra effetto del tipo di prima unione ed età alla prima unione: la discendenza finale
sarebbe dunque maggiore per le donne che sono entrate direttamente in matrimonio, ma tale effetto
poterebbe nelle convivenze essere compensato (fino eventualmente a invertirsi) dalla più giovane
età. Diamo qui per acquisita l’idea che una prima unione più precoce, indipendentemente dal tipo
di unione, possa condurre ad un’intensità finale della fecondità più elevata, e che un intervallo
protogenesico più lungo, attraverso il rinvio del primo figlio, porti ad una riduzione dell’intensità
finale. In generale, possiamo dunque ipotizzare una maggiore intensità della fecondità per le donne
la cui prima unione è un matrimonio diretto, che può essere controbilanciata per le convivenze da
età di entrata in unione più basse. Inoltre, possiamo ipotizzare una maggiore differenza tra
convivenze e matrimonio nelle zone dell’Italia dove le convivenze sono meno diffuse.
4. Il “lungo” impatto della lunga transizione allo stato adulto sulla fecondità: alcune stime su
dati “Venus” e ISTAT

Problemi di ordine concettuale e relativi alla disponibilità di informazioni statistiche adeguate
ostacolano la ricerca di stime dell’impatto di percorsi e tempi di transizione allo stato adulto da
considerarsi “causali”, e dunque massimamente informative ad esempio per le scelte in campo
politico. Rimandiamo ad altri lavori la discussione sul tema, approfondita soprattutto per quanto
concerne la relazione tra età al primo figlio e intensità finale della fecondità (cfr. ad es. Billari e
Rosina, 2003) ovvero in termini di legami tra età prima unione ed età primo figlio (Baizán et al.,
2003). In questa parte presenteremo alcuni risultati, con alcuni caveat che saranno ribaditi in fase
conclusiva. Le analisi che seguono sono basate su modelli relativamente semplici di regressione
lineare multipla (OLS) sul logaritmo del numero di figli come variabile dipendente (analogamente
a quanto utilizzato ad es. in Kohler et al., 2002). I coefficienti delle stime ottenute sono
interpretabili dunque semplicemente in termini di incremento o decremento percentuale del numero
di figli al variare di una unità delle variabili esplicative.
        Applichiamo lo stesso modello a insiemi confrontabili di donne con informazioni
provenienti due fonti diverse. Come prima fonte, si utilizzano i dati forniti dalla “Indagine sui
comportamenti familiari in ambito urbano”, condotta nel 2002 nell’ambito del progetto Venus, e
relativi alle storie di vita di donne con figli, residenti in cinque città: Udine, Padova, Firenze,
Pesaro, Messina (risultati più dettagliati di questa analisi sono riportati in Billari e Rosina, 2003).
Per ciascuna città stimiamo un modello separato. Come seconda fonte, si utilizza l’indagine ISTAT
“Famiglie, Soggetti Sociali e Condizione dell’Infanzia” condotta nel 1998, stimando equazioni
separate per donne residenti nelle cinque ripartizioni territoriali italiane: Nord-Ovest, Nord-Est,
Centro, Sud, Isole8. Le analisi riportate si basano su storie di fecondità complete o pressoché
complete di donne con almeno un figlio (nate entro il 1962). La scelta di utilizzare le donne con
almeno un figlio è funzionale alla comparabilità tra le due fonti.
        Analizziamo per prima cosa (tab. 2) l’impatto sulla fecondità di 1) l’età alla prima unione;
2) aver avuto una convivenza come prima unione; 3) aver lasciato la casa dei genitori prima della
prima unione. Le analisi sono utilizzando alcune variabili di controllo relative alla famiglia di
origine (il numero di fratelli/sorelle e il titolo di studio del padre), ed alcune variabili relative alla
donna (titolo di studio).

        TABELLE 2-3-4 CIRCA QUI
Per quanto concerne l’età alla prima unione, entrambe le fonti mostrano univocamente
l’importanza dei tempi: rinviare la prima unione di un anno, coeteris paribus, diminuisce il numero
totale di figli di circa il 2-3%. Gli effetti maggiori sono, tra le città, per Pesaro e Messina, e, tra le
ripartizioni, per il Sud. Gli effetti minori, sono, tra le città, per Udine e Firenze, e, tra le ripartizioni,
per il Nord-Est.
            Per quanto concerne l’effetto di aver avuto una prima unione di tipo convivente, vi è un
effetto di riduzione della discendenza finale statisticamente significativo, tra le città, solo per
Padova e Udine, tra le ripartizioni solo per il Centro. Negli altri casi l’effetto è molto vicino allo
zero, e non è statisticamente significativo; a Messina e nelle ripartizioni Nord-Ovest e Sud la
discendenza finale è addirittura più elevata tra coloro che iniziano la prima unione con una
convivenza (ciò è presumibilmente da attribuire a fuitine o convivenze per strati sociali più bassi
per Messina e per il Sud, o alla maggiore diffusione delle convivenze per il Nord-Ovest). Possiamo
utilizzare i parametri del modello per stimare, attraverso il rapporto tra il coefficiente della
variabile dicotomica relativa alla convivenza prenuziale e quello relativo all’età alla prima unione,
quanti anni di anticipo sono necessari ad una prima unione convivente per raggiungere la stessa
fecondità di una prima unione matrimonio diretto. Riportiamo in tab. 3 i risultati di tale esercizio:
un risultato negativo indica invece il caso in cui le prime unioni convivenze portano ad una
fecondità maggiore. Vediamo che, tra le città, l’anticipo dovrebbe essere importante (tra più di
quattro a quasi sette anni) per Udine, Padova e Firenze mentre a Pesaro e Messina il fatto che le
convivenze non portino a fecondità più bassa si riverbera nell’assenza di un “effetto anticipo”. Tra
le ripartizioni, l’effetto più importante è quello del Centro (3 anni), mentre il Nord-Est ha un effetto
di circa 9 mesi. Per le altre ripartizioni l’effetto non è importante o è in senso opposto. In tab. 4
riportiamo i risultati di un’analisi condotta sulle due basi di dati allo scopo di valutare la
significatività di un’interazione tra età alla prima unione e tipo di prima unione. Un segno negativo
al coefficiente di interazione implicherebbe che prime unioni conviventi a età precoci sarebbero più
prolifiche (rispetto al matrimonio diretto) che non prime unioni conviventi a età tardive.
L’interazione tra età e prima unione non è mai statisticamente significativa: l’effetto del tipo di
unione non cambia al variare dell’età all’unione.

5. Implicazioni per il disegno di politiche “amichevoli” nei confronti della fecondità: favorire
la formazione delle coppie “a modo loro”?

8
    Ringraziamo la dott.ssa Romina Fraboni dell’ISTAT per aver fornito i risultati delle elaborazioni.
Non vi è dubbio che il calendario della transizione allo stato adulto dei giovani italiani si sia
effettivamente spostato in avanti, con cambiamenti ancora non drastici della sequenza tra eventi.
Abbiamo concentrato la nostra attenzione sugli aspetti “demografici” della transizione allo stato
adulto (tralasciando ad esempio la transizione dall’istruzione al lavoro, e la transizione la lavoro
stabile). Se una “sindrome del ritardo” o una “strategia moratoria” spiega in parte la bassa fecondità
italiana (Micheli, 2000; Livi Bacci, 2001), di quale ritardo esattamente stiamo parlando? Del
ritardo nei giovani a lasciare la casa dei genitori per andare a vivere per conto proprio,
ripercorrendo le orme dei coetanei del Nord Europa? Del ritardo nella formazione delle unioni,
distinguendo eventualmente unioni coniugali e convivenze?
        Abbiamo mostrato, sia mediante confronti internazionali, sia utilizzando dati individuali,
come sulla bassa fecondità in Italia, tra i tempi di transizione allo stato adulto, pesi in particolare il
rinvio della prima unione di ogni tipo. Per quanto riguarda i percorsi, solo in alcuni contesti
territoriali la prima unione iniziata come convivenza è associata, a parità di età, ad una discendenza
finale di dimensioni più ridotte rispetto al matrimonio, mentre l’uscita dalla famiglia precedente
all’unione ha effetto di innalzare la fecondità solo in un caso che potremmo definire “isolato”.
        Alcune misure politiche possono avere lo scopo di incoraggiare l’autonomia residenziale
dei giovani per se. Ad esempio, il sistema universitario interagisce con il welfare nel contribuire
alla lunga permanenza dei giovani in famiglia, con la diffusione capillare sul territorio di università
che “vanno” presso lo studente, piuttosto che con politiche volte a favorire un modello basato su
campus in cui sia lo studente a muoversi verso l’università. Non sembra tuttavia essere questa
l’impostazione dei policy-makers. Nel Libro Bianco sul Welfare la lunga permanenza a casa dei
genitori per motivi di studio è da ascrivere alla scarsa efficienza del sistema educativo (p. 12), e
quindi si nega implicitamente che vi possa essere necessità di intervenire ad esempio sulla fornitura
di alloggi per studenti. L’impostazione politica sembra allora la transizione allo stato adulto come
un campo in cui l’idea è di “aiutare” i giovani per altri scopi, principalmente per l’impatto sulla
fecondità. Il Libro Bianco sul Welfare, che porta Francia e Svezia come esempi virtuosi per le
politiche amichevoli nei confronti della fecondità è tuttavia silente sul tema delle convivenze. Nella
società della flessibilità e del rischio, proprio le unioni consensuali hanno consentito a paesi come
Francia e Svezia di contenere il rinvio della formazione delle unioni. L’unione informale può
essere considerata infatti uno strumento di elasticità in mano ai giovani per adattarsi meglio, ad
esempio (ma non solo), alle nuove sfide del mercato del lavoro senza dover posticipare
indefinitamente la formazione di una propria famiglia (Oppenheimer, 1988). Vari studi hanno in
effetti evidenziato la presenza di una relazione tra convivenza, lavori atipici/precari e capacità di
attivare strategie di conciliazione tra investimento professionale e genitoriale (Oppenheimer, 20039;
Rosina e Billari 2003).
        Per quanto si è mostrato prima, riteniamo che il ritardo di cui si sta parlando sia
principalmente quello della formazione delle unioni (ed eventualmente del diventare genitori). Non
invece, di per sé, la lunga permanenza dei giovani nella famiglia dei genitori. Dal punto di vista
della predisposizione di politiche che possano essere “indirettamente amichevoli” nei confronti
delle nascite, ovvero che possano avere un effetto sulla fecondità totale, le evidenze mostrate
suggeriscono politiche che aiutino i giovani adulti a poter effettuare meno tardivamente la scelta di
entrare in unione, indipendentemente dal tipo di unione. Ne consegue che una maggiore diffusione
di unioni informali sperimentate che consentano di anticipare la vita di coppia potrebbe portare ad
una fecondità più elevata rispetto a unioni coniugali sperimentate più tardi10. Un esempio di politica
coerente con tale impostazione sarebbe un’agevolazione all’accesso a immobili in affitto. Occorre
comunque tenere presente che le profonde differenze culturali esistenti nel nostro paese fanno
pensare che una stessa politica potrebbe avere effetti diversi in aree territoriali diverse.
        Dal punto di vista della ricerca, occorrerà in futuro porre un’ancor maggiore attenzione agli
effettivi legami di causalità tra le variabili analizzate, allo scopo di poter minimizzare distorsioni
negli effetti ed errate interpretazioni causali dovute alla selezione. Metodologie più avanzate sia di
disegno dell’indagine sia di analisi statistica saranno d’ausilio in questa direzione.

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9
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period of career immaturity, whereas marriage was a far more likely outcome for both stably employed
cohabitors and noncohabitors alike” (Oppenheimer 2003).
10
   Si tenga infatti presente che in nessuno dei paesi occidentali si è osservata un’inversione di tendenza alla
posticipazione del matrimonio. Dove i tempi di entrata in unione sono più anticipati ciò è avvenuto tramite la
diffusione delle convivenze informali.
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Figure e tabelle

Tab. 1. Prima unione. Donne di 25-29 anni (nate fine anni ’60).

                                 % matr.
                       % mai in diretto su
                       unione    tot. unioni
 Svezia                       10            7
 Finlandia                     9          17
 Francia                      16          21
 Gran Bretagna                16          37
 Austria                      17          19
 Svizzera                     15          19
  Germania Ovest              33          16
 Spagna                       32          80
 Italia                       47          86
Fonte: FFS data.

Fig. 1. Percentuale di donne uscite per convivenza su totale donne uscite per unione entro
i 30 anni, per generazione.

   20

   18        1945-59
             1960-64
   16        1965-67

   14

   12

   10

    8

    6

    4

    2

    0
                  SI                 NC (piccoli centri)   NC (centri medio-grandi)

Fonte: Indagine Istat 1998 “Famiglia, soggetti sociali e condizioni dell’infanzia” (ns elaborazioni)
Tab. 2. L’effetto di percorsi e tempi di transizione allo stato adulto sull’intensità finale
della fecondità: stime OLS sul logaritmo del numero di figli (solo donne con figli). P-
value
Tab. 4. L’effetto del rinvio della prima unione sull’intensità finale nelle cinque città: stime
OLS sul numero di figli. P-value
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