Acidi grassi omega-3 e rischio cardiovascolare

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Acidi grassi omega-3 e rischio cardiovascolare
(New England Journal of Medicine )
In base a numerosi studi si è constatato che gli acidi grassi ω-3 derivati dall'olio di pesce (EPA:
acido eicosapentanoico; DHA: acido docosaesaenoico) e l'acido grasso vegetale ALA (α-linolenico)
sono in grado di diminuire il rischio cardiovascolare.
Per verificare se la loro presenza in piccole quantità all'interno della margarina sia sufficiente a
garantire una protezione cardiovascolare, alcuni ricercatori hanno realizzato uno studio in doppio
cieco, placebo-controllo, reclutando 4.837 anziani (età media 69 anni; 78% maschi) con un
pregresso infarto miocardico nei 10 anni precedenti l'arruolamento.
L'86% di loro era in terapia con farmaci ipolipemizzanti, prevalentemente statine. L'endpoint
primario è stato stabilito in un insieme di eventi cardiovascolari fatali oppure non associati ad
interventi di rivascolarizzazione coronarica. Durante il follow-up di circa 40 mesi non è stata
dimostrata alcuna superiorità dei supplementi di acidi grassi verso il placebo: l'endpoint primario è
occorso nel 14% dei soggetti trattati con EPA/DHA e nel 13.8% dei trattati con ALA o con placebo
(HR 1.01; IC95% 0.87-1.17). Anche per endpoint secondari si sono avuti gli stessi risultati non
significativi.
Il commento a questo articolo:
In questo studio, a differenza di altri precedenti, la supplementazione con acidi grassi ω-3 non ha
prodotto benefici cardiovascolari. Il risultato potrebbe dipendere dall'aver utilizzato solamente
margarina come fonte di acidi grassi, ma indubbiamente il consiglio di assumere questi
componenti alimentari deve essere ulteriormente approfondito.
Bibliografia:
    •   Kromhout D et al for the Alpha Omega Trial Group. n-3 fatty acids and cardiovascular
        events after myocardial infarction. NEJM 2010 Aug 29

Verdure a foglia larga e diabete di tipo 2
(British Medical Journal (BMJ))
E' noto che l'assunzione di frutta e verdura si associa a minori rischi cardiovascolari e tumorali,
ma per quanto riguarda il diabete?
Per chiarire questo dubbio è stata realizzata una metanalisi di 6 studi prospettici (lunghezza media
13 anni) coinvolgenti oltre 200.000 soggetti di età compresa tra 30 e 74 anni. I maggiori quantitativi
assunti di verdura e frutta, da sole o associate, non hanno comportato una diminuzione del rischio di
diabete di tipo 2.
Però in 4 studi che hanno esaminato l'assunzione di verdure a foglia larga (spinaci, lattuga, cavolo)
si è visto che tali vegetali, se assunti in grandi quantità, si associano ad una diminuzione del rischio
di diabete di circa il 14% rispetto ad assunzioni minime. Il risultato è statisticamente significativo.
Il commento a questo articolo:
Gli studi esaminati dalla metanalisi erano di tipo osservazionale, e possono esistere fattori di
confondimento che non sono stati esaminati (ad esempio riguardanti lo stile di vita).
In ogni caso i risultati confermano la bontà di una dieta basata su frutta e verdura, specie se a foglia
larga, che potrebbero, almeno teoricamente, manifestare i loro effetti positivi mediante un
arricchimento di vitamina C, beta-carotene, polifenoli, acido linolenico e magnesio.
Bibliografia:
    •   Carter P et al. Fruit and vegetable intake and incidence of type 2 diabetes mellitus:
        Systematic review and meta-analysis. BMJ 2010 Aug 19; 341:c4229

Vitamina D e infezioni respiratorie
(Journal of Infectious Diseases)
In base a studi osservazionali, tra i vari effetti negativi della deficienza di vitamina D è stata
descritta anche una maggior facilità alle infezioni respiratorie.
Dal momento che durante il lungo periodo invernale dei paesi artici la carenza di vitamina D è un
fatto comune, alcuni ricercatori in Finlandia hanno costruito uno studio rigoroso, cieco,
somministrando vitamina D ad adulti sani e controllando i giorni di lavoro perduti a causa di
infezioni respiratorie.
Sono stati arruolati 164 maschi in giovane età (18-28 anni), somministrando loro quotidianamente
400 UI di vitamina D o placebo, da ottobre fino a marzo. All'inizio dello studio i livelli plasmatici
di 25(OH)-D in entrambi i gruppi erano leggermente meno di 32 ng/ml (80 nmol/l), valori
considerati 'insufficienti'.
Durante lo studio i livelli sono rimasti stabili nel gruppo trattato con il supplemento vitaminico,
mentre sono diminuiti del 30% nel gruppo del placebo. I partecipanti trattati con la vitamina hanno
accusato un minor numero di infezioni respiratorie durante le prime 6 settimane dello studio, con
conseguente minor numero di giornate lavorative perdute, ma questa differenza non è stata
statisticamente significativa.
Nel complesso, non vi è stata differenza dei disturbi riferiti dai soggetti dei due gruppi e non si
sono avute maggiori perdite di giornate lavorative in uno dei due bracci dello studio.
Il commento a questo articolo:
La vitamina D è legata ai processi immunitari, ma anche in altri studi la sua somministrazione non
ha comportato vantaggi in termini respiratori. Bisogna ancora verificare se i suoi presunti effetti
respiratori possano manifestarsi meglio su soggetti non sani oppure a dosi maggiori.
Bibliografia:
    •   Laaksi I et al. Vitamin D supplementation for the prevention of acute respiratory tract
        infection: A randomized, double-blinded trial among young Finnish men. Journal of
        Infectious Diseases 2010 Sep 1; 202:809

Un nuovo inibitore della neoangiogenesi tumorale
(Nature Medicine)
La maggior parte dei tumori produce dei nuovi vasi sanguigni, mediante il meccanismo
dell’angiogenesi, che in definitiva favorisce la produzione di nuove cellule cancerose.
Partendo da questo presupposto, si sono ricercate molecole che ostacolino questa formazione di
nuovi vasi, e l’utilizzo terapeutico di queste sostanze (in genere proteine) è aumentato,
parallelamente però all’insorgenza di resistenze contro questi nuovi farmaci.
Un equipe di ricercatori americani ha scoperto che esiste un microRNA (chiamato miR-132) in
grado di favorire la neoangiogenesi, riscontrato in livelli elevati nell’endotelio di tumori umani e di
emangiomi e non presente nel normale endotelio vasale.
Somministrando a dei ratti da esperimento un altro piccolo RNA che ostacola la produzione di
miR-132 si è ottenuta una diminuzione netta della neoangiogenesi: microparticelle contenenti
questo inibitore del miR-132 si dirigono verso le cellule endoteliali e si attaccano a specifiche
molecole sulla superficie cellulare: il risultato è la prevenzione della formazione di neo-vasi e la
riduzione della massa tumorale (il tipo di tumore utilizzato nell’esperimento è molto simile al
cancro mammario umano).
Il commento a questo articolo:
Il meccanismo della crescita tumorale si basa anche sulla formazione di nuovi vasi sanguigni, per
cui qualsiasi sostanza che ostacoli questa neoformazione può giocare un ruolo nella lotta al cancro.
La ricerca va avanti, speriamo con risultati positivi.
Bibliografia:
    •   Anand S et al. MicroRNA-132-mediated loss of p120RasGAP activates the endothelium to
        facilitate pathological angiogenesis. Nature Medicine 2010 Aug; 16:909

Come interrompere gli antidepressivi
(American Journal of Psychiatry)
Quando si parla di interruzione rapida della terapia ci si riferisce ad un periodo di 1-7 giorni,
mentre la cessazione graduale comporta l’uso del farmaco a dosi ridotte per almeno 14 giorni.
Per verificare i risultati ottenibili con una cessazione rapida a graduale di antidepressivi, alcuni
ricercatori italiani hanno seguito 398 pazienti affetti da disturbo depressivo maggiore (224
soggetti), attacchi di panico (75), disturbi bipolari di tipo I (37) o di tipo II (62).
Il follow-up è durato almeno un anno (mediamente 2.8 anni) e la durata media del trattamento
antidepressivo è stata di 8.5 mesi. Nello studio, di tipo osservazionale, la scelta di interrompere il
trattamento è stata decisa dal medico o dal paziente in base alla sensazione di stare psichicamente
bene; gli antidepressivi sono stati smessi rapidamente in 188 pazienti e gradualmente in 210.
La cessazione rapida si è associata ad un minor intervallo di tempo prima della ricaduta (3.6 contro
8.4 mesi) rispetto alla cessazione graduale. I risultati sono stati più evidenti per i soggetti affetti da
disturbo bipolare o da attacchi di panico. Con la cessazione rapida, le ricadute si sono presentate
dopo un intervallo di tempo che non è stato collegabile al tipo di farmaco utilizzato, mentre dopo la
cessazione graduale si è registrato un intervallo libero da disturbi più lungo con i triciclici che non
con i moderni antidepressivi.
Infine, il rischio di ricaduta è stato maggiore con i farmaci a lunga emivita plasmatica mentre non
ha dimostrato relazione con la dose del farmaco utilizzato, con la durata della malattia o con
eventuali trattamenti concomitanti.
Il commento a questo articolo:
I risultati di questo studio confermano la pratica che si adotta comunemente nella cessazione degli
antidepressivi: l’interruzione brusca della terapia si associa a maggior rischio di ricaduta e accorcia
l’intervallo di tempo tra un periodo di malattia e il successivo.
Quanto debba durare il periodo di cessazione non è chiaro: si parla di settimane o addirittura di
mesi.
Bibliografia:
    •   Baldessarini RJ et al. Illness risk following rapid versus gradual discontinuation of
        antidepressants. American Journal of Psychiatry 2010 Aug; 167:934.
    •   Freedman R. Abrupt withdrawal of antidepressant treatment. American Journal of Psychiatry
        2010 Aug; 167:886
micrania con aura e rischio di mortalità
(British Medical Journal (BMJ))
In base ai dati disponibili l'emicrania con aura rappresenta un fattore di rischio di malattie
cardiovascolari, per cui alcuni ricercatori in Islanda hanno voluto verificare non solamente
l'associazione tra emicrania e mortalità cardiovascolare ma anche quale rapporto esista tra questa
patologia e la mortalità globale.
Sono stati esaminati circa 19.000 adulti (età media al momento dell'ingresso in studio: 53 anni) per
un follow-up durato 26 anni. Nel complesso, l'11% dei soggetti era affetto da emicrania e l'8% da
emicrania con aura. Dopo analisi aggiustate per multipli fattori di rischio cardiovascolare si è visto
che i partecipanti affetti da emicrania con aura (almeno 2 crisi mensili) possedevano un rischio di
mortalità generale di oltre il 21% superiore rispetto ai soggetti che non soffrivano di emicrania;
per quanto riguarda la mortalità specifica cardiovascolare, è stata superiore del 27%.
Questi dati non sono stati invece riscontrati nei soggetti affetti da emicrania senza aura, che non
hanno presentato rischio di mortalità aumentato, né specifica né generale. In ogni caso l'effetto
dell'emicrania sul rischio assoluto di mortalità è stato basso: ad esempio, è stato calcolato che il
rischio di mortalità a 10 anni in un uomo di 50 anni sia del 6.0% per chi non soffre di emicrania e
dell'8.0% per chi è affetto da emicrania con aura.
Il commento a questo articolo:
La correlazione tra emicrania con aura e malattie cardiovascolari è già stata assodata, per cui è
ovvia conseguenza che esista anche un rapporto tra questa patologia e la mortalità, anche se l'entità
reale del problema è fortunatamente molto piccola.
Bibliografia:
    •   Gudmundsson LS et al. Migraine with aura and risk of cardiovascular and all cause
        mortality in men and women: Prospective cohort study. BMJ 2010 Aug 24; 341:c3966

Divieto di fumo e asma
(New England Journal of Medicine)
Risale al 2006 l'inizio del divieto di fumo nei locali pubblici in Scozia, compresi ristoranti, bar e
pub. Per verificare l'impatto della legge sull'asma infantile, alcuni ricercatori hanno utilizzato un
database nazionale e controllato tutti i ricoveri per asma avvenuti dal 2000 al 2009 in bambini di età
inferiore a 15 anni.
Prima della legge sul fumo il tasso di ricoveri per asma aumentava mediamente del 5.2% all'anno.
Dopo il divieto di fumo il tasso annuale di ricovero è diminuito del 18.2% rispetto al mese
precedente (marzo 2006). Mediante analisi aggiustate si è visto che la diminuzione ha riguardato sia
l'età prescolare (-18.4%) sia l'età scolare (-20.8%).
Il commento a questo articolo:
Lo studio è stato di tipo osservazionale e pertanto soggetto a potenziali errori o limitazioni
(mancano i dati dei singoli pazienti, ad esempio, e mancano anche i dati sui pazienti che hanno
subito riacerbazioni dell'asma ma non sono stati ricoverati).
In ogni caso è altamente probabile che il divieto di fumo abbia comportato effetti positivi sulla
salute dei cittadini di qualsiasi età, ed ha raggiunto anche un obiettivo di non poca importanza: è
diminuito volontariamente il numero di persone che fumano all'interno della propria abitazione.
Bibliografia:
    •   Mackay D et al. Smoke-free legislation and hospitalizations for childhood asthma. NEJM
2010 Sep 16; 363:1139

Milnacipran nella fibromialgia
(Arthritis & Rheumatism)
Nel 2009 è stato approvato negli USA l'uso del milnacipran (un inibitore selettivo del reuptake
della serotonina e della norepinefrina) nel trattamento della fibromialgia.
Con uno studio sponsorizzato dall'industria farmaceutica sono stati trattati con milnacipran o con
placebo 1025 pazienti affetti da questa malattia da un periodo medio di 11 anni. La dose iniziale di
12.5 mg una volta al giorno è stata gradatamente aumentata fino a raggiungere 50 mg due volte al
giorno, e sono stati esclusi dallo studio i pazienti affetti da disturbo di depressione maggiore.
Dopo 12 settimane di trattamento alla dose massima i soggetti che ricevevano milnacipran avevano
raggiunto in numero maggiore l'endpoint primario composto, comprendente la diminuzione del
dolore, il miglioramento della funzionalità fisica e la sensazione soggettiva di miglioramento
clinico.
Dal momento che circa il 70% dei soggetti ha portato a termine lo studio, sono state fatte numerose
analisi intent-to-treat per ricuperare i dati perduti: in base a queste analisi si è visto che una
risposta positiva è stata ottenuta nel 20%-30% dei soggetti trattati con il farmaco e nel 10%-15% di
quelli trattati con placebo.
Le reazioni collaterali negative sono state più frequenti con il farmaco, soprattutto la nausea (37%
contro 21%), la stipsi, le vampate di calore, la vertigine e le palpitazioni. La pressione arteriosa è
aumentata di 3-5 mmHg con il farmaco e la frequenza cardiaca media è salita di 8 pulsazioni al
minuto, rispetto al gruppo trattato con placebo.
Il commento a questo articolo:
Il milnacipran ottiene indubbiamente dei risultati, ma sono abbastanza modesti se paragonati con un
placebo, a fronte di effetti collaterali frequenti, anche se non gravi. Il costo è decisamente elevato
e si deve prestare attenzione soprattutto alle ripercussioni eventuali sull'apparato cardiovascolare.
Da tenere presente anche che in Europa il farmaco non ha ricevuto l'approvazione per l'uso in
questa indicazione terapeutica.
Bibliografia:
    •   Arnold LM et al. Efficacy and safety of milnacipran 100 mg/day in patients with
        fibromyalgia: Results of a randomized, double-blind, placebo-controlled trial. Arthritis &
        Rheumatism 2010 Sep; 62:2745

Bifosfonati e cancro dell'esofago
(British Medical Journal (BMJ))
E’ noto che i bifosfonati orali possono provocare flogosi a livello esofageo, per cui ci si è posti la
domanda se tali infiammazioni possano costituire il prodromo all'insorgenza di una neoplasia.
Alcuni ricercatori inglesi hanno pertanto realizzato uno studio caso-controllo per verificare la
correlazione tra i bifosfonati orali e i tumori dell'apparto digerente in genere: è stato utilizzato il
database U.K. General Practice Research per identificare circa 16.000 soggetti con tumori
esofagei, gastrici e del colonretto diagnosticati tra il 1995 e il 2005.
Ogni paziente è stato parificato con 5 controlli privi di cancro e si è visto che una o più prescrizioni
di bifosfonati orali si sono associate ad un aumento del 30% del rischio di tumore dell'esofago. Da
sottolineare che tale aumento di rischio si è avuto in ampia misura solamente per quei pazienti con
almeno 10 prescrizioni di bifosfonati. Per i soggetti che hanno fatto uso di bifosfonati orali per oltre
3 anni (la durata media è stata di 4.6 anni) il rischio relativo di cancro dell'esofago è stato di 2.2,
mentre non si è vista associazione con tumori dello stomaco o del colonretto.
Il commento a questo articolo:
Uno studio pubblicato su JAMA nel 2010 era arrivato a conclusioni differenti, anche se il follow-up
era stato più breve. In base ai risultati dello studio attuale è opportuno non proseguire la
somministrazione di bifosfonati orali per lunghi periodi, se non altro effettuando quelle pause che
alcuni esperti (Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism 2010; 95:1555) definiscono
'vacanze del farmaco'.
Bibliografia:
    •   Green J et al. Oral bisphosphonates and risk of cancer of oesophagus, stomach, and
        colorectum: Case-control analysis within a UK primary care cohort. BMJ 2010 Sep 2;
        341:c4444

Prevenzione della rottura di varici esofagee
(Hepatology)
Le linee-guida raccomandano l'uso di un β-bloccante o una legatura endoscopica per prevenire la
prima emorragia da rottura di varici esofagee nella cirrosi epatica, mentre per la prevenzione delle
recidive l'associazione della legatura con il β-bloccante si è dimostrata più efficace del singolo β-
bloccante.
Adesso è stato confrontato il ricorso al solo farmaco con la terapia combinata anche nella
prevenzione del primo episodio emorragico. In un centro di gastroenterologia di Taiwan 140
pazienti con cirrosi epatica, presenza di varici esofagee a rischio di rottura ma senza episodi
emorragici sono stati randomizzati al trattamento con solo nadololo (40 mg/die iniziali e poi
adattato fino ad una frequenza cardiaca ridotta del 25% rispetto al basale) oppure nadololo in
combinazione con legatura endoscopica.
I due gruppi presentavano caratteristiche cliniche simili e non si è verificato alcun abbandono dello
studio: tutti i soggetti reclutati hanno portato a termine il follow-up. Dopo 26 mesi la frequenza di
prima emorragia esofagea è stata simile: 14% con la terapia combinata e 13% con il β-bloccante
da solo, mentre si sono verificati decessi in entrambi i gruppi con una frequenza del 23%. Gli eventi
avversi sono stati più comuni nel gruppo della terapia combinata, anche se in misura non
statisticamente significativa (68% contro 40%; P = 0.06). La legatura endoscopica ha causato
l'insorgenza di varici in due pazienti.
Il commento a questo articolo:
Lo studio è stato realizzato in modo epidemiologicamente corretto e i risultati sono chiari:
l'aggiunta di legatura endoscopica non migliora la prognosi dei pazienti con cirrosi già in
trattamento con β-bloccanti, ma aumenta la frequenza degli eventi avversi.
Bibliografia:
    •   Lo G-H et al. Controlled trial of ligation plus nadolol versus nadolol alone for the prevention
        of first variceal bleeding. Hepatology 2010 Jul; 52:230

Aumento eccessivo di peso in gravidanza
(The Lancet)
Sappiamo che un eccessivo peso neonatale si associa spesso ad obesità nell'età adulta e può
comportare un aumento della mortalità correlata al peso corporeo eccessivo.
Studi precedenti hanno analizzato la relazione tra aumento ponderale della gestante e peso del
neonato, ma non sono stati esaminati gli eventuali fattori di confondimento ambientali e genetici.
Per ovviare a questa lacuna alcuni ricercatori USA hanno esaminato un database comprendente
circa 513.000 donne - ognuna con almeno due figli - per calcolare la differenza di aumento
ponderale materno e neonatale tra due gravidanze consecutive di ogni donna.
Si è constatata un'associazione significativa tra peso neonatale e peso materno: ogni aumento di 1
kg materno si è associato ad un aumento di 7.35 g nel peso neonatale. Le differenze nell'aumento di
peso materno in due gravidanze successive si sono rispecchiate proporzionalmente in aumenti di
peso dei neonati, e le donne che sono aumentate della stessa quantità in due gravidanze consecutive
hanno partorito neonati con lo stesso peso.
In media, le donne che hanno acquistato oltre 12 kg nella seconda gravidanza hanno partorito
neonati di 108 g più pesanti rispetto al primo neonato.
Il commento a questo articolo:
Indipendentemente dai fattori genetici e ambientali, la metanalisi rafforza la relazione tra aumento
eccessivo di peso materno e aumento eccessivo di peso neonatale. Occorrono studi di lunga durata
per verificare se questo si traduca in un danno futuro per il neonato.
Bibliografia:
    •   Ludwig DS and Currie J. The association between pregnancy weight gain and birthweight: A
        within-family comparison. Lancet 2010 Sep 18; 376:984

RMN con contrasto nelle arteriopatie periferiche
(Annals of Internal Medicine)
La diagnosi di arteriopatia periferica si basa generalmente su reperti clinici e sulla misura
dell'indice pressorio braccio/caviglia. Quando però ci si trova davanti alla necessità di procedere
con interventi chirurgici di rivascolarizzazione, ovviamente ci si rivolge alle tecniche di imaging
per avere una diagnosi di maggiore certezza e quantificare il problema.
Con questa metanalisi di 32 studi prospettici (ognuno con un campione variabile da 10 a 76
pazienti) è stata valutata la sensibilità e la specificità della RMN con contrasto e confrontata con il
gold standard rappresentato dall'angiografia. Rispettivamente, la sensibilità e la specificità della
RMN sono risultate del 95% e del 96%, con una sovradiagnosi di segmenti stenosati del 3.1% e una
sottodiagnosi dell'1.6%.
Il commento a questo articolo:
I risultati della metanalisi sono ottimi: sensibilità e specificità molto alte pongono la RMN con
contrasto in vetta alle tecniche di imaging per la diagnosi e la stadiazione delle arteriopatie
periferiche, non fosse altro per la mancanza di effetti secondari che angiografia e TAC possiedono.
Bibliografia:
    •   Menke J and Larsen J. Meta-analysis: Accuracy of contrast-enhanced magnetic resonance
        angiography for assessing steno-occlusions in peripheral arterial disease. Annals of Internal
        Medicine 2010 Sep 7; 153:325

Emicrania e stroke emorragico
(British Medical Journal (BMJ))
Sappiamo che l'emicrania, soprattutto nella sua variante con aura, si associa ad effetti negativi
cardiovascolari e ad un aumento di stroke ischemico. Non è invece chiaro il rapporto che esiste tra
la patologia e lo stroke emorragico, per cui, utilizzando i dati del WHI (Women's Health Study), è
stata esaminata questa relazione.
Su circa 28.000 donne di età superiore a 45 anni e senza storia di stroke si sono identificate 5130
soggetti (18%) con storia di emicrania: di queste, 3612 hanno riferito di soffrire ancora di
emicrania, con una prevalenza di circa il 40% di emicrania con aura.
Durante il follow-up durato 14 anni si sono verificati 85 episodi di stroke emorragico: 15 donne
erano affette da emicrania e 70 no. Effettuando confronti, si è visto che le donne senza emicrania o
con emicrania senza aura non presentavano rischio aumentato di stroke, mentre quelle affette da
emicrania con aura avevano un rischio significativamente aumentato (Hazard Ratio 2.3).
Il commento a questo articolo:
Oltre ad altre patologie cardiovascolari, l'emicrania con aura si associa anche ad un incidenza
aumentata di stroke emorragico. L'unica cautela necessaria con cui interpretare questi risultati è
dovuta al fatto che la prevalenza dello stroke emorragico nella popolazione femminile è comunque
molto bassa, per cui occorrerebbero studi più ampi per confermare la relazione.
Bibliografia:
    •   Kurth T et al. Migraine and risk of haemorrhagic stroke in women: Prospective cohort study.
        BMJ 2010 Aug 24; 341:c3659

Probiotici nelle coliche infantili
(Pediatrics)
Un precedente studio del 2007, randomizzato ma non in cieco, ha affermato che l'uso del
Lactobacillus Reuteri ottiene migliori risultati del simeticone nelle coliche dei lattanti allattati al
seno.
Adesso è stato realizzato un altro studio, randomizzato, in doppio cieco, sponsorizzato dall'industria
farmaceutica, che ha esaminato 46 lattanti (età compresa tra 2 e 16 settimane) allattati al seno ed ha
calcolato la durata del pianto da coliche intestinali, somministrando 5 gocce di Lactobacillus
Reuteri oppure placebo una volta al giorno, al mattino, per 21 giorni consecutivi.
I lattanti sono stati reclutati consecutivamente in un singolo ospedale italiano. Al momento
dell'arruolamento tutti i lattanti piangevano per un periodo di almeno 180 minuti al giorno
(mediamente 300 minuti). Al ventunesimo giorno la percentuale di bambini che piangevano per
oltre 180 minuti al giorno (outcome primario) è stata significativamente minore nel gruppo trattato
con il probiotico (16% contro 57%).
Oltre alla diminuzione del pianto, l'uso del probiotico si è anche associato al miglioramento di altri
parametri, quali la diminuzione della presenza di Escherichia Coli o di ammonio nelle feci. La
crescita ponderale e la percentuale di stitichezza sono invece risultati simili nei due gruppi.
Il commento a questo articolo:
L'uso di probiotici nel lattante si accompagna a risultati positivi, anche se l'efficacia sul pianto da
coliche è stata dimostrata solamente nell'allattamento al seno. Non ci sono comunque pregiudiziali
sull'estendere il beneficio, almeno potenzialmente, anche ai lattanti alimentati artificialmente. Se
associamo il basso costo, la reperibilità del probiotico e l'assenza di effetti collaterali, non
sussistono motivi per il suo non utilizzo.
Bibliografia:
•   Savino F et al. Lactobacillus reuteri DSM 17938 in infantile colic: A randomized, double-
        blind, placebo-controlled trial. Pediatrics 2010 Sep; 126:e526

Nuovi criteri di classificazione per l'artrite reumatoide
(Arthritis & Rheumatism)
L'American College of Rheumatology e l'European League Against Rheumatism hanno
sviluppato assieme dei nuovi criteri di classificazione dell'artrite reumatoide, modificando quelli
precedentemente pubblicati (nel 1987).
Innanzi tutto un gruppo di lavoro ha esaminato i dati provenienti da ampi studi di coorte su
pazienti affetti da sinovite precoce, per individuare eventuali fattori predittivi ed eventuali
modificazioni prognostiche ottenibili con la terapia. In secondo luogo un gruppo di esperti della
malattia ha stabilito i fattori predittivi fondamentali.
In seguito a questi lavori è stata realizzata una nuova classificazione, che può essere applicata a
quei pazienti che presentano almeno un'articolazione affetta da sinovite non spiegabile da altre
cause note. I nuovi criteri classificativi si basano su quattro variabili:
    •   numero e dimensione delle articolazioni colpite (punti 0-5);
    •   positività del fattore reumatoide e degli anticorpi anticitrullina (punti 0-3);
    •   aumento della VES o della PCR (punti 1);
    •   durata dei sintomi maggiore di 6 settimane (punti 1).
Il punteggio massimo ottenibile è 10, e la diagnosi di artrite reumatoide può essere posta nei
pazienti che presentano un punteggio ≥ 6.
Il commento a questo articolo:
Lo scopo di questa classificazione è quello di poter individuare precocemente i soggetti affetti da
artrite reumatoide che esordisce con una semplice sinovite mono o pauciarticolare e che possono
essere trattati farmacologicamente al fine di arrestare l'evoluzione della malattia.
Bibliografia:
    •   Aletaha D et al. 2010 rheumatoid arthritis classification criteria: An American College of
        Rheumatology/European League Against Rheumatism collaborative initiative. Arthritis &
        Rheumatism 2010 Sep; 62:2569

Tiotropio nell'asma non controllato
(New England Journal of Medicine )
Quando la somministrazione di corticosteroidi inalatori non è sufficiente per controllare i sintomi
dell'asma, le linee-guida suggeriscono l'aumento della dose del cortisonico oppure l'aggiunta di un
β-agonista a lunga durata d'azione, mentre gli anticolinergici sono i farmaci di scelta nei pazienti
con BPCO.
Ci si è pertanto posti la domanda se questi ultimi prodotti possano ottenere benefici anche
nell'asma: con uno studio in doppio cieco, sponsorizzato dal NIH, randomizzato e con crossover,
210 adulti con asma non controllato dalla terapia abituale, trattati con beclometasone inalatorio
(80 μg due volte al giorno), sono stati trattati in sequenza con l'aggiunta di salmeterolo,
successivamente con l'aggiunta di un anticolinergico (tiotropio) oppure con il raddoppio della dose
del cortisonico.
La durata di ogni fase terapeutica è stata di 14 settimane. Sia il tiotropio sia il salmeterolo si sono
dimostrati migliori del cortisonico a dose doppia nel migliorare il picco espiratorio (outcome
primario), nel numero di giorni in cui l'asma è stato definito 'controllato', nel migliorare il FEV1 e
nel punteggio sintomatico giornaliero.
Il tiotropio si è dimostrato non inferiore al salmeterolo in tutti gli endpoint considerati ed ha
ottenuto un effetto migliore del salmeterolo sul FEV1. Anche se lo studio non ha considerato come
endpoint il numero di riacerbazioni dell'asma, vengono comunque riportate: 16 con il cortisonico
a dose doppia, 9 con il tiotropio e 5 con il salmeterolo.
Il commento a questo articolo:
Questo è il primo studio a dimostrare l'efficacia dell'anticolinergico anche nell'asma, ma rimane il
problema delle riacerbazioni (che costituiscono il problema maggiore dell'asma). Fino a che non
verranno stabilite nuove linee-guida, pertanto, la terapia ottimizzata dell'asma rimane la stessa:
corticosteroide in monoterapia e successivo raddoppio di dosaggio oppure aggiunta di β-agonista.
L'uso del tiotropio dovrebbe essere limitato, per ora, ai pazienti con intolleranza al β-agonista
oppure a quelli che non rispondono alla terapia tradizionale. Per il momento non esistono dati su
una terapia a tre farmaci nell'asma, per cui quanto proposto dalle linee-guida rimane valido.
Bibliografia:
    •   Peters SP et al. Tiotropium bromide step-up therapy for adults with uncontrolled asthma.
        NEJM 2010 Sep 19

Capacità fisica e mortalità
(British Medical Journal (BMJ))
In base ad un sempre maggiore numero di segnalazioni si è rafforzata la relazione esistente tra la
capacità fisica di eseguire compiti fisici giornalieri e lo stato futuro di buona salute, fino ad
arrivare ad un legame tra tale capacità e mortalità.
Con una review sistematica di studi clinici alcuni ricercatori hanno realizzato alcune metanalisi
analizzando l'associazione tra misure oggettive della capacità fisica e la mortalità precoce in diversi
studi. La maggior parte degli studi esaminati riguardava soggetti di oltre 60 anni, seguiti per un
periodo di 5-20 anni.
La metanalisi di 14 studi coinvolgenti 53.000 soggetti ha dimostrato che gli anziani nel quartile più
basso relativo alla forza della prensione manuale avevano una probabilità di decesso maggiore del
67% rispetto a quelli nel quartile più alto. Un'altra metanalisi di 5 studi riguardanti 15.000 soggetti
ha dimostrato che quelli nel quartile più basso relativo alla velocità di cammino avevano una
probabilità di decesso circa tre volte superiore rispetto a quelli nel quartile più alto.
Una metanalisi di 5 studi su 28.000 soggetti ha invece dimostrato che la lentezza nell'alzarsi dalla
sedia comportava una probabilità di decesso circa doppia, esaminando il quartile più basso rispetto
a quello più alto. Tutti i risultati delle varie metanalisi sono stati aggiustati per età, sesso e BMI.
Il commento a questo articolo:
Le tre misurazioni suddette della capacità fisica (forza di presa con le mani, velocità di cammino,
tempo di sollevamento da una sedia) sono correlate con la mortalità precoce, per lo meno negli
anziani di oltre 60 anni.
Quale sia il legame alla base di questa associazione non è chiaro, dal momento che i tre esercizi non
possono essere presi semplicemente come spia di buona salute. Possono esistere dei fattori di
confondimento che non sono stati esaminati (ad esempio la condizione socio-economica dei
partecipanti), ma, comunque sia, la valutazione di queste tre attività può essere utile nell'identificare
i soggetti anziani a rischio di decesso precoce (con tutte le dovute cautele del mettere in pratica
suggerimenti di questo tipo).
Bibliografia:
    •   Cooper R et al. Objectively measured physical capability levels and mortality: Systematic
        review and meta-analysis. BMJ 2010 Sep 9; 341:c4467

Cure palliative e qualità di vita
(New England Journal of Medicine )
Sappiamo che le cure palliative si applicano ai pazienti terminali quando la speranza di vita è
ridotta al minimo; ma quando inizia veramente questo stadio?
Con la convinzione che molti medici inviino i pazienti alle cure palliative troppo in ritardo, alcuni
ricercatori USA hanno esaminato gli effetti di tali cure qualora vengano iniziate immediatamente
dopo la diagnosi di cancro. Con uno studio randomizzato, 151 pazienti ambulatoriali con diagnosi
recente di cancro polmonare metastatizzato non microcitoma hanno ricevuto le solite cure standard
oncologiche; 77 di loro sono stati trattati anche con cure palliative.
Mediamente, sono state effettuate 4 visite presso servizi palliativi prima del decesso. Confrontati
con quelli che hanno ricevuto solamente le cure oncologiche standard, i pazienti del gruppo delle
cure palliative hanno avuto una sopravvivenza leggermente maggiore (11.6 mesi contro 8.9 mesi) e
mediante analisi multivariate (comprendenti età e funzionalità globale) si è visto che il ricorso
precoce alle cure palliative costituisce un fattore predittivo indipendente di sopravvivenza.
Tra i 107 pazienti in entrambi i gruppi che sono sopravvissuti almeno 12 settimane dalla diagnosi,
quelli trattati con cure palliative hanno riferito una qualità di vita significativamente migliore su
ognuna delle tre scale di valutazione adottate: hanno effettuato meno chemioterapie, meno accessi
ai dipartimenti di emergenza e con maggiore frequenza sono deceduti al proprio domicilio e non in
ospedale.
Il commento a questo articolo:
Le cure palliative dovrebbero diventare una regola nei pazienti cui venga riscontrata una neoplasia
maligna, e gli interrogativi da porsi sono molti: perché le cure palliative migliorano la qualità di
vita e allungano la sopravvivenza? Semplicemente per il controllo migliore del dolore?
Per il controllo della depressione da cancro? Perché evitano spesso interventi terapeutici più
dannosi che utili? Quali che siano le risposte, è indubbio che lo scopo del medico è quello di
assicurare una vita terminale di buona qualità e non un prolungamento ad oltranza della
sopravvivenza, a scapito del benessere psico-fisico.
Bibliografia:
    •   Temel JS et al. Early palliative care for patients with metastatic non-small-cell lung cancer.
        NEJM 2010 Aug 19; 363:733.
    •   Kelley AS and Meier DE. Palliative care -- A shifting paradigm. NEJM 2010 Aug 19;
        363:781

Artrite monoarticolare
(Archives of Internal Medicine)
E' stato sviluppato in Olanda un regolo diagnostico per la gotta, utilizzando i dati di 381 pazienti
consecutivi che si sono presentati al medico curante in quanto affetti da monoartrite.
Entro 24 ore dalla visita sono stati sottoposti ad artrocentesi, esame del liquido sinoviale per la
ricerca dei cristalli di urato monosodico (MSU), visita medica ed accertamenti di laboratorio. I
ricercatori, che non conoscevano la diagnosi del medico curante, hanno analizzato alcune variabili
diagnostiche mediante modelli di regressione; le variabili che erano fortemente associate alla
presenza di MSU sono state utilizzate per sviluppare un modello pratico predittivo, che comprende
7 variabili con un punteggio massimo di 13:
    Variabile        Puntegggio
Sesso maschile            2
Precedente
                          2
attacco di artrite
Insorgenza di 24
                         0,5
ore
Arrossamento
                          1
dell'articolazione
Coinvolgimento
della I
articolazione            2,5
metatarso-
falangea
Ipertensione
arteriosa con
almeno una
malattia
                         1,5
cardiovascolare,
compreso lo
scompenso
cardiaco
Uricemia > 5,88
                         3,5
mg/dl

I cristalli di MSU sono stati identificati in 216 pazienti (57%). La prevalenza di gotta è stata del
2.8% tra i pazienti con un punteggio ≤ 4 e dell'80% tra quelli con punteggio = 8. Gli autori
raccomandano che i pazienti con un punteggio ≥ 8 vengano trattati per gotta e che quelli con
punteggio compreso tra 4 e 8 effettuino un'artrocentesi e ricerca dei cristalli di MSU.
Il commento a questo articolo:
L'artrocentesi comporta sempre un rischio, anche se minimo, di infezione, per cui un algoritmo
che sia in grado di escludere con buona probabilità l'origine gottosa dell'artrite non può che essere il
benvenuto.
Bibliografia:
    •   Janssens HJEM et al. A diagnostic rule for acute gouty arthritis in primary care without joint
        fluid analysis. Archives of Internal Medicine 2010 Jul 12; 170:1120

Mammografia e mortalità specifica da cancro mammario
(New England Journal of Medicine )
Con una recente metanalisi realizzata dall'USPSTF (U.S. Preventive Services Task Force) si è
calcolato che lo screening mammografico in donne tra i 50 e i 69 anni abbassa la mortalità da
cancro mammario del 14% tra i 50 e i 60 anni e del 32% tra i 60 e i 69 anni. (Annals of Internal
Medicine 2009; 151:727).
Adesso alcuni ricercatori norvegesi hanno esaminato i dati in loro possesso relativi ad un
programma nazionale di screening per valutare l'efficacia dello screening in modo indipendente:
sono state confrontate le mortalità in quattro gruppi: donne che dal 1996 al 2005 vivevano in contee
dove lo screening veniva effettuato oppure no e donne che vivevano nelle stesse contee tra il 1986 e
il 1995 (ricordando che il 1996 è l'anno in cui la mammografia di screening è stata iniziata).
Tra le 40.075 donne cui è stato diagnosticato un cancro mammario tra il 1986 e il 2005 si sono
verificati 4.791 decessi. Nella fascia di età di 50-69 anni la mortalità nel gruppo dello screening è
stata più bassa di 7.2 decessi ogni 100.000 donne/anno e nel gruppo non sottoposto a screening è
stata più bassa di 4.8 decessi ogni 100.000 donne/anno, confrontata con il periodo precedente
l'inizio della mammografia.
La riduzione della mortalità nelle donne sottoposte a screening è stata solamente del 10% maggiore
rispetto a quelle non sottoposte, con una P=0.13 e la differenza di mortalità attribuibile allo
screening è stata di 2.4 decessi/100.000 donne/anno (circa un terzo della riduzione globale della
mortalità).
Il commento a questo articolo:
In base a questi dati, il beneficio in termini di riduzione della mortalità ottenibile con la
mammografia di screening è molto basso, ma i valori concordano con i risultati ottenuti con il
programma di screening nazionale in Inghilterra (BMJ 2000; 321:665).
La questione è controversa e complessa: c'è chi sostiene l'inutilità dello screening, chi invece
appoggia l'idea di potenziare i servizi preventivi. Per il momento possiamo solamente dire che con
la mammografia si ottiene una riduzione della mortalità specifica da cancro.
Bibliografia:
    •   Kalager M et al. Effect of screening mammography on breast-cancer mortality in Norway.
        NEJM 2010 Sep 23; 363:1203.
    •   Welch HG. Screening mammography -- A long run for a short slide? NEJM 2010 Sep 23;
        363:1276
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