6 NOVEMBRE 2018 - UFFICIO STAMPA - Libero Consorzio Comunale di Ragusa

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UFFICIO STAMPA

6 NOVEMBRE 2018
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Il dossier
Bilancio dei nubifragi

Dodici morti, danni per 300 milioni i due giorni
neri della Sicilia nel fango
In poche ore 20 centimetri di pioggia. Decine di paesi isolati, strade ko Le campagne in
ginocchio: compromessi i raccolti di agrumi, uva, olive

FRANCESCO PATANÈ GIORGIO RUTA

Il bilancio è tragico: dodici morti, un disperso, oltre trecento milioni di euro di danni, decine di comuni isolati.
Inutile girarci attorno: è un disastro. Sono bastati due giorni di maltempo per devastare la Sicilia. Agricoltura e viabilità
sono in ginocchio, ma anche i tanti cittadini che ancora spalano fango dalle loro case.
«Siamo scesi all’inferno.
Quando penso a quello che abbiamo vissuto sabato, stento a crederci. E ancora non so se si è salvato qualcosa dentro
l’azienda», racconta Giovanni, artigiano di Sciacca, stivali ai piedi e pala nelle mani.
Giovanni come tanti nella Sicilia che va sott’acqua: soltanto nel Palermitano sono caduti in poche ore 20 centimetri di
pioggia, quanto ne scende mediamente in un mese. In alcuni centri, come Palermo, i rilevatori ne hanno contato oltre 9
centimetri in una serata.
Strade devastate
In alcune zone dell’Isola è arrivato l’Esercito. Strade statali, provinciali e comunali coperte dal fango e spezzate dalle
frane. L’assessore regionale alle Infrastrutture, Marco Falcone, sulla sua scrivania ha una pila di richieste di intervento.
Calcolatrice alla mano, serviranno non meno di 100 milioni di euro per rimettere a posto la viabilità siciliana. L’Anas ha
già impegnato tre milioni per ripristinare urgentemente alcune arterie dell’Isola.
Rimangono chiuse la strada statale 118, all’altezza di Bolognetta, la 119 di Gibellina e un pezzo della 121 “Catanese”.
Nel cantiere della Palermo-Agrigento, l’azienda che sta facendo i lavori denuncia danni per oltre due milioni di euro ai
mezzi. L’acqua si è portata via tutto, bisognerà integrare il progetto per continuare l’opera. «La viabilità principale ma
anche quella secondaria e centinaia di strade poderali sono state seriamente danneggiate dal maltempo — commenta
Calogero Foti, responsabile della Protezione civile regionale — Ai cento milioni per le strade vanno poi aggiunti 50
milioni di euro necessari alla sistemazioni degli argini e degli alvei dei corsi d’acqua».
Paesi isolati
I dipendenti del Comune sono ancora al lavoro per aprire una strada: Campofelice di Fitalia è isolata, le due arterie che
la collegano al resto del mondo sono fuori uso, franate e coperte dal fango. «Ci è stato concesso per poche ore un
mezzo della ex Provincia che poi è andato via.
Siamo stati lasciati soli», urla il sindaco Pietro Aldegheri. A Corleone è arrivato il Genio militare per poter dare una via
d’uscita al paese, mentre continuano le ricerche per trovare il medico Giuseppe Liotta. Difficoltà anche nell’entroterra
agrigentino, proprio dove è morta una coppia: Cosimo Fustaino e la compagna tedesca Nikol sono stati travolti dal
fango tra Cammarata e Castronovo di Sicilia. Si contano i danni pure nel Palermitano: Marineo, Bolognetta,
Casteldaccia che piange i nove morti della villetta di contrada Dagale Cavallari, Vicari in cui ha perso la vita
l’imprenditore Alessandro Scavone. «Chiediamo un intervento immediato che sostenga gli amministratori siciliani nella
messa in sicurezza del territorio e nel ripristino dei collegamenti stradali», invoca l’Anci regionale.
Agricoltura in ginocchio
«Ovunque guardi vedo danni», dice sconsolato Ettore Pottino, presidente regionale di Confagricoltura, che stima «in
almeno un centinaio di milioni di euro il danno all’agricoltura in tutta la Sicilia: dall’uva nelle serre della zona di Canicattì
agli agrumeti del Catanese. Un disastro. Nella mia azienda sono rimasto bloccato per un giorno e mezzo perché l’unica
strada poderale era scomparsa». Danni alle colture ma anche alle infrastrutture e ai boschi. La zona più colpita è quella
dell’Agrigentino. Le olive ancora da raccogliere sono andate perse, a Ribera molti aranci sono stati ricoperti dal fango e
rischiano di morire. Ma soprattutto a preoccupare è la semina. «Qui ci sono oltre tremila ettari di terreni che rischiano
di non poter essere utilizzati, soprattutto quelli a valle. Servono settimane di caldo per farli asciugare e tentare la
semina», racconta Ignazio Gibiino di Coldiretti. A fine anno i conti non torneranno agli agricoltori, e neanche ai
braccianti che resteranno a casa per più giorni rispetto all’anno scorso.
Colpiti commercio e turismo
Non solo l’agricoltura. Negozi invasi dall’acqua, alberghi e bed & breakfast costretti a chiudere per i fiumi di fango.
Anche turismo e commercio sono stati colpiti dall’alluvione di sabato sera. La paura la ricordano ancora all’interno del
resort Verdura di Sciacca: i 350 ospiti della struttura di extralusso sono stati sgomberati perché l’acqua era entrata nelle
camere più basse. «I danni ammontano a oltre 600mila euro. E non parliamo del resto della città», racconta la sindaca
Francesca Valenti. Da una prima stima, solo a Sciacca ci vorranno 10 milioni di euro per tornare alla normalità.
Normalità che sogna anche Calogero Foti mentre guarda una foto scattata da un commerciante: il fango è tra gli
scaffali pieni di giocattoli.
«Manca poco a Natale, è disperato», dice il responsabile regionale della Protezione civile. A soffrire anche il settore
della logistica. Magazzini allagati e merce diventata invendibile, a meno di due mesi dalle festività, hanno gettato
nell’angoscia decine di imprenditori. Inutile girarci attorno: è un disastro.
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ATTUALITA                                                                                                        6/11/2018

Il dossier
La politica e il mattone selvaggio

Leggi, circolari, emendamenti quarant’anni di
aiuti agli abusivi
EMANUELE LAURIA

Gli interventi di parlamentari, governatori e sindaci a tutela delle case irregolari Musumeci: “ Denuncio chi parla di
sanatorie”. Ma il suo assessore lo ha già smentito
«Denuncerò per crimine contro l’umanità chi parla ancora di sanatoria. Adesso basta». Nella Sicilia del cemento
selvaggio dove si può morire ancora di pioggia, dove le lezioni di Giampilieri, Scalatta Zanclea e Saponara (trentuno
vittime) non sono servite a nulla, l’urlo di Nello Musumeci attraversa il lutto. Ma vibra, quell’anatema, con la forza di
una flebile speranza. Perché le parole del governatore non possono coprire decenni di proclami, atti e omissioni da
parte della politica siciliana di ogni colore, che hanno contributo a far proliferare gli abusi edilizi e devastare il territorio.
Se nell’Isola ventitremila costruzioni non sono a norma, se un metro cubo su due è illegale, la colpa non è del fato ma
di piccoli e grandi segnali di incoraggiamento al popolo del calcestruzzo. A vezzeggiarlo, in ultimo, è stato proprio un
assessore di Musumeci, Toto Cordaro, che nella primavera scorsa si premurò di difendere l’«abusivismo di
indispensabilità», ovvero l’elevazione al cubo dell’«abusivismo di necessità» tutelato nella campagna elettorale
dell’estate 2017 del candidato governatore Giancarlo Cancelleri. Un fedelissimo, quest’ultimo, del capo politico dei 5
Stelle Luigi Di Maio, lesto oggi ad attaccare «le amministrazioni di centrosinistra e centrodestra che hanno governato la
Sicilia negli ultimi 10 anni».
Parliamoci chiaro: chi oggi si batte il petto dimentica che le affettuosità nei confronti degli abusivi risalgono alla notte
dei tempi, ai sindaci comunisti di Vittoria (da Ciccio Aiello a Paolo Monello) che negli anni Ottanta fomentavano la
rivolta di piazza dei concittadini “costretti” ad abitare in case fuorilegge. Chi adesso piange, strepita, urla, fa finta di non
ricordare riaperture di vecchie pratiche, circolari ambigue macchiate di calcestruzzo, emendamenti pirata a polverose
leggi urbanistiche che hanno accompagnato soprattutto le stagioni pre-elettorali. L’ultima intemerata, nell’estate del
2016, la tentò l’ex sindaco di Trapani Girolamo Fazio, riproponendo all’Ars la sanatoria per chi ha costruito entro i 150
metri dalla battigia. La disposizione non fu mai approvata ma quell’emendamento - pensato per tutelare l’elettorato di
paesi come Alcamo Marina, dove 9 villette su dieci sono prive di licenza edilizia - divenne in un lampo arma di difesa di
altri e belligeranti proprietari di costruzioni non in regola: quelli di Licata, in quel tempo minacciati dalle ruspe inviate su
input della procura.
L’anno prima, alla vigilia delle amministrative, il governo Crocetta aveva fatto parlare di sé per una circolare che
rimetteva in pista 30mila domande presentate in Sicilia nel 2003, ai sensi della legge Berlusconi. Era il via libera alla
regolarizzazione di costruzioni sorte in aree soggette a vincolo di inedificabilità relativo: non quelle a ridosso del mare
ma territori protetti come le zone «Sic» e «Zps», come altri a rischio idrogeologico o sottoposti a tutela paesaggistica.
Quell’atto fu frettolosamente ritirato, fra le polemiche.
E quanti provvedimenti di «riordino delle coste» sono passati da Sala d’Ercole. Uno fra i più celebri, datato 2011, si
portò con sé il sospetto di voler favorire la moglie dell’allora governatore Raffaele Lombardo, proprietaria di una villetta
a Ispica. E si scoprì quasi subito che a firmare il disegno di legge incriminato c’era pure il deputato Mpa Paolo
Ruggirello, che aveva una casa abusiva a Marausa (poi abbattuta dall’interessato). Dieci anni prima, una norma analoga
che mirava a proteggere le case sulla battigia - sempre con l’obiettivo ufficiale di “difendere le coste” era stata
presentata dal governatore Totò Cuffaro e dal suo assessore Bartolo Pellegrino.
La storia dei favori agli abusivi, in Sicilia, è un’allegra narrazione di tentativi quasi sempre andati a vuoto. Ma anche di
trovate geniali, come quella dell’ex sindaco di Campobello di Mazara Ciro Calavà, scomparso l’anno scorso, che nel
2011, a pochi giorni dal voto per le Comunali, trovò la soluzione per chi abita le martoriate coste della sua zona: era
nascosta, spiegò, in un decreto del presidente della Regione Giummarra, datato 13 gennaio 1973. In forza di quell’atto
ammuffito Caravà poté annunciare in pompa magna la restituzione agli abusivi, in pochi giorni, di 800 case di Tre
Fontane e Torretta Granitola, luoghi dove le strade non hanno un nome ma una sigla. Restituzione che, ovviamente,
non avvenne mai.
Poco conta, d’altronde, che la sanatoria vada a buon fine. Basta l’annuncio, utile ad amministratori e deputati per
strizzare l’occhio a un bacino enorme di elettori, e contemporaneamente chiuderlo, l’occhio, davanti all’incedere del
cemento che negli ultimi trent’anni si è mangiato 65 chilometri di costa in Sicilia ed è dilagato accanto agli alvei di laghi
e fiumi. Per trovare i colpevoli delle ultime tragedie, Musumeci non deve rivolgersi alla Corte dell’Aja. Gli basterà
rileggere la storia siciliana degli ultimi anni.
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CRONACA                                                                                                     6/11/2018

Processo depistaggio strage Borsellino

Viminale contro i poliziotti alla sbarra
Il Ministero chiede 60 milioni di risarcimento, parte civile i familiari degli agenti uccisi

salvo palazzolo,

Dal nostro inviato
caltanissetta
« Sessanta milioni di euro, per danno all’immagine » . Il ministero dell’Interno rompe gli indugi e chiede un
risarcimento ai tre poliziotti accusati di avere avuto un ruolo determinante nel depistaggio delle indagini attorno alla
strage Borsellino.
Prima udienza del processo con sorpresa, perché fino ad oggi il ministero dell’Interno è stato solo dichiarato “
responsabile civile” per il danno causato dai tre imputati. Ma ora il Viminale prova a smarcarsi, con un intervento
dell’Avvocatura dello Stato, che ha anche presentato la richiesta di parte civile del ministero della Giustizia, « per il
danno subito dal reato di calunnia commesso dagli imputati».
Chiedono di costituirsi parte civile pure i familiari dei poliziotti uccisi con Paolo Borsellino, il superstite della strage,
Antonino Vullo, e il Comune di Palermo.
Insorge la difesa del dirigente Mario Bò: «Il ministero dell’Interno è responsabile civile per difendere i suoi uomini —
dice l’avvocato Nino Caleca — ci opponiamo alla costituzione di parte civile. Giusto invece che il ministero della
Giustizia sia parte civile, per la calunnia. Giusto che si costituiscano i familiari dei poliziotti, perché non sono nostri
avversari ». Il collegio del tribunale, presieduto da Francesco D’Arrigo, deciderà sulle questioni preliminari il 26
novembre. Un rinvio lungo, che non è piaciuto a Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice Paolo, che è parte civile nel
processo con i suoi fratelli: « Abbiamo già aspettato tanto — dice alla fine dell’udienza — vigileremo su questo
processo, perché tante persone ancora non vogliono cercarla la verità».
Nell’aula del tribunale di Caltanissetta ci sono i componenti del gruppo di indagine sulle stragi finito sotto accusa: gli
ispettori (oggi in pensione) Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, il dirigente Mario Bò. «Servitori dello Stato hanno
deviato il corso delle indagini », dice il procuratore aggiunto Gabriele Paci, accanto a lui c’è il procuratore capo
Amedeo Bertone.
All’udienza preliminare, i poliziotti sono rimasti in silenzio. Adesso, invece, annunciano che daranno battaglia. «
Nell’inchiesta sulla strage Borsellino non ci fu mai alcuna iniziativa autonoma della polizia » , ribadisce l’avvocato
Caleca presentando la lista dei testimoni chiamati a deporre. Bò fu responsabile del gruppo Falcone e Borsellino, ora
cita in aula i pubblici ministeri dell’allora procura di Caltanissetta: Fausto Cardella, Annamaria Palma, Carmelo Petralia,
Nino Di Matteo, Francesco Paolo Giordano, Roberto Saieva. E, poi, anche Ilda Boccassini, che per un certo periodo fu
applicata in Sicilia, ma poi andò via perché non credeva più alla collaborazione di Vincenzo Scarantino, il falso pentito
creato ad arte (da chi?).
Bò e gli altri due poliziotti in pensione sono imputati di calunnia, con l’aggravante di aver favorito l’organizzazione
mafiosa. Mentre un mafioso condannato in via definitiva, Gaetano Scotto, entra in aula da parte civile, come «parte
offesa» delle calunnie di Scarantino. Non perde un’udienza il boss dell’Arenella. Ieri, ha chiesto di costituirsi pure il
figlio di un altro capomafia, morto di recente, Salvatore Profeta, di Santa Maria di Gesù. Anche il figlio è in carcere per
mafia.
È davvero un processo molto particolare quello che sta per aprirsi. Un processo al cuore dei segreti di Stato.
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L’appello di Fiammetta: “Non perdiamo tempo prezioso
C’è ancora tanta gente che non vuole che si arrivi alla verità”
TROVALAVORO                                                                                                   6/11/2018

L’avviso

Regione, cento laureati per i tirocini retribuiti: il
bando entro l’anno
Marta Occhipinti

La commissione valuterà i titoli e il voto, ma peseranno il dottorato di ricerca e la lingua inglese
Tirocini alla Regione per neolaureati: parte l’accordo tra il governo Musumeci e i quattro atenei siciliani per
l’inserimento di giovani in esperienze di formazione della durata di un anno che saranno attivate già dall’inizio del 2019.
Dagli esperti in marketing aziendale e gli ingegneri, specializzati in ingegneria della sicurezza o gestionale, agli statistici
con conoscenze in politiche economiche e neolaureati in Economia esperti nell’analisi dei dati e nelle operazioni di
contabilità, l’amministrazione apre le porte dei suoi uffici anche ai neolaureati in architettura e ai geologi per rinforzare,
con giovani professionisti, il lavoro del personale nei suoi dipartimenti.
Sarà pubblicato entro dicembre dall’assessorato all’I-struzione e alla formazione professionale il bando per la selezione
di cento stagisti da inserire negli uffici regionali ritenuti più carenti di personale da parte dell’assessorato alla Funzione
pubblica.
I tirocini retribuiti avranno una durata minima di un anno e i laureati ammessi avranno la possibilità di lavorare a stretto
contatto con i dipendenti delle strutture regionali afferenti ai diversi dipartimenti regionali, dall’assessorato ai Beni
culturali a quelli di Economia e Infrastrutture e mobilità.
Potranno, infatti, presentare domanda al bando che sarà preparato dall’assessore Roberto Lagalla, i laureati nei corsi di
Ingegneria, Economia, Statistica, Giurisprudenza, Architettura e Geologia. Ma il governo guarda a lungo raggio con un
progetto di formazione che punta a ripetersi. Secondo la proposta, infatti, i tirocini saranno riproposti per più di un
anno. I calcoli parlano di trecento posti in tre anni, ma la fase di avviamento entro il 2018, garantisce percorsi di
formazione già a cento giovani laureati che verranno inseriti già entro il primo trimestre del prossimo anno nei
dipartimenti dell’amministrazione regionale con tirocini dai 12 ai 18 mesi, e retribuiti con una borsa da 20mila euro
l’anno.
La commissione tecnica, istituita tra Regione e docenti delle università, valuterà i titoli e il voto di laurea dei candidati,
ma peseranno anche come punteggio l’eventuale dottorato di ricerca, i percorsi specialistici di apprendimento e il livello
di conoscenza della lingua inglese.
I giovani ritenuti idonei inizieranno subito un tirocinio formativo universitario con una parte teorica di 120 ore da
svolgersi nei diversi dipartimenti degli atenei di Palermo, Catania, Messina e all’Università Kore di Enna.
A questi, seguirà una parte pratica, con il lavoro sul campo negli uffici della Regione per una durata di mille ore da
svolgersi entro l’anno.
L’apertura dei tirocini è un’azione di sostegno all’inserimento nel mondo del lavoro e un’intesa tra amministrazione e
Università che offre opportunità ai tirocinanti di acquisire competenze e conoscenze specifiche, tecniche e relazionali.
« Formiamo professionisti che scelgono poi di andare fuori dalla Sicilia – dice Fabrizio Micari, rettore dell’Università di
Palermo – con questa iniziativa, che abbracciamo con fiducia, vogliamo dare nuove prospettive, stavolta nell’Isola, ai
nostri laureati».
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La polemica

Condono Ischia, il Pd sfida i 5S " Cassatelo e
diremo sì al dl Genova"
Scontro sulla norma salva- abusi: non piace neanche alla Lega, ma è blindata dal patto
Salvini- Di Maio

tommaso ciriaco,

roma
Per quanto provino a negarlo, oppure a nasconderlo dietro capriole lessicali, il condono per Ischia voluto dal
Movimento per intervenire sugli edifici colpiti dal terremoto del 2017 torna come un incubo a tormentare Luigi Di
Maio. E rischia di danneggiare l’immagine dei cinquestelle. A peggiorare lo scontro politico contribuisce anche
l’emergenza maltempo, con le decine di vittime causate anche dal dissesto idrogeologico che rendono ancora più
evidenti i rischi di una nuova sanatoria. Tocca allora al Partito democratico sfidare i grillini. I dem chiedono di
cancellare al Senato la norma salva abusi approvata alla Camera e contenuta nel decreto per la ricostruzione del ponte di
Genova. In cambio, promettono, « approveremo in poche ore il dl » . Ma la maggioranza, almeno per il momento, non
arretra.
La sanatoria, a dire il vero, non piace neanche alla Lega. A lungo il Carroccio ha valutato di proporre modifiche al
Senato. Peccato che l’accordo stretto nelle scorse settimane tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini — e gli altri capitoli
dello scontro in corso tra alleati — abbiano consigliato, almeno per il momento, di soprassedere. È il Pd, allora, a
puntare il dito contro il meccanismo che consente di regolarizzare gli abusi edilizi per le case colpite dal sisma,
prendendo in prestito le maglie larghissime del condono varato nel 1985 dall’esecutivo di Bettino Craxi. Così almeno
denuncia Legambiente: « Vogliono sanare case a rischio idrogeologico».
La questione la solleva con forza pure Matteo Renzi. « Il nostro Paese è duramente provato dal maltempo — premette
l’ex premier — Tutti insieme vogliamo offrire massimo sostegno all’azione della Protezione civile e vicinanza alle
famiglie delle vittime. Rimane tuttavia un punto: l’Italia non ha bisogno di condoni, ma di un progetto contro il dissesto
del territorio » . Il senatore di Rignano rivendica il piano ultradecennale " Casa Italia", sotto la guida di Renzo Piano, e di
" Italiasicura", pensati dal suo esecutivo e da quello Gentiloni. «Noi abbiamo messo i soldi e attivato le strutture, il
nuovo esecutivo ha rifiutato i finanziamenti europei e sbaraccato il progetto » . Da qui la proposta ai gialloverdi affidata
all’ex capogruppo Ettore Rosato: se votate un emendamento che cancella il condono e ripristina Casa Italia, allora
sosteniamo il dl. «Il responsabile di questa tragedia non si chiama ambientalismo: si chiama abusivismo, abusivismo!».
Il Movimento, però, continua a negare la necessità di un ulteriore tagliando al testo a Palazzo Madama. E la Lega
sembra accontentarsi delle novità introdotte dall’aula di Montecitorio. Tra queste, il divieto di condonare chi è stato
condannato per criminalità organizzata o riciclaggio, nessun contributo per immobili danneggiati oggetto di un ordine di
demolizione impartito dal giudice e l’esclusione per abusi consumati dopo il 2003. Un palliativo, replica però il Pd, che
permetterà comunque di ricostruire con denaro dei contribuenti molti edifici danneggiati dal terremoto e che
necessitano di una sanatoria. «È evidente che se abbatti ti attiri le inimicizie di chi ha costruito abusivamente —
sottolinea Francesco Boccia — ma chi amministra la cosa pubblica deve prima pensare alla qualità della vita di tutti e
alla sicurezza dei cittadini». E Di Maio? Aveva promesso di prendere la tessera del Pd nel caso in cui avesse firmato
una proposta di condono. Le Iene gli hanno rinfacciato quell’impegno, consegnandogli l’iscrizione ai dem. « Oppure —
ha rilanciato l’inviato della trasmissione — si faccia quella del Psi».
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CRONACA                                                                                                       6/11/2018

Il retroscena
La lotta al dissesto idrogeologico

L’addio a Italiasicura e al miliardo europeo da
spendere subito
Smantellata la struttura del governo Renzi Costa: " I soldi ci sono". Ma da usare in tre anni

CORRADO ZUNINO,

ROMA
C’è un finanziamento della Banca europea per gli investimenti da un miliardo e 150 milioni. È stato chiesto, e ottenuto,
ai tempi di Renzi e di Italiasicura, struttura nata per affrontare il dissesto idrogeologico del Paese. Quel miliardo
abbondante serviva — esattamente — per intervenire su frane ed erosioni. Il ministro dell’Ambiente in carica, però,
non intende attivare il prestito europeo praticamente pronto. «In questa fase i soldi li abbiamo all’interno», ha detto
Costa ieri a "Repubblica". Il suo esecutivo Italiasicura l’ha chiusa. E ora non vuole usarne il lavoro compiuto e le
risorse trovate.
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, dopo aver sorvolato domenica scorsa la tragedia di Casteldaccia, aveva
assicurato che nella cassaforte del ministero dell’Ambiente un miliardo già c’era e che quello si spenderà. In verità — e
Costa lo ha poi dettagliato — il miliardo sono 900 milioni e si potranno investire sul territorio solo in tre anni. Il miliardo
e 150 milioni della Bei poteva essere speso subito, tutto.
Ci sono, pronti, 514 progetti di consolidamento e difesa in dieci regioni del Centro-Nord e due province autonome. Non
diventano cantiere, però. Solo in Emilia Romagna sono 91 i lavori individuati: 5,8 milioni servivano per la cassa
d’espansione del Fiume Reno a Bagnetto, provincia di Bologna, 3,6 milioni per la mitigazione del rischio da valanga a
Monchio delle Corti, alture della provincia di Parma. Ecco, quei 514 progetti sono stati messi a punto in quattro
stagioni da Italiasicura, l’occhiuto ministero delle Finanze aveva concesso i soldi a garanzia per ottenere il prestito Bei
(sono il tesoretto per gli eventi catastrofici, proprio i 900 milioni oggi in mano al ministero). La vecchia struttura di
missione si era anche accordata con Regioni e Province autonome, «ma con il governo Gentiloni siamo arrivati a
ridosso delle elezioni del 4 marzo e il premier ha preferito lasciare che fosse il successivo governo a chiedere il
prestito». Lega e 5 Stelle hanno vinto, lo scorso primo giugno hanno giurato, ma uno dei primi atti è stata la
cancellazione di Italiasicura e l’abbandono della richiesta del mutuo al tasso dello 0,75 per cento.
«Non ne abbiamo bisogno», ha detto il ministro-generale. E i suoi uffici ora sottolineano: «Abbiamo voluto rivedere i
progetti, regione per regione. Non è detto che tra due mesi non lo richiederemo». Sì, l’Ambiente ha appena chiuso un
accordo con il Friuli Venezia Giulia sugli interventi per il dissesto: 60 milioni in tre anni. A breve toccherà al Veneto:
159 milioni. Giovedì sul tema ci sarà la Conferenza Stato-Regioni. «Dopo due anni alcuni progetti potrebbero non
essere più attuali». Ricontrollare tutto porta via tempo, però: sono già nove mesi dalle elezioni e nel frattempo i morti
sotto gli alberi sradicati dal vento, la mareggiata del secolo in Liguria, la tragedia del villino nel Palermitano.
Mauro Grassi, già direttore di Italiasicura, dice: «Questo governo si accontenta di spendere trecento milioni l’anno sulla
prevenzione, noi avevamo provato ad alzare il finanziamento a un miliardo. Ne servirebbero tre l’anno, in verità, dieci
volte gli investimenti del ministro Costa».
Grassi ricorda che Italiasicura era nata per superare i meccanismi farraginosi della burocrazia ministeriale: «Quando è
stata insediata alla presidenza del Consiglio aveva più potere dell’attuale ministero. Molte risorse, anche oggi, non sono
in mano al dicastero dell’Ambiente, piuttosto affidate all’Agenzia di coesione, all’Autorità di distretto.
Eravamo riusciti a dare omogeneità al sistema finanziario, reggevamo le fila di 3.600 enti e costavamo poco. Una
dozzina di persone, di cui dieci prelevate da altri enti statali». Nei suoi quattro anni di vita, la struttura ha radunato e
girato alle Regioni 7,2 miliardi.
Dal ministero replicano: «Dare un miliardol’anno a Regioni e Comuni vuol dire non spenderli.
Avrebbero bisogno di assumere altro personale. Andiamo avanti con i 300 milioni interni».
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Bruxelles contro Roma

"Se scatta la procedura Ue manovra bis da 18
miliardi"
Ultimatum di Eurogruppo e Commissione all’Italia: sette giorni per correggere la legge di
Bilancio. Moscovici: " Tria ha capito che deve cambiare". Il ministro: no a compromessi

Alberto D’Argenio,

Dal nostro corrispondente
Bruxelles
Quando i fotografi entrano in sala per immortalare il consueto giro di tavolo dei ministri, tutti gli obiettivi si accalcano
intorno a Giovanni Tria. Il titolare del Tesoro reagisce con imbarazzo fino a quando è il collega greco, Euclid
Tsakalotos, a strappargli un ( amaro) sorriso: «Una volta ero io il loro bersaglio». Si apre così, con gli occhi minacciosi
di tutto il continente puntati, il secondo processo che il responsabile delle finanze dei giallo- verdi deve subire
all’Eurogruppo. Ma questa volta la sentenza è vicina. E sarà durissima. Come faceva capire il commissario europeo,
Pierre Moscovici, dopo la bilaterale con Tria: «Penso che abbia compreso la necessità di agire nel quadro delle regole
europee». I partner della zona euro e la Commissione, insomma, sperano ancora che l’Italia cambi la manovra, ma
intanto, perché non ci siano dubbi, spiegano a Tria cosa accadrà se il suo governo ignorerà l’ultimatum del 13
novembre per abbassare deficit e debito nel 2019. Tuttavia in serata, stretto dai vicepremier, Tria deve affermare: «Non
c’è né scontro né compromesso, la manovra non cambia».
Tutti compatti dunque a Bruxelles, con i ministri degli altri 18 soci della moneta unica che «appoggiano la Commissione
e invitano l’Italia a presentare un nuovo budget per il 2019 che rassicuri partner e mercati » , riassumeva in serata il
presidente dell’Eurogruppo, il portoghese Mario Centeno. D’altra parte dal tedesco Olaf Scholz («chi ha il debito alto
deve agire con cautela ») al francese Bruno Le Maire («in gioco c’è l’euro » ), nessuno aveva dubbi. Anzi, l’austriaco
Hartwig Loeger parlava di «stupore generale » per l’atteggiamento italiano. Fonti del Tesoro ieri a Bruxelles spiegavano
che nel chiuso dei lavori Tria ha difeso la manovra, ma ha cercato di aprire un dialogo che porti a un «compromesso».
Difficile da trovare se l’Italia entro sette giorni non arretrerà sul deficit. Insomma, entrambe le parti si appellano al
dialogo, giusto per addossare all’altra la futura rottura. Tanto che in serata fonti comunitarie escludevano qualsiasi
forma di negoziato. Più probabile che si tratti una soluzione soft, una procedura Ue che non faccia volare lo spread e
possa essere, indicavano fonti Ue, «accettabile» per tutti. D’altra parte se è vero che Bruxelles è pronta a non contare
nel deficit i soldi spesi per Genova e alluvioni, questo tipo di flessibilità non basterà a far rientrare la manovra italiana
nelle regole dell’eurozona. Anche di questo hanno parlato Moscovici e Tria, con il commissario che ha ricordato al
ministro le conseguenze della procedura Ue, mosso dal sospetto che a Roma non tutti le abbiamo ben comprese. Il
francese e il suo staff hanno confermato alla delegazione italiana che in assenza di novità il 21 novembre Bruxelles
lancerà la procedura che il 22 gennaio sarà operativa con il voto dei ministri europei. Inoltre hanno confermato che la
Ue potrebbe chiedere il rispetto della regola del debito, ovvero manovre correttive da 60 miliardi all’anno, ma che per
non devastare l’Italia sceglierà vincoli meno pesanti, come il raggiungimento del pareggio di bilancio, in un percorso
almeno di 5 anni. Ma non sarebbe un compito leggero, visto che il governo già nel primo semestre del 2019, in piena
campagna elettorale, dovrebbe mettere mano a una manovra bis da almeno 18 miliardi di euro, se non superiore, per
centrare quell’ 1,6% di deficit concordato a settembre. Uno spauracchio per Tria, che vuole tempi più lunghi per
evitare che a poche settimane dal voto si consumi lo scontro finale tra Roma e Bruxelles a colpi di sanzioni e rifiuto del
governo di pagarle. In questo clima non aiutava l’ennesima polemica tra Moscovici e il governo. Ieri il francese ha
affermato che in Italia con Di Maio e Salvini (accusato di xenofobia e nazionalismo) c’è un clima da «democrazia
illiberale». Pronta la risposta di Di Maio: «È in campagna elettorale ». Ma in serata Moscovici ricordava: « Non mi
candiderò alle europee, come commissario agisco in totale imparzialità sui conti ma come cittadino combatto per le mie
opinioni». E agli amici confidava: «È un paradosso, sono attaccato dagli italiani quando in Commissione sono quello
che difende Roma».
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Il retroscena
L’offerta a Bruxelles

Quattro miliardi di incassi futuri ultima carta di
Tria
Il ministro chiederà la "retroazione" per ridurre il deficit/Pil a 2,1-2,2%

ROBERTO PETRINI,

ROMA
Una corsa contro il tempo e una disperata ricerca di un compromesso. Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria,
giocherà nei prossimi giorni le sue ultime carte, stretto tra le richieste ultimative dell’Europa e le pressioni dei gialloverdi
per non tradire il "contratto".
Il test parlamentare comincia oggi, con l’avvio dell’iter dei 108 articoli della manovra in Commissione Bilancio della
Camera, poi le audizioni, da Bankitalia alla Corte dei Conti all’Upb, ed entro martedì della prossima settimana la
"riscrittura" della manovra.
In verità, nel mezzo delle polemiche dei leader gialloverdi, Tria ha già tentato dei piccoli passi in avanti. Ad esempio
sulla scalettatura del deficit-Pil: a fine settembre era stato annunciato al 2,4 per cento per tre anni, con conseguente
festeggiamenti dal balcone di Palazzo Chigi, poi il 3 ottobre, la nota di aggiornamento al Def ridimensionò il 2020 al 2,1
e il 2021 all’1,8 per cento. Un ritocco che Bruxelles non prese neanche in considerazione e rinviò al mittente. Ma
comunque un tentativo di moderazione.
Ora la partita che il ministro sta giocando si chiama "retroazione".
La formula è pressoché sconosciuta ma figura già nella lettera che il Tesoro ha inviato a Bruxelles il 22 ottobre scorso.
Tria avverte, in buona sostanza, che, come ha detto alla Giornata del risparmio nei giorni scorsi, il tetto del deficit al
2,4 per cento, fissato nei documenti italiani, corrisponde ad una crescita del solo 0,9 per cento del Pil. Di conseguenza,
nella prospettiva del Tesoro, visto che l’obiettivo fissato di crescita del Pil è ben maggiore, cioè dell’1,5 per cento, il
deficit potrebbe diminuire e finire l’anno al 2,1-2,2 per cento. Perché questo effetto non si vede dai conti? Perché la
"retroazione", cioè le maggiori entrate dovute ad un Pil più elevato, circa 4 miliardi, di solito vengono rilevate a
consuntivo, dunque nel marzo del 2020 mentre il Tesoro invita a considerarle "incassate" fin da oggi. Naturalmente
questo ragionamento non scavalca le obiezioni di una crescita minore rispetto alle tendenze internazionali (che stanno
intorno all’1 per cento) e continua a contare su una manovra che avrà un effetto espansivo sul Pil. Ma la cifra della
"retroazione" potrebbe tornare utile se messa nero su bianco.
L’altra mossa che l’Italia sta tentando di porre sul tavolo per raffreddare le tensioni di Bruxelles e dei mercati è quella
dello scorporo dalla manovra delle due misure chiave, pensioni e reddito di cittadinanza: il testo della legge di Bilancio,
come è ormai noto, contiene le risorse, circa 16 miliardi in una specie di "fondo globale" con titolo, ma le "congela"
perché non ci sono le norme. Tant’è che Di Maio, per rassicurare l’elettorato, ha parlato di un decreto a Natale e
Giorgetti dell’arrivo di provvedimenti, presumibilmente "collegati" alla Finanziaria, dopo l’approvazione della stessa
legge di Bilancio. Di fatto si guadagna tempo, favorendo lo slittamento dell’entrata in vigore nei primi mesi dell’anno, si
ha più spazio per definire con precisione platee e criteri e si lascia comunque la porta aperta a qualsiasi altra evenienza
perché la manovra non esclude che le risorse non utilizzate possano essere destinate a riduzione del disavanzo, la
cosiddetta clausola salva-deficit.
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L’analisi
Ricette a confronto

Di Maio sogna l’Italia a stelle e strisce ma
dimentica investimenti e tasse
MARCO RUFFOLO,

ROMA
Italia a stelle e strisce. Dalle pagine del Financial Times, il vicepremier Luigi Di Maio indica il nostro Paese come la
nazione apripista in Europa della politica economica di Donald Trump, la sola che può garantirci una crescita sostenuta,
la sola che può liberarci dal giogo insopportabile dell’austerità.
«L’economia americana — dice Di Maio — sta crescendo del 4% grazie alle politiche espansive del presidente
americano, che tutti ritengono sbagliate: aumento del deficit, taglio delle tasse e investimenti in infrastrutture».
L’Italia oggi non fa altro che importare questo modello con una manovra che diventerà «una ricetta per tutti gli altri
Paesi europei».
Di Maio trova dunque una sostanziale analogia tra il piano espansivo americano e la manovra italiana. Ma è veramente
così? La detassazione decisa da Trump, indipendentemente dall’aumento delle disuguaglianze che sta creando, è
soprattutto un poderoso alleggerimento fiscale per le imprese, che hanno visto le tasse scendere dal 35 al 21%. Che
cosa c’è di analogo nella manovra del governo gialloverde? Nulla.
Anzi, a conti fatti, il saldo fiscale per le imprese sarà probabilmente negativo per qualche miliardo.
Infatti, ai vantaggi offerti dal forfait agli autonomi e dalla mini-Ires per chi reinveste gli utili, si accompagnano i costi
molti più sostanziosi dovuti all’abolizione degli sconti per chi si ripatrimonializza (Ace e Iri) e al dimezzamento degli
incentivi di Industria 4.0. Del resto è lo stesso governo ad ammettere che la pressione fiscale complessiva resterà
inchiodata al 41,8%.
Un analogo squilibrio emerge quando confrontiamo il piano di investimenti pubblici deciso da Trump con quello
italiano. Il primo è una iniezione di fondi per 200 miliardi di dollari che dovrebbe stimolare investimenti in infrastrutture
per 1.700. Il secondo è un impegno che pesa solo per un decimo dell’intera manovra.
Insomma, il nostro governo, avendo puntato quasi tutto sull’aumento della spesa corrente (reddito di cittadinanza e
pensioni) non taglia affatto le tasse e destina solo pochi spiccioli agli investimenti, ossia ignora proprio quegli strumenti
che Di Maio indica come i più potenti moltiplicatori di reddito.
Ma anche a prescindere dalla composizione della manovra, resta un interrogativo di fondo: in che misura l’Italia può
imitare gli Usa nella creazione di deficit e debito?
Il disavanzo federale (malgrado le rassicurazioni di Trump sulla capacità della sua manovra di autofinanziarsi) è salito in
un anno a 779 miliardi di dollari (quasi il 4% del Pil) e salirà oltre i mille nel 2020, secondo l’Ufficio di bilancio del
Congresso. «Ma gli Stati Uniti se lo possono permettere — spiega Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio conti
pubblici italiani — il dollaro è una valuta di riserva mondiale, tutto il mondo preferisce investire in titoli di Stato
americani. Noi non abbiamo questo vantaggio. Dunque, quando sale il debito pubblico Usa, il loro spread non cresce,
mentre il contrario avviene quando sale il nostro».
Non è la prima volta, del resto, che l’Italia si imbarca in una operazione espansiva senza badare ai vincoli di bilancio.
«Tra il 2001 e il 2005 — ricorda Enrico Giovannini, ex presidente dell’Istat — il governo Berlusconi aumentò le spese
correnti e ridusse le tasse col risultato che l’avanzo primario si azzerò e il debito riesplose. E quando arrivò la crisi nel
2008, ci sorprese con le ginocchia molli. La beffa fu che quei tagli di tasse, distribuiti nel tempo, non furono neppure
sentiti in modo proficuo dalle famiglie».
Insomma, i margini a disposizione dell’Italia sono sempre stati esigui, stretto il sentiero che si snoda tra il sesto grado
dell’austerità e il burrone di una nuova crisi finanziaria. Difficile pretendere di allargare quel sentiero unilateralmente
come se il macigno del debito non esistesse.
«Ci faremo un tatuaggio — promette Di Maio — per spiegare alla comunità finanziaria che non vogliamo lasciare
l’eurozona, quando lo capirà lo spread scenderà». E in controtendenza rispetto a quanto sta succedendo oltre
l’Atlantico, dove lo stesso Trump ha dovuto ingoiare il rospo di un deficit galoppante, il vicepremier grillino conclude:
«Possiamo ampiamente ridurre il debito pubblico con una manovra espansiva».
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Il vicepremier ha rilasciato un’intervista al quotidiano della City nella quale parla della "ricetta" italiana per uscire dalle
politiche di austerity
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Le spine del governo

Prescrizione, scontro totale M5S- Lega
Muro di Salvini sullo stop dopo il primo grado voluto dai grillini: "Così processi infiniti, per
noi è inaccettabile" Verso la fiducia al Senato sulla sicurezza. I dissidenti dei 5Stelle
usciranno dall’aula. Nugnes: " Non va giù a tanti"

Annalisa Cuzzocrea Liana Milella,

Roma
S’incrociano i destini del decreto sicurezza e della prescrizione. E procurano scintille. Il primo, al Senato, marcia ormai
verso la fiducia. Che dovrebbe essere annunciata già stamattina, sulla base di un maxi- emendamento costato oltre una
giornata di lavoro, che però non accoglie le richieste " umanitarie" dei dissidenti grillini. Ben più a rischio, alla Camera,
la prescrizione, dove M5S e Lega sono fermi al muro contro muro.
Il Guardasigilli Alfonso Bonafede, in una riunione al Ministero con i relatori del disegno di legge anti- corruzione e i
leghisti interessati, ha chiarito: « Il Paese non può più aspettare, la norma è lì e da lì non si può muovere » . Il deputato
Igor Iezzi gli ha replicato, a nome del Carroccio, che si tratta di una proposta « inaccettabile » e che bisogna stralciarla.
Bonafede insiste, ricorda le vittime di stragi in attesa di giustizia, spiega che il blocco si applicherà solo ai nuovi reati,
per cui prima di vederlo operativo passeranno almeno tre anni. Nel frattempo lui conta di cambiare il processo penale,
di cui la prescrizione sarà « la cornice » . Niente da fare. I leghisti non si convincono.
Ma i relatori M5S mantengono l’emendamento tale e quale ( prescrizione bloccata dopo il primo grado) e lo
ripropongono nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia con un escamotage per superare il pericolo della non
ammissibilità: il titolo dell’intera legge, oltre che parlare di " corruzione", parlerà anche di " prescrizione". Quando il
foglietto arriva a Montecitorio, nella sala del Mappamondo esplode la collera leghista. Ancora Iezzi ribadisce a favore di
telecamere che « serve una legge ad hoc, non si può ottenere una riforma con un emendamento di solo tre righe cui è
stato cambiato il titolo... ». Lo sostiene Salvini dall’Africa: « La legge si può fare, ma i processi infiniti sono
inaccettabili » .
La battaglia si incrocia a quanto sta accadendo al Senato. A ora di pranzo a Palazzo Madama arriva il ministro per i
Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro: c’è aria di fiducia, fatta filtrare da Palazzo Chigi. Ma è lo stesso premier
Giuseppe Conte a frenare dall’Algeria: « Decideremo domani » . L’aula viene sospesa. Il Pd insorge: « È un mercato
delle vacche » !. Le opposioni tuonano contro una decisione che va contro quanto previsto: voto sugli emendamenti,
seduta notturna. « Il governo dica cosa vuole fare! » , è la richiesta del capogruppo pd Marcucci. Ma i vertici M5S
prendono tempo: la pistola dei dissidenti grillini pronti a votare contro la maggioranza negli scrutini segreti viene tenuta
carica per ottenere qualcosa sull’altro tavolo. Non funziona però, ed è lo stesso capo politico Luigi Di Maio a spiegare
dalla Cina il senso della fiducia. Dicendo però di aspettarsi « altrettanta lealtà sulla prescrizione e sullo spazzacorrotti ».
La verità, come dice in un capannello il senatore Elio Lannutti, è che i 5 stelle non potevano permettersi di far passare il
decreto grazie ai voti di Fratelli d’Italia e forse anche di Forza Italia, apparendo una sorta di costola del centrodestra.
Quello che il M5S chiede ora è che la Lega bocci tutti i suoi emendamenti al ddl Bonafede, come ha fatto il Movimento
al Senato con quelli presentati dai suoi " irriducibili". Anche perché, la trattativa in extremis per far entrare nel
maxiemendamento almeno qualche modifica sulla protezione umanitaria e sui minori, cui garantire un sistema di piccola
accoglienza, non è andata a buon fine. La senatrice Paola Nugnes parla di « un decreto ostico a tutti » , dice « non lo
voterei neanche se fossi leghista » , ma sul voto di fiducia uscirà dall’aula. Come Matteo Mantero, Elena Fattori ( «
Anche se dicessero: " Vi crocifiggiamo", non possiamo votare una legge contro i diritti umani » ) e forse Gregorio De
Falco, che minacciato di espulsione da Stefano Buffagni ha replicato accusando il sottosegretario di « superficialità
criminale » . Se uscissero dall’aula, l’espulsione non sarebbe affatto scontata. Anzi. Ai 5 stelle non conviene mandar
via nessuno. Al Senato la maggioranza ha sei voti di scarto, più quattro del gruppo misto. E sul tavolo dei probiviri
M5S, è già pronta l’esulsione del senatore No Tap Saverio De Bonis: avrebbe nascosto una condanna della Corte dei
Conti e due prescrizioni. Per il Movimento è fuori.
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ANSA
Dissidenti in aula
Gregorio De Falco e Paola Nugnes, senatori dei 5Stelle, ieri a Palazzo Madama
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Il documento

Il costruttore Parnasi "Pagai il Carroccio per fare
affari al Nord"
Negli atti dell’inchiesta sullo stadio della Roma ammissioni sui soldi alle fondazioni di Pd e
Lega. E spuntano fondi a Fratelli d’Italia

francesco salvatore giuseppe scarpa,

roma
Finanziare il Pd tramite Eyu e la Lega tramite Più Voci. Ci gira intorno a lungo il costruttore Luca Parnasi, arrestato a
giugno nell’ambito dell’inchiesta sullo Stadio della Roma, ma alla fine, messo alle strette dai pm cede ammettendo che
sono due situazioni molto simili, che "non c’è differenza". Negli atti depositati con la chiusura indagini del primo filone
dell’inchiesta sullo stadio, Parnasi parla a lungo dei finanziamenti alle fondazioni e ai partiti. Pagine e pagine di verbali in
cui i nomi dei protagonisti sono omissati: quella parte dell’indagine, che vede indagati il tesoriere del Pd Francesco
Bonifazi e quello della Lega Giulio Centemero, va ancora avanti.
Il 27 giugno il costruttore accusato di corruzione è seduto davanti al procuratore aggiunto Paolo Ielo, al sostituto
Barbara Zuin e a due ufficiali del nucleo investigativo di Roma che hanno svolto le indagini. I magistrati gli chiedono
perché avesse deciso di elargire 250mila euro alla fondazione "Più Voci", vicina al Carroccio. « La vera ragione -
risponde l’immobiliarista - è perché io volevo crescere nei rapporti imprenditoriali all’interno del Nord Italia attraverso
questa…( fondazione ndr). Alla cena famosa che organizzarono a Milano venne il candidato Stefano Parisi, che io
conobbi lì, quindi il mio interesse era sicuramente sostenere un’associazione vicina al mondo della Lega per
accreditarmi all’interno di quella realtà. Non c’è dubbio».
Non solo la Lega. È lo stesso Parnasi a raccontare di avere finanziato direttamente anche Fratelli d’Italia: anno 2018, è
lui a parlarne nella memoria. I pm gli chiedono se il denaro sia stato versato in maniera legittima. « Io non lo so perché
sono tutte cose che seguiva il mio ufficio... può essere che i miei abbiano fatto qualche manchevolezza per inesperienza
».
Il costruttore giocava su più tavoli. Per cui, oltre alla destra, strizzava l’occhio anche alla sinistra: così si spiegano i
soldi versati a Eyu. Centocinquantamila euro per un opuscoletto che, per stessa ammissione di Parnasi, « boh, saranno
50 o 100 pagine » . L’aggiunto Ielo, chiede, ironico: «Quindi lei ha pagato 150mila euro per 100 pagine? Non è forse
un modo per far arrivare soldi al Pd? » . Il costruttore, secco, risponde: « Esattamente » . Un servizio che, insomma,
Parnasi paga profumatamente. Tanto che, appena un mese fa, sentito di nuovo dai magistrati, sarà lui a dire: « Non ho
mai nemmeno visto il volume acquistato da Eyu, non me ne sono interessato e non so se sia stato consegnato o
meno». Non male per un opuscoletto così prezioso.
Non solo soldi. A Parnasi interessava avere sempre un amico nella camera dei bottoni. Il suo gruppo cerca anche di
avvicinare l’attuale ministro del Lavoro e capo politico del movimento Cinquestelle Luigi Di Maio. Annotano i
carabinieri di via in Selci in un’informativa dell’aprile 2017: " Giulio ( utenza Parsitalia, una delle società di Parnasi),
chiama Luca Caporilli(collaboratore dell’imprenditore), dicendogli che Di Maio lo ha chiamato adesso, gli ha mandato
un messaggio per dirgli che sta dentro con il vicesindaco e l’assessore e sono tutti lì a discutere e l’indicazione è di
chiudere la Conferenza dei Servizi".
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La vera ragione di quei finanziamenti è che volevo crescere nei rapporti imprenditoriali Tra i soldi ai dem e questi non
c’è differenza
LANDI/ FOTOGRAMMA
Il costruttore
Luca Parnasi, 41 anni, fu arrestato il 13 giugno nell’ambito dell’inchiesta sullo stadio della Roma. Era a capo della
società che doveva realizzare l’impianto
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Atto di fine indagini della procura di Torino

" Vilipendio". Il leader leghista rischia il
processo
Nel 2016 Salvini definì "una schifezza" la magistratura. Spataro ha dovuto sollecitare quattro
volte il governo per poter procedere

sarah martinenghi,

Torino
Era tutto pronto da due anni e mezzo. Ma ci sono voluti quattro solleciti al ministero di Giustizia e 30 mesi di tempo per
poter notificare all’attuale ministro dell’interno Matteo Salvini la chiusura dell’inchiesta nei suoi confronti. Per la
Procura di Torino, Salvini ha offeso la magistratura definendola una "schifezza", il 14 febbraio 2016. È vilipendio
dunque il reato che il procuratore capo Armando Spataro gli contesta con un atto che di norma precede la richiesta di
rinvio a giudizio. L’inchiesta è stata chiusa solo dopo l’ok del ministro Alfonso Bonafede che a ottobre ha firmato
l’autorizzazione a procedere che tante volte Spataro aveva sollecitato al suo predecessore Andrea Orlando.
L’atto che nei giorni scorsi è partito dal settimo piano della procura torinese con destinatario Salvini rappresenta anche
uno degli ultimi procedimenti firmati da Spataro, prossimo alla pensione, che ha voluto chiudere la sua carriera
siglando, dieci giorni fa, quasi in contemporanea, un accordo dalla valenza anche politica, aprendo le porte del
Palagiustizia ai migranti che, come volontari, daranno una mano nelle cancellerie: « È impensabile immaginare
l’immigrato come un peso di cui sbarazzarsi» aveva spiegato il magistrato.
La frase incriminata Matteo Salvini l’aveva invece pronunciata, nel 2016, quando era europarlamentare, in un
congresso della Lega a Collegno, cittadina alle porte di Torino. Erano i giorni del rinvio a giudizio dell’inchiesta sulle
spese " pazze" dei politici liguri, e tra gli indagati c’era l’attuale viceministro ai Trasporti Edoardo Rixi, all’epoca
vicesegretario nazionale della Lega: in un impeto di solidarietà al suo uomo di fiducia, Salvini era scivolato nelle offese
alla magistratura. La Digos di Milano si era occupata delle indagini: un video immortalava il leader del Carroccio che
diceva « Se so che qualcuno, nella Lega, sbaglia, sono il primo a prenderlo a calci nel culo e a sbatterlo fuori. Ma Rixi è
un fratello e lo difenderò fino all’ultimo da quella schifezza che è la magistratura italiana » . La competenza territoriale
aveva portato la Procura di Torino ad aprire un fascicolo che Spataro aveva voluto seguire di persona. L’indagine,
dunque, nei fatti conclusa rapidamente, era ferma al palo in attesa di un via libera da Roma arrivato solo il 9 ottobre,
quando Bonafede (destinatario dell’ultimo sollecito di Spataro) ha annunciato su Facebook di aver firmato nove
richieste di autorizzazioni a procedere, tra cui quella per Salvini.
La notifica della chiusura dell’inchiesta per vilipendio dell’ordine giudiziario, punito con una multa da mille a 5 mila
euro, non deve aver colto di sorpresa più di tanto l’indagato, che già alla notizia dell’apertura del fascicolo aveva
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