10 MAGGIO - UFFICIO STAMPA - Libero Consorzio Comunale di Ragusa

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10 MAGGIO
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Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   10 MAGGIO 2019

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PALERMO - "Bisogna sfatare la leggenda che parla dei Regionali come
degli impiegati che non lavorano. Non è vero, si tratta invece di
personale che lavora e che è sottoposto a pressioni e grandi
responsabilità". Nel giorno in cui i sindacati firmano il testo del nuovo
contratto collettivo degli impiegati della Regione Siciliana, il
presidente dell'Aran Accursio Gallo gonfia il petto e tira fuori l'orgoglio
di chi lavora nella macchina amministrativa regionale. I sindacati
hanno firmato il testo così come modificato dopo le indicazioni della
Corte dei conti. "Un ottimo risultato - ancora Gallo, il migliore che
potevamo raggiungere. Ringrazio i rappresentanti sindacali per la loro
sensibilità. Il contratto, adesso, ha immediata vigenza e non dovrà
ritornare             alla           Corte           dei              conti

"Grazie all'incessante lavoro di contrattazione dei sindacati e alla
collaborazione dei vertici dell'Aran Sicilia abbiamo ottenuto uno dei
migliori risultati possibili", dicono Gaetano Agliozzo e Franco
Campagna, segretario generale e coordinatore regionale della Fp Cgil
Sicilia, Paolo Montera e Fabrizio Lercara, segretario generale e
segretario regionale della Cisl Fp Sicilia, Enzo Tango e Luca Crimi, per
la Uil Fpl Sicilia, e Gianni Borrelli, della Uil Sicilia. "Usciamo dalla sede
di via Trinacria con un impegno preciso del presidente Gallo che, su
nostra precisa richiesta - proseguono i sindacalisti - ha assicurato che
già nei prossimi giorni, e con la massima urgenza, convocherà e farà
insediare formalmente la Commissione paritetica, a cui toccherà il
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compito di occuparsi della riclassificazione di tutto il personale della
pubblica amministrazione regionale. Un passaggio fondamentale che
non può più essere rimandato, perché i lavoratori della pubblica
amministrazione regionale aspettano da troppo tempo risposte a cui
hanno diritto". I sindacati, infine, hanno chiesto "che vengano posti in
essere tempestivamente tutti gli adempimenti per l'immediata
corresponsione      degli   aumenti     del    trattamento   economico
fondamentale e la liquidazione degli arretrati, per scongiurare il
rischio di ulteriori ritardi che potrebbero compromettere ancora il
diritto di migliaia di lavoratori di ottenere in tempi certi i
miglioramenti      economici      che    oggi    si   sono    sbloccati".

Anche il Siad e la Cisal, che in una prima fase non avevano firmato la
preintesa hanno apposto la firma. I due sindacati hanno depositato
una serie di osservazioni. “Lamentiamo – affermano Angelo Lo Curto
e Vincenzo Bustinto segretari generali del Siad, - il rinvio della
definizione del sistema di classificazione a dopo la ratifica, il mancato
finanziamento delle progressioni verticali previste dalla legge Madia,
la mancata attivazione dei profili evoluti C Super e D Super e l’Area
dei Direttivi, la mancata istituzione delle indennità legate allo
svolgimento di particolari funzioni professionali, i tagli economici
operati su permessi, congedi, terapie salvavita e indennità varie”.
Una posizione critica è stata espressa anche da Giuseppe Badagliacca
della Cisal. “Non è stato condiviso – afferma Badagliacca - il mancato
recupero della perdita del potere d’acquisto determinato da dodici
anni di blocco contrattuale, la pochezza degli aumenti previsti per gli
anni 2016 e 2017, la determinazione di economie per più di 8 milioni
di euro, sui 43 destinati al rinnovo, il mancato investimento nel
riconoscimento delle professionalità possedute dai dipendenti”. Il Siad
e la Cisal, hanno chiesto al presidente della Regione Nello Musumeci e
all’assessore alla funzione pubblica, Bernadette Grasso, di disporre
con urgenza l’immediato avvio delle progressioni verticali per rendere
più efficiente la macchina amministrativa e rendere i servizi e i tempi
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di espletamento dei procedimenti, più conformi alle attese dei
cittadini e dell’utenza. “Abbiamo chiesto visto che il contratto
2016/2018 è di fatto già scaduto lo scorso 31 dicembre, - dicono il
Siad e Cisal - abbiamo chiesto al presidente Musumeci di procedere
con immediatezza oltre che alla corresponsione degli aumenti
contrattuali già scaduti, anche al pagamento della indennità di
vacanza contrattuale pari al 50% della previsione Istat
dell’inflazione”.
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POLITICA                                                                                                              10/5/2019

Il caso

La restaurazione leghista in Sicilia tornano gli ex
dc
Dietro la candidatura di Attaguile e il flirt con Genovese cambio di rotta ispirato da Giorgetti Salta
Candiani, l’irritazione di Gelatda e Cantarella. E Salvini non viene a comiziare nell’isola

antonio fraschilla

Mai dare per sconfitto un ex democristiano. Nella Lega di Matteo Salvini in Sicilia quelli che sembravano messi da parte per
far posto alle nuove leve dei duri e puri stanno tornano a gestire le sorti del partito, aprendolo a quello che è stato sempre il
grande corpaccione elettorale dell’Isola: il centro, l’area moderata. In queste ore nel partito di Salvini è in corso un redde
rationem e il cambio al vertice, con l’uscita di scena dalla Sicilia del sottosegretario Stefano Candiani e lo sbarco a breve del
senatore ligure Francesco Bruzzone, è un segnale di riorganizzazione della Lega siciliana e di un cambio di passo.
L’arrivo di Candiani ha segnato in un primo momento la messa all’angolo dei politici di lungo corso con un passato
democristiano alle spalle, Alessandro Pagano, Carmelo Lo Monte, Tony Rizzotto e Angelo Attaguile, e la ribalta dei nuovi volti
Fabio Cantarella a Catania e Igor Gelarda a Palermo. Quest’ultimo asse ha sempre rimandato al mittente aperture sia nei
confronti del governo regionale, rifiutando assessorati e incarichi di sottogoverno, sia nei confronti di nuovi ingressi di peso da
parte di esponenti di altri partiti che in Sicilia da anni hanno gestito posti di potere. Ma questo asse ha iniziato a scricchiolare
quando alla vigilia della chiusura delle liste per le Europee non è stato candidato Cantarella ed è stato candidato Attaguile. Ad
incidere in questa scelta è stato il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, non condividendo certe scelte fatte in Sicilia.
Certo è che in queste settimane ha ripreso piede la costituzione di una terza gamba a sostegno del centrodestra a trazione
salviniana che vede protagonisti il governatore Nello Musumeci, che ha siglato una intesa con Salvini, e l’assessore Ruggero
Razza. In questo scenario si spiega il sostegno di Francantonio Genovese e della sua famiglia ad Attaguile, che sta incassando
in queste ore anche l’appoggio di altre aree autonomiste, come quella di Paolo e Francesco Colianni ad Enna. E con Attaguile
fanno squadra il deputato regionale Tony Rizzotto e l’autonomista Carmelo Lo Monte, che sta cercando di portare verso la
Lega un pezzo dell’Mpa, anche se c’è da capire se con l’avvallo o meno del leader Raffaele Lombardo, che ieri a Catania ha
riunito tutto il partito per dare un minimo di linea comune: formalmente è quella di far votare Silvio Berlusconi e Saverio
Romano. Come sempre Lombardo tiene aperte tutte le porte, in vista non del 26 ma del 27 maggio: cioè di quello che accadrà
dopo il voto delle Europee.
La Lega però così di fatto in Sicilia si sta spaccando ancora prima di spiccare il volo. Candiani, Cantarella e Gelarda in queste
ore hanno inviato comunicati di fuoco contro «i transfughi e i voti dei condannati che la Lega non vuole » , facendo scattare la
risposta di Attaguile&co: «Il voto personale e di opinione va rispettato — dice Attaguile — decisioni autonome e trasparenti,
meritano grande attenzione e ringraziamento. Un conto sono gli accordi pre-elettorali per interesse, altra cosa sono invece gli
endorsement disinteressati, frutto di consolidati e ultradecennali rapporti interpersonali. Le polemiche sul sostegno della
famiglia Genovese alla mia campagna elettorale sono frutto di invidia».

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Salvini insomma ha grandi difficoltà a mettere ordine nel suo partito in Sicilia, e in queste ore lo scontro interno sta creando
molta confusione, con il rischio di fare errori nelle scelte. Proprio in questo senso dalla Sicilia è arrivato l’ennesimo campanello
d’allarme a Salvini per l’indagine sugli affari nell’eolico tra Paolo Arata e Vito Nicastri che ha coinvolto anche il
sottosegretario Armando Siri. Insomma, la Sicilia è una terra difficile, Salvini questo lo sapeva. Ma si sta confermando anche
peggio delle sue aspettative. Per questo ha deciso di accelerare il cambio alla guida del partito e ha già chiesto a Bruzzone di
prendere l’incarico di commissario.
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Atlante politico
Il sondaggio di Demos- Repubblica sulle Europee

Indecisi 2 su 3 e la Lega cala
Persi due punti, i 5S al 22% Leader, giù Salvini e Zingaretti

Ilvo Diamanti

Adue settimane dal voto europeo, prevale l’incertezza. Solo un elettore su tre, infatti, dice di aver già deciso come votare. Così
lo scenario delle prossime, imminenti, elezioni appare ancora avvolto nella nebbia.
D’altronde, le tendenze espresse dagli italiani, nel sondaggio dell’Atlante Politico, condotto da Demos per Repubblica,
appaiono, a loro volta, “incerte”. Instabili.
Perché i cambiamenti cominciano ad essere significativi. Rispetto alle precedenti elezioni ma anche ai sondaggi recenti. Certo,
il governo continua a ottenere un consenso maggioritario, fra gli elettori (50%). Ma appare in calo vistoso, negli ultimi mesi. La
fiducia nei suoi confronti è scesa di 7 punti da inizio anno. Ma di 12 rispetto allo scorso settembre.
Tuttavia, la sua maggioranza tiene. Lega e M5s continuano a formare una coppia rissosa ma dominante. E forse dominante
proprio perché rissosa. Per citare quanto ha scritto proprio ieri Ezio Mauro, in queste pagine, “i due partiti che guidano il Paese
sono in realtà i principali avversari l’uno dell’altro”. E, dunque, giocano la parte di maggioranza e opposizione al tempo stesso.
Certo, i rapporti di forza tra i soci di governo, rispetto alle elezioni politiche del 2018, si sono rovesciati. Tuttavia, negli ultimi
mesi, la Lega di Salvini ha smesso di crescere.
Anche se resta sopra il 32%: due punti meno rispetto alla precedente indagine, condotta a marzo (nella quale, però l’intenzione
di voto non si riferiva alle Europee).
Mentre il M5s, pur perdendo oltre 10 punti, in confronto alle Politiche, sembra aver frenato la caduta. Il sondaggio di Demos lo
stima al 23%. Circa 10 punti in meno, rispetto alle Politiche. Ma, comunque, 2 punti sopra al Pd (insieme a “Siamo Europei”, di
Carlo Calenda). Divenuto, ormai, il vero competitor del M5s. Il Pd si ferma, infatti, al 20,4%. In crescita rispetto alle elezioni
Politiche e alle rilevazioni più recenti. Ma pare aver perduto la “spinta propulsiva” ricevuta dalle Primarie. Dietro, tutti seguono
a distanza. FI resta sotto il 10%. Solo i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni risalgono quasi fino al 5%. A conferma che gli elettori
di Centro-Destra si stanno spostando a Destra. Attratti, oltre che dai FdI, anche dalla Lega di Salvini. Infine, + Europa, guidata
da Emma Bonino, insieme a Italia in Comune, la formazione fondata dal sindaco di Parma, Pizzarotti, supera di poco il 4%. La
soglia minima per “entrare in Europa”. Più a Sinistra rimane poco, ormai.
Insomma, gli alleati (per forza…) di governo continuano a intercettare la maggioranza assoluta dei consensi: 55%. Anzi,
rispetto alle elezioni politiche di un anno fa guadagnano alcuni punti. Eppure, sembrano aver rallentato la loro marcia.
Inarrestabile, fino a qualche mese fa. Il M5s: è calato vistosamente. Perfino la Lega, dopo una rincorsa durata mesi, ha smesso
di volare.
Quando si fa tutto, governo e opposizione al tempo stesso, alla lunga, ci si stanca.
Sicuramente, sugli orientamenti politici, pesa il ruolo dei leader. Tutti i partiti si sono, infatti, “personalizzati”. Per questo è
“significativo” il pesante calo di Salvini: 7 punti in meno negli ultimi 2 mesi. Quasi una caduta. Pari a quella di Zingaretti. Una

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tendenza comune con “significati” ed effetti diversi. Nel caso di Salvini, infatti, l’identificazione del leader con il partito è
immediata.
Perché oggi la Lega ha il suo volto. Che è dovunque.
Rimbalza da un luogo all’altro, da un canale all’altro. È possibile che tanta presenza sui media possa produrre qualche effetto
imprevisto. E non gradito. Com’è avvenuto, nel recente passato, a Matteo Renzi e al “suo” Pd. Il PdR.
Coinvolto nella sconfitta del Capo al Referendum del 2016.
Divenuto un Referendum personale e non più Costituzionale. E, soprattutto per questo, bocciato. Insieme a Renzi.
Oggi il Pd è tornato ad essere un partito “normale”.
Coinvolto dalle difficoltà che penalizzano i partiti “tradizionali”. In particolare: di Centro-sinistra. Non è un caso che, le
Primarie abbiano favorito una ripresa dei consensi al PD, nei sondaggi.
Perché sono “un rito costituente” per i partiti di massa che hanno “costituito” il PD. Per questo il calo dei consensi subìto da
Zingaretti ha una spiegazione inversa rispetto a quello di Salvini.
Salvini, probabilmente, sconta la sovra-esposizione personale, che, fino ad oggi lo ha premiato. E la “sua” Lega lo segue.
Mentre la frenata di Zingaretti rispecchia il ritorno del PD nell’ombra. Dopo la mobilitazione delle Primarie. Perché il PD non
può competere se non è visibile, sul territorio e nella società.
Se rinuncia a promuovere la partecipazione e l’identità.
La tenuta del M5s e del consenso a Di Maio, fino ad alcuni mesi fa, rispecchia ragioni simili. Cioè, la “ distinzione” rispetto
alla Lega di Salvini. A Salvini.
Che in seguito ha occupato ogni spazio. Fino a risucchiare il M5s.
Trasformato, quasi, in L5s. Si spiega così, a maggior ragione, la fiducia riconosciuta a Giuseppe Conte. Oggi, il più “ stimato”
dagli italiani. I quali, in maggioranza, sostengono i partiti di governo. Ma apprezzano il Premier anche perché ha preso le
distanze, in diverse occasioni, dai suoi Vice. Che, per citare Bordignon, hanno trasformato l’Italia in una “Repubblica Vice-
presidenziale”.
“Costretto” a fare l’arbitro fra i due “nemici” che, invece, dovrebbero essere “amici”, Conte oggi intercetta i consensi e i
reciproci dissensi tra i soci di questa maggioranza.
Così, nonostante si voti per l’Europa, queste elezioni avranno effetti politici “nazionali”. Ancora incerti.
Come gli elettori. Come il futuro del Paese.
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I leghisti al 32%
Scende la fiducia nel governo, anche se la maggioranza tiene e Conte è il leader più stimato
Il Pd cresce di oltre un punto, ma ha esaurito la spinta propulsiva delle primarie
+Europa invece supera lo sbarramento del 4%

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Le accuse della Lega
Una lista nera in 17 punti su tutti i “no” del Movimento 5 Stelle in un anno di governo

carmelo lopapa,

roma
È la « lista nera » del Movimento 5 stelle. Diciassette punti per inchiodare Di Maio e i suoi a tutti i “ no” opposti nel chiuso di
Palazzo Chigi e nei vari ministeri in poco meno di un anno di governo insieme. Il foglio- manifesto è stato messo nero su
bianco per la prima volta, non a caso a ridosso delle Europee, dai leghisti dislocati nei vari dicasteri. Del resto Matteo Salvini
ormai è stanco - come va ripetendo in queste ore in tutte le piazze dei suoi comizi - «dei troppi no sui cantieri, le opere
pubbliche, i porti, gli aeroporti, le ferrovie, strade e autostrade: basta, noi stiamo lavorando e speriamo che qualcuno anche al
governo non rallenti tutto».
Il testo sarà distribuito a tutti parlamentari e ai candidati in corsa per un seggio il 26 maggio, per farne una sorta di volantino
appunto da campagna elettorale, un rosario di occasioni mancate da ripetere in ogni talk o appuntamento politico da qui alle
prossime due settimane. La propaganda dei 5 stelle ruoterà sulla questione morale e sull’anticorruzione? La Lega chiederà voti
per dire “sì concreti”: dai cantieri alle trivellazioni, dalla castrazione chimica ai voucher per i lavoratori del turismo e del
commercio.
Nell’elenco, neanche a dirlo, compare in cima l’autonomia regionale, cavallo di battaglia del ministro dell’Interno e dei suoi
governatori del Nord. Del resto, l’ultimo strappo si è consumato mercoledì sera, quando ricevendo la ministra per gli Affari
regionali, Erika Stefani, il premier Conte ha opposto un « meglio riparlarne dopo le Europee » alla leghista che gli chiedeva
almeno un “ preliminare d’accordo” sulla riforma delle autonomie da poter “sventolare” prima del voto. E invece niente. È a
quel punto che Salvini ha perso le staffe: « Bene, se è così, porta il dossier nel prossimo Consiglio dei ministri, io sarò al tuo
fianco». Una nuova battaglia campale, insomma, all’orizzonte. Ma se è per questo, nello sblocca-cantieri la Lega ha appena
inserito come emendamento la Tav tra le opere prioritarie con tanto di richiesta di nomina dei commissari.
La “lista nera” della quale Repubblica ha avuto un’anticipazione prosegue proprio con lo “ sblocca cantieri”, in particolare con
il capitolo Edilizia privata. Agli stellati viene rinfacciato di aver detto “no” agli interventi di ristrutturazione di palazzi nei
centri storici, soprattutto - col veto opposto dal ministro Danilo Toninelli - a qualsiasi deroga ai vincoli esistenti sull’altezza
degli edifici. Terza voce, il Codice degli appalti. Anche lì, a essere chiamato in causa è Toninelli: si è opposto alla concessione
ai piccoli comuni della possibilità di procedere ad assegnazioni senza gare per opere di importo fino a un milione di euro. Il
quarto punto elencato è un altro baluardo della propaganda leghista: la flat tax. La tassa piatta ad aliquota unica contro la quale
Luigi Di Maio si è opposto durante la stesura del Def. E ancora, sempre in materia finanziaria, la battaglia risalente a fine anno
sul “ Saldo e stralcio” nella manovra 2019 (poi passato in formulazione rivista e corretta).
Il sesto punto riguarda la legge sul “Codice rosso” appena approvata, nella quale gli uomini di Salvini hanno tentato invano di
introdurre la castrazione chimica. Tanto che il capo del Viminale ha disposto la stesura di un apposito disegno di legge che sarà
portato presto in Parlamento. E ancora, alla Lega hanno preso nota del veto opposto dagli alleati alla loro proposta di introdurre
i voucher per i lavoratori a termine nei settori del turismo e del commercio, come già esistono nell’agricoltura, con gran

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disappunto del ministro competente Gianmarco Centinaio. Lo stesso fedelissimo salviniano che non ha gradito l’opposizione
grillina alla sua idea di introdurre per decreto la selezione attraverso la caccia di fauna ritenuta dannosa per l’agricoltura.
L’elenco è lungo e tocca anche il no del M5s al rifinanziamento della Tax credit per la ristrutturazione degli alberghi. Punto
dieci: sovrintendenze dei beni culturali, che la Lega vorrebbe regionalizzare per semplificare le procedure, al contrario dei loro
alleati. Segue il veto al passaggio della gestione delle strade statali alle Regioni: a sentire i leghisti garantirebbe manutenzioni e
ammodernamento della rete. Punto dodici: per potenziare i servizi sanitari diverse Regioni hanno chiesto al governo col
sostegno del partito di Salvini il superamento del tetto delle assunzioni. Ma la richiesta al momento è stata rimbalzata. Il no al
cantiere sulla Asti- Cuneo, quello alle trivellazioni segnano altre due tacche al muro dell’incompatibilità tra i due partiti.
Ancora, nella legge spazza-corrotti non è passata l’equiparazione delle onlus ai partiti in materia di trasparenza sulle donazioni.
I veti sulla prescrizione e gli ostacoli frapposti alla digitalizzazione della burocrazia (delega alla ministra Bongiorno)
completano il tabulato delle occasioni mancate.
Resta da capire perché, nonostante tutto, i leghisti restino ancora incollati alla poltrona. A meno che, dopo le Europee, Salvini
non decida davvero di sventolare la lista in faccia a Di Maio prima di staccare la spina.
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L’analisi
Il futuro dei 5S dopo le Europee

L’ultima frontiera del Movimento evitare il flop o
rischiare la scissione
Claudio Tito

Ovinciamo o chiudiamo baracca e burattini».
Poco più di un anno fa, alla vigilia delle elezioni politiche del 2018, Luigi Di Maio sintetizzava con questa battuta la missione
dell’M5S. Conquistare il governo o rinunciare. Dopo quindici mesi e oltre il 32% conquistato nel marzo dello scorso anno, la
situazione è paradossalmente quasi la stessa. Le europee di fine mese si stanno trasformando in un vero e proprio di test di
sopravvivenza. Non solo per il governo, ma soprattutto per il Movimento. Perché tra i grillini sta prendendo corpo quello che
loro stessi – da Casaleggio allo stesso vicepremier – chiamano “rischio implosione”. O più esplicitamente: «rischio estinzione».
L’alleanza con l’ex nemico della Lega sta logorando velocemente i consensi acquisiti solo un anno fa. Sta facendo emergere
contrapposizioni che nessuno avrebbe nemmeno immaginato nella scorsa legislatura. E le parole «scissione» o «spaccatura» nei
colloqui più riservati vengono pronunciate senza tabù. Forse perché, come ha detto recentemente Beppe Grillo ad alcuni
parlamentari, «Questo non è più il mio Movimento».
In una delle ultime assemblee di deputati e senatori gli interventi che puntavano a sottolineare i pericoli della coalizione con il
Carroccio hanno formato una sequenza ininterrotta. Persino due prudenti come Alberto Airola e Nicola Morra (fedelissimo di
Roberto Fico) hanno ammonito senza giri di parole: «Se si continua così, non esistiamo più». E quel «se si continua così» era
riferito alla egemonia esercitata da Salvini. La presidenza del Consiglio e i vertici del Movimento hanno iniziato a monitorare i
sondaggi settimanalmente. La prospettiva di scendere sotto il 30% è sostanzialmente acquisita. La speranza è di non cadere
sotto il 25, il terrore è quello di superare in discesa la soglia del 20. «Sotto il 25 – spiega uno dei senatori M5S più avveduti –
scoppia un casino.
Sotto il 20 scoppia la guerra».
E la «guerra» può significare qualsiasi cosa. Anche che le diverse anime del M5S soffocate dalla cenere del governismo
improvvisamente si riaccendano. Tra i parlamentari, ad esempio, nei giorni scorsi è stata colta con allarme la comunicazione
interna che ufficializzava l’assenza di Alessandro Di Battista dalla campagna elettorale. Non solo non si è candidato, ma non
farà un comizio o una iniziativa fino al 26 maggio. La conferma che la frattura con Di Maio non è una supposizione, è realtà.
Così come è realtà l’assenza del “padre nobile”, Beppe Grillo. Sempre più lontano dal Movimento, sempre più distante dal
governo Conte, sempre meno ascoltato da Davide Casaleggio. L’ex deputato e l’ex comico hanno avvertito, pubblicamente e
riservatamente, che aspettano il risultato delle Europee. Di fatto hanno costruito un asse contrapposto a quello Casaleggio-Di
Maio. Di Battista viene così vissuto dai “critici” come il “successore-ombra” di Di Maio. Grillo è periodicamente invocato
attraverso l’ultimo custode dell’ortodossia: il presidente della Camera Fico. E sebbene non abbiano mai messo formalmente in
discussione la leadership di “Luigi”, si preparano a rovesciare la linea politica seguita fino ad ora dal capo politico. In
particolare facendo salire sul banco degli accusati il “contratto” con Salvini. E l’altalenante condotta del M5S che rincorre la

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sinistra per occupare uno spazio elettorale e poi smentisce se stesso - come nel caso della casa comunale assegnata a una
famiglia rom nella Capitale - quando teme di perdere consensi a destra a favore di Salvini. Senza alcuna distinzione tra le due
sponde.
L’appuntamento è fissato quindi per il 26 maggio. Se il dato grillino scende sotto il 25% «scoppia un casino». Se poi «scoppia
la guerra» allora l’affondo di Grillo-Di Battista sarà traumatico. Perché riguarderebbe in primo luogo la definizione di un nuovo
orizzonte, di alleanze “più progressiste” e di nuovi interpreti. A quel punto la parola “scissione”, tra chi vorrà proseguire
l’esperienza con la Lega e chi vorrà interromperla, non sarà solo un fantasma indefinito e immateriale ma uno spettro delineato
e concreto.
Non è un caso che nell’ultimo mese la strategia di Di Maio sia completamente cambiata. La Lega è diventata il primo bersaglio.
L’obiettivo primario è scongiurare “l’implosione”. «E poi durare almeno un altro anno per rimetterci in forma e quindi tornare
alle urne». Offrendo nella sostanza alla opposizione interna la fine dell’alleanza con il Carroccio. Ma a tempo, non subito.
Coniugandola con una promessa: «Un anno ancora e poi mai più con Salvini». Nel frattempo, a giugno, concedere un
“rimpasto” e qualche ministero ai lumbard. Ma non Palazzo Chigi. «Del resto – ricorda spesso Di Maio al suo staff – a maggio
Salvini ha posto come condizione che non fossi io il premier. E allora perché dovremmo sostituire Conte con un leghista se la
Lega diventa il primo partito? Si tratta del voto europeo, alla Camera e al Senato la maggioranza rimane nostra».
Ma, forse, il punto che più agita i grillini è un altro. Che l’eventuale risultato negativo del 26 maggio non sia solo il frutto
dell’azione di governo ma l’effetto di un sistema politico che si sta ridisegnando. In questo senso sono stati letti con una certa
apprensione gli esiti delle ultime elezioni spagnole. In cui non solo i socialisti sono tornati ad essere il primo partito, ma
Podemos e Ciudadanos - le due formazioni che in modo diverso potevano essere paragonate al Movimento – hanno registrato
una severa battuta di arresto (Podemos) e una crescita decisamente sotto le aspettative (Ciudadanos).
La variabile giudiziaria, che è tornata a farsi sentire e aleggia sulle teste dei leghisti, sta dando ossigeno in questi giorni ai
pentastellati. Ma per i “governisti” è un aiuto di corto respiro perché se le inchieste coinvolgessero Salvini o i suoi più stretti
collaboratori, la fine dell’esecutivo sarebbe comunque segnata. Senza contare che i nuovi assetti dentro la magistratura non
sembrano più offrire piene garanzie nemmeno ai 5Stelle.
La partita delle Europee, dunque, è l’ennesima finale per il Movimento. Se non resiste, rischia – come diceva Di Maio un anno
fa - di «chiudere baracca e burattini».
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