Vitamina D e minore mortalità per COVID-19: le evidenze e il suo uso per prevenzione e cura - Fondazione ...

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Vitamina D e minore mortalità per COVID-19: le evidenze e il suo uso per prevenzione e cura - Fondazione ...
Vitamina D e minore mortalità
per COVID-19: le evidenze e
il suo uso per prevenzione e
cura
written by Mario Menichella | 23 Febbraio 2021
Sulla base di sempre più numerose evidenze epidemiologiche
riportate nella letteratura medico-scientifica, appare ogni
giorno più chiaro come il raggiungimento – tramite esposizione
al sole o semplice integrazione quotidiana – di adeguati
livelli di vitamina D nel sangue sia necessario non soltanto
per prevenire le numerose patologie croniche che possono
ridurre l’aspettativa di vita nelle persone anziane e creare
“comorbidità” che aggravano il COVID-19, ma anche per
determinare direttamente una maggiore resistenza al COVID-19
e, di conseguenza, un netto calo non del numero di infezioni
(con cui non è stata trovata alcuna correlazione), bensì della
mortalità e dei ricoveri in terapia intensiva. Ciò non
stupisce, sia alla luce del ruolo protettivo della vitamina D
in numerose altre patologie virali grazie alla sua attività
immunomodulante e antivirale, sia del fatto che, in Italia,
nel 2020 il numero di ricoverati in terapia intensiva in
rapporto ai casi attivi sia crollato proprio nei mesi estivi,
quando maggiore è l’irradiazione solare ultravioletta,
responsabile della produzione naturale della vitamina D.
L’Italia, fra l’altro, è – come ben noto ai medici di base –
uno dei Paesi europei (insieme a Spagna e Grecia) con maggiore
carenza di vitamina D nella popolazione. Pertanto, il compenso
a scopo preventivo della carenza di vitamina D, in
associazione alle ben note misure di ordine generale, potrebbe
senza dubbio contribuire a superare questa difficile emergenza
(non è un caso che l’Inghilterra stia già distribuendo la
vitamina D agli anziani), insieme all’auspicabile impiego
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terapeutico in ambito ospedaliero in aggiunta alle cure
attuali, come già avvenuto con successo in studi condotti in
altri Paesi. Il costo irrisorio della vitamina D, il suo
elevatissimo profilo di sicurezza e la sua indipendenza (a
differenza dei vaccini) dalle diverse varianti del SARS-CoV-2,
rendono dunque l’affiancare alla campagna vaccinale (1) la
prevenzione con la vitamina D e (2) l’informazione al pubblico
sull’argomento una strategia win-win, attuabile in pochi
giorni anziché i molti mesi della vaccinazione di massa, e
nella quale non si ha nulla da perdere ma potenzialmente molto
da guadagnare. Infine, fa riflettere che oltre 150 fra docenti
universitari e medici ospedalieri italiani di alto livello
abbiano firmato un appello in tal senso promosso a inizio
dicembre dall’Accademia di Medicina di Torino, ma inascoltato
dalle Istituzioni preposte alla gestione della pandemia.

L’azione di protezione della vitamina D contro le più varie
infezioni virali

La vitamina D è un ormone che modula la risposta immunitaria,
ad effetto antinfiammatorio e antimicrobico. Esistono due
principali forme di vitamina D: la vitamina “D2”
(ergocalciferolo) e la vitamina “D3” (colecalciferolo). La
vitamina D2 è assunta tramite una dieta a base di vegetali (ad
es. funghi irradiati con raggi UV-B). Il colecalciferolo
naturale (vitamina D3), invece, si ottiene in piccola quantità
dal cibo animale, ma è principalmente sintetizzato nella pelle
dopo l’esposizione alla luce solare. In pratica, la radiazione
ultravioletta fornisce circa l’80% della vitamina D naturale,
il resto lo dà la dieta.

La produzione di vitamina D / D3 è influenzata principalmente
dalla intensità dei raggi ultravioletti solari di tipo UV-B
(280-315 nm), dalla durata dell’esposizione al sole, dalla
pigmentazione della pelle e dalla superficie della pelle
disponibile per l’esposizione. L’esposizione di 10-15 min al
sole di tutto il corpo, a mezzogiorno in piena estate, in un
individuo di carnagione chiara può produrre un aumento dei
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livelli di vitamina D nel sangue equivalente a quello indotto
da una dose orale fino a 625 microgrammi (pari a 250.000 UI),
ben maggiore dei circa 70-125 microgrammi al giorno
(28.000-50.000 UI) equivalenti al livello sintetizzato alla
fine della stagione estiva dalla pelle normale, non chiara, di
un lavoratore esposto cronicamente al sole [26, 28].
Viceversa, l’indossare vestiti con le maniche o lo stare quasi
sempre all’ombra riduce il livello di vitamina D nel sangue. E
anche in un lockdown è lecito attendersi che i livelli di
vitamina D negli individui coinvolti siano destinati
rapidamente a calare.

Variazione stagionale dei livelli di concentrazione della
vitamina D nel sangue, rilevata su un gruppo di 7.437
britannici dell’età di 45 anni. Si noti come tali livelli
siano massimi nel mese di settembre e minimi nel mese di
febbraio, un andamento stagionale temporalmente piuttosto
simile a quello che incontreremo più avanti per i raggi
ultravioletti solari (fonte: Hopkin et al. 2020 [1])
È stato da tempo dimostrato, nella letteratura medica, che la
vitamina D potenzia l’attività antimicrobica contro diversi
agenti patogeni, inclusi i virus respiratori. Infatti, sia le
osservazioni in vitro che le prove con l’assunzione di
vitamina D come integratore hanno ampiamente dimostrato il
carattere protettivo della vitamina D contro vari virus
respiratori (tra cui virus sinciziale, influenza) e altri
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virus non respiratori (come il virus dell’immunodeficienza
umana virus, il virus dell’epatite C e il virus della dengue)
[2].

Già quasi dieci anni fa, Beard et al. (2011) [3] hanno
concluso che studi epidemiologici interventistici e
osservazionali forniscono la prova che la carenza di vitamina
D nel sangue può conferire un aumento del rischio di influenza
e di infezioni acute delle vie respiratorie [4]. Inoltre, uno
studio controllato randomizzato aveva dimostrato che
l’integrazione di vitamina D per i pazienti ad alto rischio di
infezione delle vie respiratorie riduce i sintomi e la
necessità di terapia antibiotica [5]. E una recente meta-
analisi basata su otto studi osservazionali ha riportato che i
soggetti con una carenza (
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fasi: (1) una fase asintomatica; (2) una fase sintomatica non
grave con il coinvolgimento del tratto delle vie respiratorie
superiori; (3) una fase di grave malattia potenzialmente
letale, caratterizzata da carenza di ossigeno nel polmone e
progressione alla “sindrome da distress respiratorio acuto”
(ARDS) [9].

I recenti dati clinici suggeriscono che questi sintomi gravi
siano dovuti all’attivazione della risposta immunitaria che
porta alla tempesta di citochine, responsabile dello sviluppo
dell’ARDS. La tempesta di citochine è solitamente una risposta
infiammatoria incontrollata culminante con la secrezione di
citochine proinfiammatorie e chemochine, che porta a distress
respiratorio acuto, insufficienza multiorgano e, infine,
morte. Le citochine proinfiammatorie che sono responsabili
della tempesta di citochine sono state trovate a un livello
più in alto nei pazienti COVID-19 che richiedono il ricovero
in terapia intensiva [9].

La vitamina D è ben nota inibire la risposta immunitaria
infiammatoria patologica; di conseguenza, essa potrebbe
ridurre al minimo il verificarsi della tempesta di citochine
[9]. Attraverso le sue interazioni con una moltitudine di
cellule, la vitamina D può avere, in realtà, diversi modi per
ridurre il rischio di infezioni acute del tratto respiratorio
e di COVID-19, nonché il danno a più organi da esso indotto:
riduzione della sopravvivenza e replicazione dei virus,
riduzione del rischio di produzione di citochine
infiammatorie, etc. [10]. Pertanto, la vitamina D potrebbe
avere effetti protettivi e terapeutici contro il COVID-19.
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L’effetto protettivo della vitamina D contro il COVID-19
sarebbe correlato, secondo l’opinione diffusa fra i
ricercatori, soprattutto alla soppressione della risposta
delle citochine e alla riduzione della gravità / rischio di
sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), verosimilmente
secondo lo schema un po’ più tecnico illustrato in figura,
relativo a persone con comorbidità. Qui le linee solide
indicano stimolazione / induzione, mentre quelle tratteggiate
indicano inibizione / blocco. (fonte: Ferder et al., 2020
[23])
Un apporto inadeguato di vitamina D, inoltre, ha una varietà
di effetti scheletrici e non scheletrici. Esistono ampie prove
che varie malattie non trasmissibili (ipertensione, diabete,
sindrome metabolica) siano associate a bassi livelli di
vitamina D nel sangue. Queste comorbidità, insieme con la
carenza di vitamina D spesso concomitante, aumentano il
rischio di eventi COVID-19 gravi [11]. Dunque, una deficienza
di vitamina D ha sicuramente un effetto indiretto sulla
mortalità del COVID-19 (favorendo le comorbidità), ma – come
fra poco vedremo – sembra avere anche un effetto più diretto.

Pertanto, si dovrebbe prestare molta più attenzione
all’importanza dei livelli della vitamina D per lo sviluppo e
il decorso della malattia da COVID-19. In particolare, nei
metodi utilizzati in Europa per controllare la pandemia
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(lockdown), la sintesi naturale della vitamina D della pelle
viene ridotta, in quanto le persone hanno poche opportunità di
essere esposte al sole. La breve emivita della vitamina D
rende quindi una crescente carenza di questa vitamina più
probabile in caso di lockdown [11], con tutte le conseguenze
del caso, che risulteranno più chiare nel seguito di questo
articolo.

Il legame fra i livelli di vitamina D e due variabili
stagionali: irraggiamento UV e inquinamento

La carenza di vitamina D è un problema diffuso, ben
documentato nella letteratura accademica, nella popolazione
adulta in generale. Tale insufficienza sembra essere associata
anche a un aumentato rischio di malattie croniche e del cancro
[10], sebbene un rapporto causa-effetto non sia mai stato
dimostrato. Pertanto, pur non esistendo un consenso uguale per
tutti i Paesi sui livelli ideali di integrazione di vitamina
D, le linee guida per l’Italia raccomandano un’assunzione
giornaliera compresa fra 1.000 e 2.000 UI di vitamina D, in
funzione dell’età e dell’esposizione solare [12]. L’oncologa
Debora Rasio raccomanda, anche come possibile ausilio per la
prevenzione del cancro, un’integrazione giornaliera di 2.000
UI [13].

Le infezioni delle vie respiratorie sono più frequenti nei
mesi invernali (e soprattutto alle latitudini settentrionali)
piuttosto che in estate. Questo vale anche per la malattia
infettiva COVID-19, che si è diffusa velocemente in tutto il
mondo, divenendo una pandemia, nei mesi invernali. Una
caratteristica comune dei mesi invernali e degli abitanti di
tutti i Paesi a nord del 42-esimo parallelo è una carenza di
vitamina D che si verifica frequentemente durante questo
periodo. Ciò solleva la questione se un apporto inadeguato di
vitamina D abbia un’influenza sulla diffusione e sulla
gravitàdella malattia COVID-19 [20].

In effetti, De Natale et al. [14], analizzando il periodo che
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va 1° marzo-1° ottobre 2020, hanno osservato per l’Italia: (a)
per quanto riguarda la diffusione, una anticorrelazione fra il
numero di infezioni giornaliere da COVID-19 e l’intensità
della radiazione ultravioletta (indice UV) al suolo; (b) per
quanto riguarda la gravità, una progressiva decrescita, con un
minimo ad agosto, sia del rapporto “Ricoverati in Terapia
Intensiva/Casi Attivi” sia di quello “Numero di Morti/Casi
Attivi”, usati dagli Autori come indicatori della gravità
della malattia. Mentre il calo della diffusione può essere
spiegato dal lockdown attuato, quello della gravità può essere
ben spiegato con la crescente radiazione UV, e la conseguente
maggiore produzione di vitamina D, spiegazione suggerita anche
da uno studio ecologico sui fattori ambientali di Isaia et al.
[32].

L’effetto di mitigazione dell’epidemia di COVID-19 da parte
dei raggi UV-B sembrerebbe trasparire anche analizzando solo
l’andamento del numero delle infezioni, sebbene la relazione
osservata fra le due variabili possa essere dovuta – in misura
difficile da stimare –    anche a fattori estranei (come ad
esempio gli effetti del lockdown), per cui non può di per sé
evidenziare un nesso causale. Si noti, comunque, la netta
anticorrelazione fra il numero di infezioni giornaliere e
l’intensità della radiazione solare ultravioletta (registrata
da due stazioni meteo, una a Roma e una ad Aosta), che
raggiunge un massimo nei mesi estivi, ed è stata elevata da
marzo a ottobre 2020. (fonte: De Natale et al., 2020 [14])
Anche l’inquinamento atmosferico gioca un ruolo nell’abbassare
i livelli di vitamina D nel sangue, poiché riduce
l’esposizione alla luce solare. Ad esempio, il livello di
polveri sottili (PM2.5) e di biossido di azoto (utilizzato
come tracciante dell’inquinamento atmosferico nelle
rilevazioni via satellite) sono elevati nei mesi che vanno da
ottobre a marzo, in particolare nella Pianura Padana, che
d’inverno risulta essere una delle tre zone più inquinate del
mondo, insieme all’area intorno a Pechino ed a quella intorno
a New York. Inoltre, anche la nebbia tipica della Val Padana
riduce i raggi UV-B, e quindi i livelli di vitamina D.

Come osservato da Hamad et al. [9], i Paesi africani hanno il
privilegio del sole nella maggior parte delle stagioni
dell’anno, e ciò aiuta a sintetizzare la vitamina D3, il che
potrebbe spiegare il basso numero di casi di COVID-19 rispetto
a quelli dei paesi europei: fino alla data del 22 agosto 2020,
la regione europea ha riferito 3.633.633 casi confermati e
208.959 morti (rapporto 17:1), mentre in Africa i casi
confermati sono stati 1.246.185 ed i morti 29.586 (rapporto
42:1). Sebbene i lockdown siano stati implementati sia dai
paesi europei che africani, in questi ultimi il rapporto
morti/positivi è 2,5 volte più basso.

Il fatto che l’’infezione da COVID-19 sia più diffusa in
Europa rispetto all’Africa, molto probabilmente, può essere
attribuito in gran parte alla differenza di immunità,
osservano ancora gli autori del citato articolo: gli studi
condotti in Africa, in generale, hanno mostrato livelli
adeguati o addirittura un’elevata concentrazione media di
vitamina D nel sangue, mentre in Europa essa è risultata non
ottimale, soprattutto nell’Europa meridionale (Spagna e
Italia). E ricordiamo il ruolo della vitamina D nel sopprimere
la risposta immunitaria e nel diminuire la tempesta di
citochine che rende i casi di COVID-19 gravi e spesso letali
[9].

L’assenza di correlazione fra livello di vitamina D e numero
di casi di COVID-19

Come evidenziato da Nurshad Ali [6] nel suo già citato
articolo di rassegna, è stata osservata una significativa
correlazione negativa (p = 0,033) tra i livelli medi di
vitamina D ed il numero di casi di COVID-19 per milione di
abitanti nei paesi europei [6]. Tuttavia, un altro studio
scientifico ha rilevato che, dopo il controllo dei fattori di
confondimento, i pazienti con un livello basso di vitamina D
nel sangue (
carenza di vitamina D e la gravità della malattia.

In questo senso, essi hanno osservato che i pazienti con casi
gravi di COVID-19, caratterizzati da difficoltà nelle vie
respiratorie, saturazione di ossigeno a riposo
Il ruolo dei vari fattori coinvolti nella mortalità per
COVID-19. Si noti come la carenza di vitamina D giochi un
ruolo assolutamente centrale e fondamentale nel determinare
un’elevata mortalità per COVID-19. Pertanto, è anche il
principale fattore su cui agire. (fonte: elaborazione
dell’Autore – Uso libero con licenza CC)
Gli evidenti effetti della carenza di vitamina D sulla
mortalità da COVID-19

Un postulato importante sulla possibile associazione fra
deficit di vitamina D e la malattia COVID-19 è l’elevata
mortalità registrata tra la popolazione di anziani, che in
virtù di vari fattori (mobilità generalmente più ridotta
rispetto alla popolazione attiva, minore frequenza di uscita,
etc.) hanno maggiori probabilità di avere livelli più bassi di
vitamina D nel sangue. Ad esempio, Ilie et al. (2020) hanno
riferito che la popolazione anziana nei paesi con livelli più
elevati di mortalità per COVID-19 – come Italia e Spagna –
presenta dei livelli medi di vitamina D nel sangue
significativamente inferiori [5].

E in effetti, come mostrato dalla rassegna sistematica di
Samad et al. [5], “i pazienti con insufficienza di vitamina D
(
scoperto che una carenza di vitamina D è associata a un
rischio di morte più elevato: le persone con carenza di
vitamina D (
“raccomandabile” con piena fiducia, permette almeno di capire
quale potrebbe essere l’importanza della vitamina D nella
prevenzione e nel trattamento del COVID-19, e che sarebbe
prudente investire in questa direzione attraverso ampi studi
clinici randomizzati [17].

Pugach et al. [18] hanno indagato, in particolare, la
situazione in 10 Paesi d’Europa, trovando una forte
correlazione (con r = 0,76, p = 0,01) tra il tasso di
mortalità per milione da COVID-19 e la prevalenza di una grave
carenza di vitamina D. La correlazione è rimasta
significativa, anche dopo l’adeguamento all’età struttura
della popolazione. Inoltre, nel tempo, la correlazione si è
rafforzata e il coefficiente r è aumentato in maniera
asintotica (v. figura). Gli Autori suggeriscono che ciò
dovrebbe spingere a un possibile trattamento e prevenzione del
COVID-19 tramite integrazione di vitamina D.
Grafico in alto: La prevalenza di grave carenza di vitamina D
vs. le morti di COVID-19 per milione in 10 diversi Paesi
europei. Grafico in basso: L’andamento nel corso del tempo
della correlazione fra morti per COVID-19 e carenza di
vitamina D. Si noti comunque che, in entrambi i casi, il
legame fra le due variabili – sebbene interessante e
suggestivo – potrebbe essere dovuto almeno in parte ad altri
fattori estranei, perciò di per sé non è sufficiente a provare
un nesso causale. (fonte: Pugach et al., 2020 [18])
L’abbattimento della mortalità con l’integrazione ad alte dosi
di vitamina D3
Un altro modo di notare il legame fra vitamina D e mortalità è
nella profilassi con integrazione. In una rassegna sistematica
e meta-analisi effettuata da Nikniaz et al. [19], l’analisi
aggregata di quattro studi ha mostrato una diminuzione solida
e statisticamente significativa del tasso di mortalità tra i
pazienti con integrazione di vitamina D. Inoltre, ha rivelato
che l’integrazione di vitamina D può migliorare in modo
significativo: (1) la sopravvivenza dei pazienti, (2) ridurre
le complicanze cliniche, (3) diminuire il tasso di ricovero in
terapia intensiva e (4) abbassare i livelli sierici dei marker
infiammatori.

In pratica, l’integrazione di vitamina D sembra diminuire il
tasso di mortalità, la gravità della malattia ed i livelli di
marcatori infiammatori tra i pazienti infetti da COVID-19,
portando a una prognosi migliore e ad un aumento del tasso di
sopravvivenza. Sebbene i risultati siano completamente a
favore della vitamina D, riducendo essa il tasso di mortalità,
non si può ancora trarre una conclusione definitiva a causa
della mancanza di studi ad hoc: servono ulteriori studi per
determinare il dosaggio ottimale dell’integrazione di vitamina
D nella profilassi e per indagare ulteriormente i potenziali
effetti terapeutici [19].

Ma qualche primo dato importante è arrivato a novembre scorso.
In uno studio osservazionale incrociato condotto da Ling et
al. [20], a 151 pazienti è stata somministrata una terapia
booster,    ovvero    ad   alte   dosi    di   vitamina    D3
(approssimativamente di 280.000 UI per un periodo di tempo
fino 7 settimane). Questa, indipendentemente dai livelli
basali di vitamina D nel sangue inizialmente presenti, è
risultata essere associata a un rischio di mortalità
notevolmente ridotto (del 62-87%) nei pazienti acuti
ricoverati con COVID-19. Inoltre, più recentemente, Nogues et
al. [33] in Spagna hanno trovato, somministrando la vitamina
D3 ai pazienti di COVID-19 ammessi in ospedale, risultati
molto simili: una riduzione dell’80% dei ricoveri in terapia
intensiva e un calo del 60% nella mortalità. La vitamina era
somministrata come segue: prima dose di 2 capsule (266
microgrammi / capsula, pari a 100.000 UI / capsula) al basale
(giorno 0), una seconda dose di 1 capsula al giorno 3 e dosi
successive di 1 capsula ai giorni 7, 15 e 30.

Pertanto, il trattamento con vitamina D3 sembra essere
fortemente protettivo contro la mortalità per COVID-19 e
mostra come l’integrazione di vitamina D3 sia necessaria per
mantenere la salute immunitaria e rappresenti una potenziale
opzione terapeutica per il COVID-19 [20]. L’impiego della
vitamina D3 come potenziale opzione nella terapia per il
COVID-19 risulta, evidentemente, una prospettiva attraente,
data l’ampia disponibilità e il basso costo, nonché l’elevato
profilo di sicurezza, in combinazione con un monitoraggio
regolare dei livelli nel sangue.

Gli studi clinici su piccola scala stanno già iniziando a
popolare la letteratura peer-reviewed. In uno studio pilota su
76 pazienti ricoverati con COVID-19 in un centro spagnolo,
Entrenas Castillo et al. [21] hanno scoperto che un numero ben
il 99,7% inferiore di pazienti trattati con vitamina D3 sono
stati ricoverati in terapia intensiva rispetto ai controlli
[20]. I pazienti trattati ricevevano per via orale 532
microgrammi (210.000 UI) il giorno del ricovero, e 266
microgrammi nei giorni 3 e 7, e poi settimanalmente fino alla
dimissione o al ricovero in terapia intensiva.

Inoltre, Rastogi et al. [22] hanno recentemente completato in
India un studio randomizzato controllato con placebo sulla
terapia con vitamina D3 ad alte dosi (60.000 UI per 7 giorni)
in 40 pazienti positivi al SARS-CoV-2 che erano asintomatici o
solo lievemente sintomatici. Nei pazienti del gruppo di
trattamento, alla fine del periodo di studio di 14 giorni è
stata raggiunta una percentuale maggiore di negatività al
SARS-CoV-2 ed i livelli di fibrinogeno (utilizzati come un
biomarcatore della risposta infiammatoria) sono risultati
significativamente più bassi rispetto al gruppo di controllo
[20].

Perché le prove raccolte sono già convincenti e quanta
vitamina D si può prendere

Come illustrato da Mercola et al. [10], “quattordici studi
osservazionali provano che le concentrazioni di vitamina D nel
sangue sono inversamente correlate con l’incidenza o la
gravità del COVID-19. Le prove raccolte fino ad oggi
soddisfano generalmente i famosi “criteri di Hill” per la
causalità in un sistema biologico, vale a dire: forza
dell’associazione, coerenza, temporalità, gradiente biologico,
plausibilità (ad es. meccanismi) e coerenza. Dunque, la
relazione causa-effetto poggia su solide basi”.

Anche se la conoscenza del ruolo della vitamina D è ancora
scarsa, i dati raggruppati supportano il suo ruolo di
strategia adiuvante volto a fornire una protezione rapida ed
efficace contro il rischio di effetti gravi legati
all’infezione da SARS-CoV-2. In questo scenario, sono stati
provati diversi approcci, come dosi giornaliere di vitamina D
per poco tempo o l’uso di una dose di carico iniziale seguita
da alte dosi di vitamina D (booster) per un breve periodo. In
ogni caso, e in tempi di pandemia, ciò consente di raggiungere
concentrazioni plasmatiche all’interno di intervalli
appropriati di 30-50 ng/mL o superiori [23].

Più specificamente, strategie come quella suggerita da Grant
et al. [25] propongono una dose di 10.000 UI / giorno per un
mese per raggiungere rapidamente l’obiettivo di 40-60 ng/mL di
vitamina D, seguita da 5.000 UI / giorno per alcune altre
settimane. Il livello proposto di alte dosi di vitamina D è
sorprendente, trascurando i suoi possibili effetti tossici;
tuttavia, a questo riguardo, alcuni studi dimostrano che una
dose di 10.000 UI al giorno per 4-6 mesi non ha nessun effetto
negativo: ad esempio, Amir et al. [24] non hanno verificato
effetti tossici in donne canadesi con cancro al seno e
metastasi ossee [23].
Come osservano Grant et al. [25], “un altro gruppo ha lavorato
con 10.000 UI / giorno per 6 mesi senza causare ipercalcemia e
ottenendo livelli di vitamina D dell’ordine di 79 ng/mL. la
scommessa è stata più alta in altri studi con proposte per una
dose iniziale di 100.000 UI per raggiungere subito
concentrazioni nel sangue superiori a 20 ng/mL, o di 300.000
UI per livelli superiori a 30 ng/mL, e anche di una dose
iniziale di 500.000 UI per adulti sani. In un altro studio
clinico, una dose mensile di 100.000 UI non ha aumentato né il
tasso di incidenza di eventi di calcoli renali né il tasso di
incidenza dell’ipercalcemia”.

In un consensus pubblicato di recente, è stato suggerito che
le dosi che vanno da 4.000 UI a 10.000 UI sono sicure ed
efficaci per ottenere il vantaggio degli effetti della
vitamina D [23]. Tuttavia, ulteriori studi sono necessari per
confermare quale sia la migliore soglia di protezione contro
il COVID-19 o per il trattamento di pazienti con infezione
recente. Sulla base di scarse informazioni, confrontando una
dose singola elevata rispetto alle dosi giornaliere di
vitamina D, alcuni autori hanno notato che i dati mostrano
risultati migliori con dosi giornaliere di vitamina D, che
dunque sembrano essere preferibili [23].

La prevenzione del COVID-19 con la vitamina D ha già senso,
per la cura ci serve il dosaggio

L’assunzione preventiva giornaliera di vitamina D dovrebbe
migliorare molto la salute dei pazienti in modo che possano
essere in una forma migliore per affrontare il COVID-19,
qualora venga contratto il relativo coronavirus, e aumentare
le loro difese contro questa infezione. Inoltre, dovrebbe
essere tenuto presente che il lockdown (come pure la
quarantena), come strategia di protezione per il popolazione
contro l’infezione, complica i meccanismi immunitari di difesa
a causa di un calo significativo dei livelli sierici di
vitamina D conseguenti alla ridotta esposizione al sole,
specie nei mesi invernali.
Pertanto, un aumento della concentrazione di vitamina D nel
sangue potrebbe ridurre drasticamente i sintomi più gravi
della malattia, e ancora di più diminuire il numero di morti.
L’aumento dei livelli di vitamina D può essere ottenuto o (1)
per via naturale aumentando l’esposizione alla luce solare (i
classici 20 minuti al giorno con almeno braccia e gambe
totalmente scoperti) o (2), in maniera più controllata e quasi
esclusiva nei mesi invernali, tramite integrazione con
vitamina D3, preferibilmente con assunzione quotidiana (a
scopo preventivo) di una dose simile a quella suggerita
dall’oncologa Debora Rasio (2.000 UI).

In Italia, il Ministero della Salute dovrebbe quindi
senz’altro valutare di consigliare – attraverso una campagna
di sensibilizzazione trasmessa sulle principali emittenti
nazionali – una maggiore esposizione al sole delle persone
[31] e un’integrazione di vitamina D almeno pari [30] alle
linee guida nazionali preesistenti. Idealmente, il livello di
integrazione dovrebbe tener conto anche dell’età (gli anziani
e i soggetti fragili necessitano in generale di
un’integrazione ben maggiore), del periodo dell’anno
(l’irraggiamento solare a dicembre-gennaio è meno della metà
rispetto a quello a luglio, e con la scarsa esposizione fa sì
che i livelli di vitamina D d’inverno siano circa 10 volte
inferiori che d’estate), dei livelli di inquinamento
atmosferico (elevato fra ottobre e marzo), dell’esposizione al
sole e di dove essa avviene (gli edifici e le vetrate
attenuano le lunghezze d’onda biologicamente significative,
cioè le UV-B).

Se per la prevenzione delle carenze di vitamina D il da fare è
già chiaro, per la cura del COVID-19 una volta che si
avvertano sintomi c’è ancora da approfondire. Sebbene gli
studi al momento disponibili suggeriscano che la vitamina D3
in alte dosi possa essere usata anche a scopo terapeutico, in
quanto a tale assunzione sembra essere associata una assai
rilevante diminuzione del rischio di morte, è necessario
svolgere ulteriori studi per determinare quale livello di alto
dosaggio sia adeguato. Studi sulla popolazione effettuati in
tal senso potrebbero quindi spianare la strada, a breve, ad
applicazioni cliniche su larga scala.

Ad ogni modo, “Hathcock et al. (2007) [26] affermano che il
corpo può gestire senza problemi dosaggi di integrazione orale
di vitamina D3 fino a 10.000 UI (ovvero 25 microgrammi) al
giorno per diversi mesi, che pertanto rappresenta un sicuro
“livello massimo tollerabile” basato su evidenze scientifiche,
mentre soglie più basse e restrittive non sono basate su
evidenze. Recentemente, dunque, un dosaggio fino a 10.000 UI è
considerato di base, come quello fisiologico che si produce
naturalmente attraverso l’esposizione al sole del corpo (con
busto, braccia e gambe scoperte e senza crema solare) per
10-15 minuti, dalle 10:00 alle 16:00” [4]. Di conseguenza, i
medici di base possono già usare o raccomandare alte dosi di
integratori di vitamina D per trattare il COVID-19 alla luce
della loro sicurezza e dell’ampia finestra terapeutica.

Perché si tratta di una misura auspicabile parallelamente alla
vaccinazione

Le restanti alternative per contrastare la malattia COVID-19 e
la relativa pandemie sono attualmente basate su: (1) l’impiego
di un ampio spettro di farmaci (in particolare, antivirali e
antinfiammatori, ma anche anticorpi monoclonali) che
potrebbero attenuare gli effetti dell’infezione e della
progressione della malattia; (2) l’isolamento sociale delle
popolazioni a rischio per evitare la propagazione; (3) la
vaccinazione di massa, che però con la maggior parte dei
vaccini previsti ha un’efficacia limitata, lasciando quindi un
larga fetta della popolazione priva dell’immunità sperata
(anche di quella “di gregge”).

Tuttavia, date le pesantissime conseguenze economiche
dell’isolamento sociale, la vulnerabilità della campagna
vaccinale a eventuali varianti vaccino-resistenti che ne
vanificherebbero gli effetti, e l’elevato costo e l’incertezza
per il trattamento specifico con i farmaci (il remdevisir, ad
esempio, è un antivirale molto costoso che si è rivelato alla
fine un “flop”, nonostante la forte campagna di “promozione”
messa in atto dal produttore americano, mentre le terapie
monoclonali sono estremamente costose per il Sistema Sanitario
Nazionale), è fondamentale sviluppare – e affiancare alla
strategia vaccinale – delle strategie terapeutiche rapide e
convenienti per proteggere la popolazione vulnerabile.

In questo momento l’età avanzata, la presenza di malattie
preesistenti (comorbidità) e la carenza di vitamina D sono tre
caratteristiche che risultano essere associate a una elevata
mortalità per COVID-19. Di queste tre, solo la carenza di
vitamina D è modificabile. Pertanto, intervenire in tal senso
è fondamentale, tanto più che si tratta di una sostanza
dall’elevato profilo di sicurezza e dal costo praticamente
nullo: un’integrazione di 2.000 UI a giorno costa a una
persona circa 2 euro al mese, per cui il costo è totalmente
sostenibile dai cittadini e risulta essere del tutto irrisorio
rispetto alle possibili alternative.

Due tabelle che dovrebbero far molto riflettere sia i decisori
politici sia quelli sanitari, che – evidentemente – non
attuando una strategia “win-win” come quella proposta, e di
fatto sostenuta da ben 155 medici italiani di alto livello
accademico tramite un appello promosso dall’Accademia di
Medicina di Torino (vedi il documento [30] citato in
bibliografia), se ne assumono in pieno la responsabilità.
(fonte: elaborazione dell’Autore – Uso libero con licenza CC)
In pratica, poiché la vitamina D è venduta in Italia (senza
necessità di alcuna ricetta medica) in capsule da 1.000 o
2.000 IU, ed è universalmente accettato che dosi fino a 4.000
UI al giorno sono sicure, “una raccomandazione di (minimo)
1.000 UI per giorno (25 microgrammi al giorno) per tutti gli
adulti sarebbe sicura e dovrebbe essere promossa con urgenza”
[27]. I casi di tossicità da vitamina D sono rari, e si
riferiscono sempre a dosi estremamente elevate assunte per un
periodo di tempo prolungato. In letteratura, i dati che
mostrano la sicurezza per la salute di un’integrazione di
vitamina D a 50 microgrammi (2000 UI) al giorno (o anche più)
abbondano [28].

Ciò è assai importante soprattutto nel Nord Italia e nella
Pianura Padana, dove l’inquinamento – nei mesi che vanno da
ottobre a marzo compresi – contribuisce ulteriormente ad
abbassare i livelli di vitamina D, già bassi naturalmente per
la ridotta irradiazione solare invernale di raggi UV-B. E la
riduzione delle carenze di vitamina D tramite integrazione
orale con la D3 è tanto più importante nei soggetti over 70
(che nel nostro Paese rappresentano circa l’85% di quelli che
muoiono per COVID-19), nei diabetici, negli obesi e nelle
persone fragili o in cui la carenza di vitamina D è più
prevalente. Tant’è che, in Inghilterra, il Governo ha già
avviato la distribuzione di vitamina D agli anziani. Ma in
Italia non si può pensare di puntare a tale obiettivo se, come
purtroppo è finora accaduto, la popolazione non viene neppure
informata sul tema!

Anzi, il Ministero della Salute si spinge addirittura oltre,
facendo di fatto – a mio modesto parere – una disinformazione
sull’argomento, come si può leggere (al 14/2/21) sul portale
istituzionale sotto la voce “Fake News” [29]: “Non ci sono
attualmente evidenze scientifiche che la vitamina D giochi un
ruolo nella protezione dall’infezione da nuovo coronavirus. La
Circolare del 30 novembre 2020 del ministero della Salute
“Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-
CoV-2” sottolinea che “non esistono, ad oggi, evidenze solide
e incontrovertibili (ovvero derivanti da studi clinici
controllati) di efficacia di supplementi vitaminici e
integratori alimentari (ad esempio vitamine, inclusa vitamina
D, lattoferrina, quercitina), il cui utilizzo per questa
indicazione non è, quindi, raccomandato”. Ogni commento è
superfluo (per tacere del fatto che la vitamina D si chiama
così, ma non è una vitamina bensì un ormone!).

Un esempio di comunicazione istituzionale molto discutibile
(per usare un gentile eufemismo). Certamente la vitamina D non
impedisce affatto l’infezione, come abbiamo visto nel presente
articolo, ma altrettanto certamente risulta essere tutt’altro
che inutile a scopo preventivo, come ampiamente documentato
dalla bibliografia oggi disponibile, per cui – non ponendo
oltretutto rischi ma solo benefici, per cui non c’è niente da
perdere ma potenzialmente tanto da guadagnare – oggi non
appare più sostenibile il NON raccomandarne l’uso, soprattutto
alla popolazione (anziana e non) che ne è carente!
_______________

Desidero ringraziare il prof. Giancarlo Isaia (endocrinologo e
internista, docente di Geriatria e Malattie metaboliche
dell’osso all’Università di Torino) per la revisione critica
del manoscritto, nonché per aver portato il tema qui trattato
all’attenzione del Ministero della Salute, del CTS, dell’ISS e
dell’AIFA. Naturalmente, la responsabilità di eventuali errori
o inesattezze residui è esclusivamente dell’Autore. Vorrei
esprimere la mia gratitudine anche al mio amico C. Puosi,
medico con 2 specializzazioni e oltre 25 anni di esperienza,
per le utili discussioni sull’argomento avute in questi mesi
di pandemia. Infine, vorrei dedicare questo articolo alla
memoria del recentemente scomparso Pietro Greco, decano dei
giornalisti scientifici italiani, che è stato mio maestro e
tutor al Master in Comunicazione della Scienza, quasi 25 anni
fa.

Riferimenti bibliografici

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the COVID-19 pandemic: UK definitions of vitamin D sufficiency
and recommended supplement dose are set too low”, Clinic.
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[28] McCartney D. et al., “Optimisation of Vitamin D Status
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[29] Ministero della Salute, “La vitamina D protegge
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[30] Isaia G., D’Avolio A., e (al 14/2/21) altri 153 medici
italiani, promosso dall’Accademia di Medicina di Torino,
“Vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19:
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[31] Isaia G., Medico E., “Associations between
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[32] Isaia G., Diémoz H., Maluta F. et al., “Does solar
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[33] Nogues X. et al., “Calcifediol treatment and COVID-19-
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