Viaggio nella tradizione iconografica de I Promessi Sposi
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Viaggio nella tradizione iconografica de I Promessi Sposi Selvaggia Cerquetti, Università di Bologna Citation: Cerquetti, Selvaggia (2008), "Viaggio nella tradizione iconografica de I Promessi Sposi", mediAzioni 5, http://mediazioni.sitlec.unibo.it, ISSN 1974- 4382. I promessi sposi rappresenta, insieme alla Divina Commedia di Dante Alighieri, uno dei capolavori e delle pietre miliari della letteratura italiana. Con quest'opera, Alessandro Manzoni inaugura il genere del romanzo in Italia, all'insegna dell'innovazione e parallelamente alla maturazione personale e all'evoluzione del suo pensiero. A sedici anni i suoi primi componimenti sono delle prove liriche, classico mezzo attraverso il quale un adolescente cerca di esprimere se stesso. Poi, la voglia di mostrare la realtà “oggettiva” lo porta alla predilezione del genere drammatico. Il teatro rappresenta, per antonomasia, la mimesi della natura, la pura riproduzione di ciò che è, il genere letterario più diretto in quanto non necessita di un narratore o mediatore poiché il pubblico è chiamato direttamente in causa. Ad un certo punto, però, anche il teatro rivela i suoi limiti: in una rappresentazione teatrale non si può certo parlare di classi subalterne. La figura del contadino a teatro è vista, infatti, come comica attraverso il recupero dell'antica accezione della parola “villano”, mentre Manzoni vuole affrontare la storia schierandosi dalla parte di quelli che ne sono sempre stati esclusi. Il romanzo, allora, sotto questo punto di vista, gli lascia molta più libertà: può eleggere a protagonista del racconto il popolo e, in questo passaggio, non è vincolato dalla celebrità delle figure storiche più note. Di un nobile o di un condottiero non si possono narrare altro che vicende vere perché la loro biografia è già tutta documentata e conosciuta. Di un “filatore di seta” qualunque, al contrario, si possono dire molte cose fantastiche, inventare molte avventure. L'importante è che il risultato sia verosimile, in accordo con gli avvenimenti della Grande Storia e, soprattutto, con gli usi, i costumi, le leggi, le tradizioni, la mentalità, le problematiche del periodo nel quale il personaggio in questione è inserito. Cosa che richiede un enorme lavoro di documentazione, 1
proprio come quella compiuta da Manzoni che decide di ambientare il suo romanzo nel '600. L’autore finge di trovare un manoscritto dell'epoca per svincolarsi dalla responsabilità di ciò che scrive e vi inserisce una forte critica alla società contemporanea e, in particolar modo, all'occupazione austriaca attraverso la narrazione indiretta dell'occupazione spagnola seicentesca o della calata dei lanzichenecchi. Ma in questo distacco si può anche rintracciare l'influenza del romanzo storico di Walter Scott. Con il successo di Ivanoe, infatti, inizia a diffondersi la moda di collocare in epoche lontane le vicende dei romanzi e di mescolare la fantasia ad un contesto storicamente ben preciso. Manzoni vuole essere democratico fino alla fine e deve risolvere anche la questione della lingua. In una Italia che si sta avvicinando all'unificazione, quale idioma permetterebbe al romanzo di essere accessibile anche alle classi meno istruite senza, allo stesso tempo, fargli perdere eleganza e stile? Da ciò nasce l'ultima revisione de I promessi sposi. Il passaggio dal Fermo e Lucia a I promessi sposi del 1927 serve per sistemare e rivedere l'impostazione e l'economia di tutto il romanzo attraverso tagli e cambiamenti, di pari passo con l'evoluzione della poetica manzoniana. Ma il passaggio tra l'edizione ventisettana e la quarantana non subisce modifiche di tipo contenutistico, bensì solo a livello linguistico. Da una forma ricca di latinismi, francesismi e residui del dialetto milanese si passa alla stesura definitiva nell’idioma fiorentino, precisamente quello parlato dai ceti colti. Già dall’edizione del ’27 Manzoni pensa a I promessi sposi come ad un vero e proprio libro illustrato. Se, però, la prima pubblicazione conteneva solo sei immagini, è solo con quella definitiva che si raggiunge l’apice, sfoggiando la bellezza di circa quattrocento disegni. Questo delicato compito è affidato all’abilità grafica di Francesco Gonin che, sotto le direttive dello scrittore, produce in maniera dettagliata e precisa i personaggi, i paesaggi, le vicende del romanzo. A partire da queste illustrazioni, ho scelto di analizzare tutte le altre rappresentazioni prodotte successivamente sulle vicende di Renzo, Lucia, Don Rodrigo, l'Innominato, la monaca di Monza, e di vedere come i diversi artisti ne abbiano differentemente interpretato le sorti. 2
1. Don Abbondio e i bravi L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dall’aspetto, non lasciavan dubbio riguardo alla loro condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congeniate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi. (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. I) Ecco quali parole sceglie Manzoni per descrivere il modo in cui i bravi si presentano a don Abbondio la mattina in cui lo minacciano e gli intimano di non celebrare il matrimonio fra Renzo e Lucia. In questo passaggio la descrizione fisica è molto importante perché è attraverso gli oggetti, i vestiti, i movimenti e le parole dei personaggi che traspare la loro personalità. Manzoni, infatti, adotta la tecnica, tipica del realismo di Flaubert e Balzac, di non elencare direttamente le caratteristiche psicologiche dei suoi soggetti, ma di lasciarle indirettamente intuire grazie ad una descrizione esteriore apparentemente oggettiva. È così che dei bravi si sottolinea soprattutto l’abbigliamento e la presenza delle armi ben in vista. La rappresentazione dell’edizione del ’27 (Fig. 1) è molto semplice. Lasciando incompiuto lo sfondo, i protagonisti sono messi di tre quarti, come se si trattasse di un teatrino dove i protagonisti della scena si presentano al pubblico. Evidenti e ben definiti i costumi. Anche la rappresentazione ufficiale di Gonin1 (Fig. 2) punta l’attenzione sugli stessi elementi. Come per qualsiasi altro episodio del romanzo, Gonin fotografa le parole di Manzoni: il panorama, la piccola edicola, don Abbondio che cammina, i bravi ai due lati del sentiero, uno in piedi appoggiato al parapetto, l’altro seduto con una gamba cavalcioni. Tutto è chiaro e preciso, dettagliato e lineare come lo stile delle corrispettive frasi nel primo capitolo. Per quanto riguarda le rappresentazioni degli artisti che, successivamente, si sono cimentati nell’illustrazione dei passaggi più significativi de I promessi 1 Francesco Gonin nacque a Torino nel 1808 e morì a Giaveno nel 1889. Fu un pittore ed illustratore specializzato in ritratti di genere storico ed in illustrazioni per opere letterarie. Numerosi suoi ritratti, quadri storici e affreschi si trovano presso le varie dimore dei Savoia e in qualche chiesa di Torino. [http://it.wikipedia.org/wiki/Gonin] 3
sposi, non si può negare che il confronto con Gonin sia arduo. Questo è dovuto sostanzialmente al fatto che la tradizione iconografica manzoniana non è vastissima e la maggior parte dei pittori che hanno scelto di realizzare delle illustrazioni nuove sulle disavventure di Renzo e Lucia sono contemporanei o quasi a Manzoni. Molti di loro, come è comprensibile, non hanno avuto il coraggio di allontanarsi dalle direttive dell’autore o dall’immagine comune che si era ormai creata nella mente dei lettori e, perciò, hanno prodotto solo delle piccole variazioni sul tema, cambiando per lo più la composizione dell’opera, ossia la disposizione degli elementi all’interno della cornice, senza apportare modifiche significative. Mi riferisco, nello specifico, ai disegni di Gallo Gallina2 (Fig. 3), Bartolomeo Pinelli3 (Fig. 4) e Roberto Focosi4 (Fig. 6). 2 Gallo Gallina nacque in uno dei quartieri più popolari di Cremona nel 1796. Non ebbe un biografo personale e, anche negli anni di grande popolarità, le notizie che si posseggono sulla sua vita si rintracciano in articoli di giornale o in alcune rievocazioni che conservano il sapore romantico e agiografico delle “Gazzette” di Cremona e Milano. Sul rame incise numerose opere e in litografia le ben note 12 stampe create dalla sua fantasia e ispirate a I promessi sposi del Manzoni. Il suo panorama artistico è veramente ampio: parecchie opere si trovano al Museo civico di Cremona, ma molte altre opere sono andate ad abbellire le collezioni private e le pinacoteche pubbliche. La sua partecipazione grafica e pittorica è presente anche alla Scala di Milano dove lavorò come bozzettista scenografico, costumista e scenarista per balletti. La collezione di disegni, stampe, litografie, acquerelli, ancora conservati presso la biblioteca del “Museo alla Scala”, dimostrano la partecipazione competente di Gallina al mondo dello spettacolo. Morì a Milano nel 1874. [Laura Ferrazzi, La pittura neoclassica di Gallo Gallina, artista cremonese del XIX secolo, Cremona, Banca Popolare di Cremona, 1997] 3 Figlio di un modellatore di statue devozionali, Bartolomeo Pinelli si formò prima a Bologna poi all’Accademia di San Luca a Roma. Fu un artista estremamente prolifico, illustratore di grandi poemi epici e altri numerosi soggetti. Il tema in generale più ricorrente è Roma, i suoi abitanti, i suoi monumenti, la città antica e quella a lui contemporanea. Morì nel 1835. [http://it.wikipedia.org/wiki/Bartolomeo_Pinelli] 4 Roberto Focosi, pittore tardo-romantico, nacque nel 1806 e morì nel 1862. Fu allievo di Francesco Hayez e ritrattista filo-risorgimentale, illustratore di Manzoni e litografo. [http://www.iulm.it/document_loader.aspx?idDocument=9210] 4
Le soluzioni iconografiche di Aligi Sassu5 (Fig. 5) e di Giorgio de Chirico6 (Fig. 7), invece, azzardano di più (non a caso risalgono già alla prima metà del novecento). Sassu abbandona completamente la dimensione spaziale dell’incontro e punta il suo obiettivo solo sulle figure dei tre uomini. La precisione descrittiva dell’abbigliamento dei bravi viene meno a causa di un tratteggio a matita molto lungo, ma il senso di minaccia rimane attraverso la postura altera e spavalda dei due e quella goffa e insicura del curato. Inoltre, le gambe del bravo in primo piano ricordano le zampe di un animale, mentre il mantello arrotolato intorno al busto e il gomito appoggiato sul fianco assomigliano al muso di un predatore, che rimanda alla metafora di don Abbondio agnello, vittima e codardo tremante nelle mani dei potenti, dei leoni come don Rodrigo che i due delinquenti rappresentano. Giorgio de Chirico, al contrario, recupera lo sfondo, il paesaggio di contorno alla scena e i dettagli dei vestiti e delle armi. Anche lui, però, preferisce puntare l’attenzione sull’atteggiamento servile di don Abbondio, che con la mano destra sul cuore accenna un inchino, e su quella minacciosa e prepotente dei bravi, in particolare su quello che con l’indice imita la forma di una pistola. Le rappresentazioni più moderne risalgono agli anni 2000, eppure sono molto diverse fra loro. Una è di Giovanni Schiaroli7 (Fig. 8), e le altre di Federico 5 Aligi Sassu nacque a Milano nel 1912. A sedici anni presentò le prime opere alla Biennale di Venezia ispirandosi al Futurismo di Boccioni, Previati, Carrà e osservando anche Cezanne e Picasso. Nel 1928 fondò, insieme a Bruno Munari, il Manifesto della Pittura. Nel 1937 per via di un manifesto che celebrava la vittoria in Spagna delle Brigate Internazionali contro l’esercito franchista venne arrestato per due anni. Nel dopoguerra visse un’esistenza sociale e artistica appartata poiché lontano dal cubismo di Braque e Picasso. Studiò invece Van Gogh. Morì all’età di ottantotto anni nel 2000. [http://www.italica.rai.it/index.php?categoria=biografie&scheda=sassu] 6 Data la fama di Giorgio De Chirico, mi limiterò solo a ricordare che nacque nel 1888 nella Tessaglia in Grecia. Si trasferì nel 1912 a Parigi dove passò anni di attività molto intensa. Nel 1916 fondò insieme a suo fratello la “scuola metafisica” e nel 1917 entrò in contatto con Tristan Tzara e col movimento Dada. Negli anni successivi scrisse importanti testi teorici e fu in contatto con André Breton, con il gruppo del Neoplasticismo olandese, con Paul Elouard e con Max Ernst. Espose a Milano, Parigi, Torino, Firenze e Roma. Illustrò i calligrammi di Apollinaire. Nel decennio precedente la seconda guerra mondiale la sua produzione artistica fu molto feconda, mentre il secondo dopoguerra fu periodo di polemiche e riconoscimenti ufficiali. Il suo novantesimo compleanno fu festeggiato in Campidoglio a Roma dove morì nel 1978. [http://it.wikipedia.org/wiki/Giorgio_de_Chirico] 7 Giovanni Schiaroli nacque nel 1949 a Filetto, frazione di Senigallia in provincia di Ancona. Ancora vive e lavora nello stesso posto, un angolo appartato fra un saliscendi di colline verdi, alberate e cespugliose e questo paesaggio è il suo tema principale, il suo filone centrale, la sua costante ispirazione. Molto bravo nell’uso del colore, delle sfumature e delle tonalità, non ha frequentato scuole d’arte o accademie, ma è autodidatta. Nonostante le mostre a Buenos Aires 5
Maggioni8 (Fig. 9a e 9b). Schiaroli ricorda lo stile di de Chirico, mantenendo il paesaggio e enfatizzando l’indice del bravo contro le mani giunte e volutamente impotenti del curato. Maggioni, invece, è quello che, non solo in questa occasione, ma in tutti i suoi disegni, si allontana di più dall’iconografia classica, inaugurata da Gonin, e si lascia andare ad interpretazioni che, a prima vista, possono sconvolgere il lettore per la novità e la diversità dallo standard, ma che poi si rivelano quelle più interessanti. Con i loro colori forti e brillanti, le immagini sono state considerate infantili, tanto da essere state inserite in una edizione ridotta de I promessi sposi per ragazzi delle scuole medie, ma a mio avviso sono proprio quelle meno adatte a dei bambini. Sono le immagini più angoscianti e che meglio rappresentano il male e la corruzione della nostra società, di poco differente da quella rappresentata da Manzoni nel romanzo. Don Abbondio è sempre disegnato di nero, anche in volto, ed il breviario è tenuto molto distante dal corpo, quasi a sottolineare come la sua non sia stata affatto una scelta di fede. Don Abbondio non si fa prete per amore del prossimo, per devozione o per carità, ma decide di entrare nell’ordine sacerdotale perché ha paura e sente la necessità di essere protetto da qualcuno, qualcuno di potente e soprattutto di “fisico”, il che significa che questo qualcuno non potrà mai essere Dio. La sua è una esistenza dedita all’utile personale ed è proprio questo che lo contrappone all’altra figura ecclesiastica del romanzo, fra Cristoforo. Fra Cristoforo è il contrario assoluto di don Abbondio in quanto abbraccia il sacerdozio per cercare di espiare il peccato di aver ucciso un uomo, comprendendo il valore cristiano del sacrificio e prodigandosi per i più bisognosi. Vive nell’etica del prossimo e percepisce il vero senso della giustizia, mentre don Abbondio vive nell’etica dell’egoismo, della paura, della percezione realistica del mondo. Don Abbondio non è stupido, come gran parte della critica ama giudicarlo. Don Abbondio è pronto a capire il verso delle cose e a schierarsi dalla parte che gli fa più comodo senza muovere e a Roma, rimane sempre molto legato alle campagne marchigiane. [http://www.schiaroli.it/biografia.html] 8 Nato a Campo Ossuccio, in provincia di Como, vive e lavora a Milano. Otre che illustratore, Maggioni è grafico di successo e ha lavorato anche nel settore dei fumetti. È stato responsabile artistico del Corriere dei Piccoli, del Corriere dei Ragazzi e della storica edizione italiana di Pilot. In qualità di consulente artistico ha collaborato con numerose case editrici, fra cui Bompiani, Ipsoa, Il sole 24 Ore Libri, Mondadori Ragazzi. I suoi disegni sono apparsi sulle principali riviste italiane e sul Corriere della Sera. Ha progettato e illustrato libri e copertine per le maggiori case editrici italiane e per l’editore Corraini ha illustrato con Alberto Rebori un’inconsueta edizione di Cuore di Edmondo De Amicis. Ha vinto molti premi internazionali tra cui: nel 1986 il premio Andersen-Baia delle favole per l’illustrazione; nel 1991 il trofeo Palma d’Argento al Salone Internazionale dell’Umorismo di Bordighera; nel 1993 il Premio Plaque BIB alla Biennale d’Illustrazione di Bratislava; nel 1995 il Dattero d’Argento al Salone Internazionale dell’Umorismo. [http://www.zam.it/home.php?id_autore=975] 6
un dito per combattere l’orgoglio e le prepotenze di quelli come don Rodrigo il quale, per un puro capriccio di sesso, è pronto a impedire il matrimonio dei due giovani protagonisti. Il curato, potenzialmente, potrebbe evitare questa ingiustizia, ma di fronte alla minaccia dei bravi preferisce perorare, per l’ennesima volta, la causa dei potenti. A questo proposito, nei disegni di Maggioni, è ricorrente un elemento molto significativo, un uccello nero, un corvo dalla testa rosso sangue e dal becco appuntito, esplicito riferimento al raven di Poe (Fig. 9c). Questo uccello è il simbolo della corruzione, della paura, dell’odio, del peccato, dell’imbroglio, della prepotenza, dell’egoismo, della lussuria, della legge asservita al potere, della violenza e ricorre in tutti i momenti in cui questi mali prevalgono sui personaggi. Vola alto sui bravi e segue don Abbondio fino a casa, quando racconta l’accaduto a Perpetua (Fig. 10). Edizione del 1827 (Fig. 1) Francesco Gonin (Fig. 2) Gallo Gallina (Fig. 3) Bartolomeo Pinelli (Fig. 4) 7
Aligi Sassu (Fig. 5) Roberto Focosi (Fig. 6) Giorgio de Chirico (Fig. 7) Giovanni Schiaroli (Fig. 8) Federico Maggioni (Fig. 9a) Federico Maggioni (Fig. 9b) 8
Federico Maggioni (Fig. 9c) Federico Maggioni (Fig. 10) 2. La monaca di Monza Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma di una bellezza sbattuta, sfiorita, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; […] Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono nel portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento. (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. IX) 9
Queste sono le parole usate per descrivere come si presenta al lettore la monaca di Monza, uno dei personaggi più interessanti e amati del romanzo. Siamo in uno dei momenti clou della storia, in uno dei punti “cerniera”, cioè quando, dopo la separazione da Renzo, Lucia e la madre vengono accompagnate dal padre guardiano presso il monastero di Monza, affinché possano chiedere aiuto e restare lì nascoste. La monaca viene introdotta nella narrazione in due modi: indirettamente, attraverso il punto di vista degli altri personaggi, e direttamente attraverso il ritratto del narratore sopra riportato, fisico e psicologico allo stesso tempo. Gonin (Fig. 11) ritrae il momento in cui Lucia viene direttamente interpellata e, riconfermando le parole della madre, commuove la suora che decide di ospitarla. In questa inquadratura la monaca è in penombra e l’attenzione viene puntata soprattutto sul gesto imbarazzato della protagonista che sta parlando del suo innamorato, sulla reticenza del padre guardiano e sulla vergogna di Agnese nell’essere stata da poco ripresa per aver parlato al posto della figlia. Significativa la grata, descritta come singolare, a suggerimento della “singolarità” della monaca. In un altro disegno (Fig. 12), poi, Gonin riproduce il ritratto della sventurata, dando vita alle parole manzoniane e rispettandone tutte le antitesi e le particolarità. La descrizione, e quindi l’illustrazione di conseguenza, si gioca tutta sulle contrapposizioni: in primo luogo, a livello cromatico attraverso l’opposizione bianco-nero, quasi come un’antica fotografia della quale vengono sottolineati alcuni particolari rivelatori come il saio attillato o il ciuffo di capelli che sfugge al velo; in secondo luogo, a livello motorio attraverso l’opposizione immobilità-movimento, rivelata dalla postura eretta e fissa della donna, con una mano appoggiata alla grata, e dalla fronte spesso raggrinzita, dai sopraccigli che si avvicinano rapidamente o ancora dalle mosse repentine, irregolari e risolute. Si tratta di tutti elementi che rimandano al disordine interiore, al tormento della donna, senza però rivelarne direttamente nulla. È un linguaggio che allude a qualcosa di più profondo e che cerca di celare l’evidente contrasto tra l’essere e l’apparire della monaca, tra ciò che è veramente e ciò che sembra, tra verità e inganno. Come sempre, le rappresentazioni di Roberto Focosi (Fig. 13) e di Gallo Gallina (Fig. 14) non si discostano affatto dall’originale di Gonin e l’unico elemento che entrambi osano aggiungere è quello della dimensione spaziale. Allargano il campo visivo e immaginano il mobilio del parlatorio nel quale la scena ha luogo, 10
ma per quello che concerne le quattro figure protagoniste, l’approccio della rappresentazione resta immutato. Giorgio de Chirico osa di più (Fig. 15). Preferisce ignorare il momento del dialogo con le donne a favore di un “a solo” della monaca, completamente abbigliata di nero, di spalle, immersa nell’austerità delle colonne e degli archi a sesto acuto della navata. Anche qui il contrasto chiaro-scuro è forte, sottolineato in particolar modo dai fasci di luce che si riflettono a terra e dalle ombre slanciate degli elementi architettonici. Questa rappresentazione, a mio avviso, è molto più significativa delle altre perché riesce meglio a trasmettere il senso di solitudine e di impotenza, oltre che di sofferenza, di una Gertrude schiacciata da forze incontrollabili. Giovanni Schiaroli (Fig. 16) si rifà al ritratto di Gonin, ma la sua illustrazione è molto meno precisa. Il contrasto bianco-nero è meno potente, data anche l’importante presenza del rosso sullo sfondo e sulle labbra della donna, come di un rossetto. Riesce, però, a trasmettere l’idea di una donna vissuta che dimostra più della sua età e che è ancora insofferente per qualcosa che la tormenta. I colori caldi che decorano lo sfondo, non a caso, ricordano l’amore, la passione, ma anche il sangue e la sofferenza. D’ora in poi è evidente la forte evoluzione dai disegni originali alle illustrazioni più moderne. Se Gonin non doveva far altro che trasportare le parole in tracce di matita, senza aggiungere o sottrarre dettagli alla narrazione e senza svelare informazioni non presenti nel testo, qui ci troviamo di fronte a delle riproduzioni che tengono clamorosamente conto di tutto quello che si è scoperto sulla storia della monaca di Monza. È palese che viene presa in considerazione tutta quella parte che ne I promessi sposi viene omessa e che rappresenta, invece, un romanzo nel romanzo nel Fermo e Lucia. Ciò è ancora più lampante se esaminiamo l’elaborato di Federico Maggioni (Fig. 17). La monaca è deforme, con un viso orrendo che ricorda un po’ L’urlo di Munch, di un bianco sporco, come la sua anima. Il velo, che dovrebbe anch’esso essere di un puro bianco, è grigio e nasconde la parte sottostante del vestito, completamente macchiata di sangue, sulla quale pende un crocifisso, sporco anch’esso. Lo sfondo non potrebbe essere altro che rosso e irregolare. Riflettendo su questa composizione non si può non dedurre che Maggioni abbia letto il Fermo e Lucia, o che, per lo meno, ne conosca il contenuto. È chiaro che con tutte quelle macchie sul vestito stia facendo riferimento non solo ai capricci della monaca e alle punizioni inflitte ingiustamente alle novizie per sfogo, ma anche a tutti gli omicidi legati alla scandalosa relazione con Egidio. 11
Manzoni taglia la parte più crudele e meno morale della vicenda e preferisce farci immedesimare nella situazione della disgraziata attraverso il flashback della sua infanzia e adolescenza: La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa d’alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavano monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto, come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: “bello eh?”. (cap. IX) E Gallo Gallina non fa altro che rappresentare questi momenti (Fig. 18 e Fig. 19) facendo apparire tutto il più lineare possibile. Il principe padre ha violentato psicologicamente i figli cadetti fin dalla nascita, affinché prendessero i voti e l’eredità potesse considerarsi salva nelle mani del solo primogenito. Anche qui Federico Maggioni va oltre (Fig. 20) e non si limita a riprodurre ciò che viene narrato oggettivamente, ma interviene trasformando il padre in una figura diabolica. Il colore dominante, non a caso, è il rosso, e la bambolina vestita da suora è veramente ambigua in quanto può rappresentare sia il giocattolo di Gertrude che la bambina stessa. Qui, l’anima malvagia del padre è evidente e senza allusioni. È un padre che prima di tutto è uomo e principe, il cui interesse più grande è preservare il patrimonio e, a questo scopo, non ha scrupoli e arriva a rovinare la vita di Gertrude in modo subdolo e imperdonabile. Capisce e conosce la mentalità di una bambina, circuendola e forzandola verso scelte che le sono imposte senza che lei riesca a rendersene conto e a prendere il controllo della situazione. Da piccola la incanta con giocattoli a tema e con l’aspettativa di una vita da principessa come badessa nel convento. Poi, quando torna a casa determinata a vivere la vita come tutte le altre ragazze della sua età, la isola e costringe chiunque, anche la servitù, ad ignorarla e ad aumentare la sua inadeguatezza e fragilità. Sventata la tresca con il paggio, tutto è finalizzato a far crescere in lei il senso di colpa per un fallo che non ha commesso e per far aumentare il rimpianto di aver lasciato un ambiente dove veniva rispettata e amata da tutti. Perciò viene indotta a ad ammettere di preferire il convento, anche se tutto ciò rappresenta soltanto la conseguenza di uno sfogo e della necessità di sentirsi amata e considerata. Il padre, cosciente di questa fase, la riempie di attenzioni e di premure per evitare che riaffiorino in 12
lei i suoi veri sentimenti e la intrappola con lo sguardo quando, ritornando a Monza, la giovane chiede alle suore di entrare nel convento. La corruzione arriva anche alle monache e all’ispettore delle novizie che, interiormente, intuiscono la natura delle scelte della ragazza, ma preferiscono fingere di credervi piuttosto che aiutare Gertrude ad essere felice. Di tutta la frustrazione della vita monacale, ne I promessi sposi Manzoni narra brevemente solo qualche episodio e della storia con Egidio si limita a dire: Quel lato del monastero era contiguo ad una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. E la sventurata rispose. (cap. X) Potendo rifarsi solo a queste poche righe, Gonin non ci fornisce alcuna rappresentazione relativa all’incontro o alla storia d’amore, ma alcuni illustratori successivi sì. Giorgio de Chirico (Fig. 21) inquadra bene il momento dell’ incontro fra i due e sottolinea la devozione della monaca a Egidio, ponendo lui in alto e lei in basso con le mani giunte, come nell’atto di pregare e con l’atteggiamento di una devota. Solo che in questo caso si tratta di una devota al sesso e non a Dio. La suora possiede questa carnalità insita nelle sue fibre e, in un contesto del genere, non può far altro che sfogarsi attraverso la colorazione delle labbra, la cura dei capelli o il saio particolarmente attillato. È chiaro che la presenza e l’iniziativa di Egidio scatenano in lei la voglia di liberarsi dalla vita che non ha mai desiderato e di abbandonarsi alla pienezza della sua voglia di amare un uomo. D’altra parte Egidio è veramente malvagio. Perverso e riprovevole, ricorda vagamente la figura del principe padre, in quanto capisce la debolezza della monaca e la sfrutta a proprio vantaggio, sottomettendola, ricattandola e schiavizzandola, nella consapevolezza che ormai lei non può più fare a meno di lui e dei loro incontri. È probabile che questi caratteri così crudeli siano ispirati ai personaggi di Sade, dal momento che Manzoni vive a Parigi proprio quando le opere del letterato, rinchiuso in manicomio, iniziano ad entrare in circolazione. 13
Federico Maggioni (Fig. 22) preferisce riportare solo il luogo che fa da sfondo alle vicende dei due amanti e il colore dominante è il nero, simbolo di malvagità e corruzione. Gli unici punti di riferimento sono le due frecce che specificano la natura delle due costruzioni. In generale tutto è cupo, triste e tetro. Anche qui è evidente come i riferimenti vadano oltre le parole del testo e richiamino tutto quello che non è sopravvissuto nella stesura finale del romanzo, processo evidentissimo anche in un altro passaggio della storia. Infatti, là dove Manzoni dice solo: Per qualche tempo, non parve che nessuna pensasse più in là; […] la conversa, buttò là una parola, che lei sapeva qualche cosa, e che, a tempo e luogo, avrebbe parlato. Da quel momento in poi, la signora non ebbe più pace. Non passò però molto tempo, che la conversa fu aspettata in vano, una mattina, a’ suoi ufizi consueti. […] Forse se ne sarebbe potuto saper di più, se, in vece di cercar lontano, si fosse scavato vicino. (cap. X) Gonin rappresenta Gertrude, visibilmente preoccupata, parlare con un’altra suora (Fig. 23). In fin dei conti, la verità viene solo accennata e la fantasia del lettore è libera di immaginare che cosa possa essere successo. Maggioni, al contrario, non lascia immaginare nulla (Fig. 24): sfondo bianco, disegno nero e tratti lunghi e violenti, un sole nero all’orizzonte, un albero dai rami affilatissimi come urlassero verso il cielo, un teschio enorme che ricorda il volto della bambola con la quale giocava Gertrude da piccola e che il padre/diavolo tiene in mano nella Fig. 19. Ma è ovvio e comprensibile che, all’epoca, Manzoni non potesse permettere di mantenere nel suo romanzo degli episodi e dei particolari così violenti. Tutte le modifiche che applica a questa vicenda, a quella dell’Innominato e a quella della morte di don Rodrigo sono finalizzate alla trasmissione di un messaggio etico che deve formare la coscienza di una Italia in via di unificazione. Non sarebbe credibile che, dopo tutto quello che ha passato, al termine della sua vita, la monaca si converta e decida di murarsi viva, come sarebbe altrettanto ridicola la conversione dell’Innominato se non venissero censurate le malefatte del conte del Sagrato, così come sarebbe inammissibile il perdono di Renzo di fronte all’ennesimo torto di don Rodrigo prima di morire di peste. Il messaggio, oltre che facilmente fraintendibile, non riuscirebbe a trasmettere il valore del perdono, dell’umiltà, della fede e della Provvidenza che, invece, muovono tutta la morale del libro e che, quindi, hanno senso solo se gli episodi sono immersi dalla vaghezza. È così che, al termine del libro, ha senso la conversione e il cambio di rotta di Gertrude: 14
Seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s’era ravveduta, s’era accusata; e che la sua vita attuale era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare uno più severo. (cap. XXXVII) Gonin (Fig. 25) la ritrae come una vera monaca che prega, prostrata, in ginocchio, di fronte al crocifisso, con l’aria di chi finalmente ha trovato la pace che tanto le mancava prima. Alberto Sughi9 (Fig. 26) la vede rinchiusa nel suo martirio volontario, con una mano sul cuore e un raggio di sole (o di speranza) che la raggiunge da una fessura, all’altezza del volto. Federico Maggioni (Fig. 27), cinico come in qualsiasi altro suo disegno, scende a mio avviso nel macabro e pone la sciagurata lunga, avvolta di nero, con una mano chiusa a mo’ di artiglio e l’altra protesa verso l’alto. È un po’ come se fosse in un sarcofago e dalla sua bocca sputa liquido nero, mentre dal crocifisso escono fiotti di sangue, come fuoco. L’interpretazione che voglio dare è che le emissioni rappresentano la purificazione della donna attraverso l’auto- supplizio. Il rosso potrebbe essere legato ai delitti e alla lussuria, il nero alla malvagità e alla sofferenze causate dalla donna. 9 Alberto Sughi è nato a Cesena nel 1928. Pittore autodidatta, grazie a varie esperienze formative, scelse con decisione la strada del realismo, nell’ambito del dibattito fra astratti e figurativi dell’immediato dopoguerra. I dipinti di Sughi rifuggono tuttavia ogni tentazione sociale; mettono piuttosto in scena momenti di vita quotidiana senza eroi. La ricerca di Alberto Sughi procede, in modo quasi costante, per cicli tematici, che hanno il sapore della sequenza cinematografica. Sughi ha partecipato a tutte le più importanti rassegne d’arte contemporanea, dalla Biennale Internazionale d’Arte di Venezia alla Quadriennale di Roma, sino alle numerose mostre che hanno proposto all’estero le vicende dell’arte italiana dagli Anni Settanta ad oggi. Nel 1994, ha ricoperto la carica di Presidente dell’Ente Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma. Nello stesso anno ha partecipato alla mostra “Il ritratto interiore”, al Museo Archeologico Regionale di Aosta e ha, inoltre, ricevuto il prestigioso premio De Sica, destinato a personalità di rilievo nel campo delle arti, della cultura e delle scienze, direttamente dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. [http://biografie.leonardo.it/biografia.htm?BioID=1235&biografia=Alberto+Sughi e http://it.wikipedia.org/wiki/Alberto_Sughi] 15
Francesco Gonin (Fig. 12) Francesco Gonin (Fig. 11) Roberto Focosi (Fig. 13) Gallo Gallina (Fig. 14) Giorgio de Chirico (Fig. 15) 16
Giovanni Schiaroli (Fig. 16) Federico Maggioni (Fig. 17) Gallo Gallina (Fig. 18) Gallo Gallina (Fig. 19) Federico Maggioni (Fig. 20) 17
Giorgio de Chirico (Fig. 21) Federico Maggioni (Fig. 22) Francesco Gonin (Fig. 23) Federico Maggioni (Fig. 24) Francesco Gonin (Fig. 25) Alberto Sughi (Fig. 26) 18
Federico Maggioni (Fig. 27) 3. Il rapimento di Lucia Lucia, entrandovi, e vedendola affatto solitaria, sentì crescere la paura, e allungava il passo; ma poco dopo si rincorò alquanto, nel vedere una carrozza da viaggio ferma, e accanto a quella, davanti allo sportello aperto, due viaggiatori che guardavano in qua e in là, come incerti della strada. Andando avanti, sentì uno di que’ due, che diceva: “ecco una buona giovine che c’insegnerà la strada”. Infatti, quando fu arrivata alla carrozza, quel medesimo, con un fare più gentile che non fosse l’aspetto, si voltò, e disse: ”quella giovine, ci sapreste insegnar la strada di Monza?”. "Andando di lì, vanno a rovescio,” rispondeva la poverina: “Monza è di qua…” e si voltava, per accennar col dito; quando l’altro compagno (era il Nibbio), afferrandola d’improvviso per la vita, l’alzò da terra. Lucia girò la testa indietro atterrita, e cacciò un urlo; il malandrino la mise per forza nella carrozza: uno che stava a sedere davanti, la prese e la cacciò, per quanto lei si divincolasse e stridesse, a sedere dirimpetto a sé: un altro, mettendole un fazzoletto alla bocca, le chiuse il grido in gola. Intanto il Nibbio entrò presto anche lui nella carrozza: lo sportello si chiuse, e la carrozza partì di carriera. L’altro […] era costui uno sgherro di Egidio. (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XX) Anche in questo caso le immagini di Gonin (Fig. 28), Gallina (Fig. 29) e Focosi (Fig. 30) sono pressoché identiche. La carrozza, il Nibbio che la tiene da dietro, l’altro complice che si guarda attorno per accertarsi che non vi siano testimoni nei paraggi. Giorgio de Chirico (Fig. 31), come gli atri, non si lancia in un’interpretazione singolare dell’evento ma si limita a sottolineare la rapidità e la violenza dell’atto attraverso tratti molto irregolari, imprecisi e veloci. 19
Indubbiamente Maggioni (Fig. 32) è quello che sorprende di più. Ritroviamo, un’altra volta, l’elemento dell’uccello comparso nei primi capitoli, quando don Abbondio viene minacciato dai bravi di don Rodrigo. Ricordiamo che questo volatile è il simbolo della malvagità, dell’odio, dei soprusi, della violenza e è particolare come l’artista scelga di immortalare il momento del rapimento di Lucia attraverso l’immagine del rapace che agguanta la poverina portandola via come una preda. Anche questa volta, a mio avviso, è evidente come Maggioni scelga di andare oltre e di rivelare ciò che nel testo non viene esplicitamente detto, contrariamente agli altri illustratori che rimangono spesso molto fedeli alle descrizioni dell’autore. Secondo me non è un caso che l’abbigliamento con il quale l’artista veste Lucia ricordi quello di una monaca. In fin dei conti il legame con Gertrude è automatico. Entrambe le donne sono vittime di uomini prepotenti e malvagi. Gertrude è indissolubilmente legata a Egidio e Lucia viene perseguitata dalla brama di sesso e dai capricci del potente don Rodrigo. La monaca, per di più, è proprio una delle complici maggiori. Ricattata da Egidio, combatte con i sensi di colpa anche se poi, incapace per natura di ribellarsi, rimane chiusa nella trappola tesale dall’amante. Evidente quando Manzoni dice: Quando Gertrude, che dalla grata la seguiva con l’occhio fisso e torbido, la vide metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile, aprì la bocca, e disse: “sentite, Lucia!” Questa si voltò, e tornò verso la grata. Ma già un altro pensiero, un pensiero avvezzo a predominare, aveva vinto di nuovo nella mente della sciagurata di Gertrude. (cap. XX) La monaca di Monza è lacerata da un conflitto interno tra l’aspirazione al bene e una volontà, debole e incerta, che le impedisce di ribellarsi all’ordine dello scellerato amante. Viene messa in luce, per l’ennesima volta, non solo la fragilità della donna, ma anche la sua tentazione di cedere al bene. Anche Gertrude, quindi, sarebbe rappresentabile attraverso un’immagine simile e qui l’unico elemento distintivo che ci può far comprendere che la figura in questione è Lucia e non la monaca è rappresentato dalle scarpe rosse e dalla sottoveste, rossa anch’essa. 20
Francesco Gonin (Fig. 28) Gallo Gallina (Fig. 29) Roberto Focosi (Fig. 30) Giorgio de Chirico (Fig. 31) Federico Maggioni (Fig. 32) 21
4. La peste Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato. (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXIV) La peste descritta da Manzoni viene rappresentata da Gonin attraverso l’allegoria di un mostro munito di falce. Nell’illustrazione (Fig. 33), infatti, la peste è un essere con ali di pipistrello che regge una falce mantenendo, in volto, un ghigno che lo deforma. Allo stesso modo Giovanni Schiaroli (Fig. 34) mantiene l’immagine della falce, ma preferisce non soffermarsi troppo sui dettagli fisici e abbozza malamente la figura della peste, coprendola con un velo verde scuro che ricorda, nell’immaginario comune, il lenzuolo dei fantasmi della morte. Preferisce, inoltre, collocarla in un prato e ritrarla proprio nel momento in cui, inesorabile, trancia via erbe e fiori. Maggioni non si smentisce nemmeno con la peste (Fig. 35). Egli immagina la diffusione della malattia come degli scampoli di stoffa neri che si propagano per la città avvolgendone e contaminandone gli abitanti. La scena è dominata dal rosso, premonitore di morte e anticipatore di sofferenza. Riguardo a questa immagine occorre anche fare delle precisazioni sull’ambiente circostante le figure in primo piano (due cittadini che stanno contraendo la malattia). Mentre Gonin e Schiaroli fanno della peste una allegoria e la collocano in una dimensione poco concreta e molto simbolica, Maggioni entra nello specifico e la inserisce all’interno di una città, Milano, che sta vivendo disordini a livello sociale. Ci sono molti elementi che rimandano alla situazione politica e sociale della Milano dell’epoca. Prime fra tutto, le frasi scritte sul muro di fondo, in diverse lingue, richiamano i graffiti moderni lasciati lì a denuncia dei mali dello Stato e dei problemi dei lavoratori. Troviamo infatti slogan come: “Pan y Libertad” (pane e libertà), chiaro sintomo della fame e della miseria del popolo che si sente schiavo delle proprie leggi; “No tengo dinero” (non ho soldi), altra denuncia dell’estrema povertà e delle difficili condizioni di vita; “El pueblo unido” (il popolo unito), minaccia verso i pochi che comandano sui molti, a ricordare che è l’unione delle masse a fare la forza di uno stato; “Abbaso il viccario”, esempio, fra le altre cose, anche del basso livello di scolarizzazione e alfabetizzazione; “Crepi la giunta” o “Moiano gli affamatori”, già chiari senza bisogno di ulteriori spiegazioni; “Wir sind die ordnung” (noi siamo l’ordine) e “Der sieg wird unser sein” (la vittoria sarà nostra), ulteriore rivendicazione della 22
forza di un popolo nella sua collettività e unione. Ma tutto questo disordine e tutte queste frasi intimidatorie contro lo stato, a mio avviso, forse sono anche un modo per esprimere indirettamente la critica manzoniana alla superficialità e agli errori commessi dalle commissioni sanitarie nel prendere provvedimenti contro l’epidemia. In un passaggio del romanzo Manzoni scrive: In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro. (cap. XXXI) Innanzi tutto la critica è mossa verso la mancanza di prontezza delle autorità. Esse hanno la colpa di negare l’evidenza e, per paura, fingono di non comprendere quello che sta realmente accadendo, una epidemia di peste. All’inizio cercano giustificazioni attraverso la possibilità che si tratti di un’altra malattia, poi viene assunto un commissario che, con l’aiuto dei medici, valuta i casi delle prime vittime per accertarne la natura. Si preferisce dare la colpa al tempo o alle esalazioni autunnali delle paludi e, a causa della forte incompetenza dell’autorità pubblica e della lentezza burocratica, si incitano manifestazioni pubbliche di massa, senza considerare l’eventualità che la vicinanza di così tante persone favorisca il contagio. È così che i provvedimenti tardivi delle autorità permettono l’ingresso definitivo della malattia in città e l’aumento dei casi di peste non fanno altro che sconvolgere la folla, la quale, ignorante e facilmente condizionabile e impressionabile, cerca un capro espiatorio, un bouc émissaire, come lo chiama Camus ne La Peste, che viene riconosciuto negli untori. Ecco perché Maggioni pone, in un angolo del suo disegno a sinistra, a terra, un volantino sul quale è riportata l’immagine stilizzata di un uomo che unge un muro e la scritta “Achtung”, cioè attenzione. Per quello che riguarda le vicende dei capitoli sulla peste, molti sono gli incontri importanti che fa Renzo, ma uno più di tutti è rimasto nella memoria collettiva, quello della madre di Cecilia. Scendeva dalla soglia di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; […] La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; […] Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben 23
accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento. Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però dimostrare sdegno né disprezzo, “no!” disse: “non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete.” Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: “promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.” […] La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: “addio, Cecilia! riposa in pace! stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.” Poi voltatasi di nuovo al monatto, “voi” disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.” Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. (cap. XXXIV) Considerata come una delle pagine più struggenti e commoventi di tutta la letteratura italiana, lo strazio e la pena per questa madre che aspetta di morire con la figlia più piccola hanno ispirato tantissimi artisti. Gonin (Fig. 36) ritrae la madre con Cecilia in braccio, il carro dei monatti e i corpi accatastati e scomposti. Aligi Sassu, invece (Fig. 37), si concentra solo sulla figura della madre. In questa inquadratura il carro dei monatti è solo accennato con qualche tratto di matita sullo sfondo e la donna è sola, in primo piano, completamente avvolta di nero. Sembra reggere in mano qualcosa, ma è difficile intravederne la natura, perciò possiamo supporre che sia il momento in cui la donna ha appena abbandonato il corpicino della figlia e si sta dirigendo verso la più piccola per lasciarsi andare alla pace dell’altro mondo e al ricongiungimento con la creatura perduta. Giorgio de Chirico (Fig. 38) preferisce ritrarre la madre in una posizione di prostrazione: in ginocchio, offre la sua bimba ai monatti con la richiesta di lasciarla così, coperta, e di passare a prendere lei e l’altra figlia al tramonto. La 24
posizione della bambina è completamente diversa da come viene descritta nel romanzo. La disperazione della donna è visibile in volto e il braccio sinistro della bambina sembra appoggiato al ginocchio della madre, come per incoraggiarla e farle forza, all’insegna della speranza in una vita migliore. De Chirico opera praticamente a rovescio. Se Gonin fa in modo che tutto della bambina sembri ancora vivo tranne il braccio, indice del decesso, qui il braccio è l’unica cosa che sembra essere animata da sentimento. Schiaroli (Fig. 39) gioca di più sull’effetto cromatico. La pertinenza al testo manca sia per quello che riguarda la figura della madre, che qui sembra una bella donna, vestita a modo, con delle scarpe eleganti e tutt’altro che malata in punto di morte, sia nella posizione della bambina, stesa sulle braccia della madre invece che semi-seduta. Cecilia, però, è soffusa dal bianco della sua veste che riflette l’ innocenza e la purezza di una bambina di nove anni. Maggioni (Fig. 40) decide di rappresentare la madre ed entrambe le figlie insieme. Cecilia è quasi invisibile stretta fra le enormi braccia della mamma. Quest’ultima e la figlia più piccola sono avvolte dalla peste e il loro viso ricorda un teschio. Anche qui, in teoria, non dovrebbe essere la fisicità a contare, bensì dovrebbe essere il valore simbolico degli elementi a renderli meno angoscianti di quello che appaiono a prima vista. A mio avviso Maggioni non ci riesce. Il significato nascosto non va oltre la durezza dei suoi disegni: entrambe le figure sono vestite di rosso (non c’è più bisogno di sottolineare il perché) e la morte giace proprio accanto a loro, lì, stesa per terra, avvolta da un panno nero e legata come una mummia, pronta ad accogliere l’intera famiglia. Ed allora non possiamo che concludere questa sezione se non con l’immagine del lazzaretto: S’immagini il lettore il recinto del lazzaretto, popolato di sedici mila appestati; quello spazio tutt’ingombro, dove di capanne e di baracche, dove di carri, dove di gente; quelle due interminate fughe di portici, a destra e a sinistra, piene, gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi, o sulla paglia; e su tutto quel quasi immenso covile, un brulichio, come un ondeggiamento; e qua e là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un chinarsi, un alzarsi, di convalescenti, di frenetici, di serventi. Tale fu lo spettacolo che riempì a un tratto la vista di Renzo, e lo tenne lì, sopraffatto e compreso. (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXV) Gonin (Fig. 41) non entra nei particolari e guarda tutto da lontano, dandoci solo un’idea della vista che si apre agli occhi di Renzo all’arrivo nel lazzaretto. 25
Maggioni interpreta, va oltre e stupisce il lettore con un effetto grafico senza precedenti (Fig. 42a). Inizia ponendo fra una parola e l’altra alcuni piccoli scarafaggi, simili fra loro e colorati diversamente. Si capisce subito che sono la rappresentazione dei malati, ma quando si volta la pagina ci si trova di fronte ad uno spettacolo che lascia proprio sbalorditi (Fig. 42b). Ci sono due pagine bianche, senza parole, piene di questi piccoli insetti, che camminano, in massa, tutti verso la stessa destinazione: la morte. Chi più avanti, chi più indietro, ognuno col suo passo, chi da solo e chi in compagnia, ma comunque tutti malati e io credo che l’espressione del lettore nel vedere questo ammasso irregolare e confuso di scarafaggi sia proprio la stessa di Renzo all’ingresso del lazzaretto. A modo suo, come sempre, Maggioni ha ricreato la situazione del libro e, con questa veduta d’insieme, ci ha voluto ricordare come la peste sia la malattia più equa. È, per così dire, una malattia democratica, che colpisce tutti, inesorabilmente, senza distinzioni di ceto e condizioni (notare il diverso colore degli animali). Tutti sono sottoposti allo stesso supplizio, dal riccone prepotente alla bambina innocente, dall’umile frate alla mercantessa, dai ladri alla gente per bene. Tutti sono messi alla prova e tutti hanno la possibilità di far riaffiorare la propria umanità. La peste è, infatti, capace di tirar fuori il vero animo, la vera essenza, quella che resta per la maggior parte delle volte nascosta e che, a volte, nemmeno noi conosciamo. Francesco Gonin (Fig. 33) Giovanni Schiaroli (Fig. 34) 26
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