Un velo di sobrietà Pier aldo rovatti uno sguardo filosofico sulla vita pubblica e privata

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Pier Aldo Rovatti

 Un velo di sobrietà
  Uno sguardo filosofico
sulla vita pubblica e privata
         degli italiani
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© il Saggiatore S.p.A., Milano 2012
Un velo di sobrietà
Sommario

Premessa
  Cosa si svela e cosa viene velato                   11

Prima pARTE
Il fantasma della libertà                             17
                        LA CATTIVA POLITICA E QUELLA BUONA

1. Amministrare il cambiamento
   è ancora possibile                                 19
2. La breccia di Pisapia                              22
3. Il referendum, una pratica di libertà              25
4. La «gente», insomma noi                            28
5. Il degrado del discorso pubblico                   31
                                            CAPITALE UMANO

1. Non c’è solo rassegnazione                         35
2. Consumate, anzi no, non consumate                  38
3. Valore di scambio contro valore d’uso              41
4. Il limbo dell’università riformata                 44
5. La scuola della grattachecca                       47
6. L’indignazione e l’alibi della violenza            50
7. Inchiostro rosso                                     53
8. Il trionfo della valutazione                         56
                                   DENTRO LA VITA QUOTIDIANA

1. La piccola Elena, il piccolo Jacopo                  59
2. La vita è indisponibile, per legge                   62
3. Il paradiso perduto di Oslo                          65
4. La società dei corpi senz’anima                      68
5. Morire di istituzione                                71
                                             QUALE CULTURA

1. Una nuova idea di famiglia                           75
2. Il nostro cavallo azzurro                            78
3. Servitù volontaria                                   81
4. Niente paletti all’informazione                      84
5. Il realismo che lava i cervelli                      87
6. Una cultura del nulla                                90
7. L’arte del ritardo                                   93

seconda pARTE
Un’Italia equa?                                         97
                         LA CATTIVA POLITICA E QUELLA BUONA

1. La svolta emotiva                                    99
2. Il governo dei professori                           102
3. La guerra del fisco                                 105
4. Un parresiasta                                      108
5. Perché non possiamo dirci ottimisti                 111
6. Il buco nero della manutenzione                     114
7. Psicologia dell’evasore                             117
8. Vita da Lusi                                    120
9. Trasparenza                                     123
10. Qualche riflessione sul nuovo populismo        126
11. Spending review                                129
12. Furbi e ladri                                  132
13. Argent de poche                                135
                                          CAPITALE UMANO

1. Siamo tutti soggetti indebitati                 139
2. L’articolo 18 non è solo un simbolo             141
3. Consumatori responsabili                        144
4. Una società che non sa più pensare              147
5. Scrivere per non essere letti                   150
6. E ora cosa farai?                               153
7. Quel pasticciaccio dei test                     156
8. Il filosofo cuoco                               159
                               DENTRO LA VITA QUOTIDIANA

1. Quella nave così emblematica                    163
2. Benvenuta semplificazione
   (ma internet non fa miracoli)                   166
3. La nave del manicomio non è affondata           169
4. Telemaco e Ulisse                               172
5. Quando la mancanza di riconoscimento
   diventa tragedia                                175
6. Il «mostro» di Brindisi                         178
7. Il fascino discreto del terremoto               181
8. Un’Olimpiade un po’ opaca                       184
9. La lezione perturbante delle Paralimpiadi       187
quale cultura

1. Sono davvero finite le telenovelas?               189
2. Curare le parole                                  192
3. Una falsa prossimità                              195
4. Concorso esterno                                  198
5. La fabbrica delle illusioni                       201
6. La Rai e il degrado culturale                     204
7. Paura del contagio                                207
8. Volgarità e maschilismo                           210
9. Prigionieri dei mercati                           213
10. Cittadini senza volontà                          216
11. La pazienza che abbiamo perduto                  219
12. Il silenzio, un’arte molto difficile             222
13. Il privato ha inghiottito il pubblico            225

Indice dei nomi                                      229
Premessa
Cosa si svela e cosa viene velato

1. Il lettore trova qui sessantotto scene distribuite in due parti secon-
do quattro rubriche tematiche. Brevi narrazioni che riguardano la vi-
ta pubblica e la vita privata degli italiani lungo un periodo che va dal
maggio 2011 all’ottobre 2012. O, piuttosto, incursioni in eventi signi-
ficativi della cronaca sociale e politica, realizzate con l’arma – spero
affilata – della critica filosofica.
     Queste incursioni, abbastanza scomode come deve essere lo
sguardo della filosofia, registrano nel loro insieme una promettente
discontinuità e una preoccupante continuità. La data pivot di quel-
la che chiamo discontinuità è naturalmente il novembre del 2011,
quando, in politica, Berlusconi deve fare un passo indietro e cede-
re la leadership al cosiddetto governo tecnico di Mario Monti. Da
questo tornante prende titolo il libro, indicando nella sobrietà il ca-
rattere di un cambiamento che nessuno può negare, e aggiungendo
la parola velo cui attribuisco diversi significati, innanzitutto quello
di una essenziale fragilità.
     Così ho intitolato la prima parte «Il fantasma della libertà»,
una libertà intravista e fortemente desiderata, e ho dato alla secon-
da parte un titolo interrogativo, «Un’Italia equa?»: l’assonanza che
quest’ultimo contiene fa già declinare la domanda nel dubbio che
ciò che si cercava (e che veniva annunciato), cioè l’equità, abbia
anch’esso rivelato nel giro di un anno una consistenza fantasmatica.
Se il velo di sobrietà ha introdotto nella vita degli italiani un sup-
plemento di civile distanza culturale, nel contempo non è riuscito a
12  Un velo di sobrietà

contenere il declino delle condizioni materiali (si pensi solo a disoc-
cupazione, precarietà, mancanza di futuro per i giovani), né a con-
vincere davvero i cittadini della virtuosità dei sacrifici di volta in
volta richiesti per arginare il disastro economico.
     Piuttosto, il fragile velo ha finito per svelare e mettere a nudo
un’emergenza sociale che è diventata sempre più acuta nella misu-
ra stessa in cui veniva alla superficie una vastissima realtà di malco-
stume pubblico e privato, che ha ulteriormente minato la credibilità
della politica. Il 2012 si è infatti chiuso con gli scandali della corru-
zione diffusi a macchia d’olio nel «pubblico» e con l’ascesa di un or-
mai incontestabile fenomeno di disaffezione alla politica, insomma
con un’evidente crisi di governamentalità.
     Le quattro rubriche tematiche, che scorrono in tutto il libro
senza soluzione di continuità, intendono appunto accentuare la
permanenza di un disagio sociale che possiamo osservare da molti
punti di vista: politico («La cattiva politica e quella buona»), gene-
razionale, cioè relativo alla formazione e alla condizione lavorativa
soprattutto dei giovani («Capitale umano»), esistenziale, cioè rela-
tivo alle condizioni di vita individuali («Dentro la vita quotidiana»),
e infine complessivamente culturale («Quale cultura»). Altri punti
di osservazione potrebbero essere qui rappresentati: questi sono so-
lo alcuni degli indicatori utilizzabili, e inoltre – come il lettore può
constatare – gli sconfinamenti e le sovrapposizioni risultano palesi.
Ne esce uno scenario di inquietante continuità e talora si ha pro-
prio l’impressione di trovarsi su un piano inclinato.
     Faccio solo l’esempio del registro culturale. Con il declino di
Berlusconi e lo sfaldamento evidente del suo raggruppamento po-
litico possiamo affermare che la cultura «berlusconiana» sia uscita
di scena? La risposta è no. Il carattere «televisivo», che costituisce
l’essenza di tale cultura (promossa e fatta diventare dominante da
Berlusconi), non si è per nulla dissolto e forse si è incrementato at-
traverso pratiche di protagonismo e di populismo delle idee cor-
renti, attraverso una mediatizzazione ancora più marcata della vita
intellettuale, nonostante i tentativi di rilanciare la dimensione del
cittadino e dei diritti. La cultura del mercato e delle sue necessità,
Premessa  13

cioè la cappa della stretta economica che ha annichilito i soggetti la-
sciandoli spesso senza parole, ha prodotto un’ideologia paralizzante
(e un’etica di sostegno a tale paralisi della criticità) che si è sposata
con quella che chiamo appunto «cultura televisiva»: uno spettaco-
lo senza soggettività che qualcuno ha perfino legittimato con il no-
me di «realismo».
     La stessa sobrietà si è presto trasformata in una forma di spet-
tacolo al quale saremmo invitati come figuranti o comparse, alla
condizione di mettere da parte bisogni e desideri. La continuità cul-
turale, che sto esemplificando, non deve essere valutata solo sulla
base di comportamenti sessuali anomali e spettacolari: se forse ab-
biamo girato pagina rispetto al mercato «televisivo» dei corpi fem-
minili, tuttavia lo spettacolo continua in altre forme meno eclatanti
e il cliché del protagonismo resta un imperativo culturale nel quale
tutti siamo ancora immersi.
     Anche i mercati internazionali (pensiamo solo alle oscillazioni del-
lo spread) vengono vissuti come una rappresentazione spettacolare
che viaggia ben al di sopra delle nostre teste e rispetto alla quale ci tro-
viamo perlopiù, o quasi sempre, nella posizione dello spettatore pas-
sivo che si limita a osservare. E quando tentiamo di uscire da questo
involucro o gabbia culturale mettendo in campo le nostre esigenze
materiali, indignandoci o gridando che la situazione è insopportabi-
le e perfino invivibile, tali indignazioni e grida, se vengono udite dalla
cultura dominante, subito si trasformano in puntate della telenovela,
eccipienti culturali da inserire nella trama, episodi di un’unica fiction
in cui i soggetti quasi mai riescono a riconoscersi. Come se ci fossero
una realtà di serie A, che fa cultura, e una realtà di serie B, noiosa e in-
consistente, già scontata e stravista, riducibile a stereotipi («violenza»,
«manifestazione», «ordine pubblico», «populismo», «antipolitica»)
che come tali non hanno un effettivo rilievo nella cultura di massa.

2. Ma cosa c’entra in tutto ciò la filosofia? E che tipo di libro è que-
sto che state cominciando a leggere? È chiaro che il significante
«filosofia» viene qui usato in una maniera specifica e abbastanza inu-
suale. È un modo di guardare i fatti: innanzitutto di sceglierli, poi di
14  Un velo di sobrietà

narrarli nella loro essenzialità, e in sostanza di fare in modo che par-
lino, per così dire, da soli, senza aggiungere riferimenti filosofici in
senso stretto, o solo raramente e come in controluce. Insomma, una
pratica di lettura e scrittura, che naturalmente non nasce per caso e
possiede un retroterra.
     Dovrei almeno ricordare che le scene di Un velo di sobrietà so-
no precedute da quelle di Etica minima (2010) e di Noi, i barbari
(2011; entrambi i volumi sono stati pubblicati dall’editore Cortina):
lì è cominciata l’elaborazione di un uso non disciplinare della filo-
sofia. L’espressione «etica minima» può descrivere bene questo uso:
una pratica di basso profilo che trattiene la voglia di universalità co-
sì cara alla filosofia, che segna alcuni limiti di sopportabilità (etica
significa per me una soglia sotto la quale non si può scendere), che
vede con sospetto l’immissione di modelli intellettuali già codificati
ed esterni, e che infine si affida soprattutto all’attenzione critica co-
me a un’arma certo spuntata ma ancora efficace e in nostro posses-
so. Si intravvede così un tipo di intellettuale sempre più marginale
nel contesto attuale e forse in via di estinzione, e perciò inusuale: il
suo lavoro critico tenta un anacronistico rallentamento nella fretta
di concludere e di additare subito nuovi orizzonti di trasformazione
in uno scenario che invece è opaco, quasi impermeabile.
     Le mie scene non vogliono fare sistema, anzi si sottraggono pro-
grammaticamente a ogni spirito sistematico e ovviamente all’idea
che la filosofia sia sempre una specie di cappello da mettere sulle co-
se: non ci vedrei alcun vantaggio, se pure fossimo in grado di farlo,
anzi un grosso rischio ideologico. A mio parere, la filosofia (che og-
gi si apparenta volentieri alla presunzione di una verità scientifica)
dovrebbe svuotare se stessa (o almeno cominciare a farlo) da quel
suo delirio di onnipotenza con cui continua irrisoriamente a convi-
vere, nonostante tutto. Chi la pratica dovrebbe scendere dall’albero
sul quale si immagina di essersi appollaiato (anche con il benesta-
re di molti politici di «sinistra») e riportarsi al livello del suolo, ab-
bassare lo sguardo.
     Penso addirittura che oggi il compito principale della filosofia
consista nel tentativo di azzerare i privilegi della élite dallo sguardo al-
Premessa  15

to, poiché ciascuno – ciascun cittadino – potrebbe diventare il filosofo
di se stesso e intensificare il proprio occhio critico. Utopia? Forse, e
magari anche suicidio di una categoria che dovrebbe allora impegnar-
si alla propria estinzione in nome della filosofia stessa. Una «politica»
paradossale, certamente, che non nasce però nel deserto. Basterebbe
considerare quante volte il pensiero contemporaneo più avveduto (un
esempio: Wittgenstein) ha indicato questa strada producendo molti
assensi e citazioni ma quasi nessun ascolto.
     In tutto ciò, a me pare che la scrittura filosofica, o semplicemen-
te la scrittura, giochi un ruolo determinante. E torno infine alle mie
rapide scene, e all’importanza che ha per me il fatto che siano, ap-
punto, scene (non sistemi di pensiero prêt-à-porter o batterie tasca-
bili di valori) e mantengano un carattere frammentario. Il tempo
rapido della lettura mi sembra più un antidoto che un rischio: vorrei
che creassero delle pause di riflessione su eventi che la cronaca ha
reso noti a tutti, delle fermate nel flusso delle informazioni che ogni
giorno incameriamo e il giorno successivo già abbiamo dimentica-
to. Delle interruzioni, insomma, nella frenesia della società mediati-
ca in cui viviamo, una società che ha nell’oblio e nell’amnesia alcuni
dei suoi più devastanti strumenti di opacizzazione.
     Queste scene (ciascuna con la sua data di stesura) nascono co-
me editoriali redatti per Il Piccolo e, dopo una riscrittura, vengono
chiamate a comporre il libro per cui sono state pensate fin dall’ini-
zio. La pratica giornalistica è stata essenziale per me al fine di rea-
lizzare, almeno un poco, quell’abbassamento del tono filosofico di
cui ho appena parlato. Ecco il mio esercizio di scrittura. Osservo, in
proposito, che nessun esercizio filosofico è davvero tale se si limita
al ritiro nella meditazione. Peter Sloterdijk, che ha rilanciato recen-
temente la questione (già evidenziata da Foucault all’inizio degli an-
ni ottanta), forse non sarebbe d’accordo.
     Il bagno nell’attualità – mi rendo conto – è una bella sfida per la
filosofia (e le sfide si possono anche perdere). Una sfida soprattut-
to per la scrittura filosofica, troppo spesso gergale, circonvoluta e
perfino noiosa, quasi fosse necessario frapporre un velo consistente
tra chi scrive e chi legge. Non sto parlando della divulgazione di un
16  Un velo di sobrietà

sapere alquanto esoterico e spero che non si confonda questo libro
con i molti tentativi popolar-populistici oggi in atto.
    L’importanza, e direi la politicità, di un’operazione di scrittura co-
me quella che qui propongo non ha niente a che fare con traduzioni
o applicazioni del sapere filosofico agli eventi della realtà che attraver-
sano le nostre esistenze. Nessun tesoro di saggezza da riversare nella
concreta quotidianità, solo il tentativo di aiutare a «leggerla» aprendo
qualche spazio di criticità.
    Se ho dei modelli? Certo, anche se faccio fatica a usare la parola
«modello». Potrei dire che Nietzsche è stato per me un costante sti-
molo mentale – anche se ormai ci appare così remoto – e che sono
quasi sempre d’accordo con le suggestioni di Foucault. Sono, d’al-
tronde, due nomi che esplicito in alcune delle scene. Il nome che
invece resta in sottofondo è quello di Pasolini, ma è dai suoi «scritti
corsari» che ho tratto la maggiore sollecitazione verso il tipo di scrit-
tura che vi accingete a leggere.

                                                       Pier Aldo Rovatti
                                                          dicembre 2012
Prima pARTE

Il fantasma della libertà
LA CATTIVA POLITICA E QUELLA BUONA

1. Amministrare il cambiamento
   è ancora possibile

Maggio 2011. Si vota per il nuovo governo di città e province, in un
momento politico generale che eufemisticamente potremmo defini-
re «agitato». Viene da chiedersi se abbiamo ancora un’idea di cosa
possa essere una buona amministrazione, e subito siamo portati ad
avvicinare l’amministrazione con il cambiamento e la trasformazio-
ne della società. Si può «amministrare» il cambiamento sociale? O
le regole dell’amministrare oppongono di per sé, in quanto regole,
un ostacolo alla vera trasformazione? Sono sempre dei freni e de-
gli inciampi?
     Guardo gli spot che accompagnano le candidature. Ciascuno fa
molte promesse di rinnovamento ed entra anche nello specifico del-
le diverse pratiche, come è doveroso. Promesse di una città «più»:
più umana, più civile, più bella… Ma, se sarà eletto o eletta, come
farà poi a mantenerle? Attraverso politiche che si tradurranno in at-
ti amministrativi, ovviamente. Sappiamo, però, che è molto più faci-
le mettersi al traino delle regole esistenti che tentare di modificarle.
Come si fa a rimontare la corrente di una simile inerzia? Ci vogliono
i giusti protagonisti, e magari ci sarebbero, ma non basta. Ci vorreb-
be inoltre una cultura della trasformazione, che oggi dà scarsi segni
di vita. A me sembra chiaro che il singolo candidato, pur bravissi-
mo, non può farcela. E che i gruppi politici che lo appoggiano non
garantiscono più di tanto quel virtuoso matrimonio tra amministra-
re e trasformare che i cittadini auspicano.
     Qualcuno pensa che questa idea dell’amministrare non appartie-
20  Un velo di sobrietà

ne al gene italiano, e non vedo come sia possibile dargli torto: come
se, appunto, amministrare fosse per la coscienza comune una «brut-
ta parola» che indica qualcosa di secondario. È qui che occorrereb-
be una piccola rivoluzione culturale che togliesse l’amministrazione
dal suo grigiore di subalternità e la promuovesse a un agire impor-
tante, capace di invenzione, essenziale per la comunità e la vita dei
cittadini, o almeno tale che i cittadini riscoprissero la loro fiducia
nei propri amministratori.
     «Non si può» è il triste messaggio cui ormai siamo abituati, ben
sapendo che non è un messaggio innocente (e allora la tristezza si
volta in rassegnazione e magari in rabbia). «Si può» è invece il mes-
saggio opposto che vorremmo riascoltare e che, per quanto delusi,
dovremmo in ogni modo alimentare. Dico «riascoltare» perché negli
anni settanta, per esempio a Trieste, l’incontro virtuoso tra volontà
di trasformazione sociale e amministrazione, in mezzo a una selva di
problemi che parevano tecnicamente insormontabili, con un pres-
sing quotidiano e un dispendio di volontà che oggi facciamo molta
fatica anche solo a immaginare, è pure avvenuto.
     Mi riferisco all’apertura del manicomio promossa da Basaglia e
dalla sua équipe grazie a un felice corpo a corpo con l’amministra-
zione provinciale di allora: una ricerca d’archivio, ora in corso (che
ha per titolo precisamente «Amministrare il cambiamento», condot-
ta dalla Fondazione Franca e Franco Basaglia insieme alla Provincia
di Trieste), mostra come il risultato positivo sia stato allora raggiun-
to attraverso la continua invenzione di strumenti amministrativi. Le
regole vennero intese non come camicie di forza, ma come conteni-
tori elastici da interpretare e da allargare in vista del miglioramen-
to. Così, quel che pareva alla lettera «impossibile», perché le norme
sembravano impedirlo, diventò «possibile» e addirittura sfociò in
una legge nazionale.
     Certo, altri tempi, altri personaggi, una diversa spinta sociale,
una cultura politica che si prendeva più sul serio e una cultura civi-
le assai più incisiva, socializzata, o quanto meno desiderante. Oggi,
viceversa, la cifra è quella del cinismo pubblico e privato: i politici
sembrano massimamente indaffarati a promuovere interessi di bot-
1. Amministrare il cambiamento è ancora possibile   21

tega e soprattutto consenso di facciata, i cittadini sono increduli, più
assenteisti che nutriti di ideali di trasformazione. Su tutti noi, do-
vunque operiamo, grava il peso dei microdispositivi, di una foresta
di regole inutili e perfino perverse da cui districarsi e che non lascia-
no né tempo né fiato alla cosiddetta libertà.
     Ma non è detto che la partita non possa riaprirsi e che di nuovo
il gioco delle «possibilità», del «si può», non sappia riprendere pie-
de. Sarà molto arduo, come negarlo, aprire un passaggio nel tunnel
della sottocultura trionfante e gettar via la coltre pesante della pas-
sività. Ma non è vero che sia spenta la circolazione sociale dei biso-
gni e dei desideri, basta parlare davvero con la gente, quasi che tutti
attendessero un segnale, l’indicazione di un cambiamento possibile.
Come sappiamo, simili dinamiche che covano sotto la cenere sfug-
gono in genere all’acume dei sociologi. Poi, di colpo, la scintilla atti-
va una reazione a catena. E non è detto che solo i giovani dell’Africa
mediterranea possano sviluppare soprassalti di libertà. Qui e ora, si
tratterebbe semplicemente di riaccendere un contatto tra ammini-
strazione e cambiamento. Già, perché no?

                                                        [maggio 2011]
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