NON HO PAROLE ANALFABETISMO FUNZIONALE E ANALFABETISMO PEDAGOGICO - MAURIZIO PARODI - ARMANDO EDITORE
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Maurizio Parodi Non ho parole Analfabetismo funzionale e analfabetismo pedagogico Leggere e scrivere a scuola ARMANDO EDITORE
Sommario Prefazione di roberto Maragliano 7 Poche parole... per cominciare 11 Le ParoLe dei baMbini 18 elogio dell’alfabeto 42 asino chi Legge 48 il libro: un investimento sicuro 67 Variazioni suL teMa 72 avvertenze e precauzioni 84 ParoLe in gioco 93 il vocabolario di barbiana... per non finire 110 Postfazione di giancarlo cavinato 121 bibLiografia 124 nota biografica 127
Prefazione di Roberto Maragliano corrisponde a realtà quanto sostiene un recente appello di seicento ac- cademici, vale a dire che i giovani scolarizzati d’oggi non sanno scrivere né leggere né parlare? o, su temi come questi, occorre andare con i piedi di piombo? Poi, quale tipo di parola, parlata letta scritta, è chiamato in causa da una simile denuncia? infine, ammesso che quel che vi si sostiene corrisponda al vero, c’è modo di uscire da una simile situazione o invece occorrerà rassegnarsi ai tempi? sono, questi, solo alcuni degli interrogativi che vengono su nel leggere il coraggioso saggio di Maurizio Parodi. Perché coraggioso? Perché assieme ai tanti “sì” sul cosa bisognerebbe fare di positivo nelle scuole, pronuncia, e molto chiaramente, tanti “no” su ciò che non si dovrebbe fare più (e che invece si continua a fare). un approccio come questo, ammettiamolo, non è usuale, oggi, rischia di passare per politicamente scorretto. se è così, ben venga il coraggio di essere scorretti. sì, perché scorretta, in quanto urticante, è la tesi principale del lavoro di Parodi. Mi assumo la responsabilità di formularla aggiungendo un quid al grido di dolore dei seicento: i giovani non sanno la scrittura scolastica, non sanno la lettura scolastica, non sanno la lingua scolastica. Visto? basta aggiungere un semplice aggettivo e tutto cambia. e l’appello si rivela per quello che sostanzialmente è: una prova (involontaria?) di esercitazione autoriflessiva. siamo seri, dunque. Per provare a cambiare la situazione attuale dell’alfabetismo funzio- nale, che è tutt’altro che tranquillizzante, non fosse altro per le ristrettezze quantitative che assume sul piano sociale, occorrerebbe, come primo e 7
necessario passo, lavorare a delegittimare la presenza implicita di quel- l’aggettivo all’interno dell’impegno pedagogico, prima che didattico, esercitato dalla scuola militante (le eccezioni sono sempre salve, ovvia- mente). detto in altro modo, per liberare la scuola occorrerebbe descolarizzare la cultura, a cominciare da quella accademica, e riconoscere che ci sono tanti e tanto diversi modi di concepire, praticare, insegnare, apprendere la parola parlata, quella letta, quella scritta. il mondo è vario, sempre più lo è, anche per via delle tecnologie che lo avvolgono e gli danno visibilità e consistenza, le vecchie come le nuove. dunque non ci possiamo più permettere una “scuola scolastica”, univoca e uniforme. Parodi ci aiuta a dirlo e farlo. Ma non si inventa nulla. anzi. La forza politica di questo suo lavoro sta proprio in ciò, nel proporre, anzi riproporre una elaborazione com- piuta sull’apprendimento linguistico, particolarmente feconda nel tren- tennio successivo alla seconda guerra. compiuta ma dimenticata. o tutt’al più richiamata ma privata delle sue componenti critiche all’interno dei documenti istituzionali del presente. Lì, in quella elaborazione, c’è un preciso e drammatico atto d’accusa rivolto alla scuola stessa: se sono sgrammaticati, i giovani, è perché ne fanno non già poca, di grammatica, quanto troppa e troppo manualistica; se scrivono così male è perché le pratiche che si propongono loro non si confrontano, se non in minima parte, con i meccanismi della comunica- zione pubblica; se leggono male è perché li si è condizionati fin dall’ini- zio ad associare lettura a esercizio pedante di analisi del testo. Questa pars destruens dell’impegno educativo era ben presente e forte nella letteratura scientifica e didattica cui Parodi fa sistematico riferi- mento. basti pensare, per fare un solo nome, emblematico, a célestin freinet. Per costruire bisogna prima di tutto depotenziare la parte nega- tiva dell’esistente. Vogliamo dirlo? Per costruire occorre distruggere ciò che si oppone alla costruzione. La via nazionale alla pedagogia costruttiva ha invece seguito la via dell’annessione retorica. si assumano tutte quelle belle idee all’interno dei documenti ufficiali, le si richiamino nei manuali universitari destinati alla formazione dei docenti, le si ripeta retoricamente fino a svuotarle di senso. tutto insomma, pur di non disturbare il manovratore. Leggi: am- ministrazione, editoria, università, e mi fermo qui! 8
insomma, siamo tutti vittime, e pure i seicento dell’appello lo sono, di una grossa rimozione collettiva. Volete una prova? se siete insegnanti o aspiranti, andate alla bibliografia che propone Parodi in calce al libro. segnatevi, tra quelli proposti, i titoli di autori come Piaget, Papert, bet- telheim, freinet, olson, ferreiro, denti e poi chiedeteli in libreria. Vi di- ranno “non disponibili” e vi proporranno in compenso un bel manuale. L’importante, insomma, è che non diate ascolto (e lettura) a frasi come questa (che risale al 1949: certo, millenovecentoquarantanove): i manuali sono un mezzo di abbrutimento. essi servono, e talora bassamente, i programmi ufficiali. Molti addirittura li appesantiscono, per non so quale fol- lia, di imbottiture ad oltranza. Ma raramente i manuali sono fatti per il bam- bino. essi dichiarano di facilitare, di ordinare il lavoro del maestro; si vantano di seguire passo passo... i programmi. Ma il bambino seguirà se può. non ci si è certamente preoccupati di lui (elise e célestin freinet, Nascita di una pe- dagogia popolare, La nuova italia, firenze 1955). ecco, Parodi aiuta a scoprire (o riscoprire) il freinet che è in noi. 9
Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? Parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e diecimila anni? E con qual facilità? Con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane, e la chiusa de’ nostri ragionamenti di questo giorno… galileo
Poche parole... per cominciare «ho perso le parole oppure sono loro che hanno perso me», cantava Lu- ciano Ligabue, rappresentando liricamente una condizione molto diversa rispetto a quella, ben più prosaica, evidenziata dalle ricerche sulle com- petenze linguistiche degli studenti italiani: si stima che un ginnasiale, nel 1976, conoscesse 1.600 parole, oggi non più di 500. hanno “perso le pa- role”, nel senso che il repertorio lessicale del quale dispongono è miser- rimo; le parole dell’italiano scolastico “si perdono”, nel senso che non attecchiscono, e “li perdono”, abbandonandoli alla deriva semantica di un gergo spoglio e involuto. Poche parole per dire le proprie idee, le proprie emozioni che così sfug- gono, disconosciute giacché innominate. non sanno esprimere, raccon- tare, spiegare, descrivere, dunque non sanno e non sanno di non sapere. «alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in ita- liano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente», si legge in una lettera, clamorosa, firmata da seicento docenti universitari, e indirizzata al Presidente del consiglio, al Ministro dell’istruzione e al Parlamento, docenti che per porre rimedio alle carenze linguistiche degli studenti hanno persino attivato, nelle rispettive facoltà, corsi di recupero di lingua italiana, per italiani, of course. da più parti risuona l’esortazione a intensificare (non necessariamente a migliorare) l’insegnamento della grammatica, della sintassi, fin dalla scuola primaria, come se nelle didattiche in uso non ve ne fosse traccia; ma così non è, anzi, accade l’esatto contrario: gli studenti sono assillati da lezioni sulle regole della lingua italiana, devono impararne i precetti attraverso interminabili esercitazioni anche domestiche (analisi del pe- riodo e del testo) meramente nozionistiche e sempre più precoci, con il risultato di cui si è detto, e denunciato da ogni parte, docenti compresi (evidentemente convinti che la scuola sia giusta e che gli studenti siano sbagliati), di ritrovarsi sprovvisti persino dei rudimenti essenziali. una logica paradossale, ma non straordinaria, nel nostro “sistema”: quando una “medicina” non funziona, anziché provarne una diversa, se ne au- mentano il dosaggio; e questa medicina non funziona per le ragioni già icasticamente enunciate da célestin freinet, il quale non a caso parlava di “metodo naturale” e “apprendimento cooperativo”, spiegando che 11
trattare la grammatica e la sintassi come si continua a fare nelle nostre scuole, imponendo lo studio della regola senza che se ne possa inten- dere il senso, è come mettere il carro avanti ai buoi: non c’è alcuna pos- sibilità di progredire – metafora di immediata accessibilità che non ha mai sfiorato la coscienza professionale della stragrande maggioranza dei docenti. eppure quelli universalmente esecrati sono gli esiti di una didattica che ignora il senso profondo della Riflessione linguistica: le regole si sco- prono, si ricostruiscono e si imparano, acquisendone competenza, attra- verso l’uso significativo, sensato, pregnante delle proprie facoltà espressive e comunicative, che in tal modo evolvono, si affinano, tanto più se il processo è naturale, condiviso, e se interessa la lingua viva; in- vece, nelle nostre aule, si privilegia l’analisi necroscopica di una lingua astratta e astrusa, morta o agonizzante, attraverso procedure che ne ste- rilizzano l’impiego e pregiudicano qualsiasi contatto, benefico, depu- rante, con il linguaggio quotidiano, sempre più involuto. si parla, con eccessiva disinvoltura, di “generazione 20 parole”, incol- pando, come sempre, il medium emergente: il pomeriggio a chattare con gli amici su Messenger, la sera a commentare le foto su facebook e in- stagram, il contatto frenetico e incessante con Whatsapp, la connessione permanente... la normalità di tutti i giovani, non solo occidentali, che causa lo sviluppo di un nuovo vocabolario, contratto, impoverito. L’uso (l’abuso) di tecnologia porta a ridurre la capacità di comunicare: nonostante un adolescente in media abbia un lessico di almeno 40 mila parole, quando parla con i propri coetanei ne utilizza soltanto 800, di cui appena venti monopolizzano un terzo delle conversazioni. Lo sostiene tony Mcenery (2011), professore di Linguistica alla Lancaster univer- sity, il quale teme che i nuovi media, i social, siano causa di un grave handicap per i ragazzi: con 800 parole non potranno affrontare il mondo del lavoro e raggiungere importanti successi. La generazione iPad crescerà con un vocabolario ridotto, conferma una ricerca del neuropsichiatra Marco catani (2015) dell’institute of Psychiatry, King’s college London, che sottolinea come la comunica- zione tecnologica limiti l’apprendimento di nuove parole. il nostro cer- vello impara infatti più facilmente nuovi termini quando li ascolta nell’ambito di conversazioni con altre persone, mentre l’utilizzo cre- scente di dispositivi digitali erode la tradizione orale, fa prevalere gli 12
stimoli visivi rispetto a quelli uditivi e si traduce in un numero minore di vocaboli padroneggiati. fenomeni indubbiamente rilevanti sugli effetti dei quali è necessario ragionare, evidenziando, però, le straordinarie opportunità che le tec- nologie offrono anche in termini di sviluppo cognitivo, e senza dimen- ticare che analoghe, catastrofiche previsioni avevano accompagnato la diffusione del cinema, strumento del demonio, della televisione, dia- bolica corruttrice di giovani condannati al plagio, all’abbrutimento e all’afasia, ma prima ancora (millenni fa) della scrittura che avrebbe do- vuto portare alla scomparsa della memoria: l’eterno conflitto tra apo- calittici e integrati. senza voler indulgere ad atteggiamenti tecnofrenici o tecnofobici, si ri- tiene utile rammentare, a chi studia questi processi, che i giovani in que- stione hanno trascorso tanta parte della loro vita a scuola, frequentata ogni giorno, anche per molte ore al giorno, per molti anni (10 o 15), e tanta parte della loro vita a svolgere i compiti a casa assegnati dalla scuola (l’ita- lia, in questo, eccelle – per carità di patria, si tace su altri primati non esat- tamente commendevoli); esposti a una didattica più o meno verbosa e pedantemente libresca, comunque pre-digitale, che, appare evidente, non produce alcun effetto in termini di arricchimento lessicale, di correttezza d’uso della lingua, di ampliamento delle capacità espressive e comunica- tive: un palese e scandaloso fallimento che, però, possiamo sempre im- putare all’irresponsabilità dei giovani e, non meno, dei loro genitori, ripiego (alibi) tipico di una cultura penosamente autoreferenziale. alla fine del percorso scolastico, gli studenti hanno scritto un’infinità di temi e riassunti, compilato migliaia di schede, svolto innumerevoli analisi del periodo, studiato per anni le regole più astruse, eppure (o, forse, proprio per questo) sono senza parole. Quella del progressivo impoverimento anche linguistico della popola- zione italiana non è una novità, ma la situazione si sta ulteriormente ag- gravando e i nostri studenti mostrano carenze allarmanti (dati ocse-Pisa, isfol-Piaac): l’italia, nonostante abbia un tasso di alfabetizzazione che sfiora il 100%, vanta il triste primato di Paese con la più alta percentuale di analfabeti funzionali dell’unione europea. un analfabeta funzionale non sembra necessitare di aiuto, è apparen- temente autonomo, invece non capisce i termini di una polizza assicura- tiva, non comprende il senso di un articolo pubblicato su un quotidiano, 13
non è capace di riassumere un testo scritto, non è in grado di interpretare un grafico. il problema, gravissimo, pare interessi il 70% degli italiani che legge, guarda, ascolta, ma non capisce. significa che tre italiani su quattro sono incapaci di ricostruire ciò che hanno ascoltato o letto o visto in tv, sul computer. sfugge loro la complessità del testo. colgono soltanto segni netti ma semplici, lampi di parole e di significati privi, tuttavia, di orga- nizzazione logica, razionale. si tratta di comunicatori analfabeti, tecnicamente analfabeti, cioè inca- paci di produrre un discorso articolato e coerente, di scrivere un testo cor- retto, e perfino di copiare e incollare in modo sensato (anche per fare un copia-incolla, decente, è necessario, prima, capire, scegliere, comporre...). Più del 50% degli italiani, ci aveva avvertito il grande linguista tullio de Mauro (2014), si informa o non si informa, vota o non vota, lavora o non lavora, utilizzando capacità di analisi elementari alle quali sfugge la complessità. un analfabeta funzionale traduce il mondo parametrandolo esclusiva- mente alle proprie esperienze dirette (la crisi economica è soltanto la di- minuzione del suo potere d’acquisto, la guerra in ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde a un taglio dei servizi pubblici...) e non è capace di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane nello spazio o nel tempo. forse sarebbe opportuno domandarsi cosa fanno nelle tante ore tra- scorse a scuola e dedicate allo svolgimento dei (soverchianti) compiti a casa gli studenti italiani. Leggono? Pochissimo a scuola, moltissimo a casa, ma solo i testi che devono essere compresi, analizzati, memorizzati. a scuola non si legge, perché si deve ascoltare il docente che “spiega” (quando non interroga), e a casa la lettura “obbligata e formativa” trasforma il libro in uno stru- mento di tortura, impegnando in esercitazioni sempre più estenuanti che non lasciano spazio (e voglia) per altro genere di lettura (quella fatta per il proprio piacere). scrivono? Moltissimo a scuola e a casa. riversano fiumi di inchiostro e toner sulla carta e miliardi di pixel sullo schermo del pc. Però scrivono solo 14
temi, riassunti, parafrasi, dettati... testi privi di senso, utilità, interlocu- tori: si scrive per dimostrare che si è capaci di farlo o per sbagliare così da permettere al docente la correzione. nessuna traccia di scritture “au- tentiche” (meno che mai collettive), di testi scritti a qualcuno, per una qualche buona ragione o per gioco, per il piacere di farlo. Parlano tra loro e con i docenti? Pochissimo. si parla a comando, con il docente, per ripetere ciò che si è studiato a casa, memorizzando nozioni destinate a dissolversi rapi- damente così come le parole che le esprimono (Solo se interrogato, è il titolo di un bellissimo libro di domenico starnone); e a casa, come del resto in classe, ciascuno per sé – la nostra è una scuola dell’individua- lismo e della competizione. ascoltano? Moltissimo o almeno dovrebbero e ci si provano, ma solo i discorsi più o meno comprensibili, sensati ed eloquenti degli innumerevoli in- segnanti che si avvicendano nella classe (fin dai primi anni di scola- rità); seduti, immobili, esposti a un profluvio di parole prive di connessione con esperienze, desideri, bisogni, sogni, ma anche prive di connessione tra le diverse discipline e tra i rispettivi docenti: parole vuote, asettiche, aride. anni addietro io giravo per i negozi di suppellettili scolastiche in città in cerca di banchi e seggiole che fossero più adatti da tutti i punti di vista – artistico, igienico ed educativo – ai bisogni dei fanciulli. incontrammo molte difficoltà a trovare ciò di cui avevamo bisogno, sino a che un negoziante più intelligente degli altri uscì in questa osservazione: “temo che non troviate quel che desi- derate. desiderate qualcosa con cui i ragazzi possano lavorare; questi sono fatti tutti per ascoltare”. avete in queste parole la storia dell’educazione tradi- zionale. come il biologo con un osso o due può ricostruire l’intero animale, così noi, se rievochiamo dinanzi alla nostra mente un’aula scolastica ordinaria, con le sue file di banchi disposti in ordine geometrico, addossati l’uno all’altro in modo da lasciare il minore spazio possibile al movimento degli alunni, ban- chi quasi tutti delle medesime dimensioni con il poco spazio che basta a con- tenere i libri, matite e carta, con l’aggiunta di un tavolo, di qualche seggiola e le pareti nude o adornate col minor numero possibile di quadri murali, pos- siamo ricostruire l’unica attività educativa che sia possibile svolgere in siffatto spazio. tutto è fatto “per ascoltare”, poiché studiare semplicemente da un libro non è che un altro modo di ascoltare; tutto attesta dipendenza di una mente da un’altra mente. 15
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