Tradurre un sogno: tre storie di cavalli, tra parole, lingue e immagini

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MARCO CIPOLLONI
                                      Università di Torino

                                   Tradurre un sogno:
                   tre storie di cavalli, tra parole, lingue e immagini

                                                        And this weak and idle theme,
                                                        No more yelding but a dream,
                                                        Gentles do not reprehend.
                                                             {A Midsummer Night's Dream)

           Un viaje de invierno di Juan Benet è un romanzo di ripetizioni, intera-
       mente costruito con variazioni quasi musicali sul tema della progressione e
       dell'avvicinamento. Avvicinamento a una data e ad un luogo stabiliti (a una
       casa, a una donna, a una festa), verso cui convergono, con diversi itinerari,
       intenti e strategie, molti fantasmi e alcune figure emblematiche ed enigma-
       tiche. Tra queste, una delle più oscure e inquietanti è quella di un cavallo
       impastoiato, che scende dalla montagna e, facendo irruzione nello spazio
       recintato e codificato della festa, interrompe il rito che celebra la fine del-
       l'inverno e il ritorno della primavera, finendo per compromettere i delicati
       equilibri simbolici della celebrazione. Quest'immagine letteraria, associata a
       quella cinematografica delle irruzioni animali nelle feste delle commedie
       hollywoodiane, è rimasta a lungo, solo linguisticamente risolta, in un ango-
       lo della mia memoria di traduttore. Senza questa immagine forse non avrei
       incontrato, o avrei incontrato senza vederlo e riconoscerlo per tale, il possi-
       bile nesso tra la traduzione dei sogni, le variazioni musicali, i cavalli e le sta-
       gioni.
           Questo intervento è infatti dedicato a tre successive versioni di uno stes-
       so quasi sogno. In questo quasi sogno, ricordato e raccontato in prosa da
       Bilenchi, tradotto in castigliano ed in poesia da Guillen e ritradotto in ita-
       liano da Luzi, l'apparizione dei cavalli non avviene, come in Benet, sul fini-
       re dell'inverno, ma in un abbagliante crepuscolo d'estate. Passando dall'e-

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       quinozio al solstizio l'immagine onirica del cavallo si trasforma, per così dire,
       in una variante mediterranea del Midsummer Night's Dream.
           La storia del nostro quasi sogno, fatta di chiose e ritraduzioni, è intera-
       mente contenuta, prima e più che raccontata, nelle poche pagine di un pic-
       colo libro: La fuente, pubblicato nel 1961 dalla casa editrice All'Insegna del
       Pesce d'Oro.
           A prescindere dalla cornice editoriale che materialmente le raccoglie, le
       accosta e le accomuna, le tre versioni del nostro quasi sogno sono riconduci-
       bili ai diversi volti di un altro sogno: quello traduttivo di amministrare il
       passaggio di un'immagine onirica da una forma d'arte ad un'altra e da uno
       spazio linguistico-culturale ad un altro.
           Partecipare ai sogni degli altri e tradurre un sogno sarebbe, a rigor di logi-
       ca, impossibile. Per fortuna, però, in arte e in letteratura la logica non è mai
       pura, copula con la storia e diventa narrabile. La concreta esistenza delle
       opere e dei testi ci riconsegna infatti ad un universo di luoghi immediata-
       mente tangibili, nei quali la traducibilità del rapporto tra realtà e sogno
       viene di fatto a coincidere con quella del rapporto tra linguaggio e immagi-
       ne. La parola poetica non trascrive direttamente l'immagine onirica, ma la
       interpreta, la commenta e la illustra, configurandosi come una sorta di dida-
       scalia, posta, in questo specifico caso, al servizio di una storia tutta giocata
       sul contrappunto tra acqua e polvere, fertilità (del gesto) e sterilità (dello
       sguardo). La storia in questione è quella di alcuni cavalli verbali che scendo-
       no all'abbeverata ed è raccontata da un adolescente maschio che stava lì per
       osservare, non visto, un gruppo di lavandaie; il narratore originario è il pro-
       satore Romano Bilenchi, mentre i "traduttori" sono i poeti Jorge Guillen e
       Mario Luzi; il vaivén traduttivo, dunque, non viaggia soltanto sull'asse lin-
       guistico, italiano-spagnolo-italiano, ma anche su quello letterario prosa-poe-
       sia-poesia. I cavalli che, scendendo all'abbeverata, divengono oggetto delle
       carezze delle donne e dello sguardo dell'uomo, sono evidentemente cavalli
       dell'eros. Il seguito del passo di Bilenchi che fa da tema alle variazioni poe-
       tiche di Guillen è in questo senso abbastanza esplicito:

              Vicino alla fonte una ragazza [...] aspettava un giovane che io conoscevo.
              Appena il giovane le era accanto si additavano l'un l'altra i cavalli ormai lon-
              tani e poi imboccavano una strada campestre che si perdeva nella vallata.

             A parte questo, però, i contorni della vicenda sono tanto nitidamente

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       disegnati quanto sostanzialmente incerti e, in definitiva, sfuggenti. La prin-
       cipale difficoltà risiede nel fatto che, come in quasi tutte le storie di Bilenchi,
       le cose divengono senza accadere ("non un avvenimento, ma un divenire"
       scrive Luzi, nel 1940). Quella che ci viene presentata in realtà non è la vera
       e propria storia di un vero e proprio sogno, ma la quasi storia di un quasi
       sogno, una non vicenda in cui tutto si gioca e si compie sulle soglie della nar-
       razione, nell'incanto di un'immagine e nella sequenza delle sue metamorfo-
       si, appena prima che la parola possa trasformarsi da epifania in racconto.
           Il passo di Le stagioni che Guillen sceglie come pretesto per le poesie di
       La fuente è, in questo, assolutamente rappresentativo. Le stagioni è infatti
       una delle prose che Romano Bilenchi raccoglie nel 1958 con il titolo Una
       città, tornando alla narrativa dopo una quasi ventennale escursione nei ter-
       ritori del giornalismo. Nicoletti, nel saggio introduttivo all'antologia mon-
       dadoriana del 1977 {La siccità e altri racconti) nota che "le prose di Una città
       non mostrano i segni del tempo trascorso" e che con esse Bilenchi sembra
       "riprendere il discorso interrotto quindici anni prima", cioè all'inizio degli
       anni quaranta, accentuando semmai "quella strenua, capillare ricognizione
       descrittiva che obnubila e mortifica ogni più naturale insorgenza narrativa",
       producendo così "una severa tensione lirica che blocca la realtà in un tempo
       assoluto", per cui "Queste di Una città sono storie che davvero non si pos-
       sono raccontare, non hanno né un principio né una fine e, procedendo da
       una seriale accumulazione di addendi, guadagnano l'attenzione del lettore in
       virtù della loro forza evocativa, che, proprio prendendo le mosse da quella
       Serrata trama di minute osservazioni, sembra trasferirsi in una sfera di imma-
       ginosità surreale, dove nessun significato traslato è da rilevare, se non la
       meraviglia di un adolescente finalmente e felicemente disarmato di fronte
       agli imprevisti dell'esistenza". Non fosse per l'infelice banalizzazione finale
       ("nessun significato traslato da rilevare"!) tutto questo potrebbe benissimo
       essere sintetizzato da un qualunque lettore di Freud assimilando a sogni le
       prose di Una città.
           Del resto, pur senza fare esplicito ricorso al termine sogno, la tensione
       onirica della prosa di Bilenchi era già stata abbondantemente sottolineata
       proprio da Mario Luzi in un breve intervento del 1940, intitolato Tra l'atti-
       mo e l'eterno e ristampato nel 1973 come prefazione all'edizione definitiva di
       Conservatorio di Santa Teresa. In quella sua pagina, il futuro traduttore delle
       variazioni poetiche di Guillen su tema in prosa di Bilenchi già parlava di
       "dedizione all'oggetto", descrivendo l'autore di Conservatorio come uno

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         scrittore che, "impigliato in una sorta di dialettica affettiva, era destinato ad
         agire a ritroso in quel mondo che, per avere spesso un sapore autobiografi-
         co, non era ancora per questo della memoria". Un'istanza autoriale dunque
         la cui presenza appariva sempre più demandata all'attenzióne silente di fron-
         te ad un mondo in cui, proprio come nei sogni, "le apparizioni successive
         della vita oscillano e si moltiplicano senza confermare alcuna nozione stabi-
         lita". Questo atteggiamento di contemplazione quasi attiva, assai congeniale
         a Guillen e colto da Luzi nel Bilenchi degli anni trenta, descrive e chiosa con
         una precisione quasi delirante l'atteggiamento tenuto dal protagonista-nar-
         ratore all'inizio di Le stagioni.
             Il testo intitolato Le stagioni è in realtà composto da due frammenti, sepa-
         rati tra loro da un esile iato tipografico. Il secondo frammento parla effetti-
         vamente di stagioni: "La primavera e l'autunno erano le stagioni che dura-
         vano meno". Questo incipit mantiene un evidente dialogo intertestuale con
         quello di Una città, la prosa che apre l'omonima raccolta e inizia: "La città
         era bella d'inverno [...] ma anche d'estate era bella". Per contro, il primo
         frammento di Le stagioni, di stagioni quasi non parla, pur descrivendo una
         scena e un'atmosfera esplicitamente estive. Si apre con la descrizione di una
         piscina e di una fonte ("La piscina era al principio di una vallata e aveva
         accanto una fonte, alta, a tre archi") e prosegue con il resoconto di un bagno
         e di una passeggiata che in realtà è una piccola orgia di eccitazione visuale,
         al culmine della quale le ragazze a passeggio si trasformano in quelle "raffi-
         gurate negli antichi affreschi", mentre "le donne atteggiate nei quadri, belle
         e piene di grazia, assumevano il volto delle ragazze che conoscevo e che più
         mi piacevano". Dal punto di vista della stretta funzionalità narrativa e dei
         legami con il frammento che segue, la descrizione della fonte e della piscina
         non ha altra utilità che quella, peraltro del tutto incidentale, di fornire al let-
         tore un punto di riferimento utile per collocare i successivi spostamenti del
         protagonista:

                Allora scendevo il versante della vallata opposta a quella che custodiva la
                piscina. Un viottolo portava a un'altra fonte, anch'essa alta, a tre archi, e poi
                si perdeva nei campi.

              L'abbeverata dei cavalli tra le lavandaie, episodio che da l'avvio al cre-
          scendo di eccitazione del narratore e fa letteralmente da cardine per l'intera
          suite poetica di Guillen, costituisce perciò, pur presentandosi come memo-

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      ria, un evidente momento di irruzione onirica e pulsionale {Le stagioni,
      appunto) nell'universo simbolico di una raccolta così programmaticamente
      antropica da intitolarsi appunto Una città.
          L'irruzione del sogno poetico nella prosa-città di Bilenchi sembra dunque
      individuare nel ricordo di una giovinezza oniricamente incantata un punto
      di equilibrio tra azione e contemplazione, realizzando una sintesi analoga a
      quella che, secondo Macrì ', costituisce il nucleo fondamentale e la cifra rias-
      suntiva dell'intera attività poetica di Guillen. Tale sintesi, privilegio quasi
      esclusivo dei sogni, della poesia e dell'arte, altro non sarebbe che il tentativo
      di tradurre in pratica "l'idea permanente e giusta di un supremo equilibrio
      classico-romantico, diciamo goethiano, di natura e volontà: dono-presenza
      dell'oggetto naturale e volontà di viverlo nella misura in cui esso vive e si
      esprime per sé e per noi" 2 . Il che, oltre a renderci pienamente comprensibi-
      li le ragioni che portarono Guillen a lavorare sul testo di Bilenchi, costitui-
      rebbe, se lo trasponessimo in termini freudiani, la ricetta utópica di una feli-
      cità mentale fatta di armonia ed equilibrio tra identità, pulsione e raziona-
      lità.
          Se per spiegare la genesi poetica di La fuente potrebbe forse essere suffi-
      ciente la pura e semplice constatazione di questa congenialità, per spiegarne
      la genesi editoriale vale invece la pena di sottolineare l'esistenza di un insie-
      me di circostanze favorevoli, quali il matrimonio italiano di Guillen e la sua
      presenza in Italia nello stesso anno in cui esce Una città e in cui All'Insegna
      del Pesce d'Oro inizia a pubblicare la collana di poeti tradotti da poeti che
      tre anni dopo ristamperà, nel suo terzo volume, la versione di Luzi di La
     fuente di Guillen. I primi due volumi della collana, usciti entrambi nel 1958,
      contenevano le ristampe di vecchie traduzioni montaliane rispettivamente
      da Eliot e dallo stesso Guillen. A conferma di un crescente interesse per le
      letterature straniere, dei forti punti di contatto tra prosa e poesia e degli
      stretti legami tra i protagonisti della nostra storia, nel 1959 Bilenchi e Luzi
      iniziano a dirigere insieme, per la casa editrice Lerici, una interessante colla-
      na di narrativa straniera.
          Per tutte queste ragioni l'operazione poetica compiuta da Guillen sul

            1
              Studio su "Aire nuestro", poema della salvezza, in J. Guillen, Opera poetica, Firenze,
      Sansoni 1972.
           2
              Macri, op. cit., p. 6.

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          corpo in prosa di Bilenchi non è una semplice traduzione e versificazione,
          ma una piccola serie di libere ricreazioni dall'anima intimamente musicale.
          Non a caso l'editore Vanni Scheiwiller scelse di presentare il volume col sot-
          totitolo "variazioni su di un tema" e il traduttore italiano Mario Luzi parla
          di "vivida suite" in una nota editoriale redatta all'inizio degli anni ottanta, al
          momento di ristampare il testo nel volume di traduzioni poetiche La cordi-
          gliera delle Ande, pubblicato da Einaudi.
              Nel volumetto del 1961, tirato in 1000 esemplari numerati, le tre varia-
          zioni sono precedute da altrettante illustrazioni di Giovanola (si tratta di
          illustrazioni monocromatiche che rappresentano figure umane ed equine,
          stilizzate secondo canoni grafici che, per essere riconoscibilmente ispaniz-
          zanti, si richiamano ai Chisciotte di Dalí e alle tauromachie di Picasso). I
          testi spagnoli, senza titolo e dunque rubricati in indice con il primo verso,
          sono stampati in corsivo, con a fronte la traduzione di Luzi in tondo. In
          calce alla terza variazione compare la data "Roma, Octubre de 1959".
              La prima variazione, "A la fuente, gran fuente de tres arcos", è indubbia-
          mente la più aderente al testo di Bilenchi, di cui si limita ad accentuare il
          cromatismo e la musicalità, con un accorto uso della ripetizione ("fuente
          gran fuente", v. 1; "poco a poco", v. 7), dell'allitterazione in r (w. 1 e 4), e
          in b (v. 18) e in s e z (v. 20) e della consonanza, spinta in almeno un caso
          fino al limite estremo di una coppia minima {blanda/bianca, v. 18). In tanta
          fedeltà, solo il finale è in dissolvenza, poiché, a differenza di quanto accade-
          va in Bilenchi, l'uomo che guarda e che rivela la sua presenza solo nell'ulti-
          mo verso non scende all'acqua.
               Nella seconda variazione, "En la fuente de aquel valle", Guillen cerca di
          ricreare l'atmosfera onirica accentuando le denotazioni jaquel valle" v. 1,
          "aquelVerano" v. 4, "aquellos barrios" v. 6) per poi sfumarle progressivamen-
          te ("hacia alguna mano se tendía algún hocico", w. 18-19). Lo sguardo ester-
          no (l'occhio che sogna) non viene dichiarato, per cui l'immagine diviene
          ancor più ellittica che nel testo precedente, chiudendo sui cavalli che si
          allontanano, senza neppure tornare alle donne che riprendono il lavoro.
               L'ultima variazione, "Caballo sediento", con il ritmo spezzato e secco
          delle sue fitte interpunzioni, è decisamente più libera. A differenza delle altre
          ha un'organizzazione strofica oltre che prosodica e inverte l'ordine di entra-
           ta in scena dei personaggi, centrando fin dall'inizio l'attenzione sui cavalli
           invece che sulla fonte e le lavandaie, ridotte da un'efficace enumerazione al
           ruolo di un confuso sottofondo ("Fuente, mujerío, Agua, ropa, voces", w. 9-

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      10). L'eccitazione, come spesso in Guillen, si stempera e si purifica in bel-
      lezza e vitalità: "Se va el grupo equino. La hermosura queda" (w. 19-20).
          In complesso possiamo dire che le tre variazioni segnano un crescendo
      di autonomia rispetto al tema base, sfumando progressivamente i ruoli del-
      l'osservatore, delle donne e della fonte, a benefìcio di quelli della strada e
      dei cavalli. Il sogno, al momento di venire tradotto in poesia, tende cioè a
      fagocitare il sognatore, fino a trasformarsi in discorso e risolversi in simbo-
      lo. Se accostate, le tre variazioni rivelano inoltre, mantenendosi volutamen-
      te in bilico tra esercizio poetico ed esercizio di versificazione, la presenza di
      un'intenzione ludico-antologica, per cui il progressivo allontanamento dal
      testo di partenza, verso una traduzione sempre più libera, si associa ad un
      gioco poetico che è tutto giocato entro le regole e gli stili della tradizione
      letteraria spagnola. Più che di tre variazioni si tratterebbe cioè di tre arran-
      giamenti.
          Il primo arrangiamento, in endecasillabi, è classicheggiarne e modale,
      gioca cioè sulla ricchezza di aggettivi e avverbi e su un ordine artificiale e
      dunque semanticamente non scontato delle parole significanti ("barrios
      próximos", v. 3; "un caballo surgió", v. 4; "apretadas filas rumorosas", v. 5;
      "temoroso acercándose", v. 6; "bebió poco a poco de aquel agua", v. 7; "otros
      caballos vinieron en pareja", w. 10-11; "serpentinos trémolos", v. 12; "y en
      los cuellos se mordían", v. 13; "descansaban las mujeres", v. 14; "mordién-
      dose todavía los cuellos", w. 20-21; "las lavanderas a lavar tornaron", v. 22).
          Il secondo arrangiamento, in versi di otto sillabe, oltre ad un più regola-
      re andamento narrativo e ad una maggiore essenzialità semantica, propone
      una maggiore parsimonia per quanto riguarda aggettivi ed avverbi, ripristi-
      nando anche il normale ordine romanzo di nome e aggettivo ("filas femeni-
      nas", w. 7-8; "caballo temoroso", w. 8-9).
          Il terzo arrangiamento, inserendo strofa e rima (ABBA, CDCD) e ridu-
      cendo l'aggettivazione a una casistica di derivazione verbale ("caballo sedien-
      to", v. 1; "agua contemplada", v. 5) o specificativa ("grupo equino", v. 19)
      segna un ulteriore incremento della compostezza normativa e dell'economia
      funzionale.
          In sostanza, passando da un arrangiamento all'altro, via via che la tradu-
      zione da Bilenchi si fa più libera, la norma linguistica e quella poetica si
      fanno più strette.
          Nonostante l'occasionale ricorso alla ripetizione ("venivano a due a due,
      a due a due"), scegliendo sempre il verso libero e rinunciando alla rima, la

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          traduzione di Luzi, già pubblicata nel 1960 sulla rivista "II Critone", appare
          fortemente prosaica e modernizzante, rivelandosi in complesso assai più sen-
          sibile alla dimensione della fedeltà e delle variazioni, che non a quella degli
          arrangiamenti poetici, metrici e stilistici attraverso i quali l'originale di
          Guillen innesta il proprio gioco nel corpo e nel solco della tradizione lirica
          spagnola.
              Nella prima variazione, il poeta italiano guarda costantemente a Bilenchi,
          oltre e talvolta più che a Guillen, limitandosi agli interventi indispensabili
          per versificare il testo base, arricchendolo al più di una morbida allitterazio-
          ne in / ("I cavalli se ne andarono lenti lungo la strada alta di polvere soffice,
          bianca", w. 19-21). In esordio, la fedeltà al testo di partenza è così forte da
          indurre Luzi al recupero di dettagli interamente omessi dal poeta spagnolo
          (p.e. nel verso "La fonte era al principio di una valle", v. 1).
              Nella seconda variazione la fedeltà si indirizza invece, decisamente e direi
          felicemente, verso il testo di Guillen, di cui restituisce con maggiore effica-
          cia la cadenza e le immagini, sia pure con qualche occasionale concessione
          alla prosa e con qualche significativa attenuazione della coloritura gramma-
          ticale (per esempio la perdita di una litote, per cui "no sin haber algún tiem-
          po contemplado", w. 11-12, diventa "dopo aver fissato a lungo", v. 11).
              Il ritmo spezzato della terza variazione sembra in complesso ancor più
          congeniale a Luzi, che lavora bene sulla semantica, utilizzando con grande
          intelligenza parole rare e sonore come arsura (v. 1), ressa (v. 8), ruzza (v. 9),
          ristare (v.ll). Perduto l'intraducibile mujerío, ne recupera efficacemente sia
          l'effetto che la clausola metrica, traducendo, al verso successivo, voces con
          vocìo. Solo in un caso Luzi si concede un incipit avversativo ("Ma l'acqua
          non sazia", v. 13) a fronte di un originale assolutamente denotativo ("El agua
          no sacia", v. 13). Al verso 3, l'inversione da "Frescura consiente" a "concede
          frescura", indebolisce eccessivamente sia l'immagine che il suo profilo foni-
          co. Negli ultimi due versi il cambio di interpunzione (da "Se va el grupo
          equino. / La hermosura queda" a "II branco equino va via, / la bellezza rima-
          ne"), attenuando la pausa, toglie forza apodittica alla morale della favola e,
          in parte, la cambia, trasformando una trionfale teofania della bellezza nel
          ben più prosaico ricordo di una cosa bella. Per Guillen, la bellezza rimane
           nell'aria. Per Luzi resta negli occhi e nella mente dell'osservatore.
               Per quanto riguarda il bilancio delle variazioni, in complesso, il testo tra-
           dotto, ripercorrendo la via che allontana Guillen da Bilenchi, sembra dun-
           que trovare spazio sufficiente per articolare un proprio autonomo discorso

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Tradurre un sogno: tre storie di cavalli, tra parole, lingue e immagini   265

      poetico, pur mantenendosi dentro i canoni di una fedeltà non sempre
      sostanziale, ma spesso rigorosa e puntuale.
          Diverso è ovviamente il discorso per quanto riguarda gli arrangiamenti.
      Luzi, infatti, segue Guillen nella sua fuga (in senso musicale) dalla prosa di
      Bilenchi, ma non nel suo percorso di avvicinamento ai canoni della tradi-
      zione lirica spagnola. La dimensione metapoetica, che pure è essenziale per
      una corretta interpretazione di La fuente, resta del tutto estranea a La fonte,
      che, da questo punto di vista, è davvero un altro testo. Traducendo la varia-
      zione e non l'arrangiamento, Luzi non traduce il testo spagnolo, ma una
      parte di esso, cioè tira fuori un testo che sta dentro al suo originale. Guillen,
      versificando e traducendo, cioè variando e arrangiando, inscrive il proprio
      sogno poetico dentro il sogno di Bilenchi (traducendo lo varia e versifican-
      do lo arrangia). Luzi, ritraducendo e a sua volta variando da e su Guillen, ne
      neutralizza in buona parte la versificazione e l'arrangiamento, senza per que-
      sto ritornare nell'orbita della prosa (il che lo avrebbe costretto ad una sorta
      di riarrangiamento) o in prossimità dell'originale di Bilenchi, il cui sogno,
      grazie al vaivén traduttivo, è diventato l'ombra di un sogno altrui, un'orma
      che il piede di un altro uomo ha lasciato, indossando scarpe altrui, lungo il
      proprio cammino.
          Tanto gli arrangiamenti di Guillen, quanto le variazioni di Luzi presen-
      tano in effetti un progressivo, parallelo e significativo incremento di auto-
      nomia ideologica e affabulatoria nell'appropriazione e nella reinvenzione dei
      meccanismi linguistici e narrativi proposti dai rispettivi testi di partenza. Di
      trascrizione in trascrizione, di arrangiamento in arrangiamento e di variazio-
      ne in variazione, i cavalli di Bilenchi, estrapolati dal contesto originario e
      divenuti, per così dire, contesto di se stessi, hanno finito per perdere il loro
      carattere di irruzione onirica e per assumere una valenza nuova e più auto-
      nomamente letteraria. In questo contesto, oltre ad entrare in un rapporto
      più diretto con il motivo artistico e letterario della fonte (dalla mitologia sil-
      vestre ai loci amoenì), hanno finito per trovare la propria collocazione entro
      due sistemi di coordinate diversi, se non addirittura opposti, evocando, in
      Guillen, radiosi simboli di attività e di utopia e lasciando dietro di sé, in
      Luzi, inquietanti segni di passività e di distruzione. La componente sensua-
      le, onirica e pulsionale collegata all'immagine del cavallo, apparentemente
      attenuata e neutralizzata nelle incantate geometrie spirituali e linguistiche
      del gioco di traduzione e ritraduzione, riaffiora, infatti, con diverse ed assai
      originali sfumature, in altri luoghi delle non complementari traiettorie di

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           scrittura del traduttore Luzi e del poeta Guillen. Proprio nel 1958, cioè nel-
           l'anno in cui Bilenchi pubblica le prose di Una città e in cui Scheiwiller
           ristampa le traduzioni di Montale da Guillen, Luzi traduce per l'antologia
           Poesia straniera del 900, curata per Garzanti da Attilio Bertolucci, alcuni testi
           poetici di Jules Supervielle, tra cui, dalla raccolta Les antis inconnus, la poe-
           sia Le chevaux du Temps/L cavalli del tempo, dove l'uomo che spia l'abbevera-
           ta si scopre vittima e languido cómplice di un inquietante masnada di caval-
           li-vampiro:

                 Quando i cavalli del tempo si fermano alla mia porta
                 non so stare se non li guardo abbeverarsi.
                 La spengono nel mio sangue l'arsura
                 quelli, voltano verso i miei i loro occhi riconoscenti
                 e intanto quelle sorsate mi empiono di languidezza,
                 mi lasciano così fiacco, cosi solo e scialbo
                 che una notte passeggera mi ottenebra le palpebre
                 e mi occorre rifarmi subito le forze
                 perché un giorno, se torni l'assetato
                 equipaggio, possa essere vivo e dissetarli.

              I personaggi e la situazione sono gli stessi di La fuente, solo che in questo
           caso l'eccitazione voyeuristica trascolora in estasi masochistica, poiché l'os-
           servatore e la fonte sono letteralmente la stessa persona. Come nella lettera-
           tura sui vampiri, la conseguenza del salasso è una condizione di "languidez-
           za" che prelude al sonno e al sogno ("una notte passeggera mi ottenebra le
           palpebre"). La stessa oblativa e sovrumana passività, la stessa rassegnazione,
           lo stesso senso del limite e la stessa vegetale saggezza che nella poesia di
           Supervielle caratterizzano il narratore-osservatore, sono nell'intertesto di
           Guillen privilegio e prerogativa di Unos caballos:

                 Peludos, tristemente naturales,
                 En inmovilidad de largas crines
                 Desgarbadas, sumisos a confines
                 Abalanzados por los herbazales,
                 Unos caballos hay. No dan señales
                 De asombro, pero van creciendo afines
                 A la hierba. Ni brida ni trajines.
                 Se atienen a su paz: son vegetales.

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Tradurre un sogno: tre storie di cavalli, tra parole, lingue e immagini   267

             Tanta acción de un destino acaba en alma.
             Velan soñando sombras las pupilas,
             Y asisten, contribuyen a la calma
            De los cielos - si a todo ser cercanos,
            Al cuadrúpedo ocultos — las tranquilas
            Orejas. Ahí están: ya sobrehumanos.

          Nel mondo poetico di Luzi, dominato da un disperato pessimismo antro-
       pologico, poeta è colui che, con stoica rassegnazione, offre se stesso, la pro-
       pria storia e la propria cultura all'aggressione della vita. In questo modo, la
       tradizione stessa finisce per essere dominata e colonizzata dalle lacerazioni
       della contemporaneità, realizzando nella forma più estrema una vocazione
       sacrificale che, negli anni, ha portato Luzi dalla poesia alla tragedia in versi,
       trovando esemplare espressione nei tormentati personaggi del suo teatro,
       Ipazia, il vescovo Sinesio, ma, soprattutto, Don Juan Rosales, burlador dispe-
       ratamente moderno, rassegnato a compiere il proprio destino di sicario di
       Stalin nel Messico cardenista. Così lo ricorda, post mortem, il suo gracioso
       Francisco Córtez:

             Rosales?
             Penso a volte che tu riposi
             seppellito nel ricordo
             di taluna delle donne amate a quel tempo
             o meglio nella loro totale dimenticanza3.

           Niente di più lontano, negli esiti e nei presupposti, dal mondo arioso di
       Guillen, vivificato da un ottimismo cosmologico così radicale che persino
       essere "sumisos a confines" può diventare una via alla trascendenza. In
       Guillen la capacità di crescere "afines a la hierba" identifica vitalità e divinità
       ancor più radicalmente e ancor più immediatamente di quanto non avve-
       nisse in Whitman. Il mondo si offre, pantelsticamente, alla contemplazione
       attiva della poesia, consentendo alla contemporaneità di trovare posto nel
       solco della tradizione e di approdare così ad una gioia della retorica che, nei
       momenti più ingenui e felici, diventa una vera e propria retorica della gioia.
       In Sabor a vida il tema dongiovannesco dell'avventura e della conquista

             3
                 Rosales, Milano, Rizzoli 1983, pp. 120-121.

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          viene così evocato e liquidato, sul filo di una felice valorizzazione dello scar-
          to tra venturas e aventuras, con toni del tutto antitetici a quelli, disincantati,
          del Rosales di Luzi. La tragedia possibile, in Guillen, assomiglia più a quel-
          la mitica e classica di Icaro che a quella storica e moderna di Don Giovanni:

                Hay ya cielo por el aire
                Que se respira.
                Respiro, floto en venturas,
                Por alegrías.
                [...]
                ¿Aventuras? No las caza
                Mi cacería.
                Tengo con el mismo sol
                La eterna cita4.

              Per Luzi la poesia è essenzialmente sintomo e tempo: significa malattia,
          dannazione, passività e impotenza. La parola, detta o taciuta, ricordata o
          dimenticata, non è che un intrascendente sacrificio; è il poco che l'uomo
          può offrire, in un mondo pieno di rumore e di polvere, per difendersi da una
          vita che, inesplicabilmente, lo aggredisce e lo consuma.
              Per Guillen la poesia è invece salute, spazio, attività ed autentica creazio-
          ne: il mondo, ricco d'acqua e di aria, è, in ogni sua parte, trascendente e,
          come tale, disponibile all'attiva contemplazione del poeta e al suo onnivoro
          respiro.
              Il sogno del cavallo, raccontato da Bilenchi, tradotto e versificato da
          Guillen e ritradotto da Luzi, ci ha dunque condotto abbastanza lontano da
          mescolare, attraverso le sue metamorfosi poetiche e traduttive, tre geniali
          intuizioni della Grecia antica sul tema del sogno: 1) la riflessione presocrati-
          ca sullo stato di veglia e quello di sonno e le mille sfumature della sua stru-
          mentalizzazione retorica e sofistica ("così solo e scialbo che una notte pas-
          seggera mi ottenebra le palpebre"); 2) il mito della caverna, poeticamente
          chiosato dalla folgorante definizione lirica dell'uomo come sogno di un'om-
          bra ("velan soñando sombras, las pupilas"); 3) il rapporto tra arte (mimesi)
          e conoscenza (reminiscenza), basato su quello tra il mondo della realtà e il
          mondo delle idee, le cui arcane geometrie ci vengono spiegate da Piatone

                   Opera poetica. Aire nuestro, Firenze, Sansoni 1990, p. 542.

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Tradurre un sogno: tre storie di cavalli, tra parole, lingue e immagini   269

       utilizzando come esempio proprio il rapporto tra i cavalli e la cavallinità. In
       Piatone la conoscenza e l'arte, la memoria e la mimesi, condividono, rispet-
       tivamente, i drammi del sogno e quelli della sua traduzione. La fedeltà del
       reale al mondo delle idee, non potendo essere misurata rapportando diretta-
       mente la storia agli archetipi, finisce infatti per riprodursi (di copia in copia)
       e per ritradursi (di traduzione in traduzione) a partire da un confronto tra le
       ombre della caverna e le reminiscenze. Realisticamente, il sogno, la poesia e
       la traduzione si costituiscono come limiti per un'esistenza che, proprio per-
       ché metafisicamente inautentica, trova nel rapporto di corrispondenza tra
       linguaggio ed immagini l'unica esperienza autenticamente umana del
       mondo che ci circonda (e la sola possibile).
           Solo la poesia e il sogno, proprio grazie alla loro inconsistenza di pallide
       copie (per non dire delle traduzioni e delle ritraduzioni che rispettivamente
       sarebbero copia di copia di copia e copia di copia di copia di copia), posso-
       no, a certe condizioni ed entro certi limiti, rovesciare lo schema del celebre
       argomento platonico e metterne in causa il rigido dualismo, fondando una
       sorta di materialismo metodologico e cognitivo. Nel momento in cui l'azio-
       ne diviene contemplazione e, proprio come accadeva nel viaggio invernale di
       Benet, si risolve nell'esecuzione di alcune variazioni su tema, l'irruzione del
       cavallo mette fine alla festa e trasforma il dramma della morte e della storia
       da epifania in apocalisse. All'improvviso, "tanta acción de un destino acaba
       en alma": la realtà dei cavalli di carne ed ossa trascolora in iperuranio e la
       loro semplice esistenza mortale si rivela quintessenza. La metafisica passa,
       finalmente, dal campo del ser a quello dello estar, i cavalli "ahí están, ya
       sobrehumanos". In questo essere y a sovrumani e in questo starsene proprio
       ahi, ai margini della lingua e della letteratura, nei territori della traduzione,
       del sogno e della poesia, i cavalli traducono il trionfo del vero sull'autentico
       e la rivincita delle ragioni della storia sulla ragione della filosofia: non più
       infiniti cavalli reali, inverati da una sola ipostasi equina (l'idea della cavalli-
       nità), ma un numero definito di veri cavalli {unos caballos, appunto), capaci
       di prestare il proprio corpo equino, attraverso un numero indefinito di varia-
       zioni e arrangiamenti traduttivi, al molteplice ma fragile sogno della poesia
       moderna, sempre più spaesato, ma sempre più necessario in un mondo in
       cui, con paurosa coincidenza d'opposti, il risveglio può essere un incubo, il
       disincanto non è che un'illusione e gli inferni reali della rettorica sono ormai
       inscindibili dai paradisi artificiali della persuasione.

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LETTERATURA CATALANA

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