Titolo: Re-interventi con soluzioni protesiche supportate da impianti "wedge-form" - A cura di: ACCADEMIA ITALIANA DI STOMATOLOGIA
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Titolo: Re-interventi con soluzioni protesiche supportate da impianti "wedge-form". A cura di: ACCADEMIA ITALIANA DI STOMATOLOGIA IMPLANTOPROTESICA (AISI) Autori: Franco Rossi, Marco Gnalducci, Marco E. Pasqualini
INDICE 1) Introduzione. 2) Un nuovo sguardo agli impianti a lama. a. L’origine dell’impianto a lama b. Principi base dell’impianto a lama c. L’arcata mascellare superiore d. L’arcata mandibolare e. Vantaggi dell’impianto a lama. 3) Notizie storiche sull’ evoluzione dell’impianto a lama. a. Gli impianti “a lama” di Linkow. b. Le modifiche alla lama di Linkow 4) Il lungo cammino verso le lame “senza moncone” a. Impianti e stato di salute. b. Le condizioni del successo o dell’insuccesso degli impianti a lama di Linkow. c. La ricerca istologica. d. Le cause degli insuccessi a “eziologia sconosciuta”. e. Inclusione chirurgica, inclusione biologica o rigetto degli impianti a lama. f. Il comportamento isto-anatomopatologico del tessuto di inclusione delle lame “a moncone avvitabile”. g. I miglioramenti delle lame polimorfe a moncone avvitabile. h. Il principio biomeccanico delle mini lame nelle creste sottili. 5) L’impianto a lama (wedgeform) nella realtà attuale. a Qualità ossea e riassorbimenti b Tecnica classica di inserzione.
c La piezochirurgia 6) Caso clinico n° 1: atrofia di spessore nei settori distali della mandibola. 7) Caso clinico n° 2: atrofia post estrattiva nel settore mandibolare distale sinistro. 8) Il press-fit . 9) Considerazioni sull’uso del piezobisturi. 10) Quali sono gli effetti del carico sull’osso? a. Il rimodellamento osseo normale. b. Concetti generali sulla fisiologia della risposta ossea al carico: la legge di Wolff. c. Rapporto tra carico e deformazione. d. La teoria meccanostatica di Frost e le soglie di carico. 11) Bibliografia
INTRODUZIONE Le gravi atrofie dei mascellari edentuli necessitano di interventi chirurgici ricostruttivi al fine di rendere possibile l’inserzione di impianti root form di diametri adeguati per la realizzazione di riabilitazioni protesiche fisse, funzionalmente e temporalmente valide. Le tecniche di incremento osseo (innesti autologhi e/o eterologhi con membrane riassorbibili o meno nella Guided Bone Regeneration o GBR, con la tecnica di split- crest, etc.) che continuano a rappresentare un’esigenza terapeutica fondamentale tra i clinici, spesso non vengono accettate dai pazienti per gli importanti costi biologici, economici, frequenza di complicanze e di insuccessi (Esposito et al., 2009) oltre alla dilatazione dei tempi di intervento e guarigione. Per queste ragioni, in presenza di osso con atrofia di spessore e/o di profondità, le tendenze attuali sono sempre più rivolte verso l’utilizzo di forme implantari che si adattano alle caratteristiche dell’osso residuo, piuttosto che adattare l’osso ricevente a forme standardizzate di impianti. Proprio in presenza di gravi atrofie ossee l’impianto a lama (wedge form) trova anche nella realtà attuale un suo uso elettivo (Dal Carlo et al., 2019). Anche negli anni passati, in presenza di creste atrofiche, hanno trovato fattivo utilizzo gli impianti “wedge form” (a lama) in considerazione dei loro ridotti spessori compatibili con gli esigui diametri trasversali delle creste edentule (Dal Carlo et al., 2013). L’utilizzo di tale tipo di impianto risale ai lontani anni sessanta, quando, per la prima volta, ne fu proposto l’uso da Leonard I. Linkow (1968). Da allora, a seguito di uno specifico percorso di formazione, la loro applicazione si è diffusa in tutto il mondo. Linkow dimostrò che, nelle creste ossee sottili, il mantenimento dell’integrità delle corticali permette anche il carico immediato. Nel presente modulo didattico sarà presentato l’articolo di Leonard Linkow et al. pubblicato nel 2016, un anno prima della sua scomparsa, in cui vengono rivisitate e illustrate tutte le caratteristiche principali dell’impianto a lama (wedge-form) e le
osservazioni e i riscontri anatomici sull’evoluzione dell’osso edentulo che hanno stimolato la sua realizzazione. Ricordiamo che la lama di Linkow è stata presentata alla comunità scientifica internazionale nel 1968 e che lo stesso Linkow fu candidato per il premio Nobel in medicina nel 1969, unico dentista ad avere la “Nomination” per tale premio. Linkow detiene, inoltre, ben 36 brevetti in scienze dentali. In questo ultimo lavoro Linkow spiega con chiarezza le ragioni che lo hanno spinto a disegnare e poi costruire un impianto con forma completamente diversa da quelli allora in uso, che oggi chiamiamo root-form. Così scrive: “Come ci si può aspettare di riuscire a posizionare un impianto simile alla radice in un osso edentulo, oltremodo riassorbito, a cinque o dieci anni dalla perdita dei denti, quando la gran parte della profondità e dello spessore dell’osso necessari per il sostegno sono stati persi? Doveva essere progettato un impianto che utilizzasse la dimensione orizzontale piuttosto che quella verticale” (Linkow, 1968). Di seguito cercheremo di commentare i concetti espressi nel presente lavoro, senza trascurare di ricordare che la storia della lama ha coinciso con la storia e con l’evoluzione dell’implantologia. Un nuovo sguardo all’impianto a lama (LINKOW et al., 2016) L’ORIGINE DELL’IMPIANTO A LAMA Utilizzando le parole di Leonard Linkow: “…La lama è stata disegnata in origine per la necessità di poter disporre di un impianto adatto a creste sottili a lama di coltello e estremamente poco profonde che rappresentavano un problema per l’utilizzo di impianti a forma di radice e di tripodi ad ago.” Il Dr. Linkow, (1968,1979,1973,1992, 2013) intuì che fosse giunto il momento di allontanarsi completamente dal disegnare impianti che cercavano di duplicare o di riprodurre le radici dentali. “…E’ proprio la natura e la morfologia dei denti naturali che fanno sì che nel tempo possano essere estratti per le condizioni del parodonto. Le radici si perdono a spese
delle corticali vestibolari, raramente per la perdita delle corticali palatine o linguali (La perdita è spesso facilitata da contatti tangenziali dinamici incongrui e la corticale vestibolare, meno compatta, viene quindi alterata più facilmente. Pasqualini U, 1993). “…La natura ha commesso un errore: ha dotato le corticali linguali e palatine di una notevole quantità d’osso dove non era necessario, e di una minima quantità, scoprendo il fianco ai denti, vestibolarmente dove è necessario opporsi alle forze di lateralità, alle spinte anteriori della lingua e ai precontatti dei denti durante i movimenti di lateralità ed eccentrici della mandibola. Quando si perdono i denti cessa la stimolazione periodontale dell’osso che si riassorbe per l’ipofunzione (Cawood e Howell, 1988). Si instaura una stasi venosa, arteriosa e capillare che causa congestione dei vasi sanguigni ed edema con conseguente pressione sull’osso oltre la sua fisiologica tolleranza, che così si riassorbe. Come ci si può aspettare di riuscire a posizionare un impianto simile alla radice in un osso edentulo oltremodo riassorbito a cinque o dieci anni dalla perdita dei denti quando la gran parte della profondità e dello spessore dell’osso necessari per il sostegno sono stati persi? Doveva essere progettato un impianto che utilizzasse la dimensione orizzontale piuttosto che quella verticale. Dovevano essere concepite anche ampie aperture, o piccole aperture, nelle quali si generasse nuovo osso. L’impianto doveva essere progettato in modo tale che il suo corpo cuneiforme potesse essere piegato ad angolo sul piano orizzontale, per dividere in due parti uguali l’angolatura accentuata dell’osso presente nei mascellari. Doveva essere progettato per permettere la piegatura o l’adattamento del collo (della lama) cosicché i monconi degli impianti fossero paralleli tra loro o con i monconi dei residui denti preparati. Doveva essere ideata una tecnica per l’inserzione della lama semplificata affinché i dentisti la potessero attuare proficuamente con una minima difficoltà. L’impianto endosseo a lama può opporsi alle forze laterali verosimilmente proprio come un dente naturale per parecchie ragioni: 1. La lama è stretta nel suo punto più largo cosicché la spalla sul suo versante vestibolare ha una quantità di osso ben maggiore di quanto ne abbiano i
denti naturali. Preparando le incisioni più verso le superfici linguali e palatali delle creste, le lame possono avere ancora più spessore osseo che le ricopre sul lato vestibolare, dove è necessaria la presenza di osso per opporsi alle forze laterali, dal momento che le corticali vestibolari sono sempre più sottili di quelle palatine o linguali. 2. Nella gran parte delle varie forme di impianti a lama il contatto con l’osso sulle superfici piatte è maggiore di quello di qualunque dente monoradicolato. 3. Le lame presentano fori o aperture nel loro corpo che permettono la crescita di osso. 4. La lama utilizza il principio di orizzontalità mentre il dente sfrutta la dimensione verticale. Il braccio di leva e di torsione sono ridotti al minimo così la lama si oppone alle forze laterali. Anche l’osso si riassorbe in seguito a trauma e l’osso è traumatizzato tutte le volte che vi si inserisce un impianto. Il bisturi deve incidere la mucosa, la sottomucosa, il periostio, con lesioni di molti vasi e terminazioni nervose. La fresa poi taglia le lamelle ossee circonferenziali, quelle interstiziali e quelle dei canali Haversiani. Molti osteociti e osteoblasti vengono tagliati, schiacciati e muoiono. Vengono recise molte anastomosi che uniscono gli osteociti tra di loro, forniscono nutrienti ed ossigeno, ed espellono i cataboliti. La fresa può penetrare nel canale di Wolkmann che apporta il sangue dalla superficie più profonda del periostio direttamente nel canale assiale centrale dell’osteone. La fresa può anche tagliare e distruggere del midollo osseo emopoietico o essere coinvolta in un’area dove è in corso un’attività osteoclastica. Tutto ciò fa parte normalmente della istogenesi ossea quotidiana. A questo punto viene inserito l’impianto. Dal momento che la prima fase del metabolismo è lo stadio di degrado catabolico, se l’impianto non è progettato correttamente, potrebbe mobilizzarsi durante questa prima fase di degrado catabolico. Altri impianti possono necessitare di una stabilizzazione immediata o di essere sepolti in profondità sotto la cresta alveolare con la speranza che una certa
integrazione si instauri pochi mesi dopo. L’impianto a lama non ha bisogno di stabilizzazione immediata. Se inserito correttamente può rimanere non caricato nella mandibola per molti mesi senza mobilità. Nel mascellare superiore la protesi definitiva potrebbe essere terminata tra le cinque e le otto settimane dall’inserimento delle lame …” (Linkow, 1990). PRINCIPI BASE DELL’IMPIANTO A LAMA “…Un impianto a lama è un ancoraggio artificiale per la protesi. Progettare un moncone artificiale significa considerare le relazioni tra protesi, moncone e osso di sostegno. Carico. Il moncone deve sostenere anche il carico derivante da una direzione laterale…” (evidentemente Linkow è fautore dell’occlusione bilanciata, funzione di gruppo). “…Un’ ampia faccia dell’impianto a lama presenta una superficie di contatto con l’osso estesa almeno tanto quanto quella della radice di un dente naturale completamente ricoperta da osso alveolare sano. La forza esercitata sulla parte emergente è diretta verso il basso attraverso lo stretto collo, distribuita mesialmente e distalmente lungo le spalle, e infine guidata dalle braccia. Perciò, distanza e sottigliezza delle vie di trasmissione aiutano a dissipare le forze ben lontano dal punto iniziale, minimizzando il pericolo di traumatizzare l’osso all’apice della cresta…” Biocompatibilità. “…La complessiva sottigliezza della lama e l’interruzione della sua più lunga dimensione tramite fenestrature interrompono minimamente la continuità dei tessuti vitali. La gran parte delle lame è costituita da titanio che è ben tollerato dai tessuti…” (Nel 1968 esistevano ancora impianti in acciaio chirurgico, come ad es. il vitallium. Ricordiamo che il titanio è stato introdotto in odontoiatria da Stefano Tramonte nel 1965).
Adattabilità della forma. “…Lo spessore dell’impianto a lama è di 1,25 mm all’altezza della spalla e si restringe a 0,5 mm all’apice, il che permette di adeguatamente inserirla anche piegata in siti sottili. La sua ampia superficie di solito allineata lungo l’arcata dentale, si presenta in numerose forme per superare problemi dati dalla morfologia. Le forme con doppia emergenza forniscono due monconi in un unico sito chirurgico. Il corpo o l’emergenza dell’impianto possono essere piegati per meglio adattarsi ad un particolare sito…” Inserimento della Lama. “…Il disegno uniforme degli impianti a lama semplifica l’inserimento. Le procedure devono essere rigidamente seguite per un corretto posizionamento degli impianti. Appena inserita la lama deve essere immediatamente stabile; la base dell’emergenza deve essere a contatto con l’osso. Deve essere messo a nudo abbastanza osso per poter vedere la direzione e morfologia del sito…” Preparazione del Solco Implantare. “…Le dimensioni devono essere esattamente come segue: LUNGHEZZA (MESIODISTALE). La lunghezza del solco è lunga almeno quanto la lunghezza mesiodistale della lama e non dovrebbe mai essere inferiore…” (perché la lama richiede un inserimento passivo nel solco di pochi millimetri. Successivamente il resto dell’inserimento avviene in press-fit,) PROFONDITA’. “…Deve esserci una quantità di osso sufficiente perché l’impianto sia sepolto fino alla base dell’emergenza. In osso compatto si possono usare sia la fresa che il bisturi piezoelettrico per approfondire il solco fino alla profondità finale. Quando l’osso è scarsamente mineralizzato il solco è leggermente meno profondo. La percussione sull’impianto fratturerà le poche delicate trabecole sotto le braccia della lama, lasciando integre quelle sotto le aperture per una sicurezza in più…”
LARGHEZZA (VESTIBOLO-LINGUALE, VESTIBOLO-PALATINA). “…La larghezza dovrebbe essere la più ridotta possibile, preferibilmente non più ampia del diametro della fresa. Ciò è essenziale per trarre vantaggio dall’azione di cuneo della lama. La fresa da usare è la numero 700XL al carburo di tungsteno montata su turbina. Se la lunghezza del suo gambo non permette di approfondire il solco a sufficienza, si passa alla numero 700XXL. La fresa deve essere sempre affilata e usata con acqua per il raffreddamento onde evitare il surriscaldamento dell’osso…”. Posizionamento della Lama. “…La lama dovrebbe scivolare facilmente nel solco preparato per i primi 1-2 mm di profondità. Se il solco è curvo per seguire la curvatura dell’arcata dentale, la lama deve essere piegata così da penetrare passivamente. A questo punto si controlla il parallelismo dell’emergenza con gli altri monconi. Estratta la lama seguendo l’asse del solco la si può modificare piegando il collo della parte emergente e tenendo al tempo stesso saldamente stretto il corpo con una pinza. Inserito l’impianto lo si picchietta gradualmente, mai martellandolo, fino alla giusta profondità. Se il collo è stato piegato si picchiettano solo le spalle con l’appropriato strumento che si appoggia sul solco presente sulle spalle stesse. Qualora l’impianto offra resistenza al suo corretto posizionamento, va rimosso e con la fresa si approfondisce il solco o si elimina l’osso che crea ostacolo...” Sutura della ferita. “…Alla detersione della ferita segue la sua sutura con punti staccati che possono essere rimossi dopo cinque, otto giorni…”. Considerazioni Postoperatorie. “…Ai pazienti totalmente edentuli applichiamo subito una protesi totale provvisoria precedentemente realizzata per ottenere estetica, funzione e stabilità. Quando i
tessuti sono guariti si prendono le impronte e a circa cinque, otto settimane dall’intervento passiamo alla protesi definitiva…”. Scelta del Sito Implantare. “…Dal momento che le finalità della protesi sono stabilità, ritenzione e sostegno, il sito ideale di ciascun impianto è determinato da considerazioni protesiche. Tuttavia la morfologia dell’osso può rendere necessaria una sua diversa collocazione (Winkler S, 2002). Di norma ciò non rappresenta un inconveniente serio, poiché è la parte emergente dell’impianto e non il corpo, che deve armonizzarsi con l’arcata dentale. Il corpo dell’impianto può essere inserito nel sito con l’osso migliore a patto che la sua parte emergente si trovi a sporgere già in direzione del piano occlusale desiderabile o lo sia dopo piegatura…” Osso. “…La quantità e natura dell’osso determinano l’eventuale utilizzo o meno di un impianto e, nel caso, di quale tipo di impianto. L’osso alveolare è molto reattivo alla stimolazione meccanica, o alla sua assenza. La capacità di sopportare tensioni interne è di natura osteogenetica mentre una pressione esterna concentrata causa riassorbimento. Una lama inserita nell’osso alveolare è soggetta alle forze naturali presenti intorno. L’osso alveolare residuo tende ad essere più spugnoso e fragile nel mascellare superiore rispetto a quello della mandibola ne consegue perciò la necessità di un’ulteriore cautela nel preparare la sede e nell’affondare la lama. Inoltre nel mascellare superiore la superficie occlusale della cresta alveolare spesso è carente di una corticale che la ricopra, rendendo un po’ più difficoltosa la retrazione dei tessuti molli sovrastanti…” (Winkler S. et al., 2000). Linkow (1968,1973,1979) afferma che “…l’osso della spina nasale anteriore, eminenze canine e superficie palatina della cresta palatale è compatto proprio come quello della mandibola. Il riassorbimento può lasciare una cresta affilata o irregolare in entrambe le arcate. Una cresta affilata può essere ridotta in altezza finché è sufficientemente larga per accogliere una lama. Raramente è necessario
livellare una cresta irregolare perché si può ottenere un piano occlusale adeguato modificando l’altezza delle parti emergenti e la riabilitazione non è condizionata dal tessuto. L’osso in rilievo di una cresta irregolare può pure fornire un miglior sito implantare…” (solo perché il rilievo ne aumenta lo spessore). “…Sottosquadri o avvallamenti lungo le pareti di entrambe le arcate dovrebbero essere evitati. In molti casi si risolve il problema semplicemente piegando la lama…” Tessuti Mucoperiostei. “…I tessuti mucoperiostei tendono ad essere relativamente sottili e facili da scollare integralmente dall’osso mandibolare. Nell’arcata superiore dopo la perdita di un dente si ispessiscono e in modo ingannevole fanno da cuscinetto alla cresta. I tessuti nel mascellare superiore hanno un’irrorazione relativamente copiosa e potrebbero somigliare a quelli che si riscontrano dopo anni di sollecitazione per l’uso di una protesi mobile. Dal momento che i tessuti duri e molli dell’arcata superiore presentano spesso maggiori difficoltà operative si consiglia al dentista principiante di iniziare terapie implantoprotesiche a lama sulla mandibola…”. L’ARCATA MASCELLARE SUPERIORE “…Normalmente troviamo abbastanza osso a partire dall’incisivo laterale fino alla regione del primo premolare per inserire delle lame. La localizzazione della linea mediana va attentamente analizzata prima dell’intervento. E’una area più debole e il foramen incisivo può essere vicino all’apice di una cresta fortemente riassorbita. Distalmente si presentano molti problemi a causa della perdita di osso e dell’espansione del seno. La posizione e la quantità di osso residuo come pure la forma e l’estensione del seno sono fattori da tenere sotto controllo. Le aree mascellari superiori distali sono pure i siti chirurgici più difficili. Grande attenzione va posta nell’incisione e scollamento dei tessuti per la presenza del forame palatino maggiore e dei frenuli. La penetrazione nel seno dovrebbe essere evitata anche se un
certo margine di sicurezza è dato dalla possibilità da parte della membrana di essere sollevata dall’osso rimanendo integra…”. L’arcata Superiore Totalmente Edentula. “…Frontalmente si inserisce una lama con moncone singolo preferibilmente nell’area da canino a canino su ciascun lato della linea mediana. Distalmente si inseriscono due o più lame. L’ideale è una lama a due monconi col disegno particolarmente adatto ad essere inserita nell’osso al di sotto del seno. I monconi fuoriescono nelle regioni dei molari e premolari. Nell’arcata dentale normale si può inserire una lama a moncone doppio mesialmente ad un seno pneumatizzato ed una distalmente. Quando l’ampliamento del seno o la fragilità dell’osso impediscono il posizionamento di impianti a lama distali si ricercano altri siti distali. La tuberosità può essere abbastanza larga da poter accogliere in direzione vestibolopalatina una lama dalla forma particolare, oppure essere abbastanza profonda e lunga da poter inserire una lama asimmetrica mesiodistalmente…”. L’ARCATA MANDIBOLARE “…Come nel mascellare superiore, la regione frontale presenta siti relativamente più facili rispetto alle aree distali. Frontalmente non ci sono vasi e tronchi nervosi di rilievo. L’osso della sinfisi è compatto ed è rinforzato dalla protuberanza mentale. A causa della compattezza dell’osso in questa regione si deve porre attenzione a non surriscaldarlo con strumenti rotanti. Distalmente è importante la presenza del canale mandibolare perché la chirurgia implantare non deve avere impatto sul fascio vascolo nervoso. Anche i vasi sono a rischio quando i tessuti vengono incisi e scollati nella regione dei forami mentonieri. Un piano osseo sporgente su una concavità (esempio più importante la fossa sottomandibolare) non è un sito appropriato per una lama per la facilità alla frattura di questa prominenza. E’ quasi sempre possibile usare lame frontalmente per disporre di monconi per incisivi laterali e canini. Si passa da un singolo impianto ad ogni lato della linea mediana ad uno ricurvo con
doppio moncone che la attraversa. Quando si usano lame frontalmente è possibile disporre di due monconi su ogni emiarcata emergenti nelle regioni dei secondi premolari e molari con i seguenti metodi. 1) L’ideale è una lunga lama con doppia parte emergente inserita sopra il canale mandibolare. Fornisce due monconi in un unico sito chirurgico. L’altezza della lama dovrebbe essere in funzione dei requisiti anatomici. Altezze vieppiù ridotte dei disegni consentono di affondare correttamente le lame in osso meno profondo, mantenendo le parti emergenti sulla sommità della cresta. 2) In una cresta irregolare si possono usare due lame con emergenza singola. 3) Un riassorbimento esteso può rendere il canale mandibolare così vicino alla superficie da rendere consigliabile un impianto sottoperiosteo. 4) Se il canale mandibolare è deiscente, lo si può approfondire estroflettendo il fascio vascolo nervoso in basso fuori del contatto con l’impianto. In una mandibola totalmente edentula un impianto sottoperiosteo mandibolare a tripode sarebbe il trattamento di scelta per bypassare il nervo deiscente…”.
VANTAGGI DELL’IMPIANTO A LAMA 1. Le lame si possono utilizzare in creste a lama di coltello, dove nessun altro impianto lo può essere. 2. Le lame si inseriscono facilmente in osso alveolare con altezza ridotta sopra il canale mandibolare o sotto le cavità sinusali o nasali. In queste situazioni potrebbe essere impossibile l’utilizzo di impianti a forma di radice. 3.Grazie alla loro particolare forma si ottiene tra il metallo e l’osso una maggiore superficie di contatto rispetto a quella di altri tipi di impianti. La porzione intraossea della lama viene a contatto con una quantità di osso maggiore a confronto di quella di alcune radici dentali naturali. 4. Le lame presentano aperture ampie o ridotte all’interno dei loro profili dove l’osso possa generarsi. 5. La rastremazione a cuneo data dalle superfici piatte linguali e vestibolari della lama stessa fa sì che essa venga a contatto sempre più a stretto con l’osso man mano che la si affonda alla sua adeguata profondità. Il cuneo ne impedisce ogni possibile ulteriore affossamento in quanto l’osso circostante offre sempre più resistenza a parti di cuneo più superficiali che approfondendosi presentano uno spessore maggiore. 6. A guarigione avvenuta i tessuti molli direttamente a contatto con gli impianti sono strettamente adesi ad essi. 7. La facilità di inserimento dell’impianto a lama è un vantaggio sugli altri impianti. 8. Lo scollamento del tessuto fibromucoso e il posizionamento degli impianti direttamente nell’osso sottostante dà maggiori vantaggi se paragonato all’avvitamento manuale o con manipolo di impianti attraverso i tessuti molli superficiali, perché così eventuali Inclusioni epiteliali non vengono accidentalmente sospinte negli alveoli artificiali come si è spesso osservato con le tecniche di inserimento di viti e aghi. (Linkow inseriva normalmente queste tipologie di impianti “a cielo coperto”, cioè con metodica flapless, spiegando così le possibili inclusioni di
tessuto molle epitelio-connettivale). Dopo lo scollamento dei tessuti l’osso esposto permette al dentista di sfruttarne la topografia nella maniera più efficace. Spesso, specialmente nel mascellare superiore, il tessuto fibromucoso estremamente ispessito maschera la sottostante e ben più sottile cresta in modo così accentuato da creare una discrepanza fino a sette otto millimetri tra la cresta alveolare effettiva e quella apparente sul tessuto molle sovrastante. 9. Riguardo la protesi fissa le parti emergenti delle lame possono essere più ritentive dei monconi ben più piccoli degli impianti a forma di radice. 10. Si possono utilizzare vantaggiosamente degli analoghi prefabbricati intercambiabili di metallo o plastica . 11. Le parti emergenti delle lame, grazie alla eccellente osteointegrazione possono essere modificate e rese parallele tra di loro usando a bassa temperatura frese di pietra, di tungsteno coniche, o punte diamantate senza timore di perdere gli impianti. 12. Sono pure disponibili parti emergenti di lame che hanno in dotazione una serie di viti sia verticali che orizzontali per incrementare la ritenzione della protesi. 13. Possiamo inserire le lame immediatamente dentro gli alveoli beanti. L’osso si rigenererà completamente sopra le loro spalle. NOTIZIE STORICHE SULL’ EVOLUZIONE DELL’IMPIANTO A LAMA Cronologicamente questa invenzione fa parte delle novità implantoprotesiche degli anni ’60, ma ebbe il massimo sviluppo nel decennio successivo durante il quale fu modificata e migliorata assumendo per un certo periodo il ruolo dell’impianto più diffuso nel mondo. Riteniamo, pertanto, che possa essere culturalmente stimolante conoscere sia la storia che l’evoluzione clinica di questo impianto.
GLI IMPIANTI “A LAMA” DI LINKOW Le “lame” che Linkow presentò nel 1968 segnano un altro progresso nell’evoluzione degli impianti. Fig. 1. La lama di Linkow. Ancora sconosciuto in Europa, Linkow però non era un “outsider”: la sua prima pubblicazione sugli impianti risaliva infatti a quattordici anni prima (1954), seguita poi da altre ventiquattro, precedenti a quella che dava notizia delle sue lame. Questi impianti non sono quindi frutto di improvvisazione, ma la conseguenza di una lunga attività di ricerca, dedicata alla soluzione di un’alternativa implantoprotesica alla protesi tradizionale. Il concetto, come lui stesso ammise, può trovare qualche analogia con un impianto “più grossolano e diversamente posizionato utilizzato verso la fine del 1967” da Roberts (citato da Linkow nel 1967), era quello di inserire in solchi lineari, creati chirurgicamente, degli ancoraggi in titanio laminato e scheletrato, provvisti di uno o due monconi protesici esterni. Anche l’italiano Pedroni (citato da Muratori nel 1971) e l’americano Cranin (citato spesso da Linkow e Muratori) avevano presentato quasi contemporaneamente degli impianti sagittali “ad ancora” in cui si potevano ravvisare vaghe somiglianze con le sue lame. Ciò non toglie alcun merito a Linkow, che diede alle sue lame in titanio forme e versatilità d’utilizzo molto più vaste e più pratiche. L’intervento è eseguito a cielo scoperto per visualizzare la cresta ossea in cui è praticato un solco sagittale per l’alloggiamento della parte sommersa delle “lame”. I solchi si preparano con frese a fessura (siglate
700 XL o 700 XXL, secondo la lunghezza del gambo) montate su turbina. I solchi devono accogliere tutta la porzione endossea delle lame. La fresatura dell’osso richiede il contemporaneo raffreddamento con getto d’acqua. Le “lame” hanno diverse forme, adattabili alla morfologia delle zone da riabilitare: sono scheletrate per consentire all’osso che si riforma, di includerle colmandone i vuoti. Posizionate manualmente all’imbocco dei solchi sono poi affondate con un punteruolo o uno scalpello leggermente battuti da un martelletto di piombo. Il dorso delle lame va approfondito 2-3 millimetri al di sotto del bordo dei solchi, così che nel successivo periodo di guarigione, richiudendosi, il tessuto osseo le sommerga completamente. Nei solchi curvilinei le lame vengono inserite dopo essere state convenientemente piegate. Al di sopra della mucosa suturata sporgono uno o due alti monconi, che l’Autore raccomandava “di protesizzare al più presto, unendoli al maggior numero possibile di denti residui”. Ciò, secondo la sua esperienza, ne avrebbe favorito la successiva stabilizzazione. Linkow intraprese subito un’intensissima campagna didattica del metodo, sia per divulgarlo che per promuovere la vendita delle sue lame. Operava su pazienti volontari, ripresi spesso con telecamere per poi trasmettere gli interventi ai numerosi colleghi che assistevano alle dimostrazioni. L’azienda commerciale, che si era fatta carico della vendita delle lame, lo obbligò a massacranti tournée in ogni paese del mondo, mentre sui giornali e sui rotocalchi venivano contemporaneamente pubblicizzati i vantaggi della nuova “invenzione”. L’Autore scrisse subito un trattato in due volumi, insieme al francese Cherchève: “Theories and Tecniques of Oral Implantologie”. A pagina 92 del primo volume, riprodusse lo schema, già pubblicato dieci anni prima, in cui Ugo Pasqualini proponeva, fra i metodi d’aggressione della cresta ossea, anche il suo intarsio sagittale. Dandone ampio riconoscimento, riprodusse anche qualche impianto “a due tempi” ed alcune dimostrazioni isto- anatomopatologiche della loro inclusione per diretta apposizione ossea, senza interposizione di tessuto fibroso. Egli voleva comprovare che, anche negli spazi vuoti delle sue lame si sarebbe dovuta ripristinare la continuità di un osso includente, senza
bisogno dell’eliminazione delle sollecitazioni esterne, di cui, a quel tempo, non aveva ancora compreso l’importanza. Le sue lame erano infatti provviste di voluminosi monconi, che sembrava non avessero influenze negative nei riguardi del processo di osteointegrazione LE MODIFICHE ALLA LAMA DI LINKOW Fig. 2. Tutte le varietà delle numerose lame proposte da Linkow. Un inconveniente della tecnica di Linkow era legata all’eccessiva varietà di forme di lama, per poterle adattare ad ogni sito edentulo ricevente. Ugo Pasqualini (1970) e Giordano Muratori (1970) riunirono varie forme in un’unica lama che si poteva adattare alla morfologia di ogni zona d’impianto. Altre lame “adattabili” furono più tardi realizzate da Binderman e Shapiro (1972), da Foscarini (1975), dallo stesso Linkow (1981), da Tramonte (1982).
LA LAMA “UNIVERSALE” DI GIORDANO MURATORI Fig. 3. Lama universale di Muratori con analogo e transfer di laboratorio Muratori realizzò una lama “universale” da modificare preventivamente secondo la morfologia di ciascun caso da trattare. Scrisse: “…I motivi che mi hanno spinto a realizzarla sono: 1) l’utilità di poter disporre in qualsiasi momento, di una lama da adattare ad ogni caso, senza doverla scegliere fra un gran numero di forme standard; 2) l’esecuzione di protesi più semplici perché con la lama universale si possono usare le stesse cappette prefabbricate delle mie viti; 3) il massimo sfruttamento dell’osso a disposizione perché la lama universale può sempre essere adattata all’esatta conformazione interna delle creste edentule; 4) un vantaggio economico perché con poche lame universali è possibile risolvere ogni caso, senza dover sempre avere a disposizione le numerose, differenti lame di Linkow. Le forme che se ne possono ricavare”, prosegue Muratori, “sono praticamente infinite. Ogni operatore può ricavarne il disegno più consono alle sue concezioni: lame perforate o intagliate, a fori larghi o stretti, molto o poco areate ecc.” Prima di essere così modificata la lama è una piastra liscia di titanio, con uno o due monconi su cui possono essere applicate le cappette “standard”, già ideate per la protesizzazione delle viti cave. Oggi, con l’avvento della radiologia 3D è certamente più agevole e preciso, ma la tecnica di preparazione, relativamente semplice,
richiedeva i seguenti passaggi: 1) si iniziava con una radiografia endorale della zona da restaurare, con la tecnica del cono lungo a raggi paralleli che dà immagini praticamente identiche alle dimensioni longitudinali della cresta entro cui si dovrà intervenire; 2) sulla radiografia così eseguita, asciugata e posta su un diffusore, si tracciava con una matita da vetro la forma della lama che si riteneva più adatta alla morfologia della sua zona d’immissione; 3) sulla radiografia si poneva un nastro adesivo trasparente e vi si ricalcava il disegno sottostante; 4) il nastro trasparente su cui era stato ricalcato il disegno veniva staccato dalla radiografia ed incollato sulla piastra uniforme della lama (ad uno o a due monconi, secondo le indicazioni del caso); 5) la lama, unita all’adesivo si trasferiva al laboratorio, che con fresa al carburo di tungsteno vi profilava il contorno del disegno e quindi la rifiniva secondo le indicazioni del professionista. I monconi delle lame universali possono essere orientabili con una pinza sia in direzione vestibolo-linguale che in direzione mesio- distale. La tecnica chirurgica d’infissione è sostanzialmente identica a quella proposta da Linkow. Le lame universali di Muratori erano realmente “su misura”. Il collo dei monconi, facilmente orientabili, era però un po’ troppo sottile per escludere il rischio di fratture “da fatica” nel tempo. Nessun impianto è esente dal rischio di rottura “da fatica”, sia per qualche difetto di costruzione che di sovraccarichi occlusali. LA LAMA “POLIMORFA” DI PASQUALINI Fig. 4. Lama polimorfa di Pasqualini
Anche Ugo Pasqualini realizzò una lama che condensava in un solo manufatto le forme delle lame originali di Linkow (Berger S, 1971) e che con semplici e rapide correzioni eseguite al momento, poteva essere adattata ad ogni esigenza. Sovrappose i disegni di tutte le lame originali di Linkow e ne ricavò un profilo unico, entro cui erano tutte contenute. Fece opportunamente scheletrare quella forma piena senza impoverirne la struttura portante e ottenne in tal modo il profilo di una lama madre “polimorfa”, da cui poteva essere ricavata senza difficoltà la lama adatta a qualsiasi evenienza.. Le variazioni sono effettuate con un tronchesino per filo armonico da ortodonzia che rende possibile l’esecuzione di tagli rapidi e netti. LA LAMA “A NASTRO” DI BINDERMAN E SHAPIRO Fig 5. Lama a nastro di Binderman e Shapiro Fu presentata nel 1972 e può essere separata in vari settori, che consentono di moltiplicarne il numero e qualche piccola modifica del profilo. La lama “a striscia” di Binderman e Shapiro non consente né l’utilizzazione per monoimpianti, né altre estensioni in profondità. LA LAMA “MULTIPURPOSE” DI LINKOW Fig. 6. Lama multipurpose di Linkow
Proposte da Linkow nel 1981 (e pubblicata solo nel 1992!), queste due lame ad uno e a due monconi possono essere trasformate, secondo lo schema originale dell’autore in 34 forme diverse. Linkow non fornisce in proposito alcun’altra notizia, tranne il nome e l’indirizzo della ditta costruttrice. LA LAMA “MENTONIERA” DI STEFANO TRAMONTE. Fig.7. Lama mentoniera di Tramonte Anche Stefano Tramonte utilizzò la lama di Linkow per riabilitare qualche cresta ossea di spessore ridotto che non poteva contenere le sue viti. Nel 1982 ridusse l’estesa trousse delle lame di Linkow ad un solo manufatto, da cui potevano essere ricavati impianti adattabili a molte esigenze. La sua lama, diversa per ampiezza, disposizione dei monconi e diametro dei fori da quella di Binderman e Shapiro, è formata da un’estesa lama perforata provvista di cinque grossi monconi. Può essere modificata in varie forme, ad 1, 2, 3, 4 e 5 monconi. Per la sua estensione ed il numero dei monconi la lama di Tramonte era molto indicata nella zona mentoniera particolarmente resistente e capace di sopportare anche carichi estensibili distalmente, con protesi mobili che eventualmente vi potevano essere congiunte.
LE LAME “A CHIAVETTA” DI FOSCARINI. Fig. 8. Lame a chiavetta di Foscarini Nel 1976 il dott. Giuseppe Foscarini pubblicò sulla rivista Dental Press la prima relazione delle sue lame “a chiavetta”, di cui fornì maggiori dettagli nel libro “Le nuove lame per implantologia orale”, edito l’anno successivo. Le lame di Foscarini svilupparono sia il concetto di adattabilità a varie situazioni morfologiche, sia quello della “minima estensione”, sia il principio, già proposto da Norman Cranin (1971), dell’aumento della barriera di chiusura ossea attorno ai monconi. Foscarini realizzò sei lame con cui previde di fronteggiare quasi tutte le situazioni d’impianto. La novità non era tanto nella versatilità delle sei forme, quanto nella realizzazione, comune a ciascuna, di una parte sommersa bassa e profonda, provvista di uno o due lunghi prolungamenti, pure sommersi, che sporgevano all’esterno solo nel tratto finale che si poteva accorciare secondo lo spazio a disposizione. In realtà le lame di Foscarini non sono quindi ridotte in profondità, ma nel complesso della superficie metallica che porta i monconi. Infatti essa è priva di tutta la parte superiore, così che la chiusura del solco necessario alla loro introduzione, formerà un’estesa barriera ad un eventuale riassorbimento lungo i monconi protesici. Foscarini raccomandava inoltre di non scollare eccessivamente la mucosa per l’introduzione delle sue lame.
Queste lame adattabili, oggi, non sono più commerciabili, perché tutti gli impianti endossei (e quindi anche le lame), oltre a possedere il marchio CE, devono essere prodotti e venduti in confezioni singole sterilizzate a norma di legge. IL LUNGO CAMMINO VERSO LE LAME “SENZA MONCONE” L’intensissima propaganda della tecnica di Linkow stimolò la curiosità del pubblico e la richiesta di soluzioni implantoprotesiche malgrado le giustificate riserve di molte autorità accademiche. Il loro atteggiamento critico nei confronti della nuova metodica era giustificato: 1) dall’irrealtà delle programmate affermazioni dei collaboratori- dimostratori di Linkow di una percentuale di successi altissima, vicina al 100% dei casi! 2) dalle conseguenze di una propaganda commerciale che passava a mani inesperte un metodo, reclamizzato come semplicissimo e che invece richiedeva prudenza, abilità chirurgica, buon senso e grande esperienza protesica; 3) dai numerosi insuccessi, attribuiti senza alcuna prova scientifica a supposte disfunzioni organiche, o a mancanza d’igiene, e/o a contaminazione del titanio, posto casualmente a contatto con altri metalli (scalpelli, percussori, pinze ecc.); 4) dall’assoluta mancanza di ricerche sperimentali sulle cause degli insuccessi “a eziologia sconosciuta” e sui motivi del successo d’impianti analoghi, apparentemente inseriti in condizioni identiche a quelle, dove in altri casi erano avvenuti gli insuccessi. D’altra parte non era possibile sottovalutare gli enormi vantaggi delle lame di Linkow seguite da successi, che aumentavano le possibilità di risolvere situazioni di edentulismo, altrimenti impossibili da trattare con altri tipi d’impianto. Seguiamo lo sviluppo delle ricerche dagli appunti di Ugo Pasqualini: “…fui tra i primi ad utilizzare le sue lame, sia nell’Università dov’ero insegnante che nel mio studio privato. Poiché eseguivo gli interventi a scopo sperimentale potei disporre in breve tempo di una casistica sufficiente a programmare una serie di ricerche sulle cause dei miei insuccessi, che contrariamente alle affermazioni della propaganda,
giungevano al 40%. La prima ricerca fu progettata per controllare se i nostri numerosi insuccessi si fossero dovuti attribuire ad inidonee condizioni di salute dei pazienti operati. Le ricerche successive mi permisero di concludere che le cause degli insuccessi erano da individuare nella presenza dei voluminosi e lunghi monconi protesici, esterni alle lame e nelle diversità statiche del tessuto spugnoso e del tessuto compatto dov’erano incluse…” IMPIANTI E STATO DI SALUTE La percentuale degli insuccessi con gli impianti a lama era di poco inferiore a quella dei successi. L’affermazione che gli insuccessi fossero da attribuire ad un precario stato di salute dei pazienti operati non era documentata da alcuna prova scientifica: Venne eseguito quindi, a posteriori, su quarantasette pazienti già trattati con impianti a lama, un identico check-up di controllo. Alcuni pazienti erano portatori di impianti stabili; altri presentavano già l’iniziale insuccesso, alcuni l’avevano già subito; altri ancora erano invece contemporaneamente portatori di impianti stabili e di impianti in espulsione. I risultati, sono così riassunti: 1) tanto i pazienti in buona salute, indicati con segno (+), che i pazienti in salute meno buona, indicati con il segno (x), presentavano la stessa percentuale di insuccessi; 2) tre dei quattro pazienti in condizione di salute peggiori, indicati con il segno (-), presentavano contemporaneamente e nella medesima bocca sia impianti stabili che impianti in fase espulsiva; 3) i due impianti di un quarto paziente, in stato di salute molto scadente erano entrambi stabili e funzionanti. Gli insuccessi non erano quindi legati allo stato di salute, ma si dovevano imputare solo a imperizia chirurgica e/o a cause locali ancora sconosciute. Questa ricerca fu pubblicata nel 1972 (Pasqualini et al.)
LE CONDIZIONI DEL SUCCESSO O DELL’INSUCCESSO DEGLI IMPIANTI A LAMA DI LINKOW Rimaneva da compiere una razionale ricerca di eventuali responsabilità locali, ancora sottovalutate o sconosciute. Fu proprio paragonando la sequenza fotografica di un clamoroso successo di Ugo Pasqualini (divulgato senza autorizzazione in tutto il mondo da Linkow, mentre era stato utilizzato solo come studio e confronto con gli insuccessi “a eziologia sconosciuta”), con i numerosi insuccessi di altri impianti eseguiti in condizioni apparentemente analoghe, che si poterono dimostrare le differenti possibilità reattive dell’osso spugnoso e dell’osso compatto all’inclusione di manufatti, come le lame di Linkow, provviste di sproporzionati monconi emergenti. Il caso Così scrive Pasqualini: “…nel dicembre 1969 Stefano Tramonte mi aveva inviato sua madre perché provvedessi al tentativo di inserire una lama nella zona distale della mandibola, troppo sottile per le sue viti. La signora portava da anni una ferula superiore su impianti a vite, eseguiti dal figlio. Scollata la mucosa trovai infatti una cresta ossea sottilissima dove, con grande attenzione, riuscii a preparare il lungo solco sagittale per una lama a doppio moncone. La lama fu lasciata libera per sei mesi, per l’assenza della paziente. Quando la rividi trovai l’impianto stabilissimo, con i due monconi sporgenti da una mucosa sana e bene aderente al periostio sottostante. Il controllo clinico del suggello periferico fu eseguito con una sonda segnatasche, introdotta lungo entrambi i monconi. Dovetti desistere dalla ricostruzione del premolare contiguo per la sua impossibilità di ricupero. Avendo già eseguito l’anestesia per l’estrazione, ebbi il permesso di eseguire anche il prelievo dei due manicotti mucosi a diretto contatto del collo dei monconi e di scollare la mucosa sopra il dorso della lama inserita per controllare l’aspetto del tessuto guarito. La regolarità con cui si era riossificato il solco sopra la lama e l’assenza
macroscopica di soluzioni di continuo nella zona di contatto con il collo dei monconi (dove prima dello scollamento si era arrestata la sonda) non consentiva alcun dubbio sulla riuscita dell’intervento (Fig.9) . Ho già scritto al capitolo IV della parte III che eseguì i medesimi prelievi anche dal collo delle viti di Tramonte all’arcata superiore, perché la signora volle contribuire ad una ricerca che avrebbe posto a confronto sia il comportamento della mucosa a contatto del collo dei monconi della lama, sia quello della mucosa a contatto del collo delle viti autofilettanti ideate dal figlio, sia la gengiva a contatto del premolare in sofferenza parodontale. Il dott. Tramonte eseguì in seguito le due protesi fisse che rimasero funzionali e senza alcuna mobilità fino al decesso della signora avvenuto tredici anni dopo”. Fig 9. La lama appena inserita, la guarigione delle mucose e la completa rigenerazione dell’osso sopra la spalla della lama, visibile dopo la riapertura del lembo mucoso. Spiegazione nel testo.
LA RICERCA ISTOLOGICA Venne eseguito l’esame istologico dei tessuti molli adesi al colletto dei due monconi della lama e dei due prelievi effettuati al collo delle viti di Tramonte. Di tutti i preparati furono eseguite sezioni sul piano orizzontale e sagittale proseguendo dagli strati superficiali allo strato profondo. Fu così possibile assistere al progressivo mutamento dell’architettura istologica della mucosa adiacente alla zona più esterna dei monconi, che presentava tutti gli strati degli epiteli mucosi, fino alla zona profonda dove essi erano ridotti alle sole cellule dello strato germinativo poste sul corion sottostante. L’altro manicotto, sezionato in direzione parallela all’asse maggiore del moncone, ha permesso il confronto diretto del comportamento istologico dei due epiteli “esterno” ed “interno” alla “zona del colletto”. I reperti erano identici a quelli di analoghe sezioni gengivali sane, a contatto con il colletto di denti naturali stabili. Fig. 10. A sinistra. La regolare diminuzione degli strati dell’epitelio interno a partire dallo strato esterno verso la zona dell”attacco epiteliale” (Emat. Eos.200x). A destra. Le ultime cellule dello strato germinativo poste sul corion sottostante (Emat. Eos. 400x)
LE CAUSE DEGLI INSUCCESSI “A EZIOLOGIA SCONOSCIUTA” La protesizzazione immediata, raccomandata da Linkow, favoriva l’osteointegrazione degli impianti “intermedi” bloccati fra due solidi monconi naturali, mentre disturbava l’osteointegrazione degli impianti pilastro terminali. Le cause d’insuccesso erano da imputare alla diversa struttura dell’osso dov’erano stati inseriti gli impianti, ricordando che l’indispensabile premessa all’osteogenesi riparativa di qualsiasi ferita ossea è che essa avvenga in stato di quiete. I capi di frattura delle ossa lunghe sono infatti immobilizzati da gessi o da placche ortopediche, fino alla maturazione degli osteoblasti in osteociti ed alla deposizione finale dei sali di calcio che provvedono alla mineralizzazione definitiva del tessuto di guarigione. Si comprese così che proprio la mancanza di quiete nel periodo dell’osteogenesi riparativa era la causa fondamentale di quasi tutti gli insuccessi degli impianti a lama. INCLUSIONE CHIRURGICA, INCLUSIONE BIOLOGICA O RIGETTO DEGLI IMPIANTI A LAMA Dopo la creazione chirurgica dei solchi d’immissione, le lame che vi sono affondate per percussione, si stabilizzano naturalmente fra le pareti rigide dell’osso compatto, mentre nell’osso spugnoso vengono solo provvisoriamente bloccate dalla compressione di poche trabecole fratturate che saranno poi riassorbite, prima che inizi quella che Linkow spesso descriveva come l’osteoinclusione biologica. Gli impianti pressati nell’osso spugnoso, si trovano quindi in un terreno sempre più tenero e progressivamente riassorbito dagli osteoclasti, che li lascia praticamente sospesi nel vuoto e gravemente disturbati dalle continue sollecitazioni dei monconi esterni alle loro strutture sommerse. La stabilità delle lame bloccate nelle creste sottili rimane affidata alle pareti rigide del tessuto compatto delle due corticali ravvicinate, dove il riassorbimento, molto inferiore, non altera lo stato di quiete necessario all’evoluzione dell’osteointegrazione. Molto diversa la stabilizzazione nell’osso spugnoso, dove lo stato di quiete, indispensabile al compimento dell’inclusione
osteogenetica successiva all’ischemia ed al riassorbimento delle trabecole fratturate e compresse, è invece molto compromesso. Riprendendo dalle parole di Pasqualini: “…Se le lame inserite nell’osso spugnoso fossero lasciate senza protesi nel periodo dell’osteogenesi riparativa, subirebbero ugualmente il grave danno delle continue sollecitazioni laterali della lingua sui monconi protesici esterni durante l’ultimo atto della deglutizione orofaringea, con conseguente, irreversibile compromissione della loro osteointegrazione…”. Le ricerche sugli impianti controllati “a posteriori” confermarono che l’eziopatogenesi degli insuccessi era dovuta alle sollecitazioni traumatiche dei voluminosi monconi esterni alle parti sommerse delle lame. Vennero eliminati i voluminosi monconi esterni, sostituendoli con strutture appena affioranti, che permettessero ugualmente di congiungere le lame alla protesi dopo il compimento dell’osteointegrazione. Le esperienze descritte si riferiscono al periodo ormai storico compreso tra il 1969 e il 1972, quando non era ancora stata chiarita l’influenza negativa nei confronti dell’osteogenesi riparativa (leggi osteointegrazione) del moncone protesico (abutment) dell’impianto che aggettando nel cavo orale era sottoposto alle continue sollecitazioni della lingua durante la deglutizione. Oggi sappiamo che le sollecitazioni che provocano micromovimenti superiori a 150 micron possono compromettere l’osteointegrazione, con conseguente fallimento dell’impianto (Szmuker Moncler et al., 1998, Cameron et al.,1973). E’ anche opportuno ricordare che i principi dell’implantologia bifasica di Branemark non erano ancora conosciuti, perché le sue prime esperienze sono state pubblicate in lingua svedese nel 1969, e il termine osteointegrazione viene introdotto per la prima volta in una lavoro del 1977 pubblicato sempre in lingua svedese (Branemark PI. et al., 1969,1977). Considerato che i cilindri scheletrati “a due tempi” frutto di una sperimentazione di dieci anni prima sui cani (Pasqualini U., 1962) avevano dati risultati eccellenti perché rimanevano in stato di quiete durante il periodo critico dell’osteogenesi riparativa
Ugo Pasqualini pensò di fornire anche alle lame cortissimi monconi filettati “affioranti” che impedissero alle sollecitazioni meccaniche esterne di raggiungerne le strutture sommerse (Fig.11). Eliminò quindi i monconi della lama polimorfa, così da poter filettare un trattino dell’estremità del collo, sufficiente a congiungervi più tardi il moncone protesico. La parte liscia che sporgeva di 3 millimetri dal dorso della lama andava completamente affondata nel solco osseo, mentre la parte filettata, che giungeva a sfiorare la superficie esterna della mucosa, era di altri 2 millimetri. Le lame così modificate non avrebbero disturbato lo stato di quiete dell’osteogenesi riparativa, e potevano essere protesizzate in un secondo tempo, senza alcun rischio. Dopo i risultati positivi di tutti i casi così trattati nel suo studio e nella Clinica dell’Università di Modena, pubblicò la relazione con il titolo: “La protezione dell’osteogenesi riparativa con la metodica del moncone avvitabile. Nota preventiva” (Pasqualini U., 1972). Così scrisse: “…Le migliori condizioni per la rapida guarigione delle ferite chirurgiche necessarie alle immissioni degli impianti, con ripristino di tessuto osseo intorno, al di sopra ed attraverso i manufatti scheletrati, si verificano solo quando essi siano stati completamente sommersi, senza comunicazioni con l’esterno. Ciò non tanto per eliminare il paventato ed in realtà inesistente pericolo di contaminazioni microbiche, ma per escludere il braccio di leva dei monconi esterni, che trasmetterebbe alla parte interna pericolose sollecitazioni meccaniche, sottoponendole a continue mobilizzazioni che potrebbero compromettere l’evoluzione dell’osteogenesi includente. Vengono infatti permanentemente bloccate dall’osteogenesi riparativa solo quelle inclusioni che durante il periodo di guarigione siano state protette dalle sollecitazioni meccaniche esterne. Da tali considerazioni, che derivano da mie recenti ricerche in campo umano e da una precedente sperimentazione sugli animali ho sviluppato l’idea dell’impiantoprotesi “a due tempi” su monconi avvitabili, formati: 1) da una parte endoossea (che puó essere a cestello, a tronco di cono, a vite, a lama, ecc.) provvista di un cortissimo
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