Ti canto in tutte le lingue del pop - Il Manifesto
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Ti canto in tutte le lingue del pop – Guido Michelone, 30.11.2013 Storie-Gli artisti anglofoni che si sono cimentati con altri idiomi I musicisti anglofoni non conoscono bene le altre lingue, anzi non le sanno proprio parlare (e cantare) se non attraverso frasi di circostanza, magari studiate ad hoc per compiacere il pubblico dei concerti durante le tournée all’estero: resta impressa nella memoria collettiva italiana ad esempio “Siete caldi?” pronunciata, qui con perfetta dizione, da Madonna allo stadio di Torino a inizio show. Ma quasi nessuno – britannico, statunitense, australiano – fa eccezione, tranne qualche canadese dove il bilinguismo diventa spesso un trend culturale, in primis con Leonard Cohen che già negli anni Sessanta compone qualche canzone in quebecquois, ossia il francese del Québec. Cantanti inglesi e americani, in concerto o su disco, hanno però enormi difficoltà a esprimersi correttamente negli idiomi neolatini, prova ne sia il buffo effetto di tante cover a cui sono costretti ad esempio i gruppi beat nella lingua di Dante, Cervantes, Pessoa o Molière: se la cavicchia Mick Jagger in con Le mie lacrime, per citare la massima rock star nella traduzione della sua As Tears Go By, ma il resto è imbarazzante. Qualche bastian contrario non manca, soprattutto negli anni Cinquanta: Dean Martin, che incarna lo stereotipo del latin lover di origine italoamericana, inserisce qualche termine persino in napoletano in uno slang newyorchese e losangeleno. Nat King Cole, per contro, studia a fondo il suono delle parole dal punto di vista ritmo-fonetico, riuscendo meravigliosamente a interpretare svariati repertori in spagnolo, italiano, persino giapponese. Ma gli altri, Louis Armstrong in testa, innamorati per qualche tempo delle canzoni parigine o brasiliane, se le fanno tradurre: il cavallo di battaglia Frank Sinatra, My Way, altro non è che Comme d’habitude di Claude François; parimenti la bossa nova brasiliana viene, dai jazzmen, tutta trasposta dal soave portoghese a un rigido angloamericano. Da allora a oggi poco cambia, benché la forte presenza di immigrati dal Centro e Sud America crei inedite koiné come lo spanglish (contrazione di spanish + english) che però non ha ancora un songbook consolidato. Esistono però avvisaglie di uno sperimentalismo plurilingui sta, soprattutto nel rock d’autore o viceversa nei tormentoni molto commerciali, forse per effetto o causa di una globalizzazione ormai anche estetico-culturale. E tale ricerca si manifesta con l’uso di frasi e parole, talvolta fuori conteso, dentro le strutture o il contenitore in rigorosa lingua inglese. In tredici esempi famosi – discussi in ordine cronologico – prevalgono di gran lunga francese e spagnolo con due bizzarre eccezioni orientali, in una gamma espressiva che va dal tardo swing alla disco music, dal rock and roll alla new wave, dal prog al punk, dal rock classico a quello alternativo. “Que será, será” (spagnolo/portoghese, “Whatever will be, will be”): Doris Day in “Que Sera, Sera (Whatever Will Be, Will Be)” Tornando indietro al 1956, c’è questo grande successo di Doris Day, che lo canta per prima nel remake di Alfred Hitchcock L’uomo che sapeva troppo vincendo pure l’Oscar quale Miglior Canzone Originale per paroliere Jay Livingston (la musica è di Ray Evans). Il brano, allegro e al contempo fatalista, arriva subito al numero due della hit parade, diventa la sigla ufficiosa del giorno e insegna a un’intera generazione il significato di una frase straniera. L’unico problema è che la maggior parte della gente che compra il disco non sa di che lingua si tratti e non lo sa nemmeno Livingston, il quale sente la frase nel film La contessa scalza (anche se data secoli prima, apparendo già in Doctor
Faustus di Marlowe), ma egli la scambia per latino, quando invece è davvero spagnolo, o, se si preferisce, portoghese, almeno nel modo in cui il paroliere intende la pronuncia. Il titolo si rivela subito profetico, anche se, a prescindere dalla precisione linguistica, diventa un classico e addirittura trionfa in una dozzina di paesi stranieri. “Yo no soy marinero, soy capitan” (spagnolo, “I’m not a sailor, I’m a captain”): Richie Valens in “La Bamba” La traduzione letterale del testo spagnolo di un song molto coverizzato fin dall’uscita discografica (1958) potrebbe apparire come banale motivetto della serie ‘amore, lascia l’ultimo ballo per me’ quando il chicano intona: “Per ballare La Bamba, è necessaria un po’ di grazia / un po’ di grazia per me, per te / più su, più su…”. Nessuno immagina però i complicati retroscena di un tradizionale motivo folk che anticipa l’intero movimento tex-mex. Al termine del primo tour, appena diciassettenne Ritchie Valens va in studio per registrare una canzone, Donna, da lui scritta al liceo per la fidanzata Donna Ludwig, mentre sullato B del 45 giri inserisce controvoglia appunto La Bamba, perché ritiene che un pezzo del genere, interamente inspagnolo con qualche riff chitarristico, non farà mai presa sui giovani statunitensi: all’epoca Donna raggiunge il secondo posto e La Bamba si ferma al ventiduesimo, ma ancor oggi il rocker ispanico è ricordato per questo derivato huapangodelMessicoorientale (Vera Cruz e dintorni), genere musicale formato da versi apparentemente senza senso, il cui significato è noto solo all’autore, mentre la musica incrocia il flamenco ai ritmi afrocubani. Alla fine, ottenuto il testo dalla zia Ernestine Reyes, Valens inizia a studiare duramente la fonetica del pezzo in castigliano, essendo lui di madre lingua britannica. “Sont des mots qui vont très bien ensemble” (francese, “These are words that go together well”): The Beatles, “Michelle” Il sanscrito non è l’unica lingua che i Beatles cooptano per un scrivere un hit. Paul McCartney, già due anni prima dell’India, si dà al francese nel celebre lento di Rubber Soul (1966) per esprimere un grande amore nelle sole parole che conosce. Curiosamente, il semplice verso “Michelle, ma belle” (‘Michelle, mia bella’) risulta l’introduzione alla frase più complessa (“Sont des monts qui vont très bien ensemble”) suggeritagli da un’amica. Paul al centro della ballata si augura che l’amore e la musica possano trovare il modo di trascendere il linguaggio verbale e le divisioni che esso crea. I Fab Four – a parte due cover giovanili in tedesco – si cimentano pure con uno spagnolo maccheronico (addirittura frammisto di cinque italiani) nel breve Sun King (Abbey Road, 1969) intonando un improbabile “Cuando para mucho mi amore de felice corazón. Mundo paparazzi mi amore chica ferdy parasol. Questo obrigado tanto mucho que canite carousel”. “Jai guru deva om” (sanscrito, “Hail to the divine teacher”): I Beatles in“Across The Universe” I quattro Beatles fuggono in India all’inizio del 1968 per studiare la meditazione trascendentale con il guru Maharishi Mahesh Yogi in un momento in cui hanno effettivamente bisogno di pace e stabilità: il loro manager Brian Epstein è morto da poco, e i Fab Four desiderano chiarirsi e mettere a fuoco le idee. Il breve viaggio ovviamente influenza il gruppo nel profondo ampliando non solo la tavolozza sonora (fino a includere ancora più il sitar e i ragas) ma anche l’area della coscienza, con una forte ascendenza filosofica sui membri della band. John Lennon però scrive poco più tardi Sexy Sadie esternando tutta la rabbia verso il Maharishi colpevole di flirtare con le ragazze (Mia Farrow in primis) che lo seguono a lezione, facendo sì che gli insegnamenti del guru restino una più o meno fortuita parentesi, tranne un caso: in Across The Universe (Let It Be, 1970) la passione orientale viene esternata aggiungendo alla lirica basata su immagini visive (con materializzazione di concetti
astratti) ilmantra“Jai guru deva om”, che dà il via al ritornello. La frase in sanscritoè un frammento di testo sacro dalle molte interpretazioni, vagamente traducibile come “saluti al Guru” con l’aggiunta di Om, sillaba sacra dell’antico induismo. “Voulez-vous coucher avec moi (ce soir)?” (francese, “Would you like to sleep with me (tonight)?”): Labelle in “Lady Marmalade” La disco-music è alquanto disinibita nel chiedere (e ottenere) qualcosa, ma questo hit del 1974 della soul vocalist (ripreso di recente da Christina Aguilera) è più sfacciato che mai. In realtà, qualcuno potrebbe chiedersi perché una canzone che narra di una ragazza che si prostituisce in strada e che si impegna a chiedere ripetutamente a tale John se vuole andare a letto con lei, debba porre l’esplicita domanda in lingua francese. La risposta è palese: Lady Marmalade è creola, ovvero usa l’argot della Louisiana, che in particolare gioca sull’ambiguità semantica: forma di cortesia o proposta al plurale? Tra l’altro l’espressione Voulez-vous coucher avec moi (ce soir)? È ripresa dal dramma di Arthur Miler Un tram chiamato Desiderio, dove a pronunciarla risulta la controversa figura di Blanche DuBois. “Qu’est-ce que c’est?” (francese, “What is it?”): Talking Heads in “Psycho Killer” Parlando di testi di rock che fungono anche da Bignamino di lingua francese, i Talking Heads godono di una canzone che è un passo avanti in quel 1977 allucinato, perché sanno diffondere l’alienazione giovanile con ben due diverse lingue. David Byrne veste i panni di un ragazzo tormentato che odia le persone quando non si comportano educatamente: il vocalist scrive e intona espressioni lancinanti che denotano la confusione del protagonista; ma per illustrare gli stati d’animo che inducono il killer psicopatico verso l’omicidio, Byrne usa le strofe ‘en français’, lasciando il ritornello all’american english. Qualunque sia la lingua parlata, il giovane è chiaramente incasinato e per le Teste Parlanti non resta che prenderne le distanze. “Yo te quiera infinito, yo te queira, oh mi corazón” (spagnolo, “I want you forever, I want you, oh my heart”): I Clash in “Spanish Bombs” Dal leggendario doppio album London Calling (1979), il brano una celebra la lotta contro Francisco Franco nella guerra civile spagnola, citando va via l’Andalusia (regioneconquistata dai fascisti nel1936), il poetaFederico Garcia Lorca (fucilato ingiustamente) la Guardia Civil (polizia sotto il controllo di due ministeri). Lo spagnolo dei Clash è tradotto male e le parole in castigliano risultano quasi incomprensibili nell’accento britannico da classe operaia, reso ancor più marcato dal vocalist Joe Strummer Un problema simile si trasforma nel maggior successo della band, Should I Stay Or Should I Go, dove l’accento di Strummer è così pesante che occorre un orecchio finissimo per rendersi conto che il botta-e-risposta nella seconda strofa è in realtà una sorta di traduzione dall’inglese allo spagnolo (“¿Me debo ir O que dame?”). Lo stesso problema si ripete con gli irlandesi Pogues nel singolo Fiesta (1988), dove l’ultimo verso (una narrazione ubriaca sul matrimonio tra l’ex bassista Cait O’Riordan e Elvis Costello) evidenzia le difficoltà di pronunciare correttamente lo spagnolo con il tipico accento anglo-irlandese di Shane MacGowan. E non aiuta certo sapere che alcuni termini “spagnoli” come maccaroni e calamari siano in realtà di lingua italiana. “Jeux sans frontières” (francese, “Games without frontiers”): Peter Gabriel e Kate Bush in “Games Without Frontiers”) Dal 1965 al 1982 e dal 1988 al 1999 Jeux Sans Frontières (in Italia Giochi senza frontiere) è un
popolare show in eurovisione, che si struttura in buffe gare a squadre che contrappongono una varietà di Paesi uno contro l’altro tra giochi ridicoli e costumi pacchiani. La prima canzone di Peter Gabriel a scalare, nel 1980, la Top Ten inglese evoca, anzi ripete più volte il titolo del programma con Guido Pancaldi e Gennaro Olivieri, evidenziando altresì gli ideali dei giochi, insomma il concetto di nazioni diverse che si uniscono per concorrere tra loro senza rabbia o dolore, “la guerra senza lacrime”. Affidando a Kate Bush i ripetuti gorgheggi “jeux sans frontières”, il testo suona davvero come se stia cantando “She’s so popular” (lei è così popolare) o forse “She’s so fucking large” (lei è così fottutamente grossa) ed è uno dei brani più comunemente fraintesi su Internet. Gabriel prende il tutto forse un po’ troppo sul serio, in un clip tenebroso, che lo vede protagonista dallo sguardo bieco maniacale, nel bel mezzo di una cena decadente, tra videoinstallazioni di carri allegorici, scene di guerra, filmati in bianco e nero delle primissime edizioni di Giochi senza frontiere. “Domo arigato” (giapponese, “Thank you very much”): Styx, in “Mr. Roboto” In questo brano che apre Kilroy Wash Here (1983), concept-album e rock-opera, si tenta esprimere correttamente la gratitudine verso l’automa Roboto, al cui interno si nasconde il cantante Kilroy, onde fuggire dall’avveniristica prigione per disadattati del rock’n’roll. La riconoscenza è intonata attraverso dichiarazioni un po’ maldestre sull’influenza disumanizzante della tecnica, che vengono espresse in lingua giapponese nell’intero ritornello, perché “domo arigato” fa rima con “Mister Roboto”, altrimenti la band avrebbe dovuto chiamare Mr. Spank You (o qualcosa del genere) i pulitori meccanici che spazzano la distopia fascista, con risultati stupidi sul piano espressivo. L’esagerato lavoro degli Styx nel suo complesso non riesce a provocare la grande rivoluzione luddista di fine millennio, mentre questo singolo ‘cambia’ il mondo in modo significativo, offrendo a ogni yankee una controreplica ragionevole per qualsiasi frase nipponica ascoltata. “Combien, combien, combien de temps,” (francese, “How long?”): R.E.M. in“Talk About The Passion” I fan dei primi album dei REM vengono praticamente costretti a integrare i testi delle canzoni con la loro immaginazione, visto che Michael Stipe tende a sussurrare appena le parole (con tanto di allusioni), che a loro volta cominciano sempre con qualcosa di obliquo o simbolista; e per molti anni il gruppo rifiuta di condividere attraverso i testi stampati ciò che viene effettivamente cantato. La frase, che suona un po’ come ” Pull me in to talk” nella quarta take di Murmur (1983) in realtà si rivela l’espressione francese “combien de temps”, traducibile in “quanto tempo?” o “per quanto tempo?”. Se si guarda il videoclip della canzone, che ritrae persone senza fissa dimora, terminando con una dichiarazione sul costo di una nave da guerra americana, è facile estrapolare la domanda del vocalist da qualcosa di simile a “Quanto tempo lasciamo la gente in questa sofferenza continua, mentre ì sprechiamo i soldi in guerre?” Cibo per la mente, ma anche una grande espressione per la storia delle frasi ‘straniere’ nel rock. “Quien es esa niña?” (spagnolo, “Who’s that girl?”) Madonna in “Who’s That Girl” Madonna ha impartito al mondo un sacco di lezioni, la maggior parte delle quali riguardano il sesso o gli accenti sulle parole, ma ha anche offerto in un’occasione una veloce ripetizione di lingua spagnola, che arriva direttamente da Who’s That Girl (1987), il cui ritornello suona come un Bignami per tradurre la Stele di Rosetta: “Quien es esa niña” chiede in spagnolo, ripetendo poi in inglese: “Chi è quella ragazza?”. Gli interessati a un secondo ‘appello’ possono proseguire con la strofa successiva “Señorita mas fina”, ma che non è seguita da una traduzione. La frasetta significa, grosso modo, “la più bella signorina”, ma se il concetto risulta troppo difficile, non guasta però, un raffronto
con la coeva La Isla Bonita, che suona più fresca in spagnolo che in inglese. “Soy un perdedor” (spagnolo, “I’m a loser”): Beck in “Loser” È il primo grande successo di Beck, grazie a un testo intriso di nonsense sul piano letterario, con una nuova musica freestyle che per la prima volta fonde il rock, l’hip-hop e il blues del delta. Ma il ritornello fa colpo per via di una chitarra che svisa rabbiosa su una voce indimenticabile (“Soy un perdedor / I’m a loser, baby, so why don’t you kill me?”, ovvero ‘sono un perdente, ragazza, e allora perché non mi hai ucciso?’). Il brano cattura perfettamente il disgusto di sé in un’atmosfera da scansafatiche che però nel 1993 (con l’album Mellow Gold) trasforma il proprio autore in una stella mondiale, insegnando pure a una generazione di hipsters inglesi a come essere autoironici. La miscela tra la bizzarra frase spagnola, il riff afroamericano, il rap losangeleno, l’alt-folk newyorchese, il punk sempreverde, diventano gli archetipi per l’eclettismo surreale del primo Beck, mentre il cantante Weird Al Yankovic riprenderà Loser tre anni dopo in Alternative Polka per farne una parodia al quadrato. “Bon soir, regret, à demain” (francese, “Good evening, regret, at tomorrow”): Fugazi, “Do You Like Me” L’amore non corrisposto e un paranoico contesto industrial-militare vengono sinistramente correlati nel brano che apre l’album Red Medicine (1995), forse il punto più alto raggiunto dal gruppo post- hard-core washngtoniano. Il loro talento nell’essere cripticamente poetici viaggia dunque a pieno ritmo, con il refrain che, in italiano, suona come ‘buonasera, rimpianto, a domani’. E giusto per rendere il tutto piacevolmente ironico, il vocalist Guy Picciotto istruisce a “Dire, come dicono i francesi!” prima di consegnare questa perla di sgangherato argot in pasto al pubblico. Secondo un amico parigino del Fugazi Fans Club, Picciotto “probabilmente intendeva dire qualcosa come ‘Buona notte, mi dispiace, ci vediamo domani.’ Ma questa è davvero merda francese”. Del resto la breve carriera dei Fugazi è tutta giocata sull’ambiguità linguistica a partire dall’acronimo del nome che significa FuckedUp,GotAmbushed,ZippedIn (letteralmente ‘Fottuti, caduti in un’imboscata, ficcati in un sacco nero e mandati a casa’). © 2021
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