Studiare l'atmosfera e la superficie di Venere con telescopi amatoriali
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Studiare l’atmosfera e la superficie di Venere con telescopi amatoriali di Daniele Gasparri Venere tra gli appassionati di astronomia è sempre stato ritenuto un pianeta noioso e difficile da osservare, perché avaro di dettagli. In realtà il pianeta, se ripreso con un’opportuna tecnica, è uno dei più ricchi di dettagli e affascinanti del sistema solare. I dettagli del complesso sistema di nubi è rilevabile in ogni lunghezza d’onda (dal vicino ultravioletto al vicino infrarosso) e anche attraverso strumenti di modesto diametro. L’unica cosa che serve è una tecnica di ripresa ed elaborazione diversa rispetto agli altri pianeti. Andiamo quindi alla scoperta di questo affascinante corpo celeste e dei segreti che custodisce e che finalmente possiamo scoprire con i nostri mezzi. Venere: una marea di dettagli atmosferici anche in infrarosso e nel visibile! Dopo tre lunghi anni di tentativi, finalmente una nuova tecnica di ripresa ed elaborazione consente alla strumentazione amatoriale di catturare le sottili trame delle nubi di Venere ad ogni lunghezza d’onda e con un livello di dettagli mai raggiunto neanche dai grandi telescopi professionali. L’atmosfera di Venere è conosciuta per la sua povertà di contrasti e dettagli. Solamente riprendendo nel vicino ultravioletto si possono mettere in mostra tenui sfumature dai contorni incerti. Purtroppo ottenere ottime immagini in ultravioletto è di una difficoltà estrema a causa di molteplici fattori, tra i quali: turbolenza sempre elevata, scarsa sensibilità dei sensori di ripresa, basso contrasto dei dettagli atmosferici del pianeta, grande quantità di luce diffusa dall’atmosfera della Terra, e molto altro. Ne consegue che la ripresa dei dettagli atmosferici di Venere è stata sempre relegata in secondo piano e mai condotta con la stessa continuità con la quale invece si preferisce monitorare pianeti ben più spettacolari (in apparenza), primi su tutti Marte e Giove. Ma siamo veramente sicuri che Venere sia un pianeta così deludente? E’ proprio vero che mostra dettagli, peraltro tenui e confusi, solo in ultravioletto? Sfatiamo un falso mito: i dettagli ci sono! Le risposte a queste domande sembrerebbero scontate: le numerose osservazioni ed immagini mostrano un pianeta che nel visibile e nel vicino infrarosso non rivela alcuna struttura. Questa convinzione è così radicata che spesso non si tenta neanche di capirne i motivi ed indagare a fondo la questione per verificare se effettivamente il pianeta non mostra dettagli al di fuori dell’ultravioletto perché ne è privo, oppure perché la tecnica e la strumentazione utilizzata semplicemente non riescono a catturarli. In questo caso, prima di affermare che il pianeta non mostra dettagli bisogna condurre un lavoro di ricerca nelle immagini e negli articoli scientifici del passato e parallelamente effettuare nuove riprese, con una tecnica adeguata che permette di sfruttare tutto il potenziale del moderno imaging digitale. Solamente dopo queste due doverose fasi potremmo confermare o smentire le nostre supposizioni. Si potrebbe pensare che questo compito sia riservato ad astronomi equipaggiati con grandi strumenti di ripresa ed una grande esperienza, ma la realtà, e parte importante della bellezza dell’astronomia, è che questo compito ora spetta a noi stessi: siamo noi in questo caso gli astronomi (sebbene amatoriali) che dobbiamo portare avanti questo lavoro di ricerca e magari scoprire qualcosa di nuovo, naturalmente secondo i metodi di indagine scientifica. 1
La ricerca nell’archivio delle immagini di Venere ci da subito informazioni interessanti. Prima di tutto è evidente l’esiguo numero di riprese professionali da Terra: tutte peraltro mostrano una risoluzione piuttosto scadente e sono state effettuate nel vicino ultravioletto o nell’infrarosso termico, ad oltre 2 micron di lunghezza d’onda. La scarsità delle riprese da Terra e la mancanza di immagini nel visibile e vicino infrarosso non deve stupire, visto che è diretta conseguenza delle condizioni di osservabilità del pianeta, molto più difficoltose per la strumentazione professionale rispetto a quella amatoriale. Se le immagini da Terra sono poche e di scarsa qualità, alcune riprese delle sonde che periodicamente hanno visitato il pianeta potrebbero invece essere utili alla nostra causa. Le immagini delle sonde Pioneer (anni 70) non mostrano quasi dettagli nel visibile e nel vicino infrarosso; tuttavia, mano a mano che la tecnologia procede il pianeta si arricchisce di formazioni a queste lunghezze d’onda. Le più recenti immagini della sonda Galileo, durante il suo viaggio verso Giove negli anni 90, mostrano evidenti sfumature ad ogni lunghezza d’onda. I dettagli, quindi, ci sono; il problema è riuscire ad evidenziarli, dato il bassissimo contrasto e le condizioni non sempre ottimali nelle quali si effettuano le riprese da Terra. Nelle elongazioni dei tre anni passati ho cercato di capire se questo problema potesse essere superato con la strumentazione già a nostra disposizione; finalmente nell’apparizione del 2010, tra marzo e luglio, sono riuscito a trovare delle risposte soddisfacenti e a riprendere dei dettagli con un segnale paragonabile, se non addirittura superiore, a quello messo in luce dalle sonde automatiche. Il tutto con un telescopio Schmidt-Cassegrain Celestron da 235 mm ed una camera planetaria Lumenera LU075M (gli esperti del settore capiranno). Strumentazione ed ottimizzazione del setup Se i dettagli nell’atmosfera di Venere sono presenti ad ogni lunghezza d’onda, perché fino ad oggi nessuno è riuscito a catturarli in modo netto al di fuori dell’ultravioletto? Le variabili che possono spiegare questo fatto sono più di una: condizioni di ripresa non ottimali, strumentazione non adeguata, tecnica di ripresa ed elaborazione non ottimizzata per le caratteristiche dell’atmosfera del pianeta (contrasto, scala dei dettagli). La mancanza di dati di ottima qualità da parte degli osservatori astronomici professionali è da ricercare nel fatto che questi strumenti non possono riprendere quando il pianeta è alto sull’orizzonte e raramente possono fare riprese di oggetti bassi più di 30°. Ne consegue che un telescopio professionale può riprendere Venere solo per una manciata di giorni all’anno ed in condizioni atmosferiche mai ottimali perché il pianeta non sarà più alto di una quarantina di gradi sull’orizzonte. In questa situazione gli astrofili hanno un vantaggio enorme rispetto ai professionisti, a patto di riprendere nel momento giusto e nel modo giusto. Il “segreto”, per ottenere ottime immagini e sfruttare quindi tutto il potenziale della propria strumentazione è nella ricerca di una tecnica di ripresa ed elaborazione studiata in ogni minimo dettaglio, senza lasciare nulla al caso. Prima di tutto è necessario disporre di camere planetarie di livello superiore rispetto alle webcam, magari con dinamica oltre gli 8 bit, come le varie Lumenera e Point Grey. Di fondamentale importanza è la stabilità atmosferica, che deve essere quasi perfetta. Questo comporta la necessità di riprendere il pianeta quando è alto sull’orizzonte, di giorno. I momenti migliori sono quando la fase è superiore al 50%; fasi minori riducono drasticamente la visibilità dei dettagli. La ripresa diurna, tuttavia, ci prospetta dei problemi addizionali rispetto alle sessioni notturne: turbolenza atmosferica elevata e basso contrasto, in aperto conflitto con quanto abbiamo detto fino ad ora. Vediamo allora come porvi rimedio. La differenza tra le condizioni diurne e notturne è causata dall’irraggiamento del Sole ed è quindi di natura locale, ergo eliminabile. Il primo accorgimento è quello di avere il telescopio acclimatato con l’ambiente esterno; questo significa non esporre mai il tubo al Sole, ne prima, ne tantomeno durante la ripresa. La mia esperienza ha suggerito posizionare la montatura in un punto nel quale il Sole si nasconde dietro un palazzo, lasciando libero Venere. Il tubo ottico viene sistemato sulla montatura solamente 2
quando il Sole sta per scomparire dietro il palazzo, giusto il tempo necessario per puntarlo, con un filtro solare, e sincronizzare il GOTO della montatura senza il quale trovare Venere può diventare un’operazione lunga. Il problema della luce diffusa si contiene facilmente se si riprende da un cielo trasparente e si utilizzano, almeno per le prime esperienze, filtri rossi o infrarossi. In queste situazioni la differenza tra una ripresa diurna e notturna è praticamente nulla, grazie anche alla notevole luminosità di Venere, visibile addirittura ad occhio nudo durante il giorno. Tecnica di ripresa ed elaborazione A prescindere da quali filtri vengano utilizzati, la tecnica di ripresa deve seguire sempre gli stessi standard: luminosità dell’immagine a circa il 75-80% rispetto al valore massimo, esposizione veloce e guadagno molto basso, focale pari a quella ideale per l’alta risoluzione, ne più ne meno. Il pianeta è molto brillante a qualsiasi lunghezza d’onda diversa dall’UV, quindi è possibile esporre per tempi brevissimi e guadagni bassi. Non ha senso accorciare al massimo l’esposizione ed aumentare il guadagno, anche perché in questi casi il framerate, che deve essere il massimo consentito dalla camera, non ne viene influenzato. I dettagli del pianeta ruotano lentamente e questo si traduce in sessioni di ripresa lunghe anche oltre 20 minuti: bisogna sfruttare tutto questo tempo! La mia personale tecnica di acquisizione prevede la registrazione di 4-5 filmanti composti da almeno 7.000 frame ognuno, a 60 fps ed esposizione di 3 millesimi di secondo, con guadagno a circa 1/3 della scala, rigorosamente sfruttando tutti e 12 i bit della mia camera di ripresa. Perché così tanti frame complessivi? Perché il contrasto dei dettagli atmosferici è bassissimo: per avere un’immagine finale che mostri chiaramente dettagli è necessario sfruttare al massimo tutta la dinamica del sensore attraverso la ripresa di moltissimi frame di ottima qualità. La fase di elaborazione è altrettanto importante, perché a causa del contrasto basso e del gran numero di frame, si è costretti ad utilizzare filtri di contrasto (wavelet) di raggio ed intensità diversi rispetto alle riprese degli altri pianeti. Sembrerà strano, ma molte immagini che possono contenere dettagli, spesso ne risultano prive perché colui che le ha elaborate non ha applicato una corretta elaborazione, lasciandosi condizionare dalla propria esperienza con gli altri pianeti. Avere a disposizione 4-5 filmati indipendenti per ogni sessione di ripresa è fondamentale anche per capire dove si deve fermare l’elaborazione, semplicemente confrontando le relative immagini finali: se vi sono artefatti, essi saranno diversi, se i dettagli sono reali, saranno presenti in ogni immagine. Una volta elaborati i filmati e confermati i dettagli, si possono sommare le immagini ed ottenere la versione finale della sessione osservativa ed ammirare un pianeta come mai lo avete osservato. Il pianeta nell’infrarosso vicino L’infrarosso vicino, a partire dai 700 nm, è la banda che offre i risultati più spettacolari, decisamente migliori, quanto a risoluzione e facilità, rispetto alle riprese in ultravioletto. Grazie alla poca luce diffusa dall’atmosfera terrestre e alla maggiore insensibilità alla turbolenza, nell’infrarosso il pianeta letteralmente si trasforma, accendendosi di chiaroscuri e fitte trame in rapida evoluzione. L’aspetto non cambia se si usano filtri passa infrarosso da 700-800-1.000 nm; quello che cambia è la luce che arriva sul sensore, quindi il tempo di esposizione dei singoli frame. Dalle prove che ho effettuato, sebbene oltre i 900 nm i contrasti siano maggiori, le lunghe esposizioni necessarie (1/15 di secondo) annullano, anzi, invertono il vantaggio in favore di filtri meno selettivi. Applicando scrupolosamente la tecnica citata, i tenui dettagli atmosferici lentamente emergono dal rumore delle riprese, con un contrasto decine di volte inferiore rispetto a quello, già basso, delle riprese nel vicino ultravioletto. In effetti la situazione è piuttosto bizzarra: durante la registrazione dei filmati non si nota neanche il minimo chiaroscuro nel disco del pianeta; stessa considerazione osservando l’immagine grezza risultato della somma di almeno 3.000 singoli frame. 3
Tutto cambia quando si applicano i filtri wavelet con IRIS. A questo punto però, il dubbio potrebbe essere legittimo: se i dettagli si vedono solo ed esclusivamente dopo l’elaborazione, potrebbero essere artefatti? La risposta è semplice: nessun artefatto segue perfettamente la rotazione del pianeta e possiede la forma particolare che hanno le nubi di Venere a questa lunghezza d’onda, come confermano le decine di riprese effettuate nell’arco dei mesi scorsi. Le nubi visibili in infrarosso hanno dimensioni contenute e si sviluppano preferibilmente il longitudine, restando molto sottili in latitudine. Un confronto con riprese UV contemporanee mostra due aspetti completamente diversi del pianeta. I sistemi nuvolosi visibili in IR non hanno alcuna corrispondenza con le strutture rilevabili nel vicino ultravioletto, in nessun caso. E’ evidente che le due lunghezze d’onda mettano in luce proprietà diverse dell’atmosfera. Alcune delle migliori immagini riprese in infrarosso mostrano una struttura nuvolosa che varia rapidamente nel corso dei giorni. I dettagli nel visibile Sorpreso dai primi risultati ottenuti nell’infrarosso, mi sono chiesto se il pianeta potesse mostrare dettagli anche nel visibile e se fosse possibile dare una spiegazione alle osservazioni dei visualisti più esperti, che non di rado riportano la presenza di tenui chiaroscuri nel disco del pianeta. Inoltre, se i dettagli nel visibile dovessero essere presenti, come dovrebbero apparire? Simili alle formazioni in UV o a quelle in IR? Ovvero, quale è il confine tra l’aspetto del pianeta che osserviamo nell’infrarosso e nel visibile? 4
Con la stessa e collaudata tecnica di ripresa ed elaborazione adottata per le sessioni in infrarosso, in alcune sessioni ho effettuato riprese lungo tutto lo spettro elettromagnetico accessibile alla mia strumentazione, dal vicino UV al vicino IR. Con mia grande sorpresa, ho potuto presto verificare che i dettagli visibili in IR lo sono altrettanto in tutte le bande del visibile. Le immagini rosse, verdi e blu presentano strutture identiche tra di loro, totalmente differenti da quello che mostrano le immagini in UV. La conferma dei dettagli ripresi è stata fornita anche dalle ottime osservazioni visuali di Ivano Dal Prete, che a poche ore di distanza da alcune mie riprese ha disegnato un pianeta molto simile alle versioni in IR o nel visibile, piuttosto che in UV. Le immagini riprese falsificano quindi totalmente la tesi che vuole Venere un pianeta omogeneo e privo di strutture al di fuori dell’ultravioletto; non solo, il confronto positivo tra osservazioni visuali e riprese conferisce credibilità alle osservazioni dei visualisti più esperti che non di rado registrano le stesse strutture, fino ad oggi mai supportate da dati oggettivi come le immagini. Sotto un punto di vista più scientifico, e questo ci porta direttamente all’ultima parte di questo paragrafo, è evidente che anche nel blu, lunghezza d’onda molto vicina all’ultravioletto, le strutture riprese siano le stesse delle altre lunghezze d’onda. Come è possibile che in un intervallo di lunghezze d’onda inferiore a 100 nm il pianeta appaia così radicalmente diverso? La spiegazione più plausibile è che i dettagli in UV siano di origine chimica, dovuti alle diverse proprietà chimiche dei componenti dell’alta atmosfera, mentre i dettagli rilevabili al di fuori di questo intervallo sono da imputare a differenze di densità, elevazione e contrasti delle singole nubi, come accade d’altra parte per gli altri pianeti. Visibilità dei dettagli di Venere dal vicino ultravioletto al vicino infrarosso. Le nubi sono evidenti anche nel visibile e somigliano molto alle immagini infrarosse. Questo ci consente di fare delle interessanti ipotesi. 5
Delle importanti risorse scientifiche Le immagini ottenute, oltre ad abbattere dei limiti tecnici e strumentali, sono una miniera di informazioni scientifiche estremamente preziose per la comunità scientifica, vista la loro scarsità su questo ancora misterioso pianeta. Abbiamo avuto un assaggio cercando di interpretare l’aspetto dell’atmosfera alle diverse lunghezze d’onda, ma i dati che è possibile ricavare sono molti di più e molto più importanti, visto che contrariamente agli altri pianeti, continuamente monitorati, nessun telescopio fino ad ora è stato in grado di registrare con continuità dettagli atmosferici al limite della risoluzione strumentale. Vediamo brevemente quali sono alcuni dati che si sono ricavati dalle immagini ottenute nell’infrarosso durante la campagna osservativa, le migliori quanto a risoluzione. Prima di tutto il periodo di rotazione medio, che all’equatore è risultato di 6,2 giorni, con un errore che grazie alle numerose immagini è inferiore al 10%. Il periodo trovato è decisamente più lungo rispetto ai dettagli visibili in UV (variabile tra 3,9 e 4,2 giorni). Questo significa che le nubi si trovano ad una quota minore, ad un’altezza di circa 60 km. Un’analisi più approfondita ha rilevato che le nubi possiedono una dinamica superiore rispetto alle nubi rilevate in UV. Immagini riprese in giorni consecutivi mostrano infatti una struttura a piccola e grande scala completamente cambiata rispetto al giorno precedente: delle formazioni presenti solamente 24 ore prima non ne resta alcuna traccia. Seguendo il pianeta per diverse ore nella stessa giornata si è osservato che le nubi piccole, specialmente quelle brillanti, si modificano e spesso possiedono velocità diverse, causando nell’arco di un solo giorno un generale cambiamento della forma dell’intera atmosfera Venusiana. Non di rado i sistemi nuvolosi sembrano avere una simmetria rispetto all’equatore, zona nella quale si può sviluppare una sottile nube scura, specialmente verso il punto sub-solare, che può restare quasi stazionaria per diversi giorni. Direi che c’è abbastanza scienza per piccoli telescopi amatoriali! Confronto tra le riprese nel vicino infrarosso di alcune sonde e le immagini riprese con uno strumento da 23 centimetri da Terra. L’uso del digitale e di una corretta tecnica permette di raggiungere risultati, molto importanti dal punto di vista scientifico. 6
Riprendere la superficie di Venere E’ opinione diffusa tra gli appassionati del cielo (e anche qualche professionista) che l’osservazione diretta della superficie di Venere sia impossibile con ogni telescopio a causa dello spesso strato di nubi che circonda il pianeta. In realtà non è proprio così e finalmente possiamo dire di averne le prove. E’ sufficiente una strumentazione amatoriale di livello medio per osservare ed identificare univocamente dei dettagli superficiali del pianeta, analizzando l’emissione termica proveniente dall’emisfero non illuminato (nightside in inglese). I dettagli sono così definiti e contrastati che è possibile costruire una mappa perfettamente compatibile con la geologia del pianeta ricavata da studi radar condotti dalle sonde che l’hanno raggiunto. Oltre a questa sorprendente prospettiva, l’indagine accurata del pianeta con tecniche nuove, ma semplici, porta alla scoperta di altri fenomeni peculiari, ritenuti, erroneamente, fuori dalla portata degli astrofili. In questo capitolo spero di riuscire a comunicare un nuovo metodo di indagine scientifica condotto con strumentazione totalmente amatoriale, nonché la passione e l’emozione, proprie dell’amante del cielo, nello scoprire un pianeta nuovo, ricco di fenomeni ancora non ben compresi e studiati a sufficienza nemmeno dalla comunità scientifica. L’emissione termica La superficie di Venere è estremamente calda, circa 770 K; la circolazione atmosferica molto efficiente distribuisce uniformemente il calore, con la conseguenza che la temperatura risulta pressoché uniforme su tutto il globo. In conseguenza dell’elevata temperatura l’intero pianeta emetta radiazione elettromagnetica di corpo nero centrata nell’infrarosso, con un picco a 3,8 micron, ma con delle ali che si estendono fino alla regione del vicino infrarosso. Questa radiazione, definita termica, deve fare i conti con lo spesso strato atmosferico che la blocca completamente in quasi ogni punto dello spettro, tranne in qualche ristretto intervallo di lunghezze d’onda. In corrispondenza della lunghezza d’onda di 1,01 micron si trova una forte finestra di trasparenza nello spettro dell’anidride carbonica e nello spesso strato di nubi di acido solforico: la radiazione termica proveniente dalla superficie riesce ad uscire nello spazio e può essere osservata da Terra come una debole luminosità dell’emisfero non illuminato del pianeta. Non vi sono speranze di osservarla direttamente, ma è possibile, con i nostri sensori digitali sensibili anche all’infrarosso, riprenderla in modo piuttosto semplice e scoprire l’impronta di alcuni importanti dettagli. La prima osservazione da parte di un amatore risale al 2004, ad opera di Christophe Pellier. L’astrofilo francese, riprendendo con un filtro infrarosso centrato sulla lunghezza d’onda di 1 micron, attraverso un telescopio da 14”, riuscì a mostrare la debole luminosità dell’emisfero non illuminato di Venere, che si mostrava come una specie di luce cinerea lunare, ma estremamente diversa quanto a proprietà ed intensità. Egli riuscì a mettere in evidenza anche alcune macchie, ma la loro identificazione non fu certa, a causa del poco segnale raccolto. Da quel momento molti astrofili sono riusciti a riprendere la radiazione termica, ma nessuno è stato in grado di identificare con certezza le proprietà e l’evoluzione delle macchie scure visibili e condurre così uno studio valido anche dal punto di vista scientifico. Poiché Venere possiede montagne ed altopiani, i quali, come sulla Terra, hanno temperature minori delle più basse zone pianeggianti, è teoricamente possibile, studiando l’emissione termica, mettere in mostra le principali formazioni geologiche del pianeta; in particolare rilievi e montagne avranno temperature minori quindi emetteranno minore radiazione, risultando più scure delle regioni pianeggianti a temperature maggiori. Se riusciamo ad ottenere immagini con un buon segnale ed una buona risoluzione, dell’emisfero non illuminato dal Sole, nella finestra di trasparenza, è teoricamente possibile mettere in mostra ed identificare direttamente i dettagli superficiali! I grandi telescopi professionali hanno dimostrato che ciò è possibile, ma non hanno ottenuto grandi risultati quanto a risoluzione e contrasto. 7
Strumentazione L’accessorio indispensabile per riprendere l’emissione termica con successo è un filtro infrarosso centrato sulla lunghezza d’onda di 1 micron (1.000 nm). Nel panorama commerciale, lo Schott RG1000 sembra la migliore soluzione. Questo filtro appare completamente opaco alla vista e può essere utilizzato con profitto, in digitale, solamente sui corpi del sistema solare più brillanti. Combinando la sua banda passante, che inizia a partire dai 900 nm, con la curva di sensibilità spettrale del sensore CCD, si ottiene una trasmissione risultante centrata a 970 nm, con una larghezza a mezza altezza (FWHM) di circa 120 nm. Non servono telescopi dal grande diametro per un lavoro di qualità; piuttosto grande attenzione deve essere messa nella scelta della camera di ripresa, che non può essere la classica webcam. Molti astrofili, anche piuttosto esperti, quali lo stesso Pellier o Damian Peach, utilizzano camere di ripresa specializzate per i pianeti, come le Lumenera o le DMK. Nelle condizioni nelle quali si presenta Venere e per le proprietà della radiazione termica, non credo che questa sia la scelta migliore. Una camera CCD progettata per usi astronomici, con un’ottima sensibilità ed una dinamica a 16 bit, è ideale per questo tipo di lavoro. Lo spettro di emissione della superficie di Venere mostra Curva di trasmissione risultante per la ripresa della chiaramente la finestra a circa 1 micron, nella quale radiazione termica alla lunghezza d’onda di 1 micron, l’atmosfera diventa semi-trasparente alla radiazione ottenuta combinando il filtro infrarosso RG1000 con la superficiale, che riesce a sfuggire nello spazio ed essere curva di sensibilità del sensore CCD. rilevata dai telescopi. Tecnica di acquisizione ed elaborazione La tecnica di ripresa è stata tutto sommato semplice. La luce della falce illuminata del pianeta è di circa 20.000 volte maggiore di quella della radiazione termica del lato in ombra e questa è la più grande difficoltà da affrontare. Invece di cercare di mascherare la falce, dopo alcune prove ho capito che il compromesso migliore era quello di riprendere senza alcun accorgimento particolare, al fuoco diretto del mio Schmidt-Cassegrain da 235 mm f10. Il blooming causato dalla falce illuminata dal Sole non è nocivo, se si ha l’accortezza di non esporre oltre i 10 secondi e, soprattutto, di orientare correttamente il pianeta, con la linea congiungente le cuspidi perpendicolare il lato lungo del sensore. La scala dell’immagine è importantissima; la luce diffusa dalla falce illuminata nasconde totalmente l’emisfero in ombra se si lavora con focali troppo basse. D’altra parte è sconsigliato riprendere alle focali tipiche delle riprese planetarie perché l’emissione termica diventa troppo debole. Un campionamento compreso tra 0,70 e 0,90”/pixel sembra essere la scelta perfetta. Una volta scelta la migliore scala dell’immagine, il problema principale per avere un segnale forte dell’emisfero in ombra è causato dalla luminosità del fondo cielo, che tende a cancellare ogni impronta quando il Sole non è ancora tramontato. Quando il cielo inizia a diventare scuro, il contrasto dell’emisfero non illuminato diventa molto alto, rendendo la ripresa estremamente 8
semplice. E’ quindi sempre preferibile riprendere con il pianeta basso ed un cielo scuro piuttosto che il contrario. Per una migliore qualità dei dati, ho stabilizzato la temperatura del sensore a 5°C e ripreso dark frame e flat field per ogni sessione osservativa. Ho effettuato riprese continuative da appena dopo il tramonto del Sole fino a quando l’altezza del pianeta non scendeva sotto i 5°; in ogni sessione osservativa ho raccolto quindi dai 150 ai 300 singoli frame, con esposizione compresa tra 4 e 10 secondi. La successiva elaborazione, dopo la calibrazione di ogni immagine con il master dark e master flat, è stata molto semplice: per ogni sessione osservativa ho creato 2-3 immagini grezze sommando almeno 70 frame. La ridondanza delle immagini è necessaria per effettuare un confronto serio e capire se i dettagli visibili sono artefatti da elaborazione o non. La superficie rivelata In questo vero e proprio lavoro di ricerca, occorre che le immagini e i risultati ottenuti siano certi e inattaccabili, per questo occorre procedere ad una serie di precauzioni e controlli che dovrebbero far parte del modus operandi di ogni astrofilo dedito all’acquisizione di immagini di valenza scientifica. Le 2-3 immagini grezze di ogni giornata sono state elaborate in modo indipendente, con diversi programmi, con filtri a base di maschere di contrasto e deconvoluzione, e successivamente confrontate per riconoscere l’eventuale presenza di artefatti, i quali si sarebbero presentati in modo diverso per ogni immagine. Verificata la bontà dei dettagli visibili, ho sommato le immagini raw per ottenere l’immagine finale dell’intera sessione osservativa. Ho applicato questo semplice procedimento per tutte le sessioni, ottenendo sette immagini finali che mostrano chiaramente dei dettagli con un notevole contrasto. Le informazioni contenute sono moltissime, e tutte devono essere accuratamente lette ed interpretate. Innanzitutto, possiamo individuare due tipi di dettagli: 1) Macchie definite e a piccola scala, che si ripetono all’incirca nella stessa posizione in ogni giorno; 2) Macchie a scala più grande e contrasto minore, che alterano forme e contorni di quelle più piccole e che sembrano variare completamente da un giorno all’altro. Non sempre sono facili da identificare. Non è difficile capire ipotizzare che i due tipi di dettagli osservati appartengono, rispettivamente, alla superficie e agli strati nuvolosi, generalmente a bassa quota, che assorbono in parte e in modo diverso la luce proveniente dalla superficie. La migliore prova a sostegno della presenza di dettagli superficiali si ottiene misurando accuratamente il periodo di rotazione delle macchie scure che si ripetono in ogni immagine. Il dato ricavato non lascia dubbi: il periodo di 240 ± 6 giorni è perfettamente compatibile con il periodo di rotazione (siderale) della superficie di Venere, di 243 giorni. Non solo i dettagli si muovono lentamente nel corso del tempo, ripetendosi uguali in tutte le immagini, ma hanno un moto identico al periodo di rotazione del pianeta: essi appartengono sicuramente alla superficie, stiamo osservando dettagli superficiali su Venere! Per mettere meglio in evidenza le formazioni, ho creato due nuove immagini effettuando la mediana delle riprese del 12-13-14 e del 16-17-18 marzo. L’operazione di mediana tende a cancellare tutti i dettagli che non si ripetono uguali da un’immagine all’altra, lasciando solamente quelli appartenenti alla superficie. Il passo successivo è stato effettuare un confronto diretto con una mappa altimetrica della superficie venusiana ottenuta dal radar della sonda Magellano, nei primi anni 90. 9
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Le regioni riprese nella campagna osservativa hanno longitudini comprese tra 250° e 330° e latitudini tra -30° e 60°. La corrispondenza con la mappa radar è perfetta. La zona scura nella parte nord, alla latitudine di +30°, vicina al bordo, è la Beta Regio, un altopiano con al centro un vulcano alto circa 6000 metri; più in basso si nota l’inconfondibile forma tortuosa e doppia della Phoebe Regio. Uno sguardo più attento rivela altre regioni, quali la Devana Chasma, un imponente sistema di rift tra la Beta e la Phoebe Regio, la Navka Planitia, una pianura a destra della Phoebe Regio, e la Hyndla Regio, un altopiano contiguo alla Beta Regio. La superficie di Venere è finalmente alla portata di tutti gli strumenti! La risoluzione raggiunta è di circa 2,5”, non male per il campionamento utilizzato (0,86”/pixel) e per le lunghe esposizioni; è evidente che a queste lunghezze d’onda il seeing sia molto più benevolo rispetto al visibile. Infine, grazie alla presenza di una stella nell’immagine del 12 marzo, ho potuto stimare anche la luminosità superficiale dell’emissione termica, di circa 12mag / arc sec 2 , oltre 10 magnitudini inferiore rispetto alla luminosità superficiale dell’emisfero illuminato. Le nubi a bassa quota Le immagini riprese, grazie alla grande dinamica e all’utilizzo di un sensore estremamente sensibile e con un comportamento lineare, hanno permesso di estrarre altre informazioni, in particolare in merito allo strato di nubi sovrastante la superficie. Ricordate il tipo di dettagli che sembra variare forma e posizione in modo totale da un giorno all’altro e che abbiamo associato alle nubi in rapida rotazione? Con un piccolo artificio possiamo mettere in evidenza l’impronta fotometrica causata da questo spesso strato di nubi, che evidentemente non è totalmente ed uniformemente trasparente alla radiazione termica proveniente dalla superficie. Prendiamo le immagini grezze ottenute in due o tre giorni consecutivi. I dettagli appartenenti alla superficie, grazie anche alla risoluzione non elevata, sono praticamente immobili da un giorno all’altro, mentre le nubi si muovono molto più velocemente. Se noi normalizziamo le immagini correggendole per la diversa intensità del fondo cielo, e poi le dividiamo, ci aspettiamo che le formazioni superficiali scompaiano totalmente. Se dei dettagli restano, saranno da imputare esclusivamente al cambiamento di opacità delle nubi, ovvero al movimento dei sistemi nuvolosi nell’atmosfera del pianeta da un giorno ad un altro. Effettuando questa operazione con le immagini del 16-17-18 marzo 2009, le migliori dell’intera campagna osservativa, abbiamo una graditissima sorpresa: tutti i dettagli identificati con la superficie scompaiono, lasciando il posto a dei chiaroscuri a grande scala, variabili da un giorno all’altro. Queste sono chiaramente le impronte identificative dei sistemi nuvolosi, presumibilmente posti nella bassa atmosfera (30-35 km), che tendono ad assorbire in modo non omogeneo la radiazione termica superficiale. Prendendo due riprese ottenute in giorni consecutivi e dividendole, dopo averle corrette per il fondo cielo, otteniamo una nuova immagine nella quale sono evidenti i cambiamenti nella trasparenza dell’atmosfera del pianeta, da imputare al rapido movimento di sistemi nuvolosi posti a quote basse (30-35 km). 11
In conclusione, lo studio dell’emissione termica di Venere alle lunghezze d’onda di 1 micron, con camere CCD a 16 bit e telescopi amatoriali, permette all’astrofilo di conseguire risultati che non hanno pari dal suolo terrestre. Le migliori riprese da terra eseguite con telescopi professionali mostrano una minore visibilità dei dettagli e una risoluzione paragonabile a quella raggiunta con la mia strumentazione. Immagine della superficie di Venere, in infrarosso, ottenuta con un riflettore di 3,9 metri di diametro. L’immagine ritrae le stesse regioni dell’immagine a sinistra, ma la risoluzione Immagine finale del suolo di Venere ottenuta con il mio e il contrasto sono minori, nonostante uno strumento 12 strumento, e nomenclatura dei dettagli visibili. volte più grande! La mappatura della superficie di Venere costituisce per l’astrofilo un indubbio stimolo per spingere la propria strumentazione al limite, ma allo stesso tempo apre letteralmente le porte della ricerca scientifica ad un pianeta considerato fino ad ora ostico e privo di soddisfazioni. Il monitoraggio continuativo nel tempo permette, inoltre, di scoprire eventuali eruzioni vulcaniche su scale di una decina di km, che si manifesterebbero come piccoli punti estremamente brillanti nell’emisfero in ombra; questo punto sembra estremamente importante, poiché ancora non si sa se i numerosi vulcani presenti hanno cessato la loro attività oppure no. La tecnica applicata non è ne nuova ne diversa, eppure ha prodotto risultati mai raggiunti prima. Sono dell’avviso che ancora una volta l’astrofilo deve semplicemente osare, non imponendosi dei limiti ma cercando di abbattere quelli che erroneamente si sono costituiti nel tempo. 12
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