Sei citazioni (più una) in cerca di teoria sulla natura artificiale della comunicazione

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                 Sei citazioni (più una) in cerca di teoria
                sulla natura artificiale della comunicazione
                                               di

                                       Massimo Negrotti
                                            IMES – LCA
                              (The Lab for the Culture of the Artificial)
                                       Università di Urbino
                                        maxnegro@synet.it
                       http://www.uniurb.it/IMES/hypertext/LCA-TA.htm

                                                                  “Le parole non dicono nulla,
                                                              eppure abbiamo soltanto parole.”

                                                          Giuseppe O. Longo, Risorgive,parole

Introduzione: la comunicazione come strumento e come fine
Da quando Shannon, Weaver e poi Jakobson hanno proposto i loro noti modelli della
comunicazione, numerosi altri modelli e teorie si sono succeduti sulla scena della ricerca.
Molti di questi, come la teoria di Jakobson o quella di McLuhan, cercano di dar conto della
natura della comunicazione, ossia di descriverne gli aspetti costitutivi, sia fisici che
psicologici, mentre altri, come, in generale, le teorie di origine psico-linguistica, socio-
linguistica o semiologica, come le teorie di Molino o di Pearce , hanno tentato di chiarire più
specificamente le dimensioni della comunicazione in quanto processo reso possibile dal
linguaggio e dal coordinamento sociale.
Dalla considerazione di quest’ultimo come fatto cognitivo, e dunque mentale prima che
culturale, più recentemente lo studio della comunicazione ha tratto beneficio dalle varie
correnti del cognitivismo e persino da alcuni esiti dei tentativi dell’intelligenza artificiale di
instaurare processi di comunicazione fra l’uomo e la macchina.
Sullo sfondo, ma pur sempre presente in tutte le analisi, rimane però irrisolto il problema
fondamentale, non necessariamente filosofico ma sicuramente risolvibile solo in sede teorica:
perchè l’uomo, e, presumibilmente, solo l’uomo ha generato, nel corso della propria
evoluzione come specie e come cultura, un tipo di comunicazione tanto articolata, complessa
e raffinata? Perchè, in altre parole, solo l’uomo ha dedicato tanti sforzi, tecnici e culturali,
all’impresa di comunicare, cioè di ‘rendere comune’, dati e conoscenze, idee e sentimenti,
immagini e rappresentazioni, fino al punto di fare della comunicazione non solo uno
strumento accessorio all’azione ma, come giustamente ricorda Mascilli Migliorini (Mascilli
Migliorini, 1987), una ‘azione comunicativa’?
Risposte dirette e indirette a questo quesito fanno riferimento, di volta in volta, al carattere
funzionale della comunicazione nell’organizzazione sociale, al suo ruolo economico nelle
strategie di sopravvivenza, all’attitudine simbolica della natura umana, e così via. In ogni
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caso, si tratta di risposte teleologiche più che causali: a parte, in qualche misura, l’ultimo tipo
di risposta citato, in effetti, nessuna risposta conclusiva è disponibile circa la motivazione, o la
classe di motivazioni, che spingono l’uomo a comunicare con l’intensità, l’articolazione e la
varietà di forme e modi che gli sono peculiari.
Il fatto è che studiare gli obiettivi della comunicazione - o i suoi correlati di fatto, magari
latenti, con i modelli personalità, di società o di cultura - è, insieme, più immediato e più
agevole, poichè i segni della comunicazione che si manifesta concretamente, ossia i segni
della comunicazione nel suo compiersi effettivo, sono per definizione palesi e dunque
rilevabili, analizzabili, classificabili e persino misurabili. Altro è, invece, porsi il problema
delle cause generali, di fondo, che spingono l’uomo a comunicare, poiché, queste, affondano
le proprie radici in quella ‘natura umana’ che, da sempre e, secondo noi, a torto, gli scienziati
dell’uomo trascurano o lasciano intravvedere solo implicitamente perchè delicato, difficile e
quasi sconveniente terreno di contesa fra troppe discipline.
In realtà, le scienze dell’uomo e sociali hanno ormai prodotto una quantità notevole di
conoscenze scientificamente rilevanti che lasciano scorgere tratti universali o, comunque,
largamente generalizzabili, della natura umana, sia di ordine psicologico che antropologico e
sociologico, oltre che biologico e fisiologico.
Fra questi, l’attitudine a comunicare è un dato acquisito in tutte le culture e civiltà anche se
non è chiaro se essa sia esclusivamente finalizzata al coordinamento sociale oppure, e
contemporaneamente, sia uno strumento funzionale ad altri tratti antropologici più
fondamentali.
Secondo noi, può essere d’aiuto una tipologia di base che distingua due tipi di comunicazione
presenti in ogni cultura, quella informazionale e quella conoscitiva. Mentre la prima è
comune, ovviamente con differenze di complessità, a tutti i sistemi viventi - e può essere
estesa o trasferita persino alle macchine - la seconda è specifica dell’uomo.
La comunicazione informazionale è strettamente funzionale, si costituisce sulla base di codici,
grammatiche, sintassi, stili e semantiche largamente condivisi e dunque standardizzati e non
coinvolge altro che gli aspetti pragmatici dell’interazione fra gli esseri umani, fra uomo e
organizzazione sociale, fra uomo e macchina. La comunicazione conoscitiva è, al contrario,
ricca di soggettività, e, pur presentandosi negli stessi termini standardizzati - linguistici - già
presenti nella comunicazione informazionale, pretende assai di più e rivela un bisogno
naturale assai più profondo: il bisogno di comunicare stati mentali peculiari (sentimenti, idee,
immagini, intuizioni, ecc.) del soggetto, in una parola elementi di quella che (Polanyi, 1966)
ha congruamente definito conoscenza tacita o personale. Chiunque riesca a cogliere la
differenza fra un messaggio del tipo “...ora parto per Roma...” e uno del tipo “...feriscono il
mio cuore con monotono languore...” può cogliere facilmente anche la distinzione alla quale
ci riferiamo.
Si può sostenere l’ipotesi secondo la quale la distribuzione dei due tipi di comunicazione nella
vita quotidiana è sempre asimmetrica, a vantaggio di quella informazionale, sebbene il
bisogno fondamentale, primario, sia probabilmente rappresentato, idealmente, dalla
comunicazione conoscitiva.
In effetti, sul puro piano biologico, su quello economico e forse persino su quello sociale, la
comunicazione informazionale sarebbe ampiamente sufficiente per la sopravvivenza così
come lo è nell’ambito degli animali, delle piante e delle macchine ma, evidentemente, tutto
ciò all’uomo non basta. E’ ragionevole ritenere che una delle componenti più verosimili della
crisi dell’uomo contemporaneo consista proprio nella sovrabbondanza, oltretutto crescente, di
comunicazione informazionale rispetto alla comunicazione conoscitiva. Non è da escludere
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che, quest’ultima, possa, per ragioni intrinseche, raggiungere un’intensità massima assoluta -
aldilà della quale essa non può svilupparsi senza perdere efficacia - mentre la prima possa
estendersi ad libitum vincolata unicamente alle nostre capacità in termini di information
processing.
Di fatto, e prudenzialmente, possiamo sostenere che la comunicazione conoscitiva rappresenta
oggi una porzione molto piccola dell’intera quantità di comunicazione che ci coinvolge e già
questo fatto genera, per conto suo, fenomenologie di dispersione della soggettività non
estranee all’originarsi di sindromi psicologiche e sociologiche anche gravi, come certe forme
di egocentrismo o di marginalità, di anomia o di aperta devianza.
Tutto questo fa pensare che la comunicazione sia sì uno strumento dalla cui efficienza ed
efficacia informazionali dipende largamente la funzionalità dei sistemi sociali, ma che la
comunicazione conoscitiva - ossia l’esternalizzazione del proprio ego, dei propri stati mentali
in tutte le loro forme: idee, problemi, ipotesi, ansie, ambizioni, ecc. - sia uno dei fini
fondamentali dell’individuo, che ne costituisce e ne conferma l’identità.
La causa prima che genera il bisogno di comunicare è probabilmente la paura della solitudine,
o, meglio, la paura prodotta dalla sensazione o dalla previsione di non poter condividere con
altri la ricchezza - di volta in volta gioiosa o intimorente, rassicurante o ansiogena - di una
vita mentale che l’uomo delle civiltà storiche non riesce ad amministrare solipsisticamente,
nel proprio io isolato dal mondo, nemmeno nelle culture individualistiche più consolidate.
Insomma, si vive per comunicare non meno di quanto si comunichi per vivere. In altre parole,
c’è troppa conoscenza, nel senso lato sopra introdotto, nella mente umana perchè essa possa
rimanervi rinchiusa, custodita in puri termini auto-contemplativi, senza alcuna possibilità di
espandersi, di proporsi o imporsi al mondo.
Per questo le società animali, per quanto ricche su altri piani, appaiono come aggregati
governati da azioni standardizzate mentre le società umane presentano un tasso di varietà
estremamente elevato e non si fondano, o non si fondano solamente, sul silenzioso ripetersi di
moduli funzionali. Indipendentemente dalle teleologie possibili delle varie specificazioni
contingenti della comunicazione, l’esternalizzazione, che, in fondo, costituisce il tentativo di
replicazione del proprio io, è uno dei tratti della natura umana che maggiormente spiega il
dinamismo delle culture.
Tuttavia, e nonostante essa costituisca un bisogno fondamentale, nulla, nè regole nè modelli,
garantisce il successo della comunicazione conoscitiva e, anzi, essa manifesta in numerose
circostanze limiti di notevole entità. Per questo le pagine che seguono sono dedicate ad
un’introduzione, sia pure per tesi, allo studio degli insuccessi della comunicazione più che alle
modalità in cui essa si svolge, alle sue tipologie o alle sue funzioni sociali.
Metodologicamente, si tratta di un’operazione che può aiutare a portare alla luce, proprio
attraverso l’analisi dei limiti in cui essa si produce, alcuni caratteri della comunicazione
conoscitiva in quanto tale, primo fra tutti l’ambizione, che le è intrinseca, di replicare l’io
nella mente dell’altro. Un’ambizione che corrisponde non solo al bisogno di rompere la
solitudine della vita mentale per essere accolti, ‘compresi’ dal e nell’altro, dal e nel mondo,
ma anche al desiderio di appropriazione dell’altro e del mondo, e anche come esercizio di
auto-persuasione, di verifica e di consolidamento del proprio io e delle visioni che esso
produce.
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    Tesi
                                                                    “Gli uomini di poche parole
                                                                      sono gli uomini migliori”
                                                                     W. Shakespeare, Enrico V

Tenterò di rendere plausibile un’interpretazione della comunicazione come caso particolare di
generazione di artificiale, sulla base della teoria che verte, appunto, su tale generazione
(Negrotti, 1992).
D’altra parte, poichè la più grossa novità intervenuta dopo l’usura cui è stato sottoposto il
modello informazionale di Shannon è senz’altro la rinnovata attenzione per il problema del
significato, dichiarerò immediatamente le tesi fondamentali del mio argomento a questo
riguardo.
♦ In termini di successo verificabile, la comunicazione di oggetti informazionali (messaggi
   standard che descrivono realtà fattuali) possiede alta probabilità, mentre la comunicazione
   di oggetti conoscitivi (messaggi non standard che descrivono stati mentali) è sempre a
   bassa probabilità.
♦ Gli esseri umani, nella comunicazione di oggetti conoscitivi, sono condannati allo scambio
  di segni e simboli e non di significati.
♦ Nella comunicazione, la trasduzione del pensiero - inteso come generatore di oggetti
  conoscitivi - in linguaggio segnico o simbolico implica una sua trasfigurazione solo
  parzialmente controllabile.
♦ Retorica e semantica sono strumenti la cui efficacia viene valutata autoreferenzialmente,
  non oggettivamente.
♦ Lo studio degli effetti della comunicazione (ossia lo studio delle azioni correlate alla
   comunicazione) deve necessariamente affidarsi a verifiche non linguistiche.

    Discussione
                                             “E ugualmente avviene con la misteriosa corrente
                                                che scorre nella profondità dell’anima umana:
                                                         la parola enumera, nomina e descrive
                                                           le trasformazioni di questa corrente,
                                                 servendosi di un materiale a questa estraneo.”
                                                               Wilhelm Heinrich Wackenroder,
                                             Phantasien über die Kunst für Freunde der Kunst.

    Esiste uno iato intrinseco e incolmabile fra il mondo dei significati soggettivi e quello dei
significati di cui è verificabile di fatto e inter-soggettivamente la condivisione.
Non c’è alcun dubbio che gli esseri umani generino significati. Comunque questi si possano
definire, si tratta in ogni caso di attributi assegnati dal soggetto a stati connessi ad eventi
interni o esterni, o a loro combinazioni, del tutto particolari, inaccessibili all’osservazione
altrui. Tali stati sono costitutivamente diversi dalla ‘materia’ di qualsivoglia linguaggio.
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In altre parole, il significato che il soggetto attribuisce ai propri stati è esso stesso uno stato
definibile solo all’interno della soggettività. La definizione degli stati e dei loro significati è
un fatto pre-linguistico, strettamente connesso alla coscienza la quale è sempre, prima di tutto,
auto-coscienza.
Nessuna ermeneutica possiede, in linea di principio, la chiave per accedere ai significati
soggettivi, ossia per comprendere esattamente, nel loro contesto, gli stati del soggetto proprio
in quanto stati pre-linguistici.
La comunicazione, non solo linguistica, di oggetti conoscitivi (ossia la comunicazione che
ambisce a trasferire significati) costituisce una rilevante funzione sociale ma, più che allo
scambio di significati, essa presiede ad un processo di autoregolazione che inizia, si sviluppa
e torna al sè del soggetto che comunica: in altri termini, si comunica, fondamentalmente, per
proporre e trovare conferma alla propria visione del mondo piuttosto che per metterla
realmente in discussione, anche se le modificazioni che le proprie visioni subiscono
dipendono anche dalla loro esternalizzazione e dalle reazioni che producono nell’altro.
Poichè la vita intra-psichica è permanente mentre la comunicazione verso l’esterno è
occasionale e, comunque, avviene con una frequenza assai inferiore, i messaggi che
comunichiamo rappresentano una frazione limitata, spesso trascurabile rispetto alla globalità
della vita mentale. L’ambizione replicativa degli stati intra-psichici nella mente altrui è solo la
funzione manifesta della comunicazione. Infatti, aldilà dell’evidente utilità della
comunicazione puramente informazionale a scopi pragmatici, la comunicazione conoscitiva
‘tiene assieme’ la società non tanto perchè consente agli esseri umani di capirsi l’un l’altro,
quanto perchè consente loro di esprimere il proprio sè in quanto presenza legittima nel
mondo, un sè che tende a stabilire e confermare il proprio ubi consistam e la propria
interpretazione della realtà.

                                             “Frasi! frasi! Come se non fosse il conforto di tutti,
                                                             davanti ad un fatto che non si spiega,
                                                               davanti a un male che ci consuma,
                                                            trovare una parola che non dice nulla,
                                                                           e in cui ci si acquieta.”
                                             Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca di autore

    In termini di successo verificabile, la comunicazione di oggetti informazionali possiede
alta probabilità, mentre la comunicazione di oggetti conoscitivi è sempre a bassa probabilità.
Al pari degli altri animali, l’uomo ha evolutivamente posto in essere capacità comunicative,
prima di tutto, a livello informazionale. Non c’è alcun motivo di dubitare dell’efficacia della
comunicazione a questo proposito. Lo scambio di informazione presenta, in effetti,
un’efficacia facilmente verificabile essendo unicamente riferibile al successo o insuccesso di
azioni poste in essere a seguito della comunicazione stessa. A questo livello pragmatico, si
può assumere che l’informazione agisca quale stimolo codificato più che in termini di
significati: l’espressione “prendi la borsa e posala sul tavolo” non esige altro, per essere
sottoposta a verifica di efficacia, che l’osservazione delle azioni che la seguono.
Al contrario, la comunicazione di significati veri e propri, ossia di oggetti conoscitivi, non
potendo che contare sulla natura simbolica delle parole o dei gesti - sostanzialmente gli stessi
adottati per la comunicazione di informazione - non ha alcuna possibilità di verifica. La
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sovrapposizione fra i significati dell’emittente e quelli del ricevente è, di conseguenza, del
tutto aleatoria nè può facilmente essere identificata nella ‘soddisfazione’ esplicita dei
comunicanti. La gratificazione che proviene da una comunicazione che pare avere avuto
successo - in base al criterio della coerenza delle azioni che la seguono -, può fondarsi su
cause del tutto indipendenti dal suo contenuto o, per meglio dire, può fondarsi su significati
diversi, ma altrettanto gratificanti, attribuiti al messaggio dai comunicanti.

                                                         “Oh quanto è corto il dire e come fioco
                                                      al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi
                                                          è tanto, che non basta a dicer “poco”.”
                                                Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso

   Gli esseri umani, nella comunicazione di oggetti conoscitivi, sono condannati allo
scambio di segni e simboli e non di significati.
L’unica certezza di fatto è la natura simbolica dello scambio comunicativo. Tuttavia, non
esistendo alcuna ‘stanza di compensazione’ dei significati - cioè nessuna ‘terza sede’ in cui la
collimazione dei significati affidati ai simboli possa essere valutata o regolata - non è
possibile alcuna verifica del successo della loro resa in comune.
Il linguaggio, o, meglio, le costruzioni simboliche che esso consente, sono l’unica realtà
oggettiva che la comunicazione è in grado di organizzare e di generare.
Tuttavia, queste costruzioni, in quanto tali, sono del tutto autonome rispetto agli oggetti
conoscitivi originari: il significato che il comunicante ‘affida’ alla parola o al simbolo non
altera e non è in alcun modo in grado di personalizzare la loro natura di standard puramente
linguistici. Il ricorso all’accentuazione, all’enfasi e ad altri espedienti hanno come obiettivo il
restringimento delle possibilità interpretative da parte di chi ascolta o legge - ‘molto’ è
certamente più generico che ‘molto!’ -, ma il range semantico rimane comunque assai ampio
e sempre aperto all’ambiguità.
A ben vedere, dunque, la semantica costituisce una rete non di significati ma di simboli che
rinviano ad altri simboli in una circolarità sostanzialmente chiusa (o forse troppo aperta) al
mondo degli oggetti conoscitivi. Il comunicante conosce quali significati egli ha immesso
nella rete ma, questa, appare a chiunque e oggettivamente solo quale rete di simboli: ogni suo
nodo costituisce un potenziale punto di ingresso di ulteriori significati, estranei a quelli del
comunicante.
La comune esperienza di oggetti conoscitivi tipicamente umani - quali la gioia o il dolore, la
paura o l’entusiasmo, il sospetto o la curiosità - facilita la loro simbolizzazione in quanto
classi di significati e non in quanto significati particolari di soggetti particolari. Queste classi
sono in grado di orientare, più che altro per esclusione, l’interpretazione di un messaggio ma
non di qualificare quel messaggio. In altri termini, il linguaggio, e la comunicazione che esso
consente, sono davvero e solo processi socio-culturali e non individuali: la soggettività, una
volta indossata la maschera semantica, diviene un fatto sovra-individuale, non più
controllabile, in cui la conoscenza soggettiva viene trasfigurata.
La radice del significato in quanto oggetto conoscitivo e non puro evento informazionale,
risiede, in tal modo, non in riferimenti oggettivi ma nel collegamento che l'attore istituisce fra
il segno linguistico o il simbolo e la propria collezione di stati mentali. Tutto quel che si può
dire è che, statisticamente e operativamente, gli uomini convergono - nel senso che si
dichiarano d'accordo - su alcune di queste correlazioni, ma una completa sovrapposizione fra
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stati mentali, dunque privati e soggettivi, e termini linguistici, dunque pubblici e oggettivi, è
del tutto indeterminabile dal punto di vista probabilistico.

                                               “Signor Martin: Preferisco uccidere un coniglio,
                                                                  che cantare in un ripostiglio.
                                           Signor Smith: Kakatoè, kakatoè, kakatoè, kakatoè...”
                                                          Eugène Ionesco, La cantatrice calva

     La comunicazione genera oggetti artificiali (i ‘messaggi’), dotati di vita propria, che si
fissano quali tracce della relazione sociale in quanto tale e non dei significati ad essi
attribuiti dai comunicanti.
Se definiamo messaggio il prodotto di un processo di descrizione di stati mentali attraverso
elementi non mentali - i simboli -, allora potremo rintracciare nella comunicazione i caratteri
tipici di qualsiasi processo generativo di oggetti artificiali.
Adottando il linguaggio della teoria dell’artificiale possiamo definire la comunicazione come
un processo mediante il quale un attore A tenta di riprodurre - idealmente di replicare, proprio
nel senso di clonare - nella mente di un attore B, un esemplare, stato o processo, che risiede
nella propria mente ad un certo livello di osservazione, e al quale egli attribuisce una certa
prestazione essenziale, ossia un significato.
Per farlo, A non può che adottare 'materiali e procedure' diversi da quelli attivi nella propria
mente: pensiero, elementi mnestici, immagini, sensazioni e sentimenti vengono così, più che
affidati, realmente trasdotti in qualche linguaggio nella speranza che esso consenta la loro
riproduzione.
Ogni generazione di artificiale, tuttavia, converge verso la messa in essere di realtà
trasfigurate rispetto agli esemplari per due ordini di motivi: il primo consiste nella inevitabile
selezione, o sradicamento, degli esemplari dal loro contesto e quindi delle stesse prestazioni
essenziali dal loro insieme interrelato - cosa che produce, invariabilmente, una serie di
caratteri, statici e dinamici, dell’artificiale fortemente polarizzati attorno alle selezioni
prescelte e totalmente rarefatti o assenti in relazione al contesto di provenienza.
Il secondo, più strutturale, consiste nella natura intrinseca dei ‘materiali’ adottati i quali, per
un principio che si può definire di ereditarietà, portano con sè, nel processo di generazione di
artificiale, tutto il proprio corredo e non solo i caratteri ritenuti idonei alla riproduzione
dell’esemplare e della prestazione essenziale.
Conseguenza di tutto ciò è quella che chiamiamo la trasfigurazione dell’esemplare e della
prestazione essenziale che l’artificialista gli ha attribuito.
Se assumiamo la comunicazione come processo di generazione di artificiale, allora potremo
considerare come l’accoppiamento che il comunicante A cerca di stabilire fra le proprie
selezioni - del proprio esemplare mentale e della prestazione essenziale che egli gli attribuisce
- con i ‘materiali’ che decide di adottare per la generazione del messaggio, è inevitabilmente
sottoposto ad una verifica in progress la quale è interamente controllata su base
autoreferenziale. In altri termini - escludendo in questa sede gli aggiustamenti nell’emissione
del messaggio che conseguono alla presa d’atto delle reazioni non linguistiche osservabili da
parte di B - il comunicante A, costruirà il messaggio secondo il criterio del suo progressivo
adeguamento rispetto allo stato mentale, il significato, che intende comunicare così come egli
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lo vive soggettivamente, dentro di sé: l’artificiale che alla fine ne risulta sarà, dunque,
adeguato rispetto ai propri criteri di giudizio e non, necessariamente, rispetto a quelli di B.
Il comunicante A costruisce il messaggio ‘meglio che può’ e giudica conseguito quel ‘meglio’
quando, attraverso il rimbalzo del messaggio sul suo stesso sè, conclude che la riproduzione
del proprio esemplare mentale e della prestazione essenziale che egli gli attribuisce, è
completata.
Alla fine, il messaggio consisterà proprio in una costruzione linguistica, eseguita con le parole
e arricchita, o impoverita, dalle loro interazioni: è questa costruzione che giungerà a B e non il
significato che ad essa attribuiva A. Quest’ultimo sarà assegnato, imposto, al messaggio dal
comunicante B secondo modalità che si possono pensare come largamente autonome, cioè
senza alcun rapporto empiricamente rilevabile con il significato che il comunicante A vi
intendeva introdurre. E’ nostra opinione che l’empatia, quale evento dichiaratamente
percepito da due o più esseri umani, e solo nella misura in cui se ne possa accettare la realtà,
non ha alcun bisogno di parole: queste, anzi, potrebbero portare alla disillusione, piuttosto che
rafforzare la sensazione di convergenza.
Anche qui, per parafrasare McLuhan, il mezzo, ossia la 'tecnologia' del linguaggio, diviene il
vero e proprio messaggio. Il linguaggio, in altre parole, esattamente come ogni tecnologia,
possiede proprie regole e caratteristiche che trasfigurano il contenuto che veicolano o, meglio,
gli danno una sostanza propria, trasformandolo in qualcosa di oggettivo e, per così dire, a
disposizione di chiunque se ne impossessi da qualsiasi contesto semantico egli prenda le
mosse.
Ogni parola, entro il messaggio, agisce nella mente del comunicante B come un potenziale
switch fra livelli di osservazione alternativi, tutti equiprobabili a priori, e dipendenti da stati
che il comunicante A non ha alcun modo di controllare. Su un piano pragmatico - o su quello
dell’analisi del potere nella versione di Luhmann - il comunicante A può sempre valutare
l’efficacia della comunicazione in quanto generatrice di effetti rilevabili, ma, il verificarsi di
un’azione a seguito della comunicazione, non implica, ancora una volta, che il comunicante B
abbia colto o attribuito al messaggio lo stesso significato che gli aveva attribuito il
comunicante A. Ottenere, per mezzo della comunicazione, che B agisca come stabilito da A
vuol dire riuscire a realizzare un processo in cui il messaggio di A restringe le possibilità di
comportamento da parte di B, ma tutto questo non implica che B ed A, alla fine, condividano
il significato dell’azione. Esso, nei casi più meccanici e formali di dipendenza di B da A, può
addirittura essere del tutto assente dallo stesso messaggio.
L’ambiguità del messaggio è intrinseca alla sua natura di oggetto artificiale e non è
eliminabile così come non è eliminabile lo scarto fra le prestazioni di una macchina di
tecnologia dell’artificiale rispetto a quelle del suo esemplare naturale. Ciò che possiamo
replicare di un messaggio, ma anche di un testo letterario o di una commedia, è il suo
contenuto informazionale e simbolico, non il significato che l’autore gli aveva attribuito.

    Conclusioni

                                                    “...si può però dire che alle menti filosofiche
                                                                    è sempre apparso incolmabile
                                           il divario tra la mutevole, ricca pienezza dell'esistere
                                                     e la povera ripetitività della parola umana.”
                                                               Tullio De Mauro, Capire le parole
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Non a caso, il giudizio che vien dato del modo di porgere di una persona - ad esempio il modo
di insegnare - viene emesso sulla base della sua capacità stilistica di esprimersi con efficacia
comunicativa (retorica) in quanto tale, cioè, spesso, anche aldilà del contenuto trasmesso. La
difficoltà a comunicare risiede dunque da un lato nella povertà del linguaggio posseduto e,
dall'altro, nell'incapacità di impiegarlo con efficacia, ossia di massimizzare la probabilità di
imprimersi nella mente dell'interlocutore, possibilmente con qualche effetto che appartenga ad
una classe la più vicina a quella includente lo stato mentale che si desiderava rendere comune.
Non è da escludere che certe patologie psichiatriche che si manifestano attraverso
l'autoesclusione dal mondo, il silenzio, l'afasia, siano strettamente connesse all'effetto
intimorente generato dalla crescente complessità della tecnologia linguistica e dal sistema
delle comunicazioni, accoppiati alla loro inesorabile avarità o povertà rispetto alle esigenze
comunicative di soggetti particolarmente bisognosi di collocare il proprio sè in reti di
relazioni sociali percepibili come dotate di senso.
L'espressione "non ho parole..." descrive chiaramente, per esempio, il rapporto fra la
dimensione o la rilevanza dello stato mentale e la 'tecnologia' disponibile per riprodurlo. Tale
rapporto è sempre asimmetrico poiché, seguendo le linee interpretative della teoria
dell’artificiale, l'attore che decide di comunicare qualcosa che ha dentro di sè, deve
necessariamente rinunciare alla globalità della riproduzione, ossia alla replicazione.
Egli dovrà così selezionare un livello di osservazione, un esemplare e una prestazione
essenziale. Si tratta di un imbuto selettivo che, in taluni casi, può scoraggiare e indurre al
silenzio.
Prendiamo il seguente esempio. A decide di far partecipe B, cioè di raccontargli un episodio
particolarmente toccante, un evento personale che è sempre da intendersi come fatto totale o
che, in ogni caso, offre una estrema complessità di potenziali livelli di descrizione o
osservazione ed anche di relazioni con il contesto mentale globale di A.
L'attore A sceglierà un certo livello di osservazione e, da questo, selezionerà l'esemplare
specifico da narrare, decidendo quale sia la sua prestazione essenziale. Dell'intera vicenda
nella quale, poniamo, egli ha patito il tradimento da parte di un amico, A selezionerà così, ad
un livello di osservazione etico, un evento centrale, per esempio il furto di un oggetto di
valore, cercando di comunicare a B l'amarezza profonda derivatane. L'attore A escluderà, in
questo modo, livelli di altra natura, come quello materiale o quello finanziario: livelli ai quali
l'esemplare e la prestazione essenziale avrebbero potuto apparire completamente diversi.
Egli si metterà poi al lavoro sforzandosi di impiegare al meglio la tecnologia linguistica per
massimizzare la riproduzione nella mente di B dell'esemplare e della sua prestazione
essenziale. Il risultato del processo dipenderà largamente dall'abilità di A ma, in ogni caso, la
catena di selezioni operata da A stesso, aggiungendosi all'aleatorietà delle capacità di B nel
decodificare il messaggio anche solo in termini di accoppiamento fra simboli e significati
standard, renderà del tutto imprevedibile il successo dell'impresa.
Se B non ha mai avuto esperienze del tipo di quelle che A gli riferisce, allora la sua decodifica
sarà, come in una favola per bambini, tutta influenzata dal prodotto linguistico in quanto tale.
Egli la vivrà aggrappandosi ai pochi elementi soggettivamente noti per generare nella propria
mente qualcosa di significativo, come quando qualcuno ci parla di una località per noi
sconosciuta inducendoci a costruirne un'immagine arbitraria. Se B, al contrario, ha già vissuto
in passato un'esperienza analoga, allora egli istituirà un parallelo permanente fra il progredire
del racconto di A e quell'esperienza, filtrando il tutto con la globalità dello stato mentale che
la propria esperienza ha posto in essere e che verrà re-innescato dai contenuti linguistici
proposti da A.
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In definitiva la comunicazione, quella quotidiana in particolare, è un espediente cui si ricorre
per mettere in comune qualche elemento rilevante dell'esperienza, senza che se ne possa
garantire il successo non solo perché manca un criterio di misurazione oggettiva, ma anche e
soprattutto per l'asimmetria intrinseca fra gli esemplari e le prestazioni soggettivi da un lato e
l'eterogeneità dei mezzi riproduttivi dall'altro. Per citare ancora Pirandello

      " Avvenuto il passaggio da uno spirito all'altro, le modificazioni sono inevitabili
      [...] raramente avviene agli scrittori di compiacersi che la propria opera per un
      critico o per un lettore sia rimasta quella medesima, o press'a poco, ch'egli ha
      espressa, e non un'altra malamente ripensata e arbitrariamente riprodotta"
      (PIRANDELLO, 1908, p.106)

Come per la generazione di artificiale in termini di oggetti concreti o di macchine, così nella
comunicazione la replicazione è impedita, oltre che dalle selezioni inevitabili, dal fatto stesso
di rivolgersi a dispositivi - come il linguaggio - eterogenei rispetto agli stati mentali. La
replicazione di uno stato mentale, infatti, dovrebbe poter contare sulla replicazione
dell'esperienza contingente - ma anche dell'intera storia di vita - di A da parte di B.
Il fatto stesso di rivolgersi a dispositivi o 'tecnologie' eterogenei ridefinisce il messaggio come
prodotto artificiale e non replicato. In quanto artificiale, il messaggio finisce ben presto per
vivere di vita propria incorporando infiniti livelli di osservazione potenziale indipendenti
dall’esemplare, generando fenomenologie imprevedibili, collaterali, nuove.
L'esemplare, 'sradicato' dal contesto globale istituito nella mente di A, viene cristallizzato e
oggettivato come prodotto 'tecnologico' a se stante, a disposizione dei contesti mentali di B.
Tutto ciò non è estraneo alla stessa arte poiché la critica, e più che mai l'interpretazione nelle
arti esecutive come la musica o il teatro, vive proprio di questo scambio fra autore e interprete
o autore e pubblico. Si tratta di uno scambio dal quale, grazie alle selezioni dell'autore, alla
tecnologia impiegata e alle selezioni dell'interprete (o della critica, o del pubblico) l'esemplare
esce del tutto rinnovato, dotato di autonomia e di propria realtà. Una realtà la quale, a sua
volta, liberatasi dall'ambizione riproduttiva, si pone come fenomeno oggettivo assai distante,
assieme, dal sistema o dall’evento naturale da cui ha preso spunto ideativo e dalla tecnologia
che l'ha resa possibile.

Riferimenti

MASCILLI MIGLIORINI, E., (1987), La comunicazione istantanea, Guida, Napoli.
McLUHAN, M., (1967), Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano.
LUHMANN, N. (1975), Macht, Ferdinand Enke Verlag, Stuttgart, tr. it, Potere e complessità
sociale, Il Saggiatore, Milano, 1979.
NEGROTTI, M., (1993), Per una teoria dell'artificiale, Prometheus series, Franco Angeli,
Milano.
PIRANDELLO, L., (1908), Arte e scienza, Mondadori, Milano, (1994).
POLANYI, M., (1966), The Tacit Dimension, Doubleday, New York.
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