PROBLEMATICHE CIVILISTICHE E FISCALI DELL'AFFITTO E DELL'ACQUISTO DI AZIENDA IN CRISI
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PROBLEMATICHE CIVILISTICHE E FISCALI DELL’AFFITTO E DELL’ACQUISTO DI AZIENDA IN CRISI Come sappiamo, l’art. 2555 c.c. ci fornisce una definizione puntuale del concetto di “azienda”, la quale può ben definirsi come quel “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Possono costituire parte dell’azienda tutti i beni, di qualsiasi natura, purché essi risultino essere organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, a nulla rilevando il titolo giuridico che legittima l’imprenditore ad utilizzare quel dato bene nel processo produttivo: pertanto, faranno parte dell’azienda, a titolo di esempio, le attrezzature in leasing, o i locali presi in locazione, mentre andranno esclusi i beni di proprietà dell’imprenditore non effettivamente destinati all’attività d’impresa (ad esempio, l’autovettura personale di proprietà dell’imprenditore, ovvero la sua abitazione, e via di seguito). Ma cosa va inteso con il termine “beni”, in riferimento all’art. 2555 c.c.? Parte della dottrina propende per un’interpretazione estensiva del termine, considerando come elemento costitutivo dell’azienda tutto ciò che può considerarsi oggetto di tutela giuridica, e quindi non solo beni ma anche servizi1. Di opinione opposta è invece chi sostiene l’opinione secondo la quale elementi costitutivi dell’azienda possono essere solo le cose in senso proprio, fondando le proprie osservazioni sull’art. 810 c.c., in base al quale “sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”2. Un particolare elemento dell’azienda sul quale si è concentrata particolarmente l’attenzione degli studiosi di diverse discipline è sicuramente l’avviamento: è dato di fatto che il prezzo di un complesso di beni organizzati è sicuramente maggiore della sommatoria del loro valore, e questo essenzialmente per quel rapporto di strumentalità e di complementarità che lega tra loro i vari beni, e che tanto sapientemente è stato creato dall’imprenditore. Ovviamente, un tale plusvalore si ha solo qualora il complesso aziendale funzioni in maniera proficua e redditizia. In tal caso, questo maggior valore è definito “avviamento”, il quale può definirsi come l’attitudine di un’azienda a realizzare un profitto, dato appunto dalla eccedenza dei ricavi rispetto ai costi. A tale proposito, la dottrina più accreditata distingue tra3: - avviamento oggettivo: esso è quella parte di avviamento ricollegabile a fattori che permangono anche al mutare del titolare dell’azienda (ad esempio, la capacità di produrre a prezzi competitivi di un complesso macchinario industriale); - avviamento soggettivo: esso è invece dovuto alla particolare abilità dell’imprenditore (ad esempio, nell’accrescere e mantenere la clientela, nel trattare con i clienti e con i fornitori, nel combinare in modo unico e particolare i fattori produttivi, e via discorrendo). Il legislatore fa espresso riferimento all’avviamento nell’art. 2426 c.c., e precisamente al punto 6), dove afferma che “l’avviamento può essere iscritto nell’attivo con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale, se acquisito a titolo oneroso, nei limiti del costo per esso sostenuto, e deve essere ammortizzato entro un periodo di cinque anni”. 1 Su tale posizione si schierano, tra gli altri: G. Minervini, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Morano, Napoli, 1966, pp. 124 ss.; M. Casanova, Impresa e azienda, in Trattato di diritto civile, fondato da F. Vassalli, UTET, Torino, 1974, pp. 735 ss.. Commenta a tale proposito Campobasso: “In definitiva, l’azienda è e resta un complesso di soli beni (cose) e non è concepibile come un complesso di beni e di rapporti giuridici”, cfr. G. F. Campobasso, Diritto commerciale, I, Diritto dell’impresa, UTET, Torino, 1997, III ed., p. 139. 2 Di tale parere sono, in particolare: G. E. Colombo, L’azienda, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia, diretto da F. Galgano, CEDAM, Padova, vol. III, 1979, pp. 19 ss.; G. U. Tedeschi, Le disposizioni generali sull’azienda, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, UTET, Torino, vol. XVIII, 1983, pp. 8 ss.. 3 Cfr. G. Auletta, Avviamento commerciale, in Enc. Giur., IV, pp. 1 ss.; G. U. Tedeschi, Le disposizioni generali sull’azienda, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, UTET, Torino, volume XVIII, 1983, p. 20. 1
Ciononostante, è discusso in dottrina se l’avviamento possa o meno considerarsi un elemento – seppure immateriale – dell’azienda4: l’argomento è oggetto di un intenso dibattito in dottrina quanto in giurisprudenza, con soluzioni alle volte anche contrastanti, anche se, ad onor del vero, l’affermazione che l’avviamento non possa considerarsi come un bene, in quanto non suscettibile di autonomo trasferimento5 è solidamente costruita, e – a nostro modesto parere – quasi inconfutabile. Chiariti tali punti, resta da esaminare la natura giuridica dell’azienda, sulla quale in passato si sono avuti accesi contrasti sia in dottrina che in giurisprudenza. In particolare, su tale argomento si sono formulate due diversi gruppi di teorie: le teorie unitarie e quella atomistica. Circa le teorie unitarie, va sottolineato che esse considerano l’azienda come un ben unico, diverso e distinto rispetto ai singoli beni che la compongono. In questa impostazione, vi è poi chi vede l’azienda come “un bene immateriale rappresentato dall’organizzazione stessa”6, ovvero come una universalità di beni: quest’ultimo punto di vista riscuote ancora oggi un largo consenso, soprattutto in giurisprudenza7. In ogni caso, in qualunque modo si veda l’azienda, le teorie unitarie riconoscono al titolare un vero e proprio diritto di proprietà unitario sull’azienda, che si affianca e coesiste con i diritti (reali od obbligatori) sui singoli beni. Invece, la teoria atomistica concepisce l’azienda come una pluralità di beni, collegati in maniera funzionale tra di loro, su ognuno dei quali l’imprenditore vanta diritti diversi8. La diatriba tra le due diverse teorie, come già ricordato, ha spesso animato accesamente la dottrina e la giurisprudenza e, nonostante il tempo, il dibattito sembra ancora non del tutto sopito; in ogni caso, il legislatore sembra non aver voluto prendere una posizione univoca e definitiva sul problema, finendo per recepire talvolta elementi tipici della teoria atomistica, e talvolta elementi propri della teoria unitaria. Ad esempio, laddove il legislatore sancisce che per il trasferimento dell’azienda vanno fatte salve “le forma stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda” (art. 2556, comma 1, c.c.), è chiaro che il disposto codicistico sposi la tesi atomistica, pur senza voler negare l’unitarietà del complesso dei beni formanti l’azienda, la quale, però assume importanza solo dal punto di vista funzionale. Al contrario, nel regolare l’iscrizione dell’avviamento in bilancio (art. 2426, n. 6 c.c.), il legislatore sembra aver interpretato l’azienda come un complesso unitario, il cui maggior valore – derivante, come vedremo, dalla sapiente combinazione degli elementi che compongono l’azienda stessa – deriva appunto da un’unitarietà dei beni stessi. In ogni caso, l’argomento è stato e continua ad essere oggetto di intenso e proficuo dibattito in dottrina come in giurisprudenza: senza volerci troppo soffermare su tali considerazioni, anche se tutte importanti e ricche di proficui spunti di riflessione, riteniamo comunque importante sottolineare che manca una presa di posizione chiara e decisa del legislatore, il che sicuramente fomenta la discussione sul tema, il quale a ragione è stato definito “un vecchio rompicapo della scienza del diritto”9, e tale sembra ancora destinato a rimanere. 4 Cfr, per tutti: T. Ascarelli, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa, Giuffré, Milano, 1962, III ed., che parla di “qualità dei singoli beni in quanto collegati in un’azienda”; F. jr Ferrara – F. Corsi, Gli imprenditori e le società, Giuffrè, Milano, 1996, X ed., p. 167, che propende per qualificare l’avviamento come una “qualità del complesso”. 5 G. U. Tedeschi, Le disposizioni generali sull’azienda, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, UTET, Torino, vol. XVIII, 1983, pp. 17 ss.. 6 La tesi risale a Ferrara, ma non ha trovato molto seguito: cfr. Ferrara, La teoria giuridica dell’azienda, Firenze, 1945, pp. 112 ss.. 7 In dottrina v., tra gli altri: G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, UTET, Torino, 1993, IX ed., p. 276; G. Minervini, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Morano, Napoli, 1966, p. 125; R. Tommasini, Contributo alla teoria dell’azienda come oggetto di diritti, Giuffré, Milano, 1986, pp. 192 ss.. In giurisprudenza, invece, si rimanda a: Cass. 29 agosto 1963 n. 2391, in Foro it., 1963, I, p. 1610; Cass. 9 giugno 1981 n. 3723, in Giust. civ., 1981, I, p. 2942; Cass. 11 agosto 1990 n. 8219; Cass. 27 marzo 1996 n. 2714. 8 Tra i sostenitori di questa teoria ricordiamo: G. E.Colombo, L’azienda, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia, diretto da F. Galgano, CEDAM, Padova, vol. III, 1979, pp. 19 ss.; G. U. Tedeschi, Le disposizioni generali sull’azienda, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, UTET, Torino, vol. XVIII, 1983, pp. 12 ss.. 9 T. Ravà, Diritto industriale, I, Azienda. Segni distintivi. Concorrenza, UTET, Torino, 1981, II ed., p. 267. 2
In ogni caso, a prescindere da quale impostazione si sia portati a seguire, il su menzionato complesso di beni può essere ceduto a terzi, ovvero affittato10 o concesso in usufrutto11: tanto lo si ricava da quanto prescrivono, rispettivamente, gli articoli 2562 e 2561 c.c.. Senza entrare troppo nei dettagli circa la disciplina dell’affitto di azienda, appare opportuno ricordare che a tale istituto si applica la sola disciplina di cui all’art. 2258 c.c.12 in tema di trasferimento di contratti a prestazioni corrispettive in tutto o in parte non eseguite, e non quella di cui agli articoli 2259 c.c.13 (riguardante il trasferimento dei crediti) e 2560 c.c.14 (in tema di successione nei debiti): pertanto, l’eventuale subentro dell’affittuario nelle posizioni creditorie del cedente può essere esclusivamente frutto di una espressa pattuizione. Per ciò che riguarda i debiti, la regola resta quella della responsabilità del locatore per i debiti anteriori al contratto di affitto e del conduttore per quelli contratti successivamente: anche in tal caso, però, è possibile una pattuizione contraria. Queste considerazioni, lungi dall’essere una mera casistica scolastica, ci ritorneranno utili nel prosieguo della presente trattazione. Un’antica vexata quaestio del nostro diritto commerciale riguarda proprio la possibilità di concedere in affitto un’azienda assoggettata a procedure concorsuali. Occorre da subito precisare che la nostra legge fallimentare (R. D. 16 marzo 1942 n. 267) nulla dispone al riguardo. La dottrina e la giurisprudenza si sono sin da subito interrogate su questa omissione del legislatore, dando origine ad un dibattito che, per certi versi, non appare sopito ancora oggi, a distanza di oltre sessanta anni dal varo della nostra normativa sulle procedure concorsuali. L’apparente gap legislativo si potrebbe però colmare ricorrendo all’ausilio di norme contenute nella legislazione speciale. A tale proposito, fermo restando che l’attuale governo appare intenzionato a varare entro la fine della legislatura la riforma delle procedure concorsuali, l’unico riferimento normativo al riguardo è la L. 23 luglio 1991 n. 22315, la quale, al comma 4 dell’art. 3, prevede l’istituto della “prelazione” a favore dell’imprenditore che, a titolo di affitto, abbia assunto la gestione “anche parziale” di un’azienda assoggettata a procedura concorsuale, nel caso in cui ne venga successivamente disposta la vendita. In altre parole, la suddetta norma disciplina, ad una lettura superficiale, sembra aprire uno spiraglio alla possibilità di affitto di un’azienda assoggettata a procedure concorsuali: chi sostiene tale impostazione la motiva citando come ratio del su menzionato provvedimento, la volontà del legislatore di conservare – per quanto possibile – il complesso aziendale del fallito, garantendone la prosecuzione dell’attività. In questo caso, le esigenze di tutela di un complesso di beni che garantisce l’occupazione di un certo numero di persone porterebbero a riconoscere un certo privilegio in capo al conduttore, il quale, per il tempo di durata del contratto di affitto, potrà appurare con un buon margine 10 Art. 2562 c.c.: “Le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche nel caso di affitto dell’azienda”. 11 Art. 2561 c.c.: “L’usufruttuario dell’azienda deve esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue. Egli deve gestire l’azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte. Se non adempie a tale obbligo o cessa arbitrariamente dalla gestione dell’azienda, si applica l’art. 1015. La differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine dell’usufrutto è regolata in danaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto”. 12 Art. 2558 c.c.: “Se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale. Il terzo contraente può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante. Le stesse disposizioni si applicano anche nei confronti dell’usufruttuario e dell’affittuario per la durata dell’usufrutto e dell’affitto”. 13 Art. 2559 c.c.: “La cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto, nei confronti dei terzi, dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese. Tuttavia il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede all’alienante. Le stesse disposizioni si applicano anche nel caso di usufrutto dell’azienda, se esso si estende ai crediti relativi alla medesima”. 14 Art. 2560 c.c.: “L’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta, anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. Nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori”. 15 La L. 223 del 1991 è intitolata: Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro. 3
di certezza il reale valore dell’azienda, in modo da concorrere – ove lo ritenga opportuno – all’eventuale futura vendita della stessa. Ma stanno proprio così le cose? Ad ogni buon modo, prima di soffermarci sull’aspetto giuridico della vicenda, non possiamo mancare di sottolineare che, dal punto di vista dell’aziendalista, la su accennata soluzione offre un numero di vantaggi non indifferente16: - in primis, risultano avvantaggiati i fornitori, i quali, in caso di crisi dell’imprenditore, si trovano a dover subire un duplice danno: -- quello derivante dall’inadempimento e dall’eventualità di un mancato recupero integrale del credito in caso di fallimento; -- quello relativo alla perdita di una certa fonte di sbocco per i propri prodotti. Al contrario, la soluzione si cui alla L. n. 223 del 1991 consente di “limitare i danni” (per lo meno con riguardo ai debitori, ancora in un buono stato di solvibilità), permettendo loro di evitare una secca perdita (anche in termini di futuri flussi di scambio) e di continuare a gestire il rapporto con il nuovo conduttore17; - in secundis, anche i lavoratori assunti dal conduttore risultano essere avvantaggiati da tale soluzione, in quanto non finiranno per perdere il loro posto di lavoro, ma diventeranno dipendenti di un soggetto economicamente e finanziariamente “sano”18; - anche la posizione dei lavoratori non assunti dal conduttore migliora, in quanto l’affitto può consentire agli stessi di riscuotere più velocemente i crediti vantati verso il fallito; - altro possibile vantaggio derivante dall’affitto di un’azienda in crisi è quello relativo all’acquisizione dell’avviamento della stessa. Invero, sempre da un punto di vista prettamente aziendalistico, nonostante lo stato di insolvenza abbia danneggiato il patrimonio aziendale in maniera tale da mettere l’imprenditore in condizione tale da non poter far fronte alle proprie obbligazioni, è pur vero che – seppur raramente – alcuni elementi immateriali dell’attivo possono risultare ancora di un certo interesse per i terzi. Si pensi, tanto per fare un esempio, al “caso Parmalat”, che ha creato enormi difficoltà finanziarie in un’impresa il cui nome è ancora oggi molto stimato dal consumatore italiano ed estero: qui, infatti, pur essendo innegabile la presenza di crisi di liquidità (peraltro causate da decisioni manageriali la cui bontà è tuttora al vaglio della magistratura inquirente). In tutti questi casi il conduttore può, dunque, approfittare del periodo dell’affitto per cercare di far proprio quel patrimonio che rende distinguibile l’azienda e i beni della stessa: a titolo puramente esemplificativo, può risultare appetibile il know – how. Come sappiamo, esso consiste non già in un valore materiale, bensì in un insieme di informazioni inerenti il processo produttivo, la distribuzione, i metodi di gestione, le tecniche di produzione, ecc. Orbene, mentre per i segni distintivi dell’azienda la legge prevede una serie di norme a tutela del locatore, non altrettanto può dirsi per il know–how: esso può essere in qualche modo tutelato solo in base al divieto di concorrenza sancito dall’art. 2557 c.c., del quale è prevista espressamente l’applicazione anche nell’ipotesi di affitto d’azienda. Pertanto, fermo restando l’ovvio richiamo ad un comportamento di fair play anche in casi in cui l’avversa fortuna ha fatto precipitare un concorrente in una situazione poco felice, in alcuni casi il conduttore potrà certamente usufruire di tali conoscenze anche al termine del contratto di affitto, concretizzandosi per lui un ulteriore vantaggio. Le considerazioni su svolte ci permettono di affermare che il contratto di affitto risulta essere di indubbio vantaggio per molti soggetti coinvolti – loro malgrado – nella procedura concorsuale; ciononostante, a livello giuridico permangono ancora dei dubbi in merito. Se è vero che il legislatore 16 Alcune delle osservazioni che seguono sono tratte da M. Caffi, L’affitto d’azienda nell’amministrazione controllata e nel concordato preventivo, in AA. VV. (a cura di G. Schiano Di Pepe), Crisi dell’impresa e salvaguardia dell’azienda, Padova, 1995, pp. 147 ss.. 17 A tal proposito, Caffi osserva: “Alcuni fornitori potrebbero rifiutarsi di concedere credito all’imprenditore conduttore, nell’erronea convinzione che l’eventuale fallimento del locatore possa coinvolgere anche l’affittuario. Ciò è assolutamente falso, in quanto il contratto di affitto, in caso di fallimento del locatore, è pienamente opponibile alla procedura esecutiva, sempre che abbia data certa anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento (se l’azienda è composta da beni mobili e immobili ed abbia durata inferiore ai nove anni) e inoltre che sia stato trascritto nei registri immobiliari (nel caso in cui l’azienda sia anche costituita da beni immobili affittati per un periodo ultranovennale)”: cfr. M. Caffi, L’affitto d’azienda nell’amministrazione controllata e nel concordato preventivo, op. cit., p. 156. 18 Tra l’altro, giova ricordare che il comma 3 dell’art. 3 della più volte richiamata L. n. 223 del 1991 attribuisce al curatore, al liquidatore o al commissario la facoltà di collocare in mobilità i lavoratori eccedenti, laddove i livelli occupazionali possano essere salvaguardati solo parzialmente. 4
attribuisce la prelazione all’affittuario in caso di contratto di affitto, la legge tace in merito alla stipula di tale patto: deve essere anteriore allo stato di insolvenza, ovvero può esso occorrere anche successivamente alla dichiarazione di fallimento? In tal caso, come ben noto, essendo il fallito spodestato dei suoi beni, il contratto di affitto dovrebbe essere sottoscritto dal curatore fallimentare, oppure la L. n. 223 del 1991 deve considerarsi come una deroga al principio generale che vede il fallito estromesso da ogni decisione circa il destino della sua attività imprenditoriale? Le problematiche sollevate sono affascinanti, ma purtroppo esse appaiono destinate a rimanere oggetto di discussione a livello dottrinale: invero, guardando i casi concreti della nostra giurisprudenza fallimentare, non sembra che la possibilità data dalla L. n. 223 del 1991 abbia incontrato il favore della prassi: invero, non è dato riscontrare casi in cui il curatore fallimentare abbia mai optato per un contratto di affitto (cosa che, del resto, appare formalmente corretta, visto che il dettame del R. D. n. 267 del 1942 non sembra lasciare molto spazio a soluzioni alternative), né che, d’altronde, chi – per avversa sorte o per cattiva capacità gestionale – abbia intravisto lo spettro della procedura concorsuale abbia preferito salvare il salvabile ricorrendo ad una siffatta opzione. Personalmente, riteniamo che, così come attualmente formulata, la possibilità offerta dalla L. n. 223 del 1991 non possa dare i frutti sperati: invero, la nostra disciplina fallimentare – in procinto di un restyling da troppo tempo invocato - appare caratterizzata da un intento “punitivo” nei confronti dell’insolvente19: è pertanto fin troppo scontato il risultato, ovvero lo spossessamento del “colpevole”, senza troppo pensare al danno – potenziale o attuale – arrecabile ad altri soggetti coinvolti nell’operazione, ma assolutamente non colpevoli dello stato rovinoso del fallito (ad esempio, i dipendenti, i fornitori, la società in generale, e via di seguito). Per tutti questi motivi, a nostro modesto parere è opportuno che, in sede di revisione della normativa, si presti orecchio non solo alle esigenze espresse dalla categoria dei giuristi, ma anche alle considerazioni degli aziendalisti e degli esperti di management, i quali, grazie alle loro competenze, possono arricchire il dato normativo di elementi pratici, nell’ottica del rafforzamento di quella che abbiamo voluto indicare come “la scienza giuridica dell’impresa”, indicando in tal modo il felice connubio tra Economia Aziendale e Diritto Commerciale20. Il nostro discorso deve necessariamente chiudersi con una precisazione doverosa: fermo restando che, a nostro modesto parere, il contratto di affitto applicato alle varie procedure concorsuali possa divenire una soluzione capace di combinare esigenze di tutela dei traffici giuridici con quelle di salvaguardia di un complesso aziendale ancora capace di produrre reddito e dare lavoro, dobbiamo distinguere chiaramente l’ipotesi di affitto da quella di acquisto di un’impresa in crisi o già assoggettata a procedure concorsuali formali: invero, considerazioni del tutto diverse – sia dal punto di vista aziendalistico che da quello prettamente giuridico – sorgono in occasione della seconda ipotesi. Da un punto di vista prettamente manageriale, appare anche in tal caso evidente la possibilità di acquisire in blocco un complesso di beni che il curatore fallimentare mette sul mercato per soddisfare in tal modo le esigenze della massa creditoria: 1. rispetto ad una nuova iniziativa produttiva, l’impresa già esistente offre la possibilità di sfruttare il know–how in possesso delle maestranze, abbattendo notevolmente i relativi costi di addestramento21; 2. il costo di acquisizione di un’impresa in stato di difficoltà è sicuramente minore e vi è la possibilità di concludere un buon affare; 3. infine, anche nel caso di acquisto d’azienda la legge attribuisce al curatore, al commissario o al liquidatore la facoltà di collocare in mobilità i lavoratori eccedenti22, nonché di prorogare il trattamento straordinario di integrazione salariale precedentemente concesso dal Ministro del lavoro e della 19 Per ulteriori considerazioni sull’impostazione della nostra legge fallimentare si rimanda, tra gli altri, a: D. Lamanna Di Salvo, Profili economico-giuridici della crisi d’impresa, Editrice UNI Service, Trento, 2005; D. Lamanna Di Salvo, La possibilità dell’esercizio di una nuova impresa e di un eventuale nuovo fallimento del soggetto già fallito, in Riv. s.s.e.f., Anno II, n. 3 del 2005. 20 Cfr. D. Lamanna Di Salvo, Profili economico-giuridici della crisi d’impresa, Editrice UNI Service, Trento, 2005, p. 4. 21 Sembra del tutto superfluo precisare che tale discorso risulta essere valido solo qualora lo stato d’insolvenza sia motivato da fattori estranei al processo produttivo aziendale, ovvero nell’ipotesi in cui un cambio di strategie manageriali possa ragionevolmente far prevedere che la situazione sia ancora raddrizzabile. 22 Cfr. art. 3, comma 3, L. n. 223 del 1991. 5
previdenza sociale, laddove sussistano fondate prospettive di continuazione o ripresa dell’attività e di salvaguardia (anche parziale) dei livelli di occupazione mediante la cessione dell’azienda o di una parte di essa. Pur non potendo negare a livello generale la validità delle suddette condizioni, non si può però mancare di sottolineare una certa cautela nel trarre le proprie conclusioni. Innanzi tutto, non possiamo mancare di ricordare le regole del nostro codice civile in caso di cessione d’azienda: l’art. 2560 c.c. stabilisce che, in caso di trasferimento di un’azienda commerciale, l’acquirente risponde dei debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento, se essi risultano dai libri contabili obbligatori. L’acquirente di un’azienda commerciale risponde quindi in solido con l’alienante nei confronti dei creditori che non abbiano espressamente liberato quest’ultimo. Questa è la disciplina generale: ma, se la cessione ha ad oggetto un’azienda assoggettata a procedura concorsuale, è pacifica l’applicazione del citato art. 2560 c.c.? Nel silenzio della legge, non possiamo fare altro che trovare la risposta nelle interpretazioni della dottrina. Autorevole voce ritiene di risolvere il quesito partendo dalla definizione del concetto stesso di azienda di cui all’art. 2555 c.c. Nonostante sul punto non si registri unanimità di pareri, la su richiamata l’opinione interpreta l’azienda come un complesso di soli beni (nel senso di cose) e non anche di rapporti giuridici. Ciò implica che di cessione d’azienda si potrà parlare anche quando “le parti abbiano espressamente escluso dal trasferimento i contratti aventi ad oggetto prestazioni di cose future o di servizi, i crediti e i debiti e quand’anche un valore di avviamento non sia riscontrabile perché, ad esempio, oggetto di vendita o di affitto è il complesso aziendale di un imprenditore fallito”23. Se si accetta tale impostazione – sulla quale, a ben vedere, si possono nutrire dei dubbi – si può ben immaginare come la possibilità di acquistare un’azienda già esistente, libera dai debiti preesistenti, costituisca un’ottima opportunità di investimento, considerata anche la bassa - se non del tutto nulla - incidenza del valore dell’avviamento sul prezzo d’acquisto24. Ad una comparazione delle disposizioni civilistiche con quelle fiscali, la suddetta teoria sembra trovare ulteriori conferme. Infatti, l’art. 14 del D.lgs. 18 dicembre 1997 n. 472 dispone che, in caso di cessione d’azienda, il cessionario è responsabile in solido con il cedente per il pagamento dell’imposta e delle sanzioni relative alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti, nonché per quelle già irrogate e contestate nello stesso periodo anche se riferite ad anni anteriori. Tale disposizione sembra voler confermare le disposizioni codicistiche in materia di cessione d’azienda: infatti, secondo un’interpretazione ministeriale25, essa può essere disattesa nel caso in cui la cessione avvenga nell’ambito di una procedura concorsuale. A tale proposito il Ministero delle Finanze ha sottolineato che la ratio e la lettera della norma sembrano essere riferite esclusivamente alle cessioni su base volontaria o negoziale e non “a quelle con evidenti profili pubblicistici”, quali le cessioni in oggetto. A conferma di tale orientamento vi sarebbe la possibilità, prevista dalla norma de quo, di procedere alla preventiva escussione del cedente: tale disposizione non può però trovare applicazione nell’ambito fallimentare, visto il contenuto dell’art. 51 L. fallimentare26, che vieta qualsiasi forma di esecuzione individuale sui beni del fallimento. Tuttavia, l’interpretazione appena fornita non trova il sostegno della Commissione europea, la quale ha ritenuto che la legislazione italiana in materia di trasferimenti d’impresa non tuteli sufficientemente i dipendenti delle aziende e che il nostro ordinamento non sia in linea con le disposizioni dettate dalle direttive comunitarie sull’argomento. In particolare, la dir. (CE) n. 50/98/CE27 23 Così G. F. Campobasso, Diritto commerciale, I, Diritto dell’impresa, UTET, Torino, 1997, III edizione, p. 145. 24 In questo caso si dovrebbe piuttosto parlare di un “avviamento negativo”, visto che il totale del passivo supera di gran lunga l’attivo, essendosi generato un deficit che appare brillantemente sintetizzato nella seguente equazione, ove è lampante il significato sei simboli usati: P = A + D. 25 Cfr. la risol. Min. finanze 12 luglio 1999 n. 112/E. 26 Art. 51 R.D. n. 267 del 1942: “Salvo diversa disposizione della legge dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento”. 27 Quest’ultima ha modificato la dir. (CE) n. 77/187/CE concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti: v. la Gazzetta Ufficiale 17 luglio 1998 n. 201 L., pp. 88-92. 6
ha dettato delle regole in materia di deroghe ammissibili nel caso in cui la cessione abbia ad oggetto imprese in crisi, restringendo notevolmente l’ambito applicativo di quelle ammesse dalle leggi italiane. Infatti, la su richiamata Direttiva ammette il mancato trasferimento dei debiti o la modifica dei posti di lavoro solo in circostanze ben determinate, mentre negli altri casi impone all’acquirente l’obbligo di conservare il personale dell’impresa ceduta28. Inoltre, mentre secondo la nostra legge le imprese in crisi non sono tenute a mantenere il personale né ad accollarsi i debiti inerenti a contratti di lavoro, la direttiva consente una modifica delle condizioni di lavoro solo con il preventivo consenso dei dipendenti. Tale orientamento dovrà essere tenuto debitamente in conto dal nostro legislatore, che si accinge a “rimodellare” l’intera disciplina del diritto fallimentare. In conclusione di questa panoramica, riteniamo dunque che il legislatore dovrebbe tenere presente, nella riformulazione della disciplina fallimentare, i seguenti punti: - è comunque innegabile il fatto che la conservazione dell’impresa può rappresentare un vantaggio per i creditori; - peraltro, è altrettanto vero che a questi ultimi non interessa se l’impresa rimanga nelle mani dello stesso imprenditore29; - infine, ma non meno importante, in un sistema economico arrancante ed in affanno rispetto ad altre realtà che sembrano minacciarci ogni giorno di più, diventa importante la salvaguardia di un complesso capace di salvaguardare, nel suo piccolo, i livelli occupazionali. In tale ottica, l’affitto e la cessione potrebbero divenire – se correttamente usate ed interpretate – strumenti utili per facilitare il passaggio della gestione ad altri imprenditori, nell’ottica di uno snellimento e di un adeguamento delle finalità di tutte le procedure concorsuali. Domenico Lamanna Di Salvo Dottore Commercialista – Revisore Contabile Docente presso la Libera Università di Bolzano 28 Invece, in base alla nostra legislazione il trasferimento, qualora abbia ad oggetto aziende soggette ad amministrazione straordinaria o a concordato preventivo omologato con cessione dei beni, non implica automaticamente la successione dell’acquirente in tutti i debiti o nei rapporti di lavoro del cedente. 29 Ancora una volta, salvare un’impresa non vuole assolutamente dire salvare il suo titolare: una cosa è infatti l’impresa, un’altra è il titolare. Lo stesso L. Pacioli, nel suo celeberrimo Tractatus undecimum de computis et scripturis, spiega il metodo della Partita Doppia invitando il lettore ad immaginare che il conferimento non sia null’altro che un debito dell’entità “azienda” nei confronti di chi lo ha effettuato, quasi a voler sottolineare una differenza di soggetti che, oggi, è del resto più che pacifica per quanto riguarda le società di capitali. 7
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