SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA STRUTTURA TERRITORIALE DI FORMAZIONE DECENTRATA DEL DISTRETTO DI TORINO

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SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
                            STRUTTURA TERRITORIALE
                          DI FORMAZIONE DECENTRATA
                           DEL DISTRETTO DI TORINO

        “QUESTIONI RILEVANTI NEI REATI DI BANCAROTTA”

                             Aula Magna Palazzo di Giustizia di Torino
                                         12 marzo 2019

      “Il punto della giurisprudenza di legittimità sulla natura della
sentenza dichiarativa di fallimento, ora liquidazione giudiziale, nei
reati di bancarotta.”

       Sommario: 1. Premessa - 2. La giurisprudenza della Corte di Cassazione- 3. L’arresto delle
Sezioni Unite del 2016 - 4. La sentenza Santoro - 5. Il dissenso rispetto alla sentenza «Santoro» e le
sentenze «Palitta» e «Alampi» - 6. Conclusioni.

        1. Premessa.
        Le norme che prevedono i reati di bancarotta nella legge fallimentare subordinano la punibilità
delle condotte descritte nelle fattispecie alla dichiarazione di fallimento.
        Così l’art.216, comma 1, della legge fallimentare (r.d.16.3.1942 n.267), in tema di bancarotta
fraudolenta commina la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, all’imprenditore, che abbia
distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di
recare pregiudizio ai creditori, abbia esposto o riconosciuto passività inesistenti (bancarotta fraudolenta
patrimoniale) ovvero abbia sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di
procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture
contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del
movimento degli affari (bancarotta fraudolenta documentale).
        Analogamente l’art.217, in tema di bancarotta semplice, commina la reclusione da sei mesi a due
anni, se è dichiarato fallito, all’imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nell’articolo precedente abbia
fatto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua condizione economica, consumato una
notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti, o
compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento, o aggravato il proprio dissesto,
astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa, ovvero non
abbia soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare,
oppure ancora, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall’inizio
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dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non abbia tenuto i libri e le altre scritture contabili
prescritti dalla legge o li abbia tenuti in maniera irregolare o incompleta.
         Gli artt.222 e 223 della legge fallimentare estendono le predette disposizioni sanzionatorie
rispettivamente alle analoghe condotte dei soci illimitatamente responsabili delle società di persone e
degli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società dichiarate fallite.
         Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19.10.2017, n. 155, di
cui al d.lgs. 12.1.2019, n. 14, negli artt.322 e seguenti1 riproduce sostanzialmente la previgente disciplina
penale.
         La legge-delega 155.2017, all’art.2, lettera a), prevedeva fra i criteri generali il compito di
sostituire il termine «fallimento» e i suoi derivati con l’espressione «liquidazione giudiziale» e dava
mandato al legislatore delegato di adeguare dal punto di vista lessicale anche le relative disposizioni
penali, ferma restando la continuità delle fattispecie criminose, alla luce del fondamentale obiettivo
perseguito di evitare interruzioni nella salvaguardia dei beni protetti in conseguenza della successione
delle leggi nel tempo.
         Secondo le Sezioni Unite, infatti, in materia di successione di leggi penali, in caso di modifica
della norma incriminatrice, per accertare se ricorra o meno abolitio criminis è sufficiente procedere al
confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, senza la necessità di
ricercare conferme della eventuale continuità tra le stesse facendo ricorso ai criteri valutativi dei beni
tutelati e delle modalità di offesa, atteso che tale confronto permette in maniera autonoma di verificare
se l’intervento legislativo posteriore assuma carattere demolitorio di un elemento costitutivo del fatto
tipico, alterando così radicalmente la figura di reato, ovvero, non incidendo sulla struttura della stessa,
consenta la sopravvivenza di un eventuale spazio comune alle suddette fattispecie2.

        2. La giurisprudenza della Corte di Cassazione.
        La giurisprudenza di legittimità, con orientamento del tutto consolidato, è andata ripetendo,
quanto ai reati di bancarotta per fatti commessi anteriormente alla dichiarazione di fallimento, che la
sentenza dichiarativa di fallimento di fallimento, rispetto ai fatti di bancarotta anteriori alla sua
pronuncia, costituisce uno degli elementi integranti la fattispecie di reato.
        Tale affermazione trova la sua origine nella celebre sentenza «Mezzo» delle Sezioni Unite del
1958, secondo cui la dichiarazione di fallimento, rispetto ai fatti di bancarotta anteriori alla sua
pronuncia, costituisce una condizione di esistenza del reato, oltre a determinare la punibilità. Pertanto si
differenzia concettualmente dalla condizione obiettiva di punibilità, perché mentre queste
presuppongono un reato già perfetto oggettivamente e soggettivamente, essa inerisce, invece, così
intimamente alla struttura del reato da qualificare quei fatti, i quali, come fatti di bancarotta sarebbero
penalmente irrilevanti fuori del fallimento. Segnando la dichiarazione di fallimento il momento
consumativo del reato di bancarotta, e cioè il momento in cui si realizza la fattispecie penale, ne
discende, che ove essa sia successiva alla data di applicazione di un decreto di amnistia, detto beneficio
è inoperante per il reato di bancarotta semplice, non potendosi ritenere estinto per amnistia un reato
che non esista nel momento in cui questa è intervenuta3.
        La giurisprudenza successiva ha tratto da tale premessa la conseguenza che la dichiarazione di
fallimento, pur essendo elemento costitutivo della fattispecie di bancarotta fallimentare prevista dall’art.
216 legge fall., non ne costituisce l’evento e non deve necessariamente essere collegata da nesso
psicologico al soggetto agente4, come pure da un nesso eziologico con la condotta5. In proposito anche
Sez. U, n. 24468 del 26.2.2009, Rizzoli, Rv. 243587, che, aderendo alla giurisprudenza sino ad allora

1
  Destinati ai sensi dell’art.389, comma 1, ad entrare in vigore 18 mesi dopo la pubblicazione del decreto sulla Gazzetta
Ufficiale, avvenuta il 14.2.2019, ossia il 15.7.2020.
2
  Sez. un., 26.2.2009, n. 24468.
3
  Sez. Un., n. 2 del 25.01.1958, Mezzo, Rv. 98004.
4
  Sez. 5, n. 15850 del 26.9.1990, Bordoni, Rv. 185883, che ha aggiunto che il principio della responsabilità personale in
materia penale non presuppone che tutti gli elementi della fattispecie siano dipendenti dall’atteggiamento psichico
dell’agente.
5
  Sez. 5, n. 36088 del 27.9.2006, Corsatto, Rv. 235481.
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stratificatasi, ha confermato la natura di elemento costitutivo del reato (e non di condizione obiettiva di
punibilità) della dichiarazione di fallimento.
         Dall’orientamento indicato si è discostata la sola sentenza n. 47502 del 24.09.2012, Corvetta,
anche nota come «Ravenna Calcio»6. Tale pronuncia, muovendo dalla premessa che, nel reato di
bancarotta fraudolenta per distrazione, lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce
elemento essenziale del reato, in quanto evento dello stesso, ha ritenuto che esso deve porsi in rapporto
causale con la condotta dell’agente e deve essere, altresì, sorretto dall’elemento soggettivo del dolo.
         Siffatta ricostruzione è rimasta del tutto isolata nella giurisprudenza di legittimità7.
         In particolare, è stato reiteratamente affermato che il delitto di bancarotta fraudolenta per
distrazione è reato di pericolo a dolo generico per la cui sussistenza, pertanto, non è necessario che
l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né che abbia agito allo scopo di
recare pregiudizio ai creditori8.
         L’orientamento consolidato obietta alla sentenza «Corvetta» che la rilevanza del rapporto
causale tra condotta e dissesto è previsto per le sole fattispecie di bancarotta impropria ex art. 223,
comma 2, legge fall.; che l’affermazione che il fallimento è l’evento del reato era indimostrata e
tautologica; che era assai problematico ipotizzare un rapporto causale tra dissesto e i fatti di bancarotta
documentale9.
         La giurisprudenza di legittimità massicciamente prevalente è quindi andata ripetendo che la
sentenza dichiarativa di fallimento integra una condizione di esistenza del reato e ne segna il momento
consumativo, ma non le si può attribuire la qualifica di evento, quasi non ci fossero alternative tra
condizione obiettiva di punibilità ed evento del reato; è invece possibile per il legislatore inserire nella
struttura dell’illecito penale elementi costitutivi estranei alla predetta dicotomia10.

        3. L’arresto delle Sezioni Unite del 2016.
        L’assetto consolidato della giurisprudenza è stato recentemente ribadito dalla sentenza delle
Sezioni Unite «Passarelli»11 che ha affermato che, ai fini della sussistenza del reato di bancarotta
fraudolenta patrimoniale, non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il
successivo fallimento, ma é sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa,
destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività; pertanto, una volta intervenuta la
dichiarazione di fallimento, i fatti di distrazione assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati
commessi e, quindi, anche se la condotta è stata posta in essere quando ancora l’impresa non versava
in condizioni di insolvenza.
        Le Sezioni Unite hanno colto l’effettiva offesa alla conservazione dell’integrità del patrimonio
dell’impresa, costituente la garanzia per i creditori quale parametro della concreta applicazione della
norma incriminatrice, che consente di configurare il reato in esame come di pericolo concreto.
        Conferma di tale conclusione viene ritratta dalla costante giurisprudenza di legittimità in tema di
bancarotta c.d. «riparata», che si configura, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del
reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che reintegri il
patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, così
annullando il pregiudizio per i creditori o anche solo la potenzialità di un danno12.

6
   La pronuncia costituisce una frattura nella continuità del percorso nomofilattico della Corte Suprema, risultando
contraddetta da una pronuncia resa nella stessa data.
7
  Ex plurimis Sez. 5, n. 32352 del 07.03.2014, Tanzi, Rv. 261942; Sez. 5, n. 11095 del 13.02.2014, Ghirardelli, Rv. 262741;
Sez. 5, n. 47616 del 17.07.2014, Simone, Rv. 261683; Sez. 5, n. 26542 del 19.03.2014, Riva, Rv. 260690; Sez. 5, n. 11793.14
del 05.12.2013, Marafioti, Rv. 260199; Sez. 5, n. 232 del 09.10.2012, Sistro, Rv. 254061.
8
  Sez. 5, n. 3229 del 14.12.2012, dep.2013, Rossetto, Rv. 253932;, Sez. 5, n. 21846 del 13.02.2014, Bergamaschi, Rv. 260407.
9
  Cfr. ex plurimis, Sez. 5, n. 32352 del 07.03.2014, Tanzi; Sez. 5, n. 32031 del 07.05.2014, Daccò, Rv. 261988, in motivazione;
Sez. 5, n. 15613 del 05.12.2014, Geronzi, Rv. 263805, in motivazione.
10
   Sez. 5, n. 32352 del 07.03.2014, Tanzi cit;. Sez. 5, n. 32031 del 07.05.2014, Daccò; Sez. 5, n. 15613 del 05.12.2014,
Geronzi.
11
   Sez.un. n. 22474 del 31.03.2016, Passarelli, Rv. 266804.
12
   Sez. 5, n. 52077 del 04.11.2014, Lelli, Rv. 261347.
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In un passaggio della sentenza Passarelli, le Sezioni Unite hanno tuttavia incidentalmente
osservato che la condotta, in altre parole, si perfeziona con la distrazione, mentre la punibilità della
stessa è subordinata alla dichiarazione di fallimento, che, ovviamente, consistendo in una pronunzia
giudiziaria, si pone come evento successivo (in caso, appunto, di bancarotta distrattiva prefallimentare)
e comunque esterno alla condotta stessa.

          4. La sentenza Santoro.
          Questo spunto viene colto dalla sentenza «Santoro»13, secondo la quale i reati di bancarotta
fraudolenta, la dichiarazione di fallimento è condizione (estrinseca) di punibilità e determina il “tempus”
e il “locus commissi delicti”.
          La Corte afferma, in discontinuità dall’orientamento pregresso, che nell’ambito dei reati di
bancarotta, la dichiarazione di fallimento, in quanto evento estraneo all’offesa tipica e alla sfera di
volizione dell’agente, non costituisce elemento costitutivo del reato ma rappresenta una condizione
estrinseca di punibilità, che restringe l’area del penalmente illecito, imponendo la sanzione penale solo
in quei casi nei quali alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la
dichiarazione di fallimento.
           Tale condizione determina il dies a quo della prescrizione e radica la competenza territoriale, con
conseguente irrilevanza, ai fini della sussistenza del reato, dell’esistenza del nesso causale e psichico tra
le condotte distrattive e il successivo stato di insolvenza.
          La sentenza muove dal principio della responsabilità patrimoniale di cui all’art.2740 cod.civ.
secondo il quale il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e
puntualizza il fondamento costituzionale degli obblighi specialmente gravanti sugli imprenditori e
specificamente riguardanti gli imprenditori nell’art. 41 Cost., a mente del quale l’iniziativa economica
privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana.
          In tale contesto viene collocato il rilievo che l’imprenditore non è il dominus assoluto e
incontrollato del patrimonio aziendale, titolare di una sorta di jus utendi et abutendi sui beni aziendali, che,
pur essendo strumentali al legittimo obiettivo del raggiungimento del profitto dell’imprenditore sono
finalisticamente vincolati, per così dire, in negativo, nel senso che degli stessi non può farsi un utilizzo
che leda o metta in pericolo i predetti interessi costituzionalmente tutelati.
           In altre parole, la libertà di intrapresa è disciplinata dal legislatore nella consapevolezza della
pluralità di interessi che vengono coinvolti, quando l’attività economica organizzata si alimenta del
credito e implica una rilevante responsabilità sociale per l’intero sistema produttivo e lavorativo.
          Secondo la sentenza Santoro, la dichiarazione di fallimento, in quanto evento estraneo all’offesa
tipica e alla sfera di volizione dell’agente, rappresenta una condizione estrinseca di punibilità (e del
resto, per quanto può rilevare l’intenzione storica del legislatore, nei termini della condizione obiettiva si
era espressa la Relazione del Guardasigilli al R.D. n. 267 del 1942: par. 48), che restringe l’area del
penalmente illecito, imponendo la sanzione penale solo in quei casi nei quali alle condotte del debitore,
di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento.
          La sentenza si richiama poi alla giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo la quale il
fatto offensivo costituente reato è, in quanto tale, meritevole di pena, nel senso che sono in esso
presenti i requisiti sufficienti per tracciare il confine tra la sfera del lecito e quella dell’illecito e per
giustificare il ricorso alla sanzione criminale, con la conseguenza che la previsione normativa deve
essere, pertanto, espressa e resa in forma determinata, per assicurare, attraverso la certezza
dell’incriminazione, la libertà dei cittadini, per poi precisare che non in tutti i fatti meritevoli di pena è
rinvenibile anche un’esigenza effettiva di pena; la punibilità del reato può pertanto essere subordinata
ad elementi di varia natura, nei quali si cristallizza una valutazione d’opportunità politica, estranea al
contenuto dell’offesa e dipendente dal modo con cui è apprezzata la sua rilevanza in concreto per
l’ordinamento.

13
     Sez.5, 8.2.2017, n. 13910.
                                                       4
Tali elementi condizionanti fungono, in pratica, da filtro selettivo nel ricorso alla sanzione
criminale per fatti pur (astrattamente) meritevoli di pena; ma, non concorrendo a definire il discrimine
fra lecito e illecito, non devono sottostare ad un’esigenza di determinatezza in funzione di garanzia della
libertà (assicurata con la previsione di un’offesa dal contenuto tipico tassativamente definito), bensì in
funzione della parità di trattamento tra gli autori del fatto illecito, la cui selezione repressiva non può
porsi in contrasto con il principio d’uguaglianza (Corte Cost. 16.5.1989, n. 247).
          Gli elementi estranei alla materia del divieto (come le condizioni estrinseche di punibilità che,
restringendo l’area del divieto, condizionano, appunto, quest’ultimo o la sanzione alla presenza di
determinati elementi oggettivi) si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27 Cost., comma
1, (Corte cost. 13.12.1988, n. 1085).
          La sentenza Santoro non si è sottratta poi alla valutazione delle implicazioni operative
consequenziali alla ricostruzione accolta.
          Quanto alla disciplina della prescrizione, nulla mutava, alla luce dell’art. 158 c.p., comma 2, a
mente del quale, quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il
termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata.
          Il concetto di consumazione del reato di cui all’art. 8 c.p.p., in assenza di vincolanti e diverse
prescrizioni normative, doveva essere ricostruito nei termini di completa realizzazione della fattispecie
incriminatrice: di qui la conclusione della piena equiparazione delle soluzioni in tema di tempus e di locus
commissi delicti, coerente con le finalità delle norme che assumono la consumazione del reato a
presupposto della loro applicabilità, giacchè la condizione di punibilità, pur estranea, nella accezione che
qui assume rilievo, all’offesa, comunque rappresenta il dato che giustifica l’intervento sanzionatorio
dello Stato.
          Quanto poi ai profili dell’amnistia e dell’indulto (art. 79 Cost., comma 3, che si sovrappone
all’art. 151 c.p., comma 3 e art. 174 c.p., comma 3), l’unitaria considerazione degli istituti e il fatto che,
come puntualmente rilevato in dottrina, anche l’amnistia, che pure costituisce causa di estinzione del
reato, ha riguardo non all’aspetto offensivo di quest’ultimo, ma alla sua punibilità, giustificano la
conclusione in base alla quale assume valore determinante il momento del verificarsi della condizione
obiettiva di punibilità (Sez. 5, n. 7814 del 22.3.1999, Di Maio, Rv. 213867).
          Quanto al rapporto tra momento consumativo del reato e successione delle leggi penali nel
tempo, secondo la sentenza Santoro, l’interpretazione della nozione di fatto commesso, assunta dall’art.
2 c.p. e ricostruita in funzione della garanzia di irretroattività, da un lato, resta insensibile alle modifiche
della disciplina dell’istituto del fallimento, assunto come mero provvedimento giurisdizionale, dall’altro,
non potrebbe non tenere conto dell’eventuale abrogazione di siffatto elemento strutturale (ed è appena
il caso di rilevare che non sarebbe rilevante il mutamento del nomen o della disciplina, ma la radicale
soppressione di un procedimento concorsuale finalizzato al soddisfacimento delle ragioni dei creditori).
          La sentenza Santoro non ha avuto un’adesione incontrastata.
          Indubbiamente numerose pronunce si sono accodate alla lettura della sentenza dichiarativa di
fallimento come condizione oggettiva di punibilità14.
          Altre pronunce hanno adottato una soluzione di minor respiro, giustificata dal tenore delle
questioni ad esse sottoposte, per risolverle nello stesso modo, sia che si optasse per configurazione
della sentenza dichiarativa del fallimento come condizione obiettiva di punibilità, sia per la sua
qualificazione come elemento costitutivo15
         14
            In tal senso Sez. 5, n. 12365 del 12.02.2018, Cesati Cassin; Sez. 5, n. 4400 del 06.10.2017 – dep. 2018,
Cragnotti; Sez. 5, n. 992 del 17.05.2016 - dep. 2018, Bonofiglio, Rv. 271920; Sez. 5, n. 34836 del 30.05.2017, Gironi; Sez. 5,
n. 36702, del 08.06.2017, Guietti; Sez. 5, n. 12230 del 02.11.2017 – dep. 2018, Di Niso; Sez. 5, n. 53184 del 12.10.2017,
Fontana, Rv. 271590; Sez. 5, n. 56315 del 19.07.2017, Bedetti.
Ed ancora in tal senso, più recentemente Sez. 5, n. 21920 del 15.03.2018, Sebastianutti e altro, Rv. 273189; Sez. 5, n. 25651
del 15.02.2018, Pessotto, Rv. 273468; Sez.5 n.57320 del 16.10.2018, Mollica; Sez.5, 55390 del 30/10/2018, Pace; Sez.5,
n.2899 del 2.10.2018, dep.2019, Signorelli; Sez.5, 23611 del 4.4.2018, Marotta.
15
  Sez. 5, n. 13396 del 11.12.2017 – dep. 2018, Lovison; Sez. 5, n. 45288 del 11.05.2017, Gianesini, Rv. 271114; Sez. 5, n.
8997 del 26.10.2017 – dep. 2018, Cerella; Sez. 5, n. 9769 del 02.02.2018, Amadei; Sez. 5, n. 8725 del 17.11.2017 – dep. 2018,
Di Cristofaro; Sez.5 31997 del 6.3.2018, Vannini.
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5. Il dissenso rispetto alla sentenza «Santoro» e le sentenze «Palitta» e «Alampi».
         La giurisprudenza della 5° Sezione ha registrato però anche un fronte di dissenso rispetto alla
sentenza Santoro.
         La sentenza capofila di tale orientamento è la sentenza «Palitta»16, che ha criticato la
qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità, quale
premessa per negare rilevanza all’indagine sulle implicazioni soggettive della qualificazione della
bancarotta come reato di pericolo concreto, qualificazione, quest’ultima, sostenuta anche sul piano della
configurazione dell’elemento soggettivo e mettendo in guardia da ricostruzioni della fattispecie in
termini di reato di “pericolo presunto”.
         La       successiva     sentenza      Sgaramella17ha considerato      la     questione     “elemento
costitutivo/condizione obiettiva di punibilità” non decisiva ai fini della tenuta costituzionale della
norma incriminatrice, ritenendo, invece, centrali – in linea con la sentenza Palitta ed anche con
riguardo al problema della distanza temporale del fatto distrattivo dalla sentenza di fallimento – la
configurazione della fattispecie incriminatrice come reato di pericolo concreto e la correlata
configurazione del dolo (con i connessi oneri motivazionali del giudice di merito). Tale sentenza ha
affermato che in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, l’accertamento dell’elemento oggettivo
della concreta pericolosità del fatto distrattivo e del dolo generico deve valorizzare la ricerca di «indici di
fraudolenza», rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta alla luce della condizione
patrimoniale e finanziaria dell’azienda, nel contesto in cui l’impresa ha operato, avuto riguardo a
cointeressenze dell’amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte, nella irriducibile estraneità del
fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni di ragionevolezza
imprenditoriale, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo
dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall’altro,
all’accertamento in capo all’agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto
pericolosa.18
         Nella sentenza Palitta la Corte dichiara di aderire all’orientamento secondo cui, in tema di
bancarotta, la dichiarazione di fallimento è un elemento costitutivo del reato e non una condizione
oggettiva di punibilità; pertanto, il reato si perfeziona in tutti i suoi elementi costitutivi solo nel caso in
cui il soggetto, che abbia commesso anche in precedenza attività di sottrazione dei beni aziendali, sia
dichiarato fallito mostrando dissenso rispetto al diverso, più recente, orientamento giurisprudenziale
che ha affermato, invece, che la dichiarazione di fallimento, ponendosi come evento estraneo all’offesa
tipica e alla sfera di volizione dell’agente, costituisce condizione obiettiva di punibilità, che circoscrive
l’area di illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali alle condotte del debitore - di per sé offensive degli
interessi dei creditori in quanto espongono a pericolo la garanzia di soddisfacimento delle loro ragioni -
segue la dichiarazione di fallimento.
         La sentenza Alampi19 ha ritenuto di dover approfondire la questione in riferimento al profilo
dell’indulto, ricordando il passaggio della sentenza Santoro, secondo il quale «Quanto poi ai profili
dell’amnistia e dell’indulto …….. l’unitaria considerazione degli istituti e il fatto che, come
puntualmente rilevato in dottrina, anche l’amnistia, che pure costituisce causa di estinzione del reato, ha
riguardo non all’aspetto offensivo di quest’ultimo, ma alla sua punibilità, giustificano la conclusione in
base alla quale assume valore determinante il momento del verificarsi della condizione obiettiva di
punibilità ….».
         Al proposito la Corte ha osservato che la nozione di condizione obiettiva di punibilità risulta
del tutto sfuggente, sia perché l’art. 44 cod. pen. non ne fornisce una definizione, sia perché gli stessi
lavori preparatori risultano assolutamente poco chiari in merito, il che aveva consentito il proliferare, in

16
   Sez. 5, n. 17819 del 24.03.2017, Rv. 269562.
17
   Sez. 5, n. 38396 del 23.06.2017, Rv. 270763.
18
   Anche Sez. 5, n. 50081 del 14.09.2017, Zazzini, Rv. 271437, non si sofferma sulla questione “elemento costitutivo/
condizione obiettiva di punibilità”, ma richiama adesivamente la sentenza Palitta circa la configurazione della bancarotta
fraudolenta patrimoniale come reato di pericolo concreto.
19
   Sez.5. 18.5.2018 n.40477, Alampi.
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dottrina, di contrastanti punti di vista, direttamente proporzionali all’elasticità del concetto, attraendo la
categoria della condizione obiettiva di punibilità nell’alveo degli elementi funzionali all’integrazione del
reato. Tuttavia, l’art. 44 cod. pen. si riferisce chiaramente alla «punibilità del reato», per cui appare più
coerente con il dettato normativo ritenere che la condizione obiettiva di punibilità sia richiesta al fine di
rendere applicabile la pena, a fronte di un reato ontologicamente sussistente e perfetto nei suoi elementi
essenziali; al contrario, se si volesse ritenere la condizione di punibilità essenziale per la sussistenza del
reato, la disposizione normativa avrebbe parlato di «punibilità del fatto». Per tale ragione la sentenza
Alampi non condivide l’orientamento secondo cui la sentenza dichiarativa di fallimento sia una
condizione obiettiva di punibilità, in quanto il reato fallimentare, in assenza della sentenza dichiarativa
di fallimento, non può essere considerato ontologicamente integrato in tutte le sue componenti
essenziali, come ritenuto dalla sentenza Mezzo delle Sezioni Unite. Tale pronuncia aveva attratto la
sentenza dichiarativa di fallimento nell’area degli elementi costitutivi del reato di bancarotta, pur
attribuendo ad essa rilievo determinante ai fini della punibilità della fattispecie, benché non in quanto
elemento estraneo alla struttura del reato, ma proprio in quanto elemento qualificante i fatti; proprio in
ciò, quindi, la sentenza dichiarativa di fallimento si differenzia, secondo le Sezioni Unite Mezzo, dalla
condizione obiettiva di punibilità, la cui nozione si colloca a valle di un reato strutturalmente completo
in tutte le sue componenti.
         Il dissenso fra le due costruzioni è peraltro più apparente che reale, anche con riferimento ai
temi innescati dai provvedimenti di clemenza: sia la sentenza Santoro, sia la sentenza Alampi, ritengono
che ai fini delle cause di estinzione del reato come amnistia e indulto occorra aver riguardo al momento
della pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento.
          La sentenza Santoro perviene a questo approdo sostenendo che in tema di punibilità del reato
assuma comunque valore determinante il momento del verificarsi della condizione obiettiva di
punibilità20, rafforzando tale conclusione con l’invocazione del precedente Di Maio21.
         La sentenza Alampi critica la correttezza di tale operazione, sostenendo che la configurazione
della sentenza dichiarativa di fallimento come condizione estrinseca di punibilità condurrebbe
inevitabilmente a conferire rilievo ai fini delle cause di estinzione del reato come amnistia e indulto alla
data di commissione delle condotte; peraltro, alla luce della teoria accolta (sentenza dichiarativa del
fallimento come elemento costitutivo) propugna la stessa soluzione, ascrivendo rilievo quale momento
di riferimento alla data della pronuncia giudiziale di fallimento.
         In realtà, uno dei principali motivi di perplessità che alimenta la resistenza della Cassazione ad
abbracciare pienamente la teoria della condizione obiettiva di punibilità è collegato al timore di tracciare
una rotta di collisione dei reati di bancarotta fallimentare con la moderna concezione di colpevolezza
che emerge dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale.
         Le classiche teoriche della dottrina distinguono le condizioni obiettive di punibilità in due
categorie: quelle intrinseche (note anche come condizioni di esistenza del reato), che contengono
frammenti di fattispecie necessari per la sussistenza del reato nella sua compiutezza tipica, consistenti
in elementi da considerare partecipi dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, e quindi oggetto
di rimproverabilità nei confronti dell’agente; quelle estrinseche, che si riferiscono ad elementi del tutto
esterni rispetto al fatto di reato e, pertanto, al di fuori del piano dell’offesa.
         Altra parte della dottrina accentuano, al fine di scoprire se un elemento possa essere inquadrato
nell’alveo delle condizioni obiettive di punibilità, la dicotomia esistente tra elementi che rendono
meritevole di pena il fatto tipico (costitutivi del reato) ed elementi che rendono quel fatto bisognevole
di pena (elementi addizionali definiti condizioni obiettive di punibilità).
         La sentenza dichiarativa di fallimento, quanto ai reati di bancarotta prefallimentare, non
potrebbe che essere qualificata come condizione estrinseca di punibilità, come del resto l’ha classificata
la sentenza Santoro.
         In passato la Corte Costituzionale si è occupata varie volte del reato di bancarotta fraudolenta.

20
   Richiama questa conclusione, sia pure con prospettazione anodina fra i due orientamenti, Sez.1, 17/10/2017, dep.2018,
Fioretti.
21
   Sez. 5, n. 7814 del 22.3.1999, Di Maio, Rv. 213867.
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Con la sentenza 27.07.1982, n. 146 dichiarò non fondata - in riferimento agli art. 3 e 27 Cost. -
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 217 comma 2 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, nell’ipotesi di
omessa tenuta dei libri e delle altre scritture contabili, per il fatto (risultante da pronuncia di rinvio della
Suprema Corte che vincolava il giudice remittente) che la sentenza dichiarativa di fallimento era da
considerarsi non mera condizione di punibilità, ma elemento costitutivo del reato. Tra l’altro, il
Tribunale remittente aveva dubitato della possibile violazione dell’art. 27, comma primo, Cost. perché la
commissione del reato finirebbe con dipendere vuoi dalla condotta personale dell’imputato vuoi dal
fatto di terzi che potrebbero presentare o meno (e comunque in tempi diversi) istanze di dichiarazione
di fallimento del reo. La Consulta respinse i dubbi con motivazione invero non del tutto esente da
oscurità, in quanto il fallimento poteva essere dichiarato, pur nella carenza delle istanze dei creditori, dal
tribunale di ufficio e in quanto non si poteva trarre dalla diversità delle conseguenze che possono
derivare, in punto di estinzione del reato, dalla data delle sentenze dichiarative del fallimento,
argomento alcuno per contestare la natura della sentenza di elemento costitutivo del reato.
          Con la successiva pronuncia del 30.12.1987, n. 636, allorché dichiarò infondata la questione
d’illegittimità costituzionale relativa alla qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come
elemento costitutivo del reato di bancarotta, anziché come condizione obiettiva di punibilità, la
Consulta richiamò le proprie precedenti pronunce del 1972, n.110 e 190.
          Con la prima e più articolata pronuncia (e cioè con la sentenza 110 del 27.6.1972) la Corte
Costituzionale si confrontò con l’assunto che, dovendosi intendere il reato consumato alla data della
sentenza dichiarativa del fallimento, si sarebbe avuta una ingiustificata disparità di trattamento anche in
relazione al momento consumativo del reato che dipenderebbe dal gioco delle più varie circostanze o di
fattori del tutto casuali o indipendenti dalla volontà dell’agente, ovvero dalla solerzia o celerità degli
organi giudiziari preposti alla procedura concorsuale di fallimento.
          Tali ragioni vennero disattese, affermando che spettava al legislatore il potere di dire se, come e
quando un dato fatto costituisca reato e rientrava nell’ambito della sua discrezionalità la valutazione
degli interessi meritevoli di tutela, e così pure la diversificazione, nel trattamento giuridico, di situazioni
che, pur presentando notevoli elementi in comune, non fossero identiche.
          A proposito dell’ipotesi criminosa dell’art. 217, comma secondo, e giusta l’interpretazione che
ne dava la Corte di Cassazione, il legislatore aveva ritenuto che il semplice comportamento
dell’imprenditore commerciale, consistente nella mancata, irregolare o incompleta tenuta dei libri e delle
altre scritture contabili, in violazione dell’obbligo posto dagli artt. 2214 e seguenti del codice civile, non
mettesse in pericolo il bene che con quella ipotesi ha inteso tutelare; ed ha invece ravvisato come
attuale, codesta messa in pericolo solo se e all’atto in cui l’imprenditore commerciale venisse dichiarato
fallito. L’attività dell’imprenditore commerciale, per gli interessi che tocca o su cui incide, è fonte per lo
stesso suo autore di responsabilità, collegata al rischio dell’impresa. Ed in relazione ad essa, appare
quindi razionale che solo alcuni dei comportamenti che quella attività integrano, siano penalmente
riprovati e che lo siano se ed in quanto si presentino con una certa gravità. Il legislatore avrebbe potuto
considerare la dichiarazione di fallimento, tra l’altro, come semplice condizione di procedibilità o di
punibilità, ma aveva invece voluto - come veniva riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di
Cassazione - richiedere l’emissione della sentenza per l’esistenza stessa del reato. E ciò perché,
intervenendo la sentenza dichiarativa del fallimento, la messa in pericolo di lesione del bene protetto si
presenta come effettiva ed attuale. Stante ciò, è fuor di luogo parlare di soggetti che si trovano in pari
condizioni e di trattamenti giuridici differenziati.
          Posto ciò, pareva del tutto giustificato che dell’amnistia o indulto o di un dato provvedimento di
clemenza possano giovarsi solo i soggetti per i quali i momenti consumativi dei rispettivi reati
intervengano entro il termine di efficacia del singolo provvedimento.

        6. Conclusioni.
        Se pur non si può dir sopito il contrasto interno alla giurisprudenza della Corte di Cassazione
circa la natura della sentenza dichiarativa di fallimento, non si può dire che il dissenso dogmatico
retrostante influenzi in modo significativo il tenore delle dedizioni.

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I due orientamenti concordano nel sottrarre la sentenza dichiarativa di fallimento e il dissesto
che la presuppone e la determina dal fuoco della volontà, con marginali divergenze nei percorsi
motivazionali ma non negli approdi: tanto che numerose pronunce si risolvono a giustificare la
conclusione attinta, assumendo l’indifferenza dell’adesione all’uno o all’altro orientamento.
        Nell’attuale giurisprudenza di legittimità è invece alla lettura del reato di bancarotta fraudolenta
quale reato di pericolo concreto, al concetto di esposizione a rischio degli interessi dei terzi e dei
creditori, alla teoria degli indici di fraudolenza, alla nozione di zona di rischio penale, che occorre aver
riguardo per cogliere e applicare il discrimen fra l’area del lecito e quella del penalmente rilevante (tema
questo oggetto di altra relazione).

Torino, 4 marzo 2019

                                                 Umberto Scotti

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