I SOGGETTI SOTTOPOSTI AL FALLIMENTO - ASSOCIAZIONE FORENSE MACERATESE - dott. avv. Gianluigi Gentili
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ASSOCIAZIONE FORENSE MACERATESE La riforma della legge fallimentare e la novella di cui al c.d. “decreto correttivo” I SOGGETTI SOTTOPOSTI AL FALLIMENTO dott. avv. Gianluigi Gentili 16 novembre 2007
ASSOCIAZIONE FORENSE MACERATESE La riforma della legge fallimentare e la novella di cui al c.d. “decreto correttivo” **** I SOGGETTI SOTTOPOSTI AL FALLIMENTO A) LA NOVITÀ LEGISLATIVA L’art. 1 della legge fallimentare, oggi intitolato “imprese soggette al fallimento ed al concordato preventivo”, essendo stata abolita la procedura dell’amministrazione controllata, ha subito emendamenti dalla sua costituzione, fino alla radicale modifica prodotta dal D. Lgs. 9/1/2006 n. 5, ed è stato interamente riformulato dal decreto correttivo 12/9/2007 n. 169, in vigore dall’1/1/2008, che si applicherà ai procedimenti per dichiarazione di fallimento pendenti a tale data, nonché alle procedure concorsuali e di concordato fallimentare aperte successivamente 1. Le più importanti novità sono costituite dalla definizione dei nuovi presupposti soggettivi e della precisazione del soggetto su cui grava l’onere della prova. B) LA NORMATIVA ANTE RIFORMA Originariamente erano esclusi dal fallimento, oltre agli enti pubblici, i piccoli imprenditori, intendendo per tali quelli riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. In mancanza di accertamento, si considerava piccolo imprenditore chi avesse investito nell’impresa un capitale non superiore a lire trentamila, elevato a lire novecento mila con L. 20/10/1952 n. 1375. 1 Ad eccezione delle modifica all’art. 104 ter, “programma di liquidazione”, già in vigore ed alle norma in materia di esdebitazione, che si applicano alle procedure pendenti alla data di entrata in vigore del d. lgs. 9/1/2006 n. 5. 2
In nessun caso erano considerate piccolo imprenditore le società commerciali. Ma l’imposta di ricchezza mobile è stata abolita dai D.P.R. 29/9/1973 n. 597 e n. 598, che hanno introdotto l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) e l’imposta sul reddito delle persone giuridiche (IRPEG) e la Corte Costituzionale, con sentenza del 22/12/1989 n. 570, ha dichiarato l’illegittimità del comma 2 dell’art. 1 del R.D. 16/3/1942 n. 267 (legge fallimentare), nella parte in cui prevedeva che in mancanza dell’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta investito un capitale non superiore a lire novecentomila.” Fra le motivazioni della sentenza si legge che “per effetto della svalutazione monetaria, detta somma è divenuta un indice insignificante della realtà operativa ed organizzativa ed ha fatto venir meno la soglia della distinzione tra l’imprenditore soggetto al fallimento, il piccolo imprenditore e l’insolvente civile, che non sono ad esso sottoposti”. “A fondare la distinzione” - prosegue la sentenza – occorre un criterio assolutamente idoneo e sicuro. I limiti devono essere stabiliti in relazione all’attività svolta, all’organizzazione dei mezzi impiegati, all’entità dell’impresa ed alle ripercussioni che il dissesto produce nell’economia generale.” La Suprema Corte, con sentenza del 22/12/1994 n, 11039, aderendo ai criteri stabiliti dalla Corte Costituzionale, affermava, fra l’altro, che “l'artigiano diventa un normale imprenditore commerciale e, conseguentemente deve essere assoggettato al fallimento, solo quando organizzi la sua attività in modo da costituire una base di intermediazione speculativa e da far assumere al suo guadagno, normalmente modesto, i caratteri del profitto, realizzando così una vera e propria organizzazione industriale, avente autonoma capacità produttiva, in cui l'opera del titolare non è più essenziale, né principale.” Le riforme successive hanno inteso porre termine alle diverse possibili interpretazioni, dapprima in modo non appagante con il D. lgs. N. 5/2006, la seconda, con il D.lgs. 12/9/2007 n. 169, in modo più preciso. 3
C) LA RIFORMA DEL D.LGS 9/1/2006 N. 5 C.1) La formulazione dell’art. 1 L.F. “Art. 1 - (Imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo) Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori. Ai fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori gli esercenti un'attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente: a) hanno effettuato investimenti nell'azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila; b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila. I limiti di cui alle lettere a) e b) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni, con decreto del Ministro della Giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento.” Non è stato modificato il comma primo se non per la cancellazione del riferimento all’amministrazione controllata, mentre, al comma secondo, contrariamente a quanto disposto in origine, si definisce il piccolo imprenditore in senso negativo (chi non ha effettuato investimenti e non ha conseguito ricavi entro determinati valori). Fermo il parametro degli “investimenti”, è stato introdotto il parametro dei ricavi lordi di cui si indica un preciso criterio di determinazione. Con la riforma, quindi, si è assolto l’intento di evitare le frequentissime discrepanze nell’individuazione dei requisiti quantitativi di qualificazione del piccolo imprenditore, che prescinde dalla forma di costituzione dell’impresa. Non si dice più, infatti, che “in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali”. 4
L’art 1 della L.F. ante novella, aveva definito il piccolo imprenditore diversamente dall’ordinaria norma civilistica, l’art. 2083 c.c., secondo cui sono piccoli imprenditori “i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata con il lavoro proprio e dei componenti la famiglia.” Da tale difformità sono derivati due diversi orientamenti giurisprudenziali: il primo considera sufficiente il mancato raggiungimento dei parametri quantitativi (Trib. Milano, circ. presidenziale 21/12/2006, Trib. Torino, Sez VI, 11/1/2007, Trib. Mantova, 1/2/2007, Trib. Roma 20/2/2007), il secondo, minoritario (Trib. Firenze 31/1/2007) che ritiene comunque necessaria la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 2083 c.c.. C.2) La nozione generale di “investimenti”. Non vi è dubbio che la lett. a) (“investimenti per un capitale di valore …..” sia stata scritta almeno affeettatamente. Infatti, con il termine investimenti potrebbe intendersi il “capitale proprio”, vale a dire il capitale sociale e le riserve compresi gli utili indivisi, quindi il “patrimonio netto”, ovvero la differenza fra le attività e le passività. Va subito detto che la migliore dottrina2 esclude quest’ultima interpretazione, perché a fronte di uguale valore contabile del patrimonio netto possono aversi assai diversi valori della attività. Ad esempio: IMPRESA A _____________________________________________________________ - attivo € 5.000 - passivo € 4.800 - patrimonio netto € 200 2 M. Caratozzolo, La nozione di e di nell’art. 1 della nuova legge fallimentare” in Fallimento 1/2007, 5) 5
IMPRESA B _____________________________________________________________ - attivo € 500 - passivo € 180 - patrimonio netto € 320 L’ impresa A) sarebbe esclusa dal fallimento, mentre non lo sarebbe l’impresa B), dotata di attivo pari ad un decimo di quello dell’impresa A). 3 Per “investimenti” devono correttamente intendersi, quindi, le attività patrimoniali individuate dalla lett. A) alla lett. D) dall’art. 2424 c.c. (“Contenuto dello stato patrimoniale”), quindi tutte le attività anche estranee alle gestione caratteristica dell’impresa, poiché tutte le attività, immobilizzate o circolanti, sono vincolate al soddisfacimento dei crediti a qualunque titolo formati. Quanto ai beni in locazione finanziaria, che potrebbero dimostrare ex se la rilevanza patrimoniale dell’impresa pur non essendo iscritti nell’attivo patrimoniale prima del loro riscatto, deve aversi riguardo all’art. 2427 c.c. secondo cui nella nota integrativa devono essere indicati: - il valore iniziale dei beni ed i successivi ammortamenti, rettifiche e riprese di valore; - il valore attuale delle rate di canoni a scadere, determinato con il tasso d’interesse implicito nel contratto. Tali dati vanno aggiornati ex art. 15 c. 4 L.F. e, per i soggetti non tenuti all’approvazione del bilancio, vanno desunti dai contratti. I valori così individuati dovranno essere aggiunti al valore degli investimenti di diretta proprietà dell’impresa. C.3) Il periodo di riferimento Mentre la normativa attualmente in vigore fa riferimento ad un triennio per l’individuazione del valore dei ricavi, nulla 3 M. Caratozzolo, cit., 6
dice per l’individuazione del valore degli investimenti. Se ne deduce, interpretando letteralmente la norma, che per l’accertamento degli investimenti deve farsi riferimento ad un momento puntuale, mentre per i ricavi dovrebbe farsi riferimento ad un triennio calcolato a ritroso dall’inizio dell’istruttoria prefallimentare. Se così fosse, sorgerebbero difficoltà di analisi della documentazione perché non si dovrebbe far esclusivo riferimento ai bilanci d’esercizio bensì a riclassificazioni di valori che solo il debitore potrebbe eseguire e che potrebbero essergli richieste a norma dell’art. 15 c. 4 L.F., nell’ambito dell’istruttoria prefallimentare. C.4) L’accertamento degli “investimenti” 4 Si è ritenuto che il momento di riferimento per l’accertamento del valore degli investimenti sia l’inizio dell’istruttoria prefallimentare (art. 15 della L.F.), proprio perché l’istruttoria ha lo scopo di accertare l’esistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento o meglio, la sussistenza dell’insolvenza a tale data e fino alla dichiarazione di fallimento. 5 La conclusione è condivisibile e poggia anche sul disposto dell’art. 15 c. 4 L.F. secondo cui, con il decreto di convocazione del debitore nell’ambito dell’istruttoria prefallimentare, il tribunale dispone il deposito di una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata, in ogni caso, e, quindi, qualunque sia la natura e la forma dell’impresa. 4 Quanto all’applicazione delle nuove disposizioni, “se l’art. 150” norme transitorie “ riguarda anche le norme sostanziali, i nuovi criteri di esonero dal fallimento sarebbero inapplicabili ai ricorsi anteriori al 16 luglio 2006” data di entrata in vigore della normativa oggi vigente; “se, viceversa, riguarda solo i profili processuali, nel definire la nozione di piccolo imprenditore ,occorrerebbe, anche per i ricorsi depositati prima del 16 luglio, applicare il nuovo art. 1 L.F.” “La prima tesi sembrerebbe preferibile sia dal punto di vista letterale (l’art. 150 d. lgs n. 5/2006 parla di “ricorsi” e dunque di domande) che in un’ottica funzionale (la sopravvenuta diversa disciplina di dirito sostanziale, ove fosse applicata ai ricorsi pendenti, non rappresenterebbe altro che una deviazione dal principio delle irretroattività della legge sancito dall’art. 11 delle preleggi); in Giurisprudenza Commerciala, n. 34.2, 304/II. 5 M. Caratozzolo, cit., 7 Il Tribunale di Roma (12/12/2006), in Fallimento on line, ha ritenuto decisivi i tre anni antecedenti l’istanza di fallimento per entrambi i parametri che qualificano il nuovo identikit del piccolo imprenditore, G.C., 34,2, 308/iII, contra Fabiani. 7
Tuttavia, l’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento compiuto in un momento puntuale come l’apertura dell’istruttoria, potrebbe far escludere dal fallimento soggetti che abbiano effettato notevoli investimenti, dismessi in epoca successiva. C.5) La nozione di “ricavi lordi” La problematica interpretativa, che non sembra suscettibile di variazioni con le disposizioni correttive, è la seguente: a) se i ricavi debbano intendersi al lordo delle rettifiche per resi, sconti o abbuoni; b) se debbano essere considerati solamente i ricavi delle vendite e delle prestazioni o anche gli altri ricavi o tutte le voci di cui alla lett. A) dell’art. 2425 c.c.; c) se debbano essere considerati i proventi finanziari (C 15 e C 16), gli utili su cambi (C 17 bis), le rivalutazioni di attività finanziarie (D 18) ed i proventi straordinari (E 20); d) se per ricavi in qualunque modo risultanti, debbano intendersi quelli risultanti da accertamenti e verifiche tributarie ai fini delle imposte sui redditi. Sulla problematica di cui alla lett. a) non pare dubbio che debbano computarsi i ricavi al netto di sconti, resi o abbuoni, come previsto dall’art. 2425 bis c.c. e che per sconti debbano intendersi gli sconti commerciali e non quelli finanziari che, appunto, costituiscono oneri finanziari e come tali classificati in bilancio. I ricavi sono costituiti sia da quelli derivanti dall’attività caratteristica di gestione (voce A 1 art. 2425 bis c.c.) sia dagli altri ricavi (voce A 5). Sono escluse le voci relative alle variazioni delle rimanenze ed ai costi di natura incrementativi capitalizzati, così come le sopravvenienze attive corrispondenti a rettifiche di costi di precedenti esercizi. 8
Sono altresì esclusi i componenti straordinari non riproducibili e non normalmente conseguibili dall’impresa e le rivalutazioni di attività finanziarie. Vanno ricompresi fra i ricavi anche i proventi finanziari (interessi attivi, dividendi ed utili su cambi (C 15, C 16 e C 17 bis), di solito non rilevanti nelle imprese industriali e commerciali. C.6) L’onere della prova Nell’ attuale normativa, si è ampiamente dibattuto in ordine alla problematica dell’onere della prova; in altri termini, si è discusso se la prova della fallibilità spetti all’istante o al debitore, tenuto a dimostrare la carenza dei relativi presupposti. In una recente sentenza 6 il Tribunale di Torino ha affermato che, in assenza di una specifica disciplina della ripartizione dell’onere probatorio, “almeno per le società commerciali, la qualifica di imprenditore non piccolo deve presumersi, in quanto connotazione normale della tipologia societaria. L’eventuale mancato superamento dei limiti previsti dalla citata norma fallimentare “ l’art. 1 L.F., “ deve essere allegato e provato dalla parte interessata, e cioè dal debitore in via d’eccezione.” La conclusione – a giudizio del tribunale – è coerente con il disposto dell’art. 15 c. 4 L.F., che impone al debitore di depositare, su invito del tribunale, una situazione patrimoniale economica e finanziaria aggiornata, che può costituire base per ulteriori accertamenti e che, altrimenti, sarebbe eludibile senza negative conseguenze. Il fatto che il tribunale disponga di autonomi poteri di accertamento e d’indagine, non fa venir meno la natura di processo delle parti che con la riforma si è inteso dare al procedimento prefallimentare, confermata dall’abrogazione del potere di procedere d’ufficio così come dall’impugnabilità diretta in Corte di appello della sentenza dichiarativa. 6 Tribunale Torino, Sez. IV, 11/1/2007, in Fallimento, 3/2007, 319 9
Un’altra considerazione si pone a sostegno della tesi torinese e cioè che, ove l’istante fosse onerato della prova dei requisiti di cui all’art. 1, lo si costringerebbe ad una probatio diabolica attraverso la produzione dei bilanci depositati che potrebbero risultare non veri o finanche falsi, per non dire della problematica che si presenterebbe nel caso delle società di persone e delle ditte individuali. Il tribunale fallimentare, poi, non dispone dei medesimi mezzi di cui dispone l’autorità giudiziale in sede penale, per cui accertamenti attraverso la Guardia di Finanza potrebbero risultare problematici. D) LE MODIFICHE DEL D. LGS. 12/9/2007 N. 169 D.1) La nuova formulazione dell’ Art. 1 L.F. Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici. Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dalla istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila. I limiti di cui alle lettere a) b) e c) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della Giustizia sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento. Le modifiche più importanti apportate dal decreto correttivo sono costituite dalla riscrittura dell’art. 1 (“Imprese 10
soggette al fallimento ed al concordato preventivo”) e dalla modifica dell’art. 160 in materia di concordato preventivo, secondo cui può essere previsto, a determinate condizioni, il pagamento in misura non integrale dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca. Abolito il riferimento al “piccolo imprenditore” e venute meno le questioni dibattute nel tempo sulla figura dell’artigiano, il nuovo art. 1 stabilisce che sono soggetti al fallimento gli imprenditori commerciali, esclusi, quindi, gli imprenditori agricoli, e gli enti pubblici e che sono esonerati dal fallimento i soggetti che non dimostrino di possedere, congiuntamente, i requisiti di cui alle lettere a) b) e c). - Alla lett. a) si fa riferimento all’ attivo patrimoniale essendo stato eliminato il riferimento al volume degli investimenti, e si definisce il periodo di osservazione (tre esercizi antecedenti la data del deposito dell’istanza di fallimento), coerentemente con la disposizione dell’art. 14 che pone a carico dell’imprenditore che chieda il proprio fallimento, di depositare “le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti.” - Alla lett. b) è meglio definito il riferimento al volume dei ricavi lordi. - Alla lett. c) si introduce il criterio del volume dei debiti, il che costituisce rilevante novità, potendo così essere sottoposto al fallimento l’imprenditore che abbia “debiti anche non scaduti non superiori ad € 500.000.” E’ stato osservato 7che il disposto della lett. c) si pone in controtendenza con il dichiarato scopo della riforma fallimentare, che si prefiggeva una riduzione delle procedure fallimentari, ma si pone in linea con quanto previsto in materia di amministrazione straordinaria (legge Marzano) e con l’esigenza di assicurare, nei casi di forte indebitamento, il rispetto della par condicio creditorum ed un’adeguata tutela penalistica, nonché in considerazione del fatto che nelle azioni esecutive individuali è oggi necessario disporre di un valido titolo esecutivo, cosicché alcuni creditori possono 7 Note di commento al decreto correttivo, a cura di G. Bozza, in Zucchetti, software Giuridico, 2007 11
avere adeguata tutela solo attraverso la procedura fallimentare. Sotto altri profili, il disposto della lett. c) “considerati i possibili effetti esdebitatori del fallimento e l’accesso al concordato preventivo (fondato sugli stessi requisiti), si risolve in un a maggiore tutela anche per il debitore che sia, appunto, fortemente indebitato”. 8 Vi è, certamente, mancanza di coordinamento fra quanto previsto all’art. 1 in termini di limiti dell’indebitamento, con il disposto dell’art. 15 c. 9, secondo cui “ non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare, è complessivamente inferiore a € 30.000.” Se ne dovrebbe dedurre che non si dia luogo al fallimento se manchi la prova dell’esistenza di debiti inferiori ad € 500.000, si accerti che il passivo non supera € 30.000. Sgomberato il campo dalla problematica interpretativa della nozione di “investimenti”, opportunamente sostituita con “attivo patrimoniale”, per la cui nozione si rimanda al par. C.2), analizziamo, ora, le problematiche che si evidenziano, almeno ad una prima lettura della novella. D.2) Cosa deve intendersi per “esercizio” La novella ha introdotto il termine “esercizio” per la individuazione dei valori sia dell’attivo patrimoniale, sia dei ricavi lordi. Deve chiarirsi, dapprima: a) cosa debba intendersi per “esercizi” di riferimento; in altri termini, se si debba fare riferimento agli esercizi chiusi prima della data di deposito dell’istanza di fallimento o se debbano considerarsi periodi della durata ordinaria di un esercizio (l’anno), con decorrenza calcolata a ritroso dalla data di deposito dell’istanza; 8 G. Bozza, cit. 12
b) se si pongano problematiche interpretative in presenza nel caso di durata ultrannuale dell’esercizio che può determinarsi: - per il primo esercizio, quando nell’atto costitutivo si stabilisce una durata diversa dall’anno solare; - in caso di modifica della durata dell’esercizio in sede di fusione o di scissione o di semplice modifica deliberata dall’assemblea straordinaria; - per l’ultimo esercizio, nel caso di liquidazione che si concluda in data diversa da quella statutariamente prevista o nel caso di chiusura dell’esercizio per operazioni straordinarie; c) come debba essere considerata la frazione dell’esercizio decorsa alla data di deposito dell’istanza di fallimento; d) quale sia il riferimento temporale nel caso di scioglimento e liquidazione della società; e) se possano insorgere divergenze interpretative nel caso di società di persone e di società di capitali; f) se, con riguardo all’indebitamento, debba farsi riferimento analogico a tre esercizi precedenti o ad un dato puntuale e se debbano essere computate le garanzie. E’ prevalente l’orientamento a considerare, di norma, i tre esercizi conclusisi antecedentemente al deposito dell’istanza di fallimento, in assonanza con la disposizione dell’art. 14 che pone a carico dell’imprenditore che chieda il proprio fallimento, di depositare “le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti.” Sorge il dubbio, tuttavia, se, nel caso di esercizio ultrannuale, o di frazione di esercizio, l’ammontare dell’attivo debba essere parametrato ad un periodo annuale e, quindi, se debba provvedersi ad una riclassificazione. Propenderei per una risposta negativa, sia per la lettera delle norma che, appunto, ha adottato il termine “esercizio”, sostituendolo anche per il riferimento ai ricavi lordi al 13
termine “anno”, sia per il fatto che la durata ultrannuale dell’esercizio si stabilisce in pochissimi casi, generalmente per brevi differenze temporali. 9 Nei casi di scioglimento e liquidazione, a mio avviso non mutano i parametri di riferimento dell’esercizio, se si considera che i liquidatori, ai sensi dell’art. 2490 c.c. “devono redigere il bilancio e presentarlo alle scadenze previste per il bilancio d’esercizio della società, per l’approvazione all’assemblea …..” Non vi sono differenze interpretative fra società di persone e società di capitali. Infatti, se per le società di capitali la durata e la scadenza dell’esercizio è regolata dalla legge e dai patti sociali, per le società di persone si fa sempre riferimento all’anno solare. 10 Deve chiarirsi, altresì, quale effetto abbia, in termini temporali per il calcolo dell’ammontare dell’attivo, il ritiro della prima istanza di fallimento; in altri termini, se nel caso di ritiro dell’istanza, cambi il riferimento temporale e si debba dovendosi computare il periodo di osservazione con riferimento alla data di deposito della seconda istanza e così via, nel caso si di successivi ritiri. Le interpretazioni sono diverse, come è stato constatato nel recentissimo convegno organizzato dal “Centro Studi di Diritto Fallimentare” di Bari, che si è svolto in tavole rotonde fra giudici delegati di diversi tribunali del centro – sud. Taluni hanno affermato – e la soluzione sembra condivisibile - che la prima istanza radica il procedimento, altri che il procedimento è governato dalle parti, per cui nel caso di desistenza, si deve ricominciare. 9 L’art. 76 del TUIR stabilisce che l’imposta è dovuta per periodi di imposta e che il periodo d’imposta è costituito dal esercizio… determinato dalla legge o dall’atto costitutivo. Se la durata dell’esercizio non è determinata dalla legge o dall’atto costitutivo, o è determinata in due o più anni, il periodo d’imposta è costituito dall’anno solare. 10 Le disposizioni fiscali confermano l’assunto. Infatti l’art. 7 del TUIR , applicabile alle persone fisiche, stabilisce che l’imposta è dovuta per anni solari. Per le società di capitali vedasi nota 9. 14
D.3) Cosa deve intendersi per “ricavi lordi” L’art. 1 lett. b) stabilisce, quale elemento concorrente per l’esonero dell’imprenditore commerciale dal fallimento, l’ “aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila.” La nozione di ricavo lordo in qualunque modo risultante è stata definita nel par. C.5). E’ stato sostituito il termine “anno” con quello di “esercizio” ed è stato modificato il criterio di calcolo; da “media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore ….” ad “ammontare complessivo annuo …..”. Riemerge il problema dell’esercizio ultrannuale o della frazione di esercizio che deve essere risolto secondo i medesimi criteri esposti in materia di accertamento dell’ammontare dell’attivo. Così come per l’attivo, deve farsi riferimento ai tre esercizi compiuti prima del deposito dell’istanza di fallimento, salvo rapporto a periodo annuale nel caso di frazione di esercizio trascorsa alla data di deposito dell’istanza di fallimento. D.4) L’accertamento dei “ricavi lordi” I ricavi lordi vanno accertati sulla base dei bilanci ordinari d’esercizio e per la frazione dell’esercizio in corso alla data di deposito dell’istanza di fallimento, sulla base della situazione ex art. 15 c. 4 che l’imprenditore dovrà depositare. Per le imprese non tenute al deposito del bilancio annuale, obbligate alla sola tenuta dei registri fiscali, i ricavi risulteranno dai documenti utilizzati per la predisposizione della dichiarazione annuale dei redditi. I ricavi extracontabili dovranno essere considerati se risultanti da documenti in possesso del tribunale perché acquisiti dall’Amministrazione Finanziaria o dalla Guardia di 15
Finanza in modo inequivocabile, escludendo, quindi, gli accertamenti induttivi o in base a studi di settore. D.5) Cosa deve intendersi per “debiti non scaduti”. Secondo il disposto della lett. c) del c. 2 del novellato art. 1), è esonerato dal fallimento il soggetto che, oltre a rientrare nei limiti di cui alle lett. a) e b), non abbia debiti, ancorché non scaduti, non superiori ad euro cinquecentomila. L’accertamento deve essere effettuato alla data della decisione del tribunale, non essendo previsti riferimenti temporali. Deve stabilirsi se fra i debiti non scaduti debbano essere considerate le garanzie. La interpretazione più prudente è in senso affermativo, ma è stato obiettato che nell’art. 2424 c.c. si fa separata menzione dei debiti 11 e in tutti i casi nei quali la legge ha voluto intendere le garanzie comprese nei debiti, lo ha fatto espressamente. D.6) L’onere della prova Novità fondamentale dell’art. 1 è l’aver stabilito a carico del debitore l’onere di provare il possesso congiunto dei parametri di cui all’art. 1 L.F. Si deduce che “il creditore deve dimostrare, sotto il profilo soggettivo, soltanto che il debitore è imprenditore commerciale; spetta poi a quest’ultimo dimostrare di possedere i requisiti che impediscono la declaratoria di fallimento, di modo che se questi non riesce a fornire la prova di possedere tutti e tre detti requisiti è soggetto al fallimento, il che vuol dire che il debitore imprenditore fallisce anche se rientra in uno solo dei tre parametri richiesti.” 12 D.7) Obbligatorietà della difesa 11 art. 2424 lett. D) “debiti con separata indicazione per ciascuna voce, degli importi esigibili oltre l’esercizio successivo”; c. 4: “in calce allo stato patrimoniale devono risultare le garanzie prestate direttamente o indirettamente, distinguendosi le fideiussioni, avalli, altre garanzie personali …..” 12 G. Bozza, cit. 16
Si discute se sia obbligatoria la difesa. Si propende per il si, argomentando che si verte in materia di decisioni che incidono su diritti soggettivi. Si dubita che la difesa sia necessaria ove l’attività si limiti al mero deposito di documenti e si propende per il no nel caso di istanza di proprio fallimento, trattandosi procedimento non contenzioso. D.8) Legittimazione al procedimento Si discute su chi sia legittimato a stare in giudizio per le società di capitali, ma non pare in dubbio che la legittimazione competa al rappresentante legale, salvo che non si sia in presenza do socio unico che assume responsabilità illimitata ai sensi degli artt. 2325 c. 2 e 2462 c. 2 c.c. In tale caso, così come nel caso di società di persone quando non consti il consenso di tutti i soci illimitatamente responsabili, dovrà essere disposta l’integrazione del contraddittorio. Gianluigi Gentili 17
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