Ricerca sulle ricette tipiche del territorio piemontese: un problema storico
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Regione Piemonte – Assessorato Agricoltura Università di Scienze Gastronomiche, Pollenzo Simone Cinotto Ricerca sulle ricette tipiche del territorio piemontese: un problema storico Ai piatti tipici del territorio quelli del Piemonte come delle altre regioni italiane piace pensare come ad eredità di un passato immemorabile; tradizioni immutabili nel tempo tramandateci dai nostri nonni e via via su per le generazioni. I piatti delle cucine locali, inoltre, sono oggi perlopiù immaginati non solo come i frutti di una cultura antica, ma anche povera, legata alla terra e alle sue fatiche quotidiane; preparati nelle case contadine da donne pazienti, piuttosto che da cuochi professionisti nelle corti nobiliari o nelle cucine dei ristoranti alla moda (dove hanno peraltro ora trovato ampia dimora). Le ragioni del significativo interesse e investimento nelle cucine tipiche come antiche tradizioni popolari (pensiamo al grande successo di iniziative editoriali che vanno dai “ricettari della memoria” ai libri accademici sull’argomento) sono facilmente comprensibili: i piatti tipici vengono non solo consumati, ma anche vissuti dalle popolazioni locali come forti elementi d’identità, particolarmente importanti e necessari in un’epoca di intensa globalizzazione e incontro di culture diverse. Nei paesi a economia postindustriale come l’Italia, le iniziative di valorizzazione del patrimonio economico, culturale e ambientale delle regioni, allo stesso modo, non possono prescindere dalla promozione delle specificità enogastronomiche del territorio di cui i piatti tipici sono i migliori rappresentanti. Senza dubbio, il valore identitario che le comunità locali attribuiscono alle rispettive cucine e ai loro piattisimbolo rende di per sé questi ultimi importanti prodotti culturali, degni di attenzione e di studio. I piatti delle tradizioni locali italiane rappresentano effettivamente molto spesso delle raffinate talvolta geniali combinazioni nate dall’ingegno di cuochi e cuoche che, costretti a far lavorare l’immaginazione e la fantasia da realtà di scarsità o vera propria fame, hanno trasformato ingredienti “poveri” in piatti gustosi e affascinanti. Infine, forse nulla come le ricette tipiche di cui si fregiano le comunità locali rappresenta anche simbolicamente la grande diversità ecologica, produttiva e culturale del territorio italiano, e di quello piemontese in particolare. E tuttavia, dal punto di vista storico le cose si complicano molto, e su almeno tre piani. (1) La difficoltà dell’individuazione del campo d’analisi. Che cosa significa “tipico”? E quindi, quanti e quali sono i piatti tipici della cucina piemontese di territorio? Com’è possibile selezionarli e identificarli? Quali sono i criteri d’inclusione ed esclusione di un piatto rispetto ad un altro? Chi sono le autorità preposte a designare un piatto come “tipico” e quali sono gli interessi e le relazioni di potere che sostengono una scelta piuttosto che un’altra? (2) Lo scarto tra realtà storica e mito. A differenza della memoria, che seleziona spicchi
di realtà anche a sé stanti, la storia è la discplina che studia fatti ed eventi che avvengono all’interno del mutamento dei contesti. Prima ancora di chiedersi quale dev’essere la storicità “certificabile” di un particolare piatto perchè gli si possa attribuire l’etichetta di tipico, occorre domandarsi se abbia senso immaginare una minima stabilità di una singola ricetta nel tempo, quando tutto il contesto produttivo, distributivo, sociale e tecnologico è radicalmente cambiato (pensiamo soltanto all’immensa differenza tra la cucina di una casa contadina di solo cinquant’anni fa e la moderna cucina di una casa borghese, o alle caratteristiche di un maiale allevato nella corte di una cascina nell’Ottocento e in un allevamento industriale contemporaneo). (3) Le fonti. La mancanza di fonti scritte tipica tanto delle tradizioni orali quanto della cucina e della gastronomia, con il loro carattere eminentemente intimo e privato, rende difficile, quando non impossibile, documentare una storia delle ricette tipiche univoca e metodologicamente sostenibile. La carenza documentaria sulle abitudini alimentari popolari del territorio piemontese rende il passato di quelle che oggi vengono rappresentate e vissute come ricette tipiche quel mondo dell’invenzione e del mito diffuso di cui si parlava ai punti precedenti. Il fatto è che le culture alimentari sono per loro natura flessibili, osmotiche e in continuo movimento, in quanto esposte a scambi tra alto e basso, interno ed esterno. Migrazioni, invasioni, commerci, innovazioni, contaminazioni e imitazioni tra ceti e culture diverse contribuiscono tutte ad un quadro di estrema malleabilità. I confini sono difficili da definire: in ogni casa, in ogni osteria e in ogni ricettario sottili variazioni delimiteranno ad ogni istante l’autentico dall’inautentico. Per questo motivo bisogna sgombrare il campo da un’idea di tipico come tradizionale, tramandato e fatto nello stesso modo da tempo immemorabile. L’esempio del Piemonte non è che uno tra i tanti che si potrebbero fare: con rare possibili eccezioni, tra cui il maiale (trasformato in vari salumi conservati in modi diversi secondo le caratteristiche climatiche e delle risorse a disposizione nelle varie aree della regione), poco di quanto viene pensato e rappresentato oggi come alimentare tipico del territorio piemontese, ha un radicamento che supera i cinque secoli. Il riso, elemento centrale della cucina vercellese, novarese e biellese, cominciò a essere coltivato nell’area solo alla fine del Cinquecento e la sua coltura non diventò estensiva che a Settecento inoltrato, tra mille polemiche sulla salubrità della sua coltivazione. Un destino molto simile occorse ai prodotti di origine americana come il granturco, la patata, i peperoni, i vari tipi di fagioli, e (in minor misura per il Piemonte) il pomodoro. Giunte in Europa già nel Cinquecento attraverso i colonizzatori spagnoli, queste piante cominciarono a essere accettate e utilizzate soprattutto come cibo ammazzafame dai contadini del nordovest italiano soltanto a partire dal Settecento inoltrato. Fu solo nell’Ottocento che la polenta di mais (un prodotto agricolo ad altissima resa) sostituì ovunque quella di altri cereali e, nelle aree alpine, spodestò le castagne nel ruolo di cibo di base quotidiano delle classi popolari. Lungo quel secolo, a causa dell’impoverimento delle campagne, si registrò quasi ovunque in Piemonte “la scomparsa di una vasta gamma di alimenti, quali il burro, il sale, i legumi, certi tipi di formaggio, sostituiti solo ed esclusivamente col mais” (Massimilano Franco, “Pane e polenta: l’alimentazione
popolare in Piemonte fra Ottocento e Novecento”, Bollettino StoricoBibliografico Subalpino, 100, 2002, p. 157). Un discorso a parte, ma ugualmente illuminante, si può fare per i diversi tipi di formaggio che rappresentano una caratteristica invidiabile della cucina piemontese. E’ vero che nel caso, ad esempio, del Castelmagno esistono delle fonti documentarie che ne attestano l’esistenza nel 1272. Ma la grande varietà delle tome, robiole, tomini eccetera che punteggiano il territorio piemontese si sono sviluppati da luogo a luogo in maniera dipendente dall’abilità e dall’inventiva del singolo casaro, dalla disponibilità dell’animale, del latte, del foraggio e dell’alpeggio, dalle trasformazioni del mercato e dal passaggio alla produzione industriale, assumendo costantemente nuove denominazioni, scomparendo da un territorio e riapparendovi in un altro. Come stabilire precise genealogie e localizzazioni? Dato questo quadro, siamo giunti alla conclusione che per identificare il tipico può essere meglio guardare agli autenticatori piuttosto che all’autentico; in altre parole, esaminare e studiare in modo seriale quelle fonti che, dall’alto della loro autoproclamata autorevolezza, hanno selezionato determinati prodotti e piatti, definendone così discorsivamente ed “egemonicamente” la tipicità tanto all’interno quanto, se non soprattutto, all’esterno delle varie aree territoriali e comunità del Piemonte. Per supportare con la ricerca storica la scelta che è stata fatta per questo Portale di proporre un piatto tipico per ognuna delle 75 aree territoriali del Piemonte – precedentemente identificate da un apposito studio geografico – abbiamo in realtà scelto un sistema misto. In una prima fase, abbiamo compiuto un’analisi, territorio per territorio, di quelle fonti scritte – ricettari, almanacchi, guide turistiche e atlanti eno gastronomici – pubblicate dall’inizio del Novecento a oggi, e delle loro segnalazioni di piatti tipici locali piemontesi. Questa massa documentale dà conto tanto di alcune fondamentali trasformazioni economiche e tecnologiche (l’espansione dell’industria della comunicazione stampata) e sociali (l’emergere del turismo come pratica sociale di massa), quanto della natura fondamentalmente recente dell’elaborazione dei piatti tipici regionali. Le scoperte più indicative dell’analisi seriale delle fonti scritte riguardo alle cucine tipiche del Piemonte sono, infatti, state: (1) la significativa crescita numerica dei piatti tipici piemontesi censiti e registrati dalle fonti tra il 1900 e il 2010 (un dato che sembrerebbe paradossalmente contraddire l’immagine di un impoverimento delle tradizioni culinarie locali; (2) l’inesistente linearità del panorama, caratterizzato da tutto un gioco di scomparse di piatti tipici nelle varie rilevazioni, seguite talvolta da riapparizioni, magari sotto altre spoglie (denominazioni) o in altri luoghi. In una seconda fase del lavoro, abbiamo consegnato a Slow Food l’insieme delle ricette di cui le fonti hanno teso lungo il tempo a caratterizzare il legame con ognuna delle 75 aree territoriali, perché le circolasse attraverso le sue Condotte (unità locali dell’Associazione) per una verifica “dal basso” del sentimento attuale delle comunità locali verso i piatti e la loro rappresentatività identitaria. Le 75 ricette selezionate e il loro abbinamento ai rispettivi territori sono il frutto di questo doppio lavoro di identificazione.
A nostro avviso, benché il nostro studio non possa ovviamente ambire a cristallizzare una dimensione – quella del tipico – che, come detto in premessa, è per sua natura in divenire e ideale più che oggettiva, il risultato finale è un quadro illustrativo molto significativo del panorama gastronomico locale del Piemonte e del suo divenire storico. Nota sulle fonti per la storia dei piatti tipici del territorio. In questo documento, focalizzato sulla problematicità storica delle ricette tipiche, una discussione finale meritano le fonti scritte a disposizione, e che sono state utilizzate per il nostro studio. Prenderemo il territorio di Vercelli come esempio delle traiettorie delineate dalle varie fonti per i piatti tipici identificazioni, selezioni, omissioni, scomparse e riapparizioni. Le dinamiche evidenziate, tuttavia, sono sostanzialmente valide per tutte le altre aree del territorio piemontese. (Rielaboro questa parte dall’introduzione del mio capitolo, “La cucina e i rapporti tra città e territorio, 18201960”, in Edoardo Tortarolo, a cura di, Storia di Vercelli, Torino, UTET, 2011). Come ha spiegato Piero Meldini, le cucine regionali italiane così come le conosciamo oggi si sono formate a partire dalla fine del Settecento in virtù dell’incrocio tra le nuove idee di gastronomia provenienti dalla Francia, che enfatizzavano una maggior riconoscibilità dei singoli ingredienti e che ne premiavano la freschezza e la naturalità all’interno di piatti seppur sempre molto elaborati, e l’emergere di un approccio borghese alla cucina, ispirato alla cucina professionale dei cuochi dei ristoranti (anch’essi una nuova istituzione borghese) e attento non solo al gusto ma anche alla razionalizzazione e all’economicità delle ricette (Piero Meldini, “L’emergere delle cucine regionali: l’Italia”, in Jean Louis Flandrin e Massimo Montanari, a cura di, Storia dell’alimentazione, Roma, Laterza, 1997, pp. 658664). Questo passaggio, registrato dal Pellegrino Artusi di La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (prima edizione 1891), portò per la prima volta alla rielaborazione, cittadina e tendenzialmente borghese, di alcune preparazioni della cucina festiva (per definizione eccezionale) delle classi subalterne contadine. Le cucine regionali italiane contemporanee sono quindi necessariamente un frutto ottocentesco, non solo perché prodotti fondamentali per la loro economia come il riso, il granoturco, la patata, il pomodoro, il peperone, il peperoncino e la stessa pasta secca non assunsero largo uso che verso la fine dell’Ottocento, ma perché la loro formalizzazione avvenne soprattutto nel contesto dello scambio di classe e di cittàcampagna segnato dall’emergere della nuova borghesia nazionale. Pochissimo si sapeva e pochissimo c’era da sapere prima di allora di una cucina popolare votata alla mera sopravvivenza e determinata dalla continua incombente paura della fame – donde l’enfasi nella dieta contadina sui cereali, conservabili nel lungo periodo, e l’ingegnosità delle tecniche di conservazione di carne e latte da cui nascevano i preziosi salumi e formaggi. La mappatura e la classificazione tassonomica dei piatti e dei prodotti tipici regionali “ottocenteschi” si sono quindi sviluppate nel Novecento, servendo via via all’agenda dei progetti di costruzione nazionale – in particolare quello fascista – votati alla promozione del folklore locale come momento partecipativo delle masse rurali e delle aree periferiche del paese ai destini nazionali; di promozione turistica dei territori nel dopoguerra del boom
economico; e infine di recupero e valorizzazione postindustriale delle tradizioni locali come contraltare alla globalizzazione alimentare, promossa da soggetti diversi, dalle amministrazioni pubbliche locali ai movimenti associativi come Slow Food. Il primo vero compendio delle cucine regionali italiane, secondo lo stesso Meldini, non è l’Artusi (che peraltro ignora praticamente il Piemonte per focalizzare l’attenzione su Toscana, Romagna e le città di Roma, Milano, Napoli e Bologna), ma il capitolo su “La cucina e la cantina italiana” contenuto nel viaggio gastronomico attraverso i cinque continenti del geografo Alberto Cougnet, Il ventre dei popoli: saggi di cucine etniche e nazionali (Torino, F.lli Bocca, 1905). Dopo aver illustrato piatti piemontesi, che sappiamo essere stati diffusi anche a Vercelli – “gli agnôlott al burro e formaggio (specie di ravioli o tortelli, composti di due foglietti di pasta, con carne tritata e verdura per ripieno), la fondua, che consiste in tuorla d’uova spappolate al tegame, con burro fresco e formaggio di groviera o fontina, con fettine sottilissime di tartufi bianchi sopra, [...] e le tenche en carpiônà (tinche allo scabeccio)” – Cougnet menziona specificatamente la città di Vercelli per i suoi biciôlan. Mentre la contemporanea presenza di agnolotti, fonduta e tinche in carpione sulle tavole borghesi di Torino e di Vercelli suggerisce la dimensione regionale della neoformata cucina piemontese – determinata, oltre che dalle risorse prime del territorio, da ragioni politiche e dall’influenza che la capitale del regno aveva sulle altre città – i bicciolani sono invece una specialità artigianale eminentemente locale, per quanto sappiamo opera di un singolo pasticcere, Carlo Provinciale. Nel suo laboratorio nel cortile della Torre dell’Angelo, nell’attuale Piazza Cavour, Provinciale cosse per primo i friabili biscotti mischiando al burro e alla farina spezie provenienti da lontane tratte orientali (chiodi di garofano, cannella di Ceylon e vaniglia), dando così esempio di una nascita del “tipico” in cui il “locale” è in effetti rappresentato da inventive pratiche produttive protoindustriali e poi industriali, molto più che dall’origine degli ingredienti. Dopo Cougnet, un primo sguardo più complessivo sulla cucina vercellese – sempre intesa come sintesi di città e territorio – giunse nel 1931 con la pubblicazione della prima edizione della Guida gastronomica d’Italia a cura del Touring Club Italiano. L’indagine del Touring costituì il primo compiuto sforzo istituzionale di “censire le risorse e le abitudini nutritive italiane, al fine di rifondare la conoscenza gastronomica dell’Italia”. La prospettiva adottata dai compilatori della Guida fu quella, decisiva nel tracciare una definizione contemporanea della tipicità, di “intendere la specialità in senso più topografico che tipologico” (Alberto Capatti, “Lingua, regioni e gastronomia dall’Unità alla Seconda guerra mondiale”, in Annali della storia d’Italia. Vol. XIII. L’alimentazione, Alberto Capatti, Alberto De Bernardi e Antonio Varni, a cura di, Torino, Einaudi, 1998, pp. 787788). L’idea della Guida nacque durante una riunione della sezione milanese del Rotary Club, cui partecipò il sottosegretario all’Agricoltura Arturo Marescalchi, e fu stimolata dal “favore schietto ed incontrastato” incontrato all’estero da un’appendice enogastronomica aggiunta alla Guida d’Italia per gli stranieri del 1923. La procedura di raccolta dei dati evidenziava l’ampiezza dello scopo e l’investimento di tempo e denaro: un
questionario fu inviato capillarmente ai soci del Touring, ad associazioni e consorzi, fino ai podestà e ai maestri elementari di 500 comuni sparsi per la penisola. Il criterio, utilizzato sia dagli informatori nel rispondere al formulario sia dai curatori nel processo di selezione del materiale pervenuto, fu dato dalla commerciabilità dei prodotti e dalla vendibilità delle ricette in un’ottica di promozione turistica – la guida si proponeva come strumento “di pratica informazione per chi percorre il nostro paese” – che aveva nei ristoranti e nelle trattorie locali il proprio principale terreno di operazione (Touring Club Italiano, Guida gastronomica d’Italia, Milano, 1931, p. 9.). I visitatori di Vercelli e del Vercellese dovevano quindi aspettarsi di incontrare, o meglio esser preparati a ricercare, “alcune pietanze tipiche, tra cui la panissa, risotto preparato con lardo e salame giovane e unito a fagioli [...]. In alcuni paesi della risaia (come a Olcenengo e a Pertengo) si fa anche un risotto, chiamato brodaie o brudèra, preparato con un soffritto di cipolla, burro e salame fresco a cui si mescola, quando è prossimo alla cottura, del sangue liquido di maiale; lo si serve con intingolo di carne e con molto formaggio grattugiato” (Ibid., p. 36). La catalogazione della panissa e della brudèra a opera del Touring e la loro conseguente ascesa ad attrazioni turistiche e commerciali contengono due risvolti. Il primo è una definizione di tipicità che discende dal legame con il territorio. Riso e maiale (e in particolare il salam d’la duja – il salame conservato sotto grasso in olle di terracotta e utilizzato nella preparazione della panissa) erano in effetti due prodotti assolutamente centrali tanto nell’economia locale quanto nella dieta della stragrande parte della popolazione, dalle famiglie dei contadini salariati a quelle dei braccianti senza terra. Il secondo fattore di tipicità che veniva stabilito dalla Guida gastronomica è legato alla già ricordata qualità di cibo festivo delle classi popolari rurali tra Ottocento e Novecento: la panissa era per loro il cibo della domenica, alternativo alla quotidiana polenta di meliga, in cui il frutto del lavoro di risaia veniva accompagnato dal pregiato elemento proteico del salame sotto grasso (grasso che dopo essere servito a conservare il salamino nell’olla di terracotta serviva ora come condimento e base di cottura per il risotto). La brudèra aveva tradizionalmente un carattere ancora più eccezionale di piatto preparato con il sangue non ancora rappreso del maiale appena ammazzato. Era il piatto di riso che accompagnava, una volta all’anno poco prima di Natale, l’uccisione e la macellazione del maiale, un rito attorno al quale ruotava l’intero calendario contadino. Al clima di festa e di celebrazione del lavoro collettivo che serviva alla trasformazione della carcassa del maiale in grasso e salami da utilizzare con parsimonia lungo tutto l’anno, la brudèra univa la necessità di cibarsi immediatamente delle parti dell’animale meno conservabili, tra cui il sangue. In sostanza, l’inclusione della panissa e della brudèra nella Guida del Touring funzionava come riconoscimento da parte di esponenti del ceto medio della consumabilità della civiltà contadina, della differenza culturale da essa espressa, e del territorio che la comprendeva, secondo la prospettiva antropologica classica della connessione irreplicabile ed esclusiva tra una cultura e il luogo di produzione della stessa. Nel 1969, quando il Touring diede vita alla nuova edizione della Guida gastronomica d’Italia, Vercelli e la sua provincia, come l’Italia intera, erano
naturalmente molto cambiate. Il passato contadino non era ancora del tutto alle spalle, ma era chiara a tutti l’irreversibilità della transizione socioculturale che il paese stava vivendo. Le ultime propaggini della fuga dalle campagne si accompagnavano ai primi sviluppi del turismo di massa. Le culture gastronomiche del passato non avevano ancora avuto il tempo di diventare storia, che già erano oggetto di precoci nostalgie, anche da parte di turisti e viaggiatori che non ne avevano memoria diretta. Lo comprese il presidente del Touring Carlo Galamini, che, in sede di premessa, indicò come la “più pressante finalità” dell’opera, quella, tutta moderna, “di ridestare l’interesse per certi prodotti e mangiari, elaborati da una secolare civiltà, che il deprecabile livellamento e standardizzazione della cucina ha messo al bando” (Felice Cunsolo, Guida gastronomica d’Italia, Milano, Touring club italiano, 1969, p. 6). Insieme a quest’approccio ideologico, teso al “recupero” di ciò che in buona parte era ancora vivo, se non vegeto, furono il nome dell’autore e il metodo di rilevazione a rendere la Guida del 1969 la prima opera specializzata a portare un insieme di piatti tipici vercellesi – dal primo al dolce – all’attenzione di un pubblico nazionale di lettori. L’incarico di compilare la Guida fu affidato, infatti, a Felice Cunsolo, un autore al cui attivo figuravano già un Dizionario del gourmet (Milano, Novedit, 1961), Arte e gastronomia della bassa novarese, pubblicato dall’Ente provinciale del turismo di Novara nel 1963, e La cucina in Piemonte (Milano, Novedit, 1964). Cunsolo percorse la penisola, “compiendo quattrocento sopralluoghi e intervistando circa duemila persone: cuochi, ristoratori, gastronomi, casalinghe, studiosi di folclore e storia locali”, e arricchendo poi la ricerca con altre centinaia di interviste per corrispondenza. La struttura basata sul locale come unità fondamentale, che già era stata costitutiva dell’edizione del 1931, fu mantenuta, raffinando la rete: ne venne fuori, proprio quando al centro del discorso pubblico c’erano la città e un’idea di sviluppo basato sull’industrializzazione, la rappresentazione di un’Italia dai mille comuni e dalle mille specialità “tradizionali”. A Vercelli città l’elenco era lungo: “Brôdera, machet, panissa, polenta concia, rane dorate, fritto misto, tinche in carpione, lepre in civet, erbj, bicciolani, tartufata. Vini della provincia tra cui il Gattinara, il Lessona, il Mottalciata e l’Erbaluce” (Cunsolo, Guida gastronomica d’Italia, cit., p. 53). Ai bicciolani e alle tinche in carpione di Cougnet e alla panissa e alla brudèra, menzionati nella prima edizione della Guida gastronomica, si erano aggiunti ben sette nuovi piatti, vini esclusi: il machet (polenta con latte e castagne), la polenta concia (con burro e formaggio fuso), le rane, il fritto misto di carni, rigaglie e semolino, la lepre in civet, l’erbj (un intingolo di asparagina selvatica, salame sotto grasso e pancetta, servita con la polenta) e la tartufata, una torta di pan di Spagna e crema Chantilly ricoperta di sottili foglie di cioccolato. Esemplarmente, le rane finivano in bella vista in questo menù tipico vercellese nel momento stesso in cui la meccanizzazione e l’uso dei prodotti chimici nella risaia, con la conseguente drammatica e repentina trasformazione ambientale, le cancellavano di fatto dal paesaggio. Il recedere del mondo contadino, idealizzato come brodo di coltura originario della gastronomia tipica, produceva paradossalmente la crescita esponenziale del meccanismo di tipicizzazione.
Dopo il 1969, le pubblicazioni sulla cucina vercellese si sono moltiplicate, focalizzandosi sempre più su quei piatti tipici che abbiamo visto essere un’elaborazione urbana di piatti festivi contadini. La deindustrializzazione della regione ha ulteriormente aggiunto argomenti alla nostalgia per una vicinanza alla terra che si colloca ormai a una generazione o più di distanza. La globalizzazione percepita come minaccia e perdita d’identità ha suggerito l’investimento in un “ritorno al locale” talvolta venato di localismo. Soprattutto, si è resa necessaria la riconversione dell’uso del territorio verso un nuovo modello adeguato a un’economia postindustriale, terziarizzata e informatizzata: non per nulla gli amministratori locali di ogni posizione politica hanno puntato sulla valorizzazione dei patrimoni enogastronomici. Ai libri di cucina locale pubblicati a Vercelli (per esempio: Francesco Pasino, Divagazioni gastronomiche vercellesi: le ricette dei poveri, Biella, Unione Biellese, s.d.; Domenico Roccia, Gastronomia vercellese, Vercelli, Accademia Italiana di cucina, 1972; Giacomo Grasso, Vercelli nel piatto, Vercelli, 2001), si sono aggiunti le guide al turismo enogastronomico e gli atlanti dei prodotti tipici, tutti intenti a scandagliare sempre più a fondo il retaggio rurale della gastronomia vercellese, senza più alcuna remora nell’esplorarne ogni livello sociale. Un esempio è l’inclusione tra i piatti tipici della ciburea, uno stufato di frattaglie d’oca con patate e verza, emblematico della cucina povera di fine Ottocentoinizio Novecento (zampe, testa e interiora dell’oca si potevano acquistare al mercato per pochi soldi). Allo stesso modo, i ristoranti raccomandati dalle guide alla città, come la guida del Touring nelle edizioni del 2000 e del 2002, ora ribattezzata Turismo gastronomico in Italia, sono quasi esclusivamente ristoranti specializzati nella cucina di territorio.
Bibliografia dei libri consultati AAVV Cucina ai piedi del Monte Bianco : ricerca sulla cucina di tradizione Pheljna – 1993 AAVV La cucina rustica ghemmese Associazione ProGhemme – 1985 AAVV Montagne : la cucina delle Valli Occitane : ricette & sorrisi Grandapress – 1997 AAVV Osterie e locali tipici. Piemonte: Langhe, Monferrato, Roero : storia e cultura di una grande cucina Fiore 2005 AAVV Piemonte : le autentiche ricette della tradizione, i prodotti tipici e i vini Boroli – 2007 Alberini, Massimo Piemontesi a tavola : itinerario gastronomico da Novara alle Alpi Longanesi 1967 Basteris, Fulvio Mac de pan : di solo pane : l'alimentazione povera nelle valli occitane cuneesi : ricette, testimonianze, proverbi Centro occitano di cultura "Detto Dalmastro" 1986 Belletti, Fiore Cucina del Canavese : i piatti della tradizione nelle ricette di un passato presente Prioli & Verlucca 2005 Bertolino, Giancarlo Alla ricerca della cucina alessandrina : percorsi e ricette Il Quadrante 1983 Bo, Giuseppe e Mario Pozzuolo Osterie ricette vercellesi: Iris e dintorni, Arti Grafiche Gallo 1993 Bottale, Michele I Novesi a tavola : 140 ricette di cucina [s.n.] – 1988 Bruni, Luigino La cucina alessandrina : colli monferrini, piana fluviale, preappennino ligure Provincia 2004 Bruni, Luigino La cucina alessandrina : colli monferrini, piana fluviale, preappennino ligure Provincia 2004 Burat, Tavo e Giorgio Lozia L’ancà da fé De Alessi – 1989 Caire, Francesco Cucina monferrina : ricette tradizionali in uso nel casalese Il portico – 1978 Cunsolo, Felice La cucina del Piemonte Novedit – 1964 Del Vecchio, Piero Ricette della tradizione valsusina Morra – 2000 Di Corato, Riccardo Le ricette e i vini della cucina piemontese tradizionale SEA – 1987 Eynard, Gisella Supa barbetta e altre storie... : la cucina delle valli valdesi Vivalda – 1999 Goria, Giovanni Alla scoperta del gusto : viaggio dentro la cucina astigiana Omnia – 2007 Goria, Giovanni [gastronomo] Cucina del Piemonte collinare e vignaiolo F. Muzzio – 2002 Grasso, Giacomo Vercelli nel piatto : breve storia del riso e della sua civilta con 35 ricette della cucina vercellese s.n.] 2006 Lo Iacono, Gisella Le mie ricette : appunti di cucina vercellese : riso e risotti La Sesia – 1999 Marinone, Renzo Curiosando in cucina : tradizioni cuneesi e ricette alla piemontese Gribaudo 1978 Musci, Domenico 100 anni di menu nelle valli di Lanzo e Canavese con ricette d'epoca GS editrice 2006 Novello, Mina Arsuma, Ratafia e Bramaterra : ricettario di cucina biellese Eventi & progetti 2006 Novello, Mina Grulle e mactabi : ricettario di cucina biellese Eventi & progetti – 2006 Novello, Mina Pulenta cunscia : ricettario di cucina biellese Eventi & Progetti – 2006 Novello, Mina Supa mituna : ricettario di cucina biellese Eventi & progetti – 2006 Portalupi, Maristella Cucina piemontese Mariotti – 1999 Sardo, Anna Il Quaderno delle ricette del Piemonte : Valli di Chisone, Pellice, Susa, Sesia, Canavese, Monferrato, Langhe, Verbano, Cunese, Alba, Asti, Biella, Novara, Torino, Vercelli Arsenale 2008 Sardo, Anna e Francesca Colombo, Il quaderno delle ricette del Piemonte Arsenale Editore 2008 Schena, Elma La cucina di "Madonna Lesina" : ricette tradizionali delle valli cuneesi L'Arciere 1994 Slow Food Ricette di Osterie d’Italia : Cucina regionale: 630 piatti della tradizione Slow Food Editore – 2001 Slow Food Ricette di osterie di Cuneo e delle sue valli Slow Food Editore 1999
Slow Food Ricette di Osterie di Langa Slow Food Editore – 1992 Slow Food Ricette di osterie e ristoranti del Monferrato Slow Food Editore – 1997 Tibone, Maria Luisa Cucina e tradizioni in Valle di Susa Omega – 1997 Ricettari storici Chapusot, Francesco La cucina sana, economica ed elegante Tip. Favale 1846 Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi Carlo Giuseppe Ricca 1766 La cuciniera piemontese che insegna con facil metodo le migliori maniere di acconciare le vivande F.lli Reycend 1831 Vialardi, Giovanni Trattato di cucina, pasticceria moderna Tip. Favale 1854
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