Rapporto sulle strategie nazionali per i futuri sistemi pensionistici (ITALIA 2002) - Attenzione pagina non disponibile

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Rapporto sulle strategie nazionali per i futuri sistemi
                   pensionistici (ITALIA 2002)
                                             (ottobre 2002)

                                            Introduzione
I problemi dell’invecchiamento della popolazione e le conseguenze che ne derivano investono tutti i
paesi europei. Le necessarie risposte – pur nell’ambito di una comune strategia – devono essere
adeguatamente calibrate sulle differenti specificità nazionali, tenendo anche conto del fatto che i
sistemi pensionistici nazionali discendono dalle tradizioni e dagli assetti che ciascun paese ha
voluto dare al proprio modello di protezione sociale. Muovendosi in tale direzione, nel pieno
rispetto del principio di sussidiarietà e delle prerogative nazionali in materia, nei Consigli di
Stoccolma e Goteborg i paesi dell’Unione Europea hanno concordato sull’opportunità di utilizzare
il metodo del coordinamento aperto, delineato nel Consiglio di Lisbona, al fine di mettere a
confronto le risposte date da ciascun paese al problema dell’invecchiamento e qualificare le relative
politiche sociali. In ragione della la natura intrinsecamente prospettica della materia previdenziale e
degli interventi che ciascun Governo ritiene e/o riterrà di adottare, nel Consiglio di Laeken i paesi
dell’Unione hanno convenuto di presentare un Rapporto sulle strategie nazionali per i futuri sistemi
pensionistici, sulla base di obiettivi e metodi di lavoro comuni. Il presente Rapporto è stato redatto
al fine di descrivere la situazione italiana, nella sua realtà immediata ed in quella di prospettiva. Nel
Rapporto sono richiamate le principali questioni presenti nella realtà italiana e gli indirizzi strategici
delle linee di riforma poste e da porre in essere. Del presente Rapporto, che ha tenuto conto delle
indicazioni dei Comitati di Politica Economica e di Protezione Sociale, sono parte integrante
l’Appendice normativa e l’Appendice statistica. Quest’ultima, in particolare, oltre a riunire
informazioni sistematicamente prodotte nell’ambito dell’attività di monitoraggio della spesa (che in
Italia viene condotta con regolarità, anche con riguardo ai profili evolutivi), propone una serie di
indicatori statistici, in gran parte inediti, che potranno agevolare il confronto europeo.
In sintonia con le indicazioni dell’Unione europea, è intenzione del Governo italiano di continuare
nella modernizzazione del sistema previdenziale, tenendo presente, da un lato, l’esigenza di
garantire la sua sostenibilità finanziaria ed economica, in relazione al mutato quadro demografico e
ai più generali riflessi che i processi di invecchiamento inducono sui conti pubblici; dall’altro di
preservare o acquisire l’adeguatezza dei sistemi stessi nel perseguimento di quegli obiettivi sociali
che storicamente sono la ragion d’essere dei sistemi previdenziali e di welfare europei.
Chiave di congiunzione di questi obiettivi è l’innalzamento del tasso d’occupazione. Questo facilita
sia il perseguimento delle condizioni di sostenibilità finanziaria, sia il conseguimento di trattamenti
più elevati, risultando altresì, specie se declinato con riferimento all’occupazione dei più anziani,
funzionale all’ottenimento di quella piena partecipazione alla vita sociale ed economica da parte dei
più anziani che pure concorre a determinare il criterio dell’adeguatezza. Il tasso di attività degli
anziani, (anche come espressione di un invecchiamento attivo) è , infatti, uno dei parametri
fondamentali della sfida sulle politiche occupazionali, non solo relativamente ad una più lunga
permanenza nel mercato del lavoro, ma anche con riguardo al rinvio delle pensione. Così, il
Consiglio dei Capi di Stato e di Governo di Stoccolma ha indicato l’obiettivo dell’innalzamento
sino al 50%, nella media dell’Unione, del tasso d’occupazione dei 55-64enni ed il Consiglio di
Barcellona ha coerentemente proposto - sempre nel contesto e secondo le scadenze al 2010
programmate per i traguardi della maggiore occupazione - di innalzare l’età effettiva di
pensionamento di 5 anni (nella media dell’Unione). Vi è un evidente nesso tra sostenibilità e
modernizzazione del sistema pensionistico, andamento dell’economia e livello dell’occupazione.
Un elevato livello di occupazione consente di spalmare i costi del welfare su una platea più ampia
di persone; d’altra parte oneri contributivi contenuti possono favorire la crescita dell’occupazione.
Di qui l’importanza di politiche del lavoro e dello sviluppo appropriate ma anche la centralità delle
riforme strutturali che il Governo italiano sta portando avanti in Parlamento. I modelli di solidarietà
“pesante”, ereditati dal passato, sono spesso inadeguati a far fronte alla gerarchia odierna dei
bisogni e a garantire l’esercizio dei nuovi diritti sociali - ecco emergere il criterio della
modernizzazione - ed al tempo spesso sono scarsamente “proactive”, nel senso che non
favoriscono, ma sono di ostacolo alla crescita dell’occupazione. Già nel 1993 il Rapporto Delors
notava che “il livello elevato degli oneri sociali si pone come ostacolo all’occupazione ed esercita
un effetto dissuasivo, incoraggiando la sostituzione del capitale al lavoro e favorendo l’economia
parallela, incidendo particolarmente sull’occupazione delle piccole e medie industrie e, infine,
incentivando la delocalizzazione degli investimenti e delle attività”. Vi è poi da tener segnatamente
conto dei disincentivi all’occupazione regolare dei più anziani e di quelli alla mobilità del lavoro
che possono derivare dalle regole dei sistemi previdenziali che favoriscano il pensionamento
anticipato o inibiscano la mobilità, specie a fine carriera. Riadeguare tali regole rispetto ad un
mercato del lavoro in via di mutamento e migliorare la mobilizzazione delle risorse finanziarie
accantonate a fini previdenziali è insito negli obiettivi di modernizzazione del sistema
previdenziale.
Per un paese come l’Italia, particolare importanza ha però anche l’esigenza di rafforzare, nel quadro
d’un mercato del lavoro in via di mutamento e che si intende rendere sempre più flessibile e
dinamico, le forme di tutela nel mercato dei lavoratori più deboli e meno fortunati, a tal fine
eventualmente dirottando, in maniera progressiva, anche risorse impiegate dal sistema previdenziale
che, impropriamente ed in modo spesso distorsivo, è stato adoperato per supplire alle carenze del
sistema di welfare. Nuove priorità da finanziare nel campo delle politiche sociali emergono peraltro
pure con riferimento specifico al segmento dei più anziani. Anche se oggi la condizione anziana non
appare, in generale, come uno dei fattori prevalenti del rischio di povertà, questo essendo
concentrato in altri segmenti di popolazione, vi sono specifici settori di popolazione anziana -
principalmente nel Mezzogiorno e tra i soggetti non autosufficienti o anche semplicemente soli - ad
alto rischio di emarginazione. In prospettiva, il prolungamento della speranza di vita e le modifiche
nelle strutture familiari comporteranno una maggiore incidenza di soggetti molto anziani non
autosufficienti.
 La natura intrinsecamente prospettica e di lungo periodo dei sistemi previdenziali richiede di tener
conto non solo della situazione corrente ma anche delle tendenze, demografiche ed economiche, di
più lunga lena. Tale natura - ovvero il fatto che gli stessi impattino sulle scelte di lavoro e di
risparmio degli individui nell’intero loro arco di vita - suggerisce di predisporre per tempo le
misure di riforma necessari, coniugando prontezza degli interventi e gradualità del loro dispiegarsi,
evitando interventi che siano ondivaghi, che non diano tempo agli individui di adattare i propri
comportamenti o che pongano a carico solo di alcune generazioni - quelle presenti o, come più
spesso accade, quelle future - l’onere degli interventi medesimi.
Da questo punto di vista, va riconosciuto che nel corso degli anni ’90, il sistema pensionistico
italiano (tanto quello obbligatorio quanto quello privato) è stato sottoposto a interventi di riordino
alquanto incisivi1. Le riforme hanno seguito indirizzi di omogeneizzazione delle regole, di
superamento dei privilegi (a cominciare da quelli più abnormi), di riequilibrio graduale del sistema,
anche attraverso l’avvio di un disegno di “ripartizione del rischio” tra regimi obbligatori riformati,
finanziati a ripartizione ed al cui interno è meglio enucleabile una componente solidaristica, e un

1
 Si ricordano in particolare: l’articolo 3 della legge n.421/1992; il dlgs n. 503/1992; l’articolo 11 della legge n.
537/1993; il Capo II della legge n. 724/1994; la legge n. 335/1995 - con relativi provvedimenti attuativi; la legge
n.662/1996; la legge n. 449/1997.
modello privato, collettivo e individuale, a capitalizzazione ed in grado di mobilizzare
efficacemente le risorse finanziarie accantonate a fini previdenziali, affidato a forme di previdenza
complementare (fondi pensioni e altro). Da ultimo, grazie a misure di miglioramento delle
prestazioni più basse, sono stati rafforzati, mediate il finanziamento da parte della fiscalità generale,
i profili redistributivi del sistema stesso.
 Le riforme realizzate hanno consentito di evitare il collasso del sistema (a legislazione invariata la
spesa pensionistica sarebbe salita al 23,27% del Pil nel 2040 (cfr. Ministero del Tesoro –
Documento sulla convergenza, gennaio 1998), mentre ora è atteso un picco del 16% nel 2033 (per
effetto dei sottostanti andamenti demografici), con una successiva discesa – a regime - poco al di
sotto del 14% del Pil. Sia pure con qualche squilibrio interno, che non altera l’importanza del
risultato, i risparmi a suo tempo preventivati sono stati puntualmente conseguiti come già certificato
dal rapporto della Commissione per la valutazione degli effetti della legge n. 335/1995 presieduta
dal Sottosegretario Alberto Brambilla a tal fine istituita lo scorso anno. Il valore cumulato di tali
risparmi, nel periodo 1996-2000, ammonta a 54.805 miliardi di lire (corrispondenti a 28,30 miliardi
di euro), grazie anche agli effetti derivanti dai provvedimenti correttivi e rafforzativi, attuati nel
1997. Le indicazioni della sottostante tabella danno conto dei progressi realizzati nel decennio
trascorso, evidenziando il contenimento della evoluzione della spesa negli anni seguenti alle riforme
ed indicando altresì le dinamiche attese nel prossimo futuro.

La spesa pensionistica complessiva e al netto della inflazione (media delle variazioni annue,
valori in %)

                  1990-2001     1990-1992      1993-1997      1998-2001    2002-2006    2007-2011
Totale            7,3 (3.6)     12,2 (6,1)     7,3 (3,8)      3,4 (1,6)    4,0 (2,1)    3,7 (2,2)
Dip. Priv.        6,5 (2,9)     11,1 (5,1)     6,5 (3,0)      3,0 (1,1)    3,8 (1,9)    3,4 (1,9)
Dip. Pubbl.       9,2 (5,6)     16,3 (10,2)    8,8 (5,3)      4,4 (2,5)    4,0 (2,1)    4,2 (2,7)
Lav. Aut.         7,7 (4,1)     10,7 (4,6)     9,0 (5,5)      3,8 (2,0)    4,6 (2,6)    4,2 (2,7)
Di cui:
Artigiani    e 11,1 (7,5)     14,0 (7,9)     12,7 (9,2)       6,8 (4,9)    6,8 (4,8)    5,9 (4,4)
commercianti
Altro(*)        9,4 (5,8)     16,4 (10,3) 10,2 (6.7)          3,2 (1,3)    5,8 (3,9)    3,7 (2,2)
(*) comprende casse professionali e Fondi integrativi
N.B. le percentuali tra parentesi riguardano la spesa al netto dell’inflazione.
Fonte: Nucleo di valutazione della spesa previdenziale, Rapporto 2002.

Nonostante tutto ciò, le vicende della spesa pensionistica continuano ad intrecciarsi pesantemente
con gli andamenti della finanza pubblica nel suo complesso: basti dire che nel 2001 il divario tra
prestazioni previdenziali in senso stretto ed entrate contributive si è cifrato nello 0,8% del Pil,
mentre un altro 2,2% del Pil corrisponde a quei trattamenti ed oneri, classificati come assistenziali
ai sensi della normativa vigente, posti direttamente a carico della fiscalità generale, ma che
confluiscono nella spesa pensionistica. Vero è che negli anni a venire, la stabilizzazione della spesa
pensionistica sui livelli correnti, in quota del Pil, richiederà - nelle stime del Nucleo di valutazione
della spesa pensionistica (NVSP) – una crescita economica intorno al 2-2,2% medio annuo: un
trend certamente possibile e coerente con le valutazioni di crescita potenziale attribuite all’Italia in
sede europea. Però, molto rimane da fare, in prospettiva, per rispondere alla sfida posta dai processi
dell’invecchiamento demografico. Come ricordato nel seguito di questo Rapporto, l’aumento della
speranza di vita, sia alla nascita sia al pensionamento, indurrà, in un contesto di diminuzione della
popolazione totale, una forte accelerazione dell’indice di dipendenza: il rapporto tra anziani e
popolazione in età lavorativa, di poco superiore a 1/4 nel 2000, si avvicinerebbe a 2/3 a metà del
secolo.
La fase di transizione prevista dalle vigenti normative è per molti aspetti piuttosto lunga. Il
mantenimento, in larga misura, dei livelli di generosità del passato per le generazioni più vicine alla
pensione se, da un lato, recepisce quelle esigenze di gradualità che indubbiamente devono essere
tenute in conto nel programmare modifiche al regime previdenziale, dall’altro, rischia di indurre
problemi di equità intergenerazionale ed incide sul controllo della spesa. In prospettiva, la spesa per
pensioni, assorbendo quasi i 2/3 dell’intera spesa sociale, difficilmente potrà rimanere estranea agli
obiettivi di rimodulazione di questa a favore di nuovi obiettivi sociali e ad interventi di riduzione
della pressione fiscale e contributiva finalizzati a dare maggiore impulso alla crescita economica e
all’occupazione.
Soprattutto rimane ancora da sviluppare adeguatamente il pilastro integrativo del sistema
previdenziale, che interessa attualmente solo una frazione importante ma limitata della forza lavoro
e che invece, in prospettiva, dovrebbe contribuire significativamente al sostegno dei livelli
reddituali dei pensionati.
 L’obiettivo dell’adeguatezza dei trattamenti pensionistici non è però perseguibile unicamente
sviluppando il pilastro della previdenza complementare. In un’ottica di lungo periodo, i rendimenti
che da questa potranno provenire sono senz’altro significativi – i risultati negativi degli ultimi anni
non essendo in quanto tali indicativi – ma sarebbe imprudente ipotizzare rendimenti tali da far venir
meno l’esigenza d’un primo pilastro pubblico a ripartizione (specie alla luce dei problemi di
finanziamento della transizione che, come noto, inevitabilmente si verrebbero altrimenti a porre).
La delineazione d’un sistema misto – a ripartizione e a capitalizzazione – viene perciò ribadita
come opzione strategica fondamentale atta a coniugare i diversi obiettivi del sistema nel suo
complesso e diversificare i rischi impliciti nei singoli regimi.
Al tempo stesso, sia per perseguire gli obiettivi di adeguatezza dei trattamenti erogati dal sistema
previdenziale e sia per contenere entro termini ragionevoli il volume di risorse che, al fine di
finanziare il sistema nel suo complesso, gravano sull’economia, appare essenziale favorire un
prolungamento della vita lavorativa effettiva e, più in generale, un innalzamento dei livelli
occupazionali. Tenuto conto degli assetti normativi vigenti, che prevedono un graduale passaggio,
per il sistema pensionistico pubblico, dal c.d. sistema di computo retributivo al sistema c.d.
contributivo (cfr. Appendice normativa), tale prolungamento garantirebbe soprattutto gli obiettivi di
sostenibilità nei primi decenni a venire, quelli di adeguatezza dei trattamenti in quelli successivi,
periodo in cui, essendo ormai a regime il sistema contributivo coi suoi meccanismi di
autoregolazione finanziaria, i trattamenti unitari in liquidazione saranno funzione crescente del
periodo di lavoro pregresso e decrescente della vita attesa residua all’atto del pensionamento.
Taluni interventi regolativi, inerenti ai requisiti anagrafici e di anzianità contributiva dell’età di
pensionamento – vigente il sistema c.d. retributivo per le generazioni più prossime all’età del
pensionamento - già oggi sembrano aver avviato una prima timida inversione di tendenza rispetto
alla fuoriuscita precoce dal mercato del lavoro. Rafforzare tali tendenze - introducendo incentivi e
altre misure efficaci ed orientando più in generale le politiche del lavoro a favore dell’occupazione
dei più anziani - è tra le priorità del momento. Particolare attenzione in proposito merita il
fenomeno del lavoro sommerso assai frequente nel caso dei pensionati. Alla base di tali
comportamenti stanno diversi motivi, non ultima una disciplina limitativa del cumulo tra pensione e
reddito. Negli anni scorsi, al fine di contenere il ricorso al pensionamento anticipato, i Governi
hanno introdotto regole limitative della possibilità di cumulo tra la prestazione pensionistica e le
forme di reddito percepite svolgendo un’attività da pensionati. Tali limiti sono venuti man mano
affievolendosi, tanto che se ne prevede (nel Dpef) il graduale superamento nell’ambito di una
manovra più complessiva rivolta a promuovere la permanenza al lavoro.
In sintesi gli orientamenti strategici atti a fronteggiare i problemi esistenti e prospettici del sistema
pensionistico per le loro ricadute sul sistema economico complessivo e sulle condizioni di vita degli
anziani sono i seguenti:
     •   politiche di sviluppo economico ed occupazionale da perseguire anche riducendo il
         carico fiscale e contributivo;
     •   politiche che facilitino la permanenza degli anziani nel mercato del lavoro regolare,
         anche attraverso la lotta al lavoro sommerso;
     •   politiche che consentano un accelerato sviluppo del secondo pilastro anche in
         riferimento alle scelte dei rinnovi contrattuali ed alla possibilità di effettuare accumuli
         di risorse da destinare alla previdenza integrativa;
     •   politiche che, nell’ambito d’un riordino complessivo del sistema di welfare, affrontino i
         rischi di povertà specifici della popolazione anziana nonché migliorino la qualità della
         vita e qualifichino la protezione delle nuove emergenze. Su questo piano è
         indispensabile affermare un rapporto funzionale ed integrato tra il pubblico e il
         privato, tra istituzioni e famiglia;
     •   politiche fiscali che tutelino prioritariamente i redditi più bassi.

Il Governo intende promuovere ulteriori interventi riformatori, mediante un ampio confronto
con le parti sociali e senza l’assillo dell’emergenza, nella consapevolezza che si tratta di
completare e consolidare un processo già in gran parte avviato e che ha già conseguito
importanti obiettivi.
Il Governo in materia di pensioni ha presentato un disegno di legge delega che si concentra
soprattutto sull’obiettivo di rafforzare gli incentivi al prolungamento dell’attività lavorativa e
facilitare l’effettivo decollo della previdenza integrativa. Al tempo stesso, è ribadito l’impegno a
contrastare il lavoro sommerso. Il Patto per l’Italia, di recente firmato dal Governo e da tutte
(tranne una) le principali organizzazioni sociali, ha delineato un percorso di riforma delle
politiche pubbliche e del lavoro lungo le linee indicate.

Le iniziative del Governo

- Nella legge finanziaria per il 2002 sono state ulteriormente migliorate (fino a 516,4 euro
mensili per 13 mensilità) le pensioni più basse
- Disegno di legge delega in materia di mercato del lavoro
- Disegno di legge delega in materia previdenziale
- Disegno di legge delega in materia fiscale
- Predisposizione d’un Libro bianco sulle politiche sociali sul quale è aperto un confronto con
le parti sociali
- Progetto per l’istituzione di un Fondo per l’assistenza delle persone non autosufficienti
Il Governo è altresì impegnato a dare attuazione al Patto per l’Italia in ogni suo aspetto.
__
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A - Adeguatezza delle pensioni

Gli Stati membri dovranno salvaguardare la capacità dei regimi pensionistici di realizzare i
loro obiettivi sociali. A tal fine, nei loro contesti nazionali specifici, essi dovranno:

Obiettivo 1 - Far sì che la terza età non sia esposta a rischio di povertà e possa godere di un livello
di vita decoroso; che possa partecipare al benessere economico del suo paese e partecipare di
conseguenza attivamente alla vita pubblica, sociale e culturale.
Nel sistema pensionistico italiano sono già previsti alcuni istituti (pensioni e assegni sociali agli
anziani privi di reddito, integrazioni al minimo di pensione, assegni al nucleo familiare, indennità di
accompagnamento per coloro che sono non autosufficienti) rivolti a finalità di protezione sociale
delle condizioni più disagiate degli anziani, mediante l’erogazione di trasferimenti monetari. Il
potenziamento di tali strumenti è stato di recente realizzato dall’attuale Governo, che ha disposto
l’innalzamento a 516,4 euro mensili (per 13 mensilità e quindi per un importo annuo pari a 6.714
euro) dei trattamenti inferiori a tale soglia, intervenendo prioritariamente a favore dei soggetti più
anziani e sprovvisti di altri redditi nonché degli invalidi civili. Non si dispone al momento attuale
d’una quantificazione precisa degli effetti di riduzione della povertà tra gli anziani delle misure in
esame2. E’ peraltro da rilevare una favorevole tendenza della povertà negli ultimi anni in
concomitanza con alcuni interventi di natura similare, ma meno intensi, già posti in essere negli
anni precedenti (cfr. in particolare la tavola 1.1a dell’Appendice Statistica, d’ora in poi AS).
Le condizioni di vita degli anziani non dipendono peraltro unicamente dai trattamenti pensionistici
e dal loro importo. Altre fonti di reddito, da lavoro e da capitale, nonché il regime fiscale, possono e
devono fornire un contributo rilevante. Più in generale, sulle condizioni di vita influiscono le
strutture familiari, la disponibilità o meno d’una abitazione di proprietà, l’intervento di servizi
efficienti, lo stato di salute e le opportunità concrete di partecipazione alla vita economica, sociale e
culturale. Per tener conto di questa multidimensionalità della questione, l’AS riporta indicatori
relativi al rischio di povertà fra gli anziani, in senso economico e misurato sulla base dei redditi e
dei consumi (familiari complessivi), nonché all’effettiva partecipazione alla vita sociale e culturale
da parte degli anziani ed alle loro condizioni di salute (anche con riguardo agli aspetti qualitativi
dell’assistenza).
Considerando il rischio di povertà in senso economico, emergono talune differenze a seconda della
variabile e della fonte considerate: i redditi - per i quali il quadro disponibile dalla fonte comunitaria
è però datato e presumibilmente affetto, specie nel caso dei soggetti meno anziani, da fenomeni di
sottostima ai due estremi della distribuzione dei redditi, quindi con una plausibile sovrastima
dell’incidenza della povertà – ed i consumi – nel cui caso il dato nazionale è più aggiornato. Tra gli
anziani – intesi, qui e nel seguito, ove non altrimenti specificato, come gli individui con 65 anni e
più – il rischio di povertà è intorno al 15-16% (tab. 1).

Tab. 1 Rischio di povertà per persone con 65 anni o più - Per sesso e tipologia familiare –
Variabili di riferimento: reddito e consumi – Anno: 1997 e 2001
                                        Redditi                                       Consumi

2
  Comunque si consideri che, al 1° gennaio 2001, il numero delle maggiorazioni sociali corrisposte (su pensioni
integrate e non integrate) era, nel sistema Inps, complessivamente pari a 440.735, mentre al 1° gennaio 2002 (per gli
effetti degli interventi sulla maggiorazione sociale) il numero è salito nel complesso a 1.047.792 (si è trattato della
prima tranche dei miglioramenti previsti che nel complesso prevedono il coinvolgimento di 1,8 milioni di pensionati,
inclusi i percettori di pensioni in regime internazionale).
1997                            1997                            2001

RIPART.
TERRITORIALE
Nord                                        10.0                            10.2                            7.8
Centro                                      17.7                            9.1                             11.8
Sud                                         24.9                            29.3                            30.3

Totale anziani                              15.9                            16.0                            15.8
Totale popolazione                          19.7                            13.0                            13.6
Fonte: ISTAT, ECHP, UDB 1-5, per i dati sui redditi, Indagine sui Consumi delle Famiglie per i
dati sui consumi.

Molti anziani si addensano peraltro proprio intorno alla soglia di povertà (cfr. tab. 1.2 dell’AS) e
solo alcuni di essi sono in condizioni di povertà intensa, per cui la condizione anziana in quanto tale
non pare elemento essenziale nel determinare un alto rischio di povertà. Sembrerebbe così
confermarsi il dato - più volte rimarcato del resto nelle analisi della Commissione nazionale
d’indagine sull’esclusione sociale e posto in risalto nel Piano Nazionale d’azione sull’inclusione
sociale presentato lo scorso anno dall’Italia – che evidenzia la presenza di situazioni di povertà in
altri segmenti della popolazione, in forme e misure più critiche di quelle riscontrate in generale tra
gli anziani. In particolare si sottolinea il concentrarsi del rischio di povertà - da ricollegare anche
alla limitata dimensione e rilevanza in Italia delle politiche di sostegno alle famiglie e di contrasto
alla povertà tra i soggetti in età attiva – tra le famiglie numerose, con minori o monoparentali (cfr.
tab. 1.1c dell’AS).
E’ anche da questa considerazione che deriva l’indirizzo strategico, già richiamato
nell’Introduzione e che sarà meglio precisato in un Libro Bianco sulle politiche sociali, a favore di
un riequilibrio del sistema di welfare nel suo complesso.
Pur se la condizione di anziano in quanto tale non sembra configurarsi come una determinante
fondamentale del rischio di povertà, questo appare piuttosto elevato in alcuni segmenti specifici
della popolazione anziana. In particolare sono da sottolineare le dimensioni legate alla condizione di
non autosufficienza ed alla ripartizione geografica, con riguardo alle aree più svantaggiate del
Paese. Se si considera la condizione di povertà assoluta3, si evidenzia come il fenomeno sia
trascurabile nel Nord e nel Centro del paese (con un’incidenza rispettivamente inferiore al 2% e
prossima al 3%, tanto tra gli anziani che nel resto della popolazione), mentre assume una sua
rilevanza nel Mezzogiorno, dove più di un anziano su dieci versa in tali condizioni; preoccupanti in
quest’area sono le condizioni degli ultrasettantacinquenni, per i quali l’incidenza della povertà
assoluta supera il 16%4.
L’AS considera anche talune dimensioni non economiche delle condizioni di vita degli anziani,
soffermandosi in particolare sulle condizioni di salute e su vari aspetti della partecipazione alla vita
sociale e culturale. Condizioni di salute e condizioni reddituali appaiono fortemente correlate le
une alle altre. In generale, gli anziani appaiono avere una maggiore incidenza dei casi di invalidità e
multicronicità, un dato che è peraltro di per sé abbastanza ovvio e paradossalmente legato proprio a
quel prolungamento della vita attesa residua. Anche prospetticamente, questo segnala come gli

3
  Cfr. tab. 1.2 dell’AS per maggiori dettagli. La soglia della linea di povertà assoluta è definita sulla base di un paniere
predefinito di consumi valutato a prezzi costanti, anziché sulla base di una data % della media (o della mediana) come
per la condizione di povertà relativa a cui si è fatto sinora riferimento.
4
  Tanto le misure di povertà assoluta quanto quelle di povertà relativa non tengono peraltro conto del differenziale di
prezzi al consumo che in una certa misura sussiste tra ripartizioni geografiche e tra grandi e piccoli centri.
interventi a favore dei soggetti non autosufficienti necessariamente richiederanno un volume
crescente di risorse specificamente dedicate; risorse che, come anticipato nell’Introduzione,
dovranno presumibilmente provenire anche da una riallocazione della spesa previdenziale e sociale
nel suo complesso.
Quanto alla partecipazione alla vita sociale e culturale, marcato è il gap a sfavore degli anziani. In
parte è plausibile che il fenomeno sia da connettere al differenziale nei livelli educativi tra
generazioni, al momento particolarmente marcato in Italia per via del ritardo con cui, rispetto ad
altri paesi Europei, si è assistito allo sviluppo della scolarizzazione di massa. Tale componente del
gap dovrebbe perciò naturalmente tendere ad attenuarsi. In senso opposto dovrebbero però operare
le tendenze del progresso tecnico: il mutamento di paradigma tecnologico in atto – con lo sviluppo
delle tecnologie dell’informazione – rischia di lasciare indietro gli individui meno giovani (e meno
scolarizzati) se non vengono poste in essere opportune politiche miranti allo sviluppo dei processi di
life long learning. Un indizio significativo e preoccupante, da questo punto di vista, è
nell’amplissima dimensione del gap relativo all’uso del personal computer e di internet: solo l’1,6 e
l’1,2% degli anziani ricorrono a tali strumenti, a fronte di valori, rispettivamente, del 20,4 e del
15,7% tra i 45-54enni.

E’ intenzione del Governo rafforzare ulteriormente gli interventi di contrasto alla povertà tra i
più anziani, identificando quelle che appaiono essere, anche prospetticamente, le aree e le
questioni critiche. Tale rafforzamento deve peraltro tener conto del fatto che, al momento, altri
segmenti di popolazione appaiono maggiormente interessati dal rischio di povertà; quindi il
Governo dovrà operare nel quadro d’un riordino complessivo del sistema di welfare e dei
trasferimenti.
Risorse ad hoc dovranno inoltre essere, in maniera crescente, poste a disposizione di politiche a
favore degli anziani non autosufficienti, con interventi che stimolino lo sviluppo di servizi di
cura e valorizzino il ruolo delle responsabilità familiari. Le misure assunte nel quadro della
nuova disciplina dell’immigrazione per la sanatoria a favore delle c.d. badanti va nella direzione
di integrare il ruolo insostituibile del nucleo familiare con una offerta di lavoro (in specie
femminile) legata al soddisfacimento di nuovi bisogni della persona. Sempre in questo ambito, il
Governo ha all’esame la promozione, con il concorso delle Regioni, di un "Fondo contro i
rischi della non autosufficienza" destinato a soddisfare, attraverso
l’erogazione di prestazioni e voucher, i bisogni di assistenza
domiciliare, residenziale e semi-residenziale delle persone non
autosufficienti, ad integrazione dei fondi pubblici esistenti.
Quanto al miglioramento delle pensioni più basse, questo è avvenuto, con un incremento
corrispondente delle maggiorazioni sociali, nei limiti delle risorse stanziate in proposito nella
legge finanziaria per il 2002 (2.169 milioni di euro) e sono stati adottati, pertanto, criteri selettivi
collegati all’età, all’anzianità contributiva, al reddito singolo o della coppia. A certe condizioni,
miglioramenti sono stati previsti, altresì, per le pensioni e gli assegni sociali, nonché per le
pensioni di invalidità civile. Il Governo intende confermare e (compatibilmente con le risorse
finanziarie disponibili) estendere gradualmente tale misura. Al tempo stesso, nel quadro della
riforma fiscale, il Governo, che ha già provveduto nel 2002 a migliorare il trattamento tributario
per le famiglie con figli a carico, è intenzionato ad introdurre una “no tax area” in prossimità
della soglia di povertà. Già nel 2003 il Patto per l’Italia (l’intesa con le parti sociali) prevede,
quale primo modulo della riforma tributaria, lo stanziamento di 5,5 miliardi di euro a favore dei
redditi medi e bassi.
Come meglio si argomenterà nel seguito, il Governo intende infine riaffermare la centralità del
prolungamento della vita lavorativa e del posponimento dell’età effettiva di pensionamento come
strumento di innalzamento strutturale dei trattamenti pensionistici e anche come canale di
miglioramento della partecipazione alla vita sociale del paese.

Obiettivo 2 – Consentire a tutti l’accesso a meccanismi di pensione adeguati, sia pubblici che
privati, in base ai quali essi possano acquisire diritti a pensione che diano loro i mezzi per
mantenere, in limiti ragionevoli, il loro livello di vita, anche in pensione.

In termini di tasso di sostituzione al momento del pensionamento - ovverosia del rapporto tra
pensione iniziale e retribuzione percepita nel periodo precedente il pensionamento - il sistema
pensionistico obbligatorio, che per i soggetti oggi pensionati comporta ancora il ricorso al c.d.
sistema retributivo di calcolo della pensione, garantisce, nonostante l’introduzione di regole più
severe ed uniformi per tutti i regimi, un elevato livello di salvaguardia delle precedenti condizioni
reddituali. Non stupisce che, specie per quanto concerne i ceti meno abbienti, i trattamenti
pensionistici, ed in generale i trasferimenti monetari pubblici, costituiscano una quota molto elevata
delle entrate complessive: per gli individui al di sopra dei 65 anni tali trasferimenti incidono per
una quota di reddito che va dal 94% al 77%, a seconda del quintile di reddito (rispettivamente
dall’86,2% al 71,9% è riferito alle pensioni propriamente dette; cfr. AS, tab. 2.1b).
Le riforme poste in essere negli anni novanta (si veda l’Appendice normativa) per il calcolo dei
trattamenti pensionistici nel regime obbligatorio, col graduale passaggio (col metodo del pro rata)
dal sistema retributivo (per i computo della pensione si fa riferimento alle retribuzioni degli ultimi
dieci anni) a quello contributivo (per il computo della pensione si fa riferimento al montante
contributivo accreditato nel corso dell’intera vita lavorativa), comporteranno già tra il 2010 e il
2020 una flessione significativa dei tassi di sostituzione calcolabili per quella che oggi è la figura-
tipo del pensionando (tabella 25).

Tabella 2: Tasso di sostituzione (rapporto pensione / ultimo
reddito da lavoro)
                                        2000 2010 2020 2030 2040 2050
Dipendente privato, 60 anni di età, 35 anni di contribuzione
Previdenza pubblica (obbligatoria) 67,3 67,1 56 49,6 48,5 48,1
Previdenza privata                        0 4,7 9,4 14,5 16,7 16,7
Totale                                  67,3 71,8 65,4 64,1 65,2 64,8
Fonte: nostre elaborazioni (cfr. AS).
Come già accennato in precedenza, nel sistema di computo contributivo, che progressivamente
diverrà rilevante nel determinare i trattamenti dei pensionandi (solo più lentamente peraltro si
applicherà allo stock delle pensioni in essere, per cui nel 2020 i trattamenti regolati dal computo
retributivo saranno i due terzi del totale e scenderanno al 5% del totale solo nel 2050, momento in
cui i trattamenti regolati dal sistema misto – in parte retributivo e contributivo - saranno ancora
poco più di metà del totale; cfr. tab. AS 6.1b), il calcolo della pensione viene effettuato
moltiplicando il montante dei contributi ai fini pensionistici accumulato dal lavoratore, durante la
vita lavorativa, per dei coefficienti di trasformazione, calcolati secondo una logica di tipo attuariale.
I trattamenti a cui il pensionando ha diritto sono dunque funzione non solo dei contributi versati
dallo stesso (il che induce neutralità rispetto alla carriera retributiva sperimentata dall’individuo nel
corso della sua vita lavorativa, a fronte del vantaggio fornito dal sistema retributivo

5
 La prima riga della tabella 2 descrive tale evoluzione per una figura-tipo – identificata dal soggetto di 60 anni d’età e
con 35 anni d’anzianità contributiva e considerando importi al lordo dell’imposizione fiscale. L’AS ulteriormente
dettaglia questi andamenti per altre figure-tipo e presenta anche un computo del tasso di sostituzione al netto
dell’imposizione fiscale e contributiva.
tradizionalmente ai soggetti con carriere professionali più dinamiche), ma anche, in senso
decrescente, della speranza di vita residua attesa al momento del pensionamento. La normativa
vigente prevede, inoltre, una revisione a cadenza decennale di tali coefficienti di trasformazione,
che si evolvono nel tempo per tener conto della dinamica della speranza di vita al momento del
pensionamento e dell’andamento di lungo periodo del sistema economico. L’applicazione del
metodo contributivo di calcolo porterà perciò ad una diminuzione ulteriore dei tassi di sostituzione,
per data età di pensionamento, quale flessione speculare al miglioramento previsto della speranza di
vita. La Fig. 1 scompone la flessione, nel tempo, del tasso di sostituzione al momento del
pensionamento tra una componete ascrivibile al completamento del passaggio al metodo
contributivo di calcolo ed una componente dovuta all’adeguamento demografico dei coefficienti di
trasformazione all’interno di questo, come previsto dalla legge di riforma. Specie nella seconda fase
del cinquantennio considerato, parte rilevante del calo è in effetti di origine puramente
“demografica”, legato cioè alla variazione periodica dei coefficienti di trasformazione (cfr. Tab. AS
2.2c). In assenza del miglioramento ipotizzato nella speranza di vita attesa (e se, in teoria, i
coefficienti di trasformazione restassero fissi nel tempo), il calo dei tassi di sostituzione garantiti
alla figura-tipo di base qui considerata (il pensionando 60enne con 35 anni d’anzianità contributiva)
risulterebbe ben più contenuto anche scontando il graduale passaggio al sistema di computo
contributivo.

Fonte: nostra elaborazione (cfr. AS)
            Fig. 1 - Tassi di sostituzione della previdenza pubblica con e senza gli effetti della correzione
                                                       demografica
                                     Figura tipo: dipendente privato, 60 anni e 35 anni di contribuzione
70

65

60

                                                                                                           Senza correzione demografica
55

50

                                                                                                           Con correzione demografica

45

40
 2000                 2010                      2020                           2030                         2040                          2050

Qualunque sia l’origine del calo prospettico dei tassi di sostituzione ora evidenziato, la già
richiamata rilevanza dei trattamenti pensionistici nei redditi degli anziani rende cruciale l’adozione
di strategie che fronteggino il fenomeno. Due sono gli indirizzi strategici, in proposito, da
segnalare: lo sviluppo del sistema pensionistico integrativo (a capitalizzazione); il posticipo dell’età
di pensionamento.
Il contributo che può provenire dallo sviluppo del sistema previdenziale complementare è già posto
in evidenza dalla tab. 2. Considerando il complesso dei trattamenti pensionistici ed ipotesi
prudenziali in tema di rendimento sui mercati finanziari dei fondi all’uopo accantonati (un
rendimento annuo reale del 2,5% al netto dei costi di gestione), il calo dei tassi di sostituzione
pressoché si annulla per i lavoratori dipendenti, rimane d’un certo rilievo per i lavoratori autonomi,
nel cui caso, peraltro, l’analisi dei dati al netto dell’imposizione fiscale evidenzia come il calo
corrisponda sostanzialmente ad un allineamento di questi ultimi alle condizioni già oggi garantite ai
dipendenti privati6.
Lo sviluppo del sistema pensionistico integrativo è perciò una delle priorità espresse dal Governo
nel disegno di legge delega, in cui si ipotizza di indurre l’uso a tal fine dei fondi oggi accantonati,
anno per anno, nel trattamento di fine rapporto (TFR). Le ragioni che suggeriscono un obiettivo di
sviluppo d’un secondo pilastro previdenziale attengono più in generale alle esigenze di creazione
d’un sistema bilanciato, nel quale cui i rischi propri dei diversi sistemi previdenziali si compensino
reciprocamente e la crescita d’un pilastro previdenziale a capitalizzazione sia di stimolo allo
sviluppo dei mercati finanziari ed alla mobilità dei capitali. Anche per questi motivi non si è
ipotizzata una netta superiorità, tutta da dimostrare, dei rendimenti medi dei fondi accumulati nelle
forme a capitalizzazione, volendosi così anche tener conto degli elementi di rischio finanziario
comunque insiti in un sistema a capitalizzazione7. Inoltre, è da rammentare che lo sviluppo della
previdenza privata comunque richiede uno storno a tal fine di risorse consistenti. Anche nel caso dei
lavoratori dipendenti, quelle che affluiscono oggi al TFR non sono risorse che giacciano
inutilizzate, essendo una fonte di finanziamento a basso costo per l’impresa ed una fonte di sostegno
al reddito di chi perda un lavoro (ed in molti casi, anche uno strumento di finanziamento di spese
straordinarie). E’ per questo motivo che, nelle ipotesi formulate dal Governo, lo storno del TFR
dovrebbe avvenire in parallelo ad una riduzione del gravame contributivo del sistema pensionistico
pubblico ed allo sviluppo di ammortizzatori sociali più adeguati per chi perda il lavoro, nonché a
compensazioni di natura fiscale per le imprese.
Anche tenuto conto di quanto ora esposto, cruciale appare il secondo indirizzo strategico riferito
all’azione riformatrice del Governo al fine di garantire l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici
futuri: il prolungamento della vita lavorativa ed il posponimento del pensionamento effettivo. Per
molti aspetti, l’indirizzo in questione è la naturale risposta all’origine demografica del calo dei tassi
di sostituzione garantiti dal sistema pensionistico pubblico: l’aumentare della speranza di vita attesa
residua per data età anagrafica – che col sistema contributivo di computo (quasi automaticamente)
implica una riduzione dei trattamenti pensionistici unitari – richiede una riduzione speculare del
periodo di godimento della pensione per poter mantenere, salvaguardando le condizioni di stabilità
finanziaria, dati trattamenti pensionistici unitari. La tavola 3 evidenzia in effetti come, ipotizzando
che la figura – tipo del pensionando divenga (al più presto possibile o andando a regime il sistema)
quella di un 65enne con 40 anni di contribuzione, il tasso di sostituzione garantito dal sistema
pubblico si situerebbe su livelli sostanzialmente non dissimili da quelli della figura – tipo attuale (il
60enne con 35 anni di contribuzione)8, operando in tal senso sia l’accorciamento (coeteris paribus)

6
  Il computo dei tassi di sostituzione al netto dell’imposizione fiscale è per necessità meno preciso, come spiegato
nell’AS, ma comunque più significativo nel cogliere la capacità del sistema pensionistico di garantire il mantenimento
del livello di vita precedente il pensionamento. Soprattutto, il dato al netto dell’imposizione fiscale è meglio in grado di
confrontare lavoratori dipendenti ed autonomi poiché si tiene conto del fatto che una quota rilevante dei contributi
pensionistici versati nel caso dei lavoratori dipendenti non sono parte della retribuzione lorda su cui i tassi di
sostituzione al lordo vengono abitualmente calcolati.
7
  L’AS evidenzia come lo storno del TFR al secondo pilastro comporti un aumento netto delle risorse disponibili al
momento del pensionamento più limitato del dato complessivo riportato nella tabella 2. L’aumento netto è infatti
ascrivibile ai maggiori, ma più incerti, rendimenti ipotizzabili rispetto al rendimento oggi garantito dal TFR al
lavoratore, e per questi disponibile a fini previdenziali in caso di permanenza nella stessa impresa per tutta la propria
lavorativa.
8
  Rimarrebbe il calo già prima commentato per i lavoratori autonomi.
del periodo lungo il quale i trattamenti debbano essere garantiti, sia l’allungamento del periodo di
accumulo dei contributi. Un prolungamento dell’attività lavorativa fino a 65 anni determinerebbe un
miglioramento del tasso di sostituzione anche della previdenza complementare di circa due punti
(dal 16,73% al 18,75%).

Tabella 3: Tasso di sostituzione nell’ipotesi di prolungamento dell’attività
lavorativa (rapporto pensione / ultimo reddito da lavoro)
                                              2000 2010 2020 2030 2040 2050
Dipendente privato, 65 anni di età, 40 anni di contribuzione
Previdenza pubblica (obbligatoria)            76,9 76,7 72,4 66,8 64 63,4
Previdenza privata                              0     5,3 10,6 16,3 18,8 18,8
Totale                                        76,9 82,0 83,0 83,1 82,8 82,2
Fonte: nostre elaborazioni (cfr. AS).

Il posponimento dell’età effettiva di pensionamento assume perciò un valore fondamentale non solo
per garantire la sostenibilità finanziaria del sistema – aspetto su cui quel posponimento
impatterebbe soprattutto fintantoché il sistema retributivo di computo si mantenga rilevante (cfr.
oltre) – ma anche per garantire l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici – profilo (quasi)
automaticamente connesso con gli obiettivi di adeguatezza nel caso del sistema contributivo di
computo. Le riforme del decennio scorso hanno affrontato il problema elevando i requisiti di età per
la pensione di vecchiaia (portati a 65 anni per gli uomini e a 60 per le donne nel regime generale) e
introducendo nuovi vincoli di età e contributivi, in una logica di omogeneizzazione delle regole nei
diversi regimi, per quanto riguarda il pensionamento di anzianità. Primi timidi effetti degli
interventi effettuati sono evidenti (cfr. oltre) sia nell’innalzamento dell’età effettiva di
pensionamento, sia nel modesto miglioramento delle tendenze occupazionali dei più anziani. In
generale, però, il tasso di occupazione dei lavoratori compresi tra 55 e 64 anni (pari al 28%) rimane
uno degli aspetti più critici del mercato del lavoro.
Un’ulteriore prova della capacità del sistema pensionistico di garantire il mantenimento d’un
adeguato standard di vita dopo il pensionamento attiene all’evoluzione dei trattamenti pensionistici
unitari dopo il pensionamento. La regola oggi vigente nel sistema previdenziale pubblico assicura il
mantenimento del potere d’acquisto, con una indicizzazione completa ai prezzi sino ad una soglia
pari al triplo del minimo Inps ( poi ridotta rispettivamente al 90% e al 75% per le fasce superiori).
Fino al 1992 operava pure un regime di indicizzazione ai salari reali. Il passaggio all’indicizzazione
ai soli prezzi ha garantito finora importanti risparmi. Per molti aspetti l’operazione ha fatto da
pendant alla sostanziale stabilità del tasso di sostituzione al momento del pensionamento garantito
per ancora un quindicennio alle coorti di pensionandi tipo. Implicitamente, grazie a questa misura,
anche la popolazione dei pensionati già in essere contribuisce a quella riduzione dei trattamenti
unitari complessivi - non già in relazione al potere d’acquisto, quanto piuttosto rispetto al PIL per
addetto - che appare utile risposta, ai fini della salvaguardia della sostenibilità finanziaria del
sistema, nei prossimi decenni. In conseguenza di ciò, il calo previsto del rapporto tra pensioni
unitarie e PIL per addetto (o PIL procapite; cfr tavola 2.5 dell’AS) è più marcato, e temporalmente
anticipato, rispetto al calo dei tassi di sostituzione al momento del pensionamento fornito dal
sistema pubblico e prima evidenziato.
Una volta che fosse a regime il sistema di computo contributivo, il motivo della mancata
indicizzazione reale delle pensioni in essere verrebbe meno. Potrebbe insorgere il rischio, per i
soggetti che sopravvivano più a lungo, di ricevere trattamenti progressivamente decurtati in termini
relativi, con problemi di adeguatezza del sistema e conseguenti necessità di interventi integrativi.
Il Governo, consapevole dell’esigenza di elevare l’età effettiva di pensionamento (come per altro
indicato in sede Ue) al fine del riequilibrio del sistema pensionistico, ha elaborato (nel disegno di
legge delega) una strategia complessa e articolata, rivolta ad incentivare in diversi modi la
permanenza al lavoro (specie nel caso del pensionamento di anzianità.)

Obiettivo 3 – Promuovere la solidarietà inter e intra generazionale

La diseguaglianza dei redditi all’interno della popolazione degli anziani è in genere inferiore a
quella che caratterizza il resto della popolazione. Anche se i redditi considerati sono quelli che
attengono all’intero nucleo familiare - quindi possono ricomprendere anche redditi diversi da quelli
da pensione e redditi non afferenti direttamente agli anziani – tale risultato è indicativo del ruolo
comunque in parte redistributivo dei trattamenti pensionistici pubblici. La minore disuguaglianza è
in particolare evidente per i soggetti più anziani (con più di 75 anni) e per le donne, che sono del
resto i soggetti che con maggiore probabilità sono coperti da quegli interventi solidaristici
(integrazione al minimo) del regime pensionistico prima descritti. Tra i maschi meno anziani - che
sono quelli a cui – specie considerando le generazioni correnti di anziani – maggiormente sono
erogati in prima battuta i trattamenti pensionistici conseguenti al ritiro dal mondo del lavoro – si
evidenzia invece una dispersione dei redditi leggermente maggiore che nel resto della popolazione.
Il risultato pare ascrivibile al ridotto connotato redistributivo delle pensioni da lavoro.
Non si dispone di precise valutazioni e microsimulazioni delle tendenze prospettiche della
distribuzione dei redditi tra i più anziani ed in connessione alle modifiche del regime pensionistico
già insite nella normativa vigente, in particolare il graduale passaggio dal regime di computo
retributivo a quello contributivo. Come già evidenziato, i due sistemi sono caratterizzati da
meccanismi che differiscono nel trattamento di soggetti con diversa carriera retributiva. Il sistema
contributivo è infatti neutrale da questo punto di vista, poiché i contributi del singolo, da cui
dipendono i futuri trattamenti pensionistici, vengono accumulati e “remunerati” ad un tasso eguale
per tutti. Nel sistema c.d. retributivo, invece, i trattamenti pensionistici sono parametrati alle
retribuzioni degli ultimi anni lavorativi, per cui la “remunerazione” implicita dei contributi versati
favorisce i soggetti con carriera retributiva più dinamica. Tenuto conto del fatto che, in generale,
questi ultimi sono soggetti con redditi da lavoro mediamente più elevati, il passaggio dal sistema di
computo retributivo a quello contributivo - pur non avendo di per sé il sistema una esplicita finalità
redistributiva - dovrebbe accentuare gli aspetti redistributivi del sistema pensionistico stesso. Va
ricordato, per inciso, che nel sistema contributivo è previsto un massimale pensionistico e
contributivo che svolge anch’esso una funzione in qualche misura redistributiva (nel modello
retributivo, invece, l’intera retribuzione è sottoposta a prelievo e influisce, sia pure con rendimenti
differenziati, nella determinazione della retribuzione pensionabile). D’altro canto, la prospettata
riduzione di peso del primo pilastro come fonte di reddito dei futuri pensionati – a favore dello
sviluppo della previdenza complementare, al cui interno non vi è spazio per logiche solidaristiche –
dovrebbe operare in senso inverso rispetto agli accennati profili redistributivi.
Il quadro prospettico è reso ancor più intricato da due ulteriori aspetti già posti in evidenza nel
paragrafo precedente: l’indicizzazione ai soli prezzi delle pensioni in essere (che accomuna i sistemi
di computo retributivo e contributivo); la fase di transizione da un sistema all’altro ed il calo che in
essa è insito, con una discontinuità situata nei decenni a venire, nei tassi di sostituzione al momento
del pensionamento. Il primo fattore di per sé comporta una progressiva perdita di terreno - in
termini di reddito relativo9, non in termini di potere d’acquisto – di chi sia da più tempo pensionato.
Il secondo fattore opera invece in senso opposto: nei decenni futuri, i nuovi pensionati saranno
infatti soggetti i cui trattamenti pensionistici saranno stati determinati (sempre più) in base alle

9
    Ipotizzando comunque un trend positivo del reddito reale pro capite.
regole del sistema contributivo e quindi con un livello di partenza - coeteris paribus - più contenuto,
mentre i pensionati di più vecchia data saranno soggetti i cui trattamenti, seguendo ancora le regole
del sistema di computo retributivo, partivano da un livello - coeteris paribus - più elevato. Difficile
è valutare, stante l’attuale carenza di adeguati modelli di microsimulazione, il complesso interagire
dei due fattori. A regime, una volta cioè esaurita la fase di transizione al sistema di computo
contributivo, nella normativa vigente dovrebbe rimanere operante soprattutto il primo fattore,
potenziale causa di disuguaglianze ed impoverimento relativo.

Il Governo intende studiare, pur se in termini prospettici, la possibilità di reintrodurre
meccanismi di indicizzazione reale, in cui cioè i trattamenti in essere siano indicizzati tanto al
costo della vita quanto alla dinamica retributiva reale, meccanismi da compensare e finanziare
prevedendo l’erogazione di un trattamento iniziale più ridotto almeno come opzione da parte
dell’interessato.
Più in generale, il Governo conferma l’intenzione di prevedere, nell’ambito di quel generale
riordino del sistema di welfare prima citato, interventi solidaristici adeguati, soprattutto con
riferimento agli anziani non autosufficienti. A tal proposito, spazi d’azione dovranno e potranno
essere individuati, anche in modo da tener conto del complesso sovrapporsi che crescentemente si
avrà di soggetti con trattamenti pensionistici liquidati in base a diversi sistemi di computo, con lo
strumento delle agevolazioni fiscali.

B) Sostenibilità finanziaria dei regimi pensionistici

L’importanza d’un elevato livello occupazionale è già stata anticipata nei paragrafi precedenti, ove
si è visto come il posponimento del pensionamento, con l’innalzamento del tasso di occupazione
dei soggetti meno giovani, possa migliorare i trattamenti pensionistici unitari. Tale effetto sui
trattamenti pensionistici unitari è peraltro soprattutto evidente nel caso del modello di computo
contributivo, che sarà solo gradualmente a regime. Vigente il sistema retributivo di computo, il
contributo principale che potrà provenire dall’innalzamento dell’occupazione è nel miglioramento
delle condizioni di sostenibilità del sistema. Alla luce di ciò, nel paragrafo riferito all’obiettivo n. 4,
si esaminerà soprattutto la situazione complessiva dell’occupazione e le sue tendenze. Il paragrafo
successivo si concentrerà poi sull’occupazione dei meno giovani e sull’età effettiva di
pensionamento. Il paragrafo relativo all’obiettivo n. 6 esaminerà quindi l’evoluzione del livello
della spesa pensionistica sul PIL, che rappresenta, in maniera ormai consolidata nel contesto
italiano, il principale indicatore delle condizioni di sostenibilità finanziaria del sistema
pensionistico. Il paragrafo relativo all’obiettivo n. 7 considera poi il finanziamento della spesa
pensionistica (in % del PIL) ed evidenzia la sensibilità di questa a fronte di vari possibili
perturbazioni economiche e demografiche. In entrambi i paragrafi 6 e 7 il riferimento sarà sempre
mantenuto alla spesa relativa al primo pilastro quale tradizionalmente considerata nei documenti di
programmazione finanziaria (per maggiori dettagli si rinvia al box 6.1 nella AS). Nel paragrafo
riferito all’obiettivo n. 8 si tratterà, invece, della previdenza complementare.

Gli Stati membri dovranno seguire una strategia plurifunzionale per dare ai regimi
pensionistici solide basi finanziarie, nonché una combinazione adeguata al fine di:
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