Questo che dovremmo vederlo

Pagina creata da Paolo Cozzolino
 
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Questo che dovremmo vederlo
Il film Parasite mette in scena la
globalizzazione al suo zenit ed è per
questo che dovremmo vederlo
Siamo nella ricca e moderna Corea del Sud, anche se dalle immagini non si direbbe, sembra la più
desolata delle periferie orientali, trafficata, sporca, tentacolare e affaccendata. Attraverso una
piccola finestra a livello del suolo, entriamo in un angusto e raffazzonato appartamento, ma meglio
sarebbe dire tugurio, ed è qui che conosciamo la famiglia Kim, composta dal padre Ki-taek, la madre
Chung-sook, il figlio Ki-woo e la figlia Ki-jeong.

Li vediamo poveri, quasi indigenti, alla continua ricerca di piccoli lavoretti temporanei per sbarcare
il lunario, o di una connessione internet gratuita a cui connettersi, od ancora ad approfittare della
disinfestazione stradale per bonificare “gratuitamente” la loro abitazione.

Insomma, i Kim sono una famiglia al margine, ottimi rappresentanti di quei nuovi poveri, quella
moltitudine di individui che cresce in tutto il mondo civilizzato e che la globalizzazione ha lasciato
indietro, se non proprio dimenticato.

La vita della famiglia Kim scorre, o meglio si trascina, senza che si intraveda una possibilità di
riscatto sociale e/o economico. Nonostante la miseria, li vediamo molto uniti, ancora portatori sani di
quella tipica “dignità” orientale e dotati di una vena di furbizia che li aiuta a sopravvivere.

Ma adesso cambiamo scenario. Attraverso una enorme finestra in vetro, entriamo in un’altra casa,
quella della ricchissima famiglia Park, una lussuosissima villa in un quartiere residenziale della città.
Anche qui la famiglia è composta da quattro individui: Park Dong-ik, il ricco capofamiglia che dirige
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una grande azienda informatica, l’ingenua ed annoiata moglie Choi Yeon-kyo, la timida, ma non
troppo, figlia adolescente Park Da-hye ed il piccolo e problematico figlio Park Da-song.

La separazione, anzi la frattura, esistente fra le due famiglie è marcata da tutti gli elementi presenti,
perfino l’architettura crea divisone di classe: la casa dei poveri Kim è sotto il livello del suolo, quella
dei Park è sopra una collina; gli spazi della casa dei Kim sono angusti e luridi, quelli della casa Park
ampi, luminosi, lussuosi, sembrano usciti da una rivista di arredamento. I Kim vivono a ridosso di un
malfamato marciapiede e sono avvolti dal cemento, i Park conducono un’esistenza dorata, protetti da
un grande muro di cinta e immersi in un grandioso giardino. Perfino il cibo è differente, notiamo
anche in questo una marcata differenza di classe. Insomma, i Kim ed I Park sono letteralmente e
fisicamente agli antipodi, tutto potremmo pensare tranne che queste famiglie possano avere
qualcosa in comune (tranne il fatto di vivere nella stessa città), o possano mai venire in qualche
maniera in contatto.

Eppure il contatto ci sarà ed è da questo scontro di civiltà che prende avvio il plot del film
“Parasite” di Bong Joon-ho, già vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2019 e
trionfatore, un po’ a sorpresa, all’ultima Notte degli Oscar del 2020 dove, a fronte di 6
candidature, il film si è aggiudicato 4 premi fra i più prestigiosi: Miglior Film, Miglior Film
Internazionale (l’ex premio Miglior Film Straniero), Miglior Regista e Migliore Sceneggiatura
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Originale.

L’incontro fra queste due famiglie avviene per mezzo di una strana raccomandazione grazie alla
quale Kim Ki-woo entrerà nella casa dei Park per insegnare inglese alla ricca figlia adolescente, Da-
hye, assunto dall’apprensiva madre Choi Yeon-kyo, che si farà abbindolare da un titolo di studio
fasullo e da millantate credenziali. Fin da subito Kim Ki-woo intuisce l’estrema malleabilità della
signora Choi Yeon-kyo e già dal loro primo incontro la convince ad assumere la sorella Kim Ki-jeong
come insegnate d’arte del figlio Park Da-song, ritenuto dalla madre depositario di un talento
artistico grezzo e da affinare.

Piano, piano i due fratelli Kim riusciranno con sotterfugi, intrighi e complotti a far licenziare l’autista
e la governante dei signori Park per far assumere negli stessi ruoli i propri genitori. Insomma,
l’osmosi fra queste due famiglie tanto diverse pare completa ed alla fine tutti sembrano contenti, se
non fosse che il destino un giorno bussa alla porta, o meglio al videocitofono della residenza dei
Park. Infatti una sera nella quale, partiti i Park per un campeggio, i Kim si sono riuniti a fare
baldoria nella villa dei propri datori di lavoro, ricevono la visita inaspettata della vecchia governante,
la signora Moon-gwang che chiede di poter recuperare una cosa importante dallo scantinato della
villa.

https://youtu.be/iPOugEDF8tk

Fermiamoci qui con il racconto della trama per non togliervi il gusto di recuperare questo
straordinario film, che è tornato in molte sale italiane dal 6 febbraio scorso prima dell’assegnazione
degli Oscar ed è, dopo il trionfo, ancora in programmazione su molti schermi, e proviamo a capire
come mai questo film outsider abbia sbaragliato una concorrenza così agguerrita come quella di
quest’anno dei Premi Oscar.

Sicuramente l’Academy Award ha voluto lanciare un messaggio alla politica del presidente Trump,
ma questo non basta a spiegare come film eccezionali come “1917”, “The Irishman” e “C’era una
volta… a Hollywood”, con 10 candidature ciascuno, e un film notevole come “Joker”, con
addirittura 11 nomination, siano rimasti pressoché a bocca asciutta di Oscar “pesanti” in favore di
questo film sudcoreano.

Credo che il successo stia nella forza della storia raccontata che è un ibrido fra thriller, commedia,
drammatico, con una spolverata di horror, ma non un horror qualunque, bensì un orrore quotidiano,
persistente, pestilenziale, un orrore che sentiamo latente in ognuna delle scene del film, un orrore
esaltato dalla splendida ed estremamente fluida fotografia di Hong Kyung-po, che ci mostra una
realtà alla quale sembra sempre mancare qualcosa o che nel migliore dei casi sia carica di nefasti
presagi. Il film Parasite ci mostra uno scontro di civiltà nel quale i ricchi non sono malvagi
profittatori, ma ingenui e sempliciotti, gente buona tutto sommato, mentre i poveri non sono virtuosi
e stoici, ma meschini e profittatori, un po’ cinici e pronti a tutto pur di manipolare il prossimo.
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Insomma, Parasite ci mostra cosa sia diventata la società civile di oggi: da una parte abbiamo i
benestanti, radical chic, buonisti ed abbastanza ingenui e dall’altra una classe media impoverita
dalla globalizzazione che è diventata perfida e pronta a tutto pur di migliorare la propria condizione
sociale. I Park, a loro modo, sono i parassiti della società intera nella quale, come sappiamo, pochi
individui detengono la ricchezza dei due terzi della popolazione più povera e ci mostrano quanto
sarebbe necessaria una redistribuzione del reddito alle classi più bisognose. Dall’altra parte abbiamo
i Kim che diventano veri e propri parassiti della ricca famiglia con cui vengono in contatto, e, al pari
di un morbo o di un virus, diventano infestanti e tossici fino alla morte dell’organismo ospite che li
ha accolti.

Il regista Bong Joon-ho ci mostra in maniera potente, scintillante e senza filtri a cosa la nostra
società intrisa di disuguaglianze sociali, economiche e culturali può portare, anzi ci ha già portato.
La stragrande maggioranza degli uomini e delle donne di questo film si muovono senza ideali, senza
piani, senza moralità, non sono più neanche individui nei quali riconoscerci o specchiarci, sono
diventati una moltitudine, una folla indistinta, una massa a cui tutto è concesso e nella quale non vi
sono colpe, né punizioni, neanche per i crimini più efferati. Una massa informe nella quale non
vogliamo riconoscerci, ma della quale siamo già adepti, seguaci e credenti.
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ore alla Notte degli Oscar 2020.

Insomma, Parasite ci mostra non tanto la banalità del male, quanto la sua ineluttabilità, sembra che
il regista Bong Joon-ho, abbia fatto sua la riflessione del sociologo e filosofo polacco Zygmunt
Bauman quando, parlando del sentimento della paura ai tempi della globalizzazione, scrisse:

“La fiducia si trova in difficoltà nel momento in cui ci rendiamo conto che il male
si può nascondere ovunque; che esso non è distinguibile in mezzo alla folla, non
ha segni particolari né usa carta d’identità; e che chiunque potrebbe trovarsi a
essere reclutato per la sua causa, in servizio effettivo, in congedo temporaneo o
potenzialmente arruolabile.”
Quello che ci mostra Parasite allora è la globalizzazione al suo zenit, quando l’unica legge che ha
valore è la legge della giungla, nella quale, se non si è un predatore, non si ha grande scelta, si può
essere preda o appunto diventare un parassita.

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