Profili di legittimità dell'accertamento fondato sugli studi di settore

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Profili di legittimità dell’accertamento fondato sugli studi di settore

Sommario : Premessa – 1. Decreti ministeriali d’approvazione degli studi di settore:
regolamenti o atti amministrativi generali? - 2. Legittimita’ costituzionale della normativa
disciplinante gli studi di settore - 3. Accertamento fondato sugli studi di settore: accertamento
analitico-contabile o induttivo? - 4. motivazione dell’avviso d’accertamento fondato sugli studi
di settore - 5. Valenza presuntiva degli studi di settore - 6. Conclusione.

Premessa

Gli studi di settore rappresentano l’ultimo step di un percorso legislativo iniziato dopo pochi
anni dall’entrata in vigore della riforma tributaria del 1971/1973, vista la crisi irreversibile in
cui era entrata e le grosse sacche d’evasione che in conseguenza di essa si erano determinate,
soprattutto tra i contribuenti medio-piccoli.

Il fine della riforma tributaria, vale a dire chiudere definitivamente con il passato, eliminare
ogni possibilità di tassazione di redditi medio-normali ed ancorare il prelievo tributario delle
imprese e degli esercenti arti e professioni al reddito così come desunto dalle scritture
contabili[1], non aveva tenuto in conto della diversità esistenti all’interno delle categorie di
contribuenti tra soggetti di medio-grandi dimensioni, cui si addice strutturalmente una
tassazione basata sul bilancio, e soggetti di ridotte dimensioni portati, invece, ad occultare i
ricavi ed i compensi percepiti.

Gli interventi legislativi che si sono succeduti in questi ultimi trent’anni (coefficienti presuntivi
di congruità e presuntivi di reddito, contributo diretto lavorativo, c.d. minimum tax, e
parametri) hanno avuto come obiettivo quello di superare le risultanze contabili di tali soggetti,
viste le gravi difficoltà incontrate da parte dell’Amministrazione finanziaria di smentirle con
prove specifiche di evasione, non consentendo il sistema dell’accertamento, frutto della riforma
tributaria, di poterlo fare con argomentazioni basate sulle caratteristiche generali dell’attività
svolta quali il numero di dipendenti, la quantità di beni strumentali l’ammontare degli acquisti,
ecc… .

Si è passati quindi, dall’affermazione di un criterio di assoluta prevalenza dell’accertamento
analitico, alla accettazione di una generalizzata determinazione della capacità contributiva su
parametri coefficentati ed in genere su base indiziaria, decretando il fallimento della riforma
degli anni settanta[2].

1. Decreti ministeriali d’approvazione degli studi di settore: regolamenti o atti
amministrativi generali?

La rilevanza giuridica assegnata dal legislatore agli studi di settore, è evidente nel dettato
dell’art. 62-sexies, comma 3, D.L. 30 agosto 1993, n. 331, il quale prevede che “gli
accertamenti di cui agli articoli 39, primo comma, lettera d), del decreto del Presidente della
Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, e 54 del decreto del
Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 63 e successive modificazioni, possono essere
fondati anche sull'esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi
dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio
della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell'articolo 62-bis
del presente decreto”.

Al fine di valutare la legittimità dell’accertamento fondato sugli studi di settore, è necessario
analizzare la natura giuridica dei decreti ministeriali di approvazione degli stessi, gli elementi
che devono essere contenuti nella motivazione dell’avviso d’accertamento, i profili riguardanti
la prova, ma soprattutto la valenza presuntiva degli studi di settore.

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Come disposto dall’art. 62-bis, D.L. 30 agosto 1993, n. 331, “gli studi di settore sono approvati
con decreto del Ministro delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale entro il 31
dicembre 1995, possono essere soggetti a revisione ed hanno validità ai fini dell'accertamento
a decorrere dal periodo di imposta 1995”.

Per potere stabilire l’esatta natura giuridica di tali decreti, è necessario effettuare una attenta
analisi sulle loro caratteristiche e sul loro contenuto, in quanto, astrattamente, con tale
strumento si possono adottare, sia atti avente contenuto normativo secondario
(regolamenti)[3], sia atti amministrativi generali[4].

Tale operazione è di fondamentale importanza in quanto incide profondamente, sia sotto i
profili della motivazione dell’avviso d’accertamento, sia sotto il profilo probatorio, sia su alcuni
profili di legittimità dei decreti ministeriali stessi.

I criteri utilizzati per attribuire ad un atto la valenza di regolamento o di atto amministrativo
generale sono due: un criterio formale ed un criterio sostanziale.

Secondo il criterio formale, ad un atto può essere attribuita la valenza di un regolamento,
quando viene definito come tale dal legislatore e quando viene rispettato l’iter procedimentale
di emanazione previsto dall’art. 17, L. 23 agosto 1988, n. 400, vale a dire: preventiva
comunicazione al Capo del governo, parere del Consiglio di Stato, visto della Corte dei Conti,
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Tale criterio, tuttavia, “è passibile di critica poiché consente di annoverare indebitamente tra le
fonti normative secondarie atti che, pur avendo la forma di regolamento, non contengono
disposizione normative”[5].

Secondo il criterio sostanziale, invece, a prescindere dal nomen iuris, un atto possiede le
caratteristiche di un regolamento, quando presenta le tre caratteristiche fondamentali della
generalità[6], dell’astrattezza[7] e della capacità di innovare l’ordinamento giuridico[8].

La bontà di tale criterio, certamente più idoneo del primo a stabilire la valenza giuridica di un
atto, in quanto facente riferimento alla sostanza ed alle sue caratteristiche fondamentali, è
stata confermata anche dalla Corte di Cassazione, la quale ritiene che: “i caratteri che, sul
piano del contenuto sostanziale, valgono a differenziare i regolamenti dagli atti e
provvedimenti amministrativi generali, vanno individuati in ciò, che questi ultimi costituiscono
espressione di una semplice potestà amministrativa e sono diretti alla cura concreta di
interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non
necessariamente determinati nel provvedimento, ma determinabili; i regolamenti, invece, sono
espressione di una potestà normativa attribuita all'Amministrazione, secondaria rispetto alla
potestà legislativa, e disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione
attuativa o integrativa della legge, ma ugualmente innovativa rispetto all'ordinamento giuridico
esistente, con precetti che presentano, appunto, i caratteri della generalità e dell'astrattezza,
intesi essenzialmente come ripetibilità nel tempo dell'applicazione delle norme e non
determinabilità dei soggetti cui si riferiscono”[9].

Analizzando i decreti ministeriali di approvazione degli studi di settore, risulta evidente come si
deve attribuire ad essi la natura di atti amministrativi generali.

Infatti, facendo applicazione del criterio formale, nessuna o quasi delle prescrizioni previste
dall’art. 17, L. 23 agosto 1988, n. 400 risulta rispettata.

A parte la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e l’autorizzazione ad emettere l’atto – peraltro
non proprio in linea con quella richiesta dalla legge la quale fa riferimento ad una espressa
autorizzazione ad emettere un regolamento normativo[10] –, mancano, sia la preventiva
comunicazione al Capo del Governo, sia la denominazione di regolamento, sia il parere del
Consiglio di Stato ed il visto della Corte dei Conti.

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Applicando il criterio sostanziale[11], mentre tali decreti presentano il requisito
dell’astrattezza, in quanto presentano l’attitudine ad essere applicati ripetutamente a
fattispecie concrete, mancano di quelli della generalità e della capacità di innovare
l’ordinamento giuridico.

Infatti tali decreti non posseggono il requisito della indeterminabilità dei soggetti a cui sono
rivolti in quanto, “pur essendo diretti ad una pluralità di destinatari, quest’ultimi non sono
determinati nell’atto ma sono determinabili a posteriori”[12].

Non posseggono neppure il requisito dalla capacità di innovare l’ordinamento giuridico intesa –
come afferma la Corte di Cassazione[13] – quale vis dell’atto di disciplinare tipi di rapporti
giuridici mediante una regolamentazione attuativa o integrativa mediante una
regolamentazione attuativa o integrativa della leggi con precetti che presentano i requisiti della
generalità e dell’astrattezza”. Gli studi di settore, infatti, costituiscono solo uno strumento
d’accertamento utilizzabile dagli uffici dell’Amministrazione finanziaria per la ricostruzione dei
ricavi e/o compensi non introducendo nessuna novità in tema di poteri d’accertamento.

La qualificazione degli studi di settore quali atti amministrativi generali comporta importanti
conseguenze[14].

In tema di motivazione degli avvisi d’accertamento, non si applica la presunzione legale di
conoscenza ex art. 10, Disp. prel. al Cod. Civ., propria degli atti normativi e di conseguenza,
visto il dettato dell’art. 7, comma 1, 2° periodo, L. 27 luglio 2000, n. 212 e dell’art. 42, comma
2, 2° periodo, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è necessario allegare i decreti ministeriali
all’atto impositivo o riprodurne gli elementi essenziali.

Al fine di soddisfare l’onere probatorio, non potendosi applicare il principio iura novit curia,
l’Amministrazione finanziaria dovrà produrre in giudizio una copia dei decreti ministeriali citati,
qualora non allegati o riassunti i tratti fondamentali nell’atto d’accertamento.

Visto che tali decreti non possono considerarsi come atti normativi regolamentari, non potrà
farsi valere il vizio del mancato rispetto della procedura di emissione prescritta dall’art. 17, L.
23 agosto 1988, n. 400[15].

Il contribuente, infine, potrà far valere in giudizio l’eventuale illegittimità del decreto
ministeriale il quale, visto il dettato dell’art. 7, comma 5, D. Lgs. 546/1992, potrà
disapplicarlo[16].

2. Legittimita’ costituzionale della normativa disciplinante gli studi di settore

Completata l’analisi sulla natura giuridica dei decreti ministeriali d’approvazione degli studi di
settore, si rende necessario valutarne i profili di legittimità costituzionale in relazione all’art. 53
della Costituzione il quale disciplina il principio secondo cui ognuno deve contribuire alle spese
dello Stato in proporzione alla propria capacità contributiva.

Ma cosa si intende per capacità contributiva?

La dottrina definisce tale concetto nel senso che “esso qualifica quella correlazione tra
contribuzione e spesa, nel senso che un soggetto può essere tenuto ad adempiere una data
prestazione, in genere pecuniaria, solo in quanto il sorgere di quell’obbligo sia posto in
rapporto con un fatto una circostanza, un accadimento, suscettibile di valutazione economica,
o come determinante, a fronte di una spese dell’ente pubblico o in funzione della riferibilità
della spesa stessa nei riguardi di un soggetto, od ancora la rilevanza di quel fatto come indice
della possibilità in astratto di quel soggetto di partecipare al riparto del carico della spesa”[17].

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Indiscutibile è dunque l’affermazione per la quale il legislatore deve qualificare la prestazione
coattiva riferendosi ad una situazione economicamente suscettibile di valutazione, resa
esplicita attraverso l’individuazione di sicuri indici di capacità contributiva, quali la produzione
di reddito, il possesso o il conseguimento di un patrimonio, ovvero ogni atto che attenga
all’una o all’altra di tali entità economiche (cioè il consumo ed il trasferimento di ricchezza).

Ma affermare semplicemente ciò, è anche estremamente riduttivo: nel definire la capacità
contributiva in termini propriamente giuridici, non ci si può infatti riferire, sic et sempliciter, ad
una mera capacità economica, bensì, soltanto a quella suscettibile di (ossia astrattamente
idonea a) fornire al soggetto, gravato della prestazione impositiva, i mezzi finanziari occorrenti
per l’assolvimento della stessa.

In particolare, il presupposto deve rispondere ai requisiti dell’attualità e dell’effettività.

L’attualità, comporta che l’imposta non può legittimamente colpire situazioni che, sebbene
economicamente valutabili, non sono più in grado, a causa della loro collocazione temporale in
un epoca troppo remota rispetto al momento genetico della prestazione tributaria, di
assicurare al soggetto passivo, nemmeno secondo un’astratta e ragionevole presunzione, le
risorse con quali adempiere, l’obbligazione posta a sua carico[18].

L’effettività, non consente di ancorare il presupposto a presunzioni assolute iuris et de iure che
non ammettono prova contraria.

Tale requisito, non opera soltanto nei confronti del presupposto, ma anche con riguardo alla
base imponibile, dovendosi fare in modo che essa sia agganciata ad elementi che trovino
comprovato riscontro nella realtà.

Tuttavia, proprio al fine di razionalizzare, semplificare e meglio adeguare il prelievo tributario
alla capacità contributiva di ognuno, il legislatore ha consentito il ricorso ad indici dai quali
presumere che certe situazioni ed avvenimenti possono essere considerati rappresentativi di
ricchezza tassabile[19].

La Corte Costituzionale, a tal proposito, ha più volte precisato che le presunzioni “per poter
essere in armonia con il principio di capacità contributiva sancita dall’art. 53 della Costituzione
debbono essere confortate da elementi concretamente positivi che le giustifichino
razionalmente”[20].

Come affermato anche dalla Corte di Cassazione, “la flessibilità degli strumenti presuntivi trova
origine e fondamento proprio nell’art. 53 della Costituzione, non potendosi ammettere che il
reddito venga determinato in maniera automatica, a prescindere da quella che è la capacità
contributiva del soggetto sottoposto a verifica. Ogni sforzo, quindi, va compiuto per individuare
la reale capacità contributiva del soggetto, pur tenendo presente l'importantissimo ausilio che
può derivare dagli strumenti presuntivi, che non possono però avere effetti automatici, che
sarebbero contrastanti con il dettato costituzionale, ma che richiedono un confronto con la
situazione concreta (confronto che può essere anche vincente per gli strumenti presuntivi
allorché i dati forniti dal contribuente risultano inattendibili)”[21].

Da ultimo la Corte Costituzionale, anche se con esplicito riferimento all’accertamento sintetico
ex art. 38, comma 4, D.P.R. 600/1973, richiamando la già citata sentenza del 23 luglio 1987,
n. 283, ha precisato che “l’accertamento fondato sulla prova della esistenza di elementi e
circostanze di fatto certi, i quali dimostrino l’inattendibilità della quantificazione del reddito
risultante dalla determinazione analitica e la correlativa sussistenza di un maggior reddito, si
palesa quindi come un accertamento presuntivo che, lungi dal violare il principio costituzionale
della correlazione tra capacità contributiva e imposizione tributaria, ne costituisce un mezzo di
attuazione, in quanto è reso ragionevole dal ricorso a indici idonei a dare fondamento reale alla
corrispondenza tra imposizione e capacità contributiva”[22].

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Gli studi di settore devono quindi considerarsi come indici presuntivi di un reddito sottratto
all’imposizione i quali, tuttavia, non si pongono in contrasto con i principi costituzionali, in
quanto consentono ai soggetti destinatari di fornire prova contraria ai risultati a cui sono
pervenuti[23].

Detto ciò, è necessario chiarire un interrogativo: gli studi di settore che tipo di reddito
intendono tassare? Reddito effettivo o reddito normale?

Per cercare di rispondere a tale quesito si deve cercare prima di attribuire a tali concetti il
giusto significato.

Per reddito normale si intende un reddito predeterminato su base catastale e forfettaria
costruito quindi in via automatica ed extracontabile avendo come riferimento la media
espressa dalla cosa o dall’attività produttiva.

Quando invece si parla di reddito effettivo bisogna stare attenti a non fraintendere tale
concetto.

Reddito effettivo, infatti, non può essere inteso come “reddito reale”.

Anche il reddito determinato sulla base delle scritture contabili è un reddito convenzionale
frutto di valutazioni, delle volte imposte dal legislatore, altre lasciate alla discrezionalità di chi
le redige, le quali possono anche non coincidere in pieno con la realtà economica .

La prima conclusione che si può trarre – riprendendo le parole di Gallo[24] – è che, visto che
sia il reddito normale, sia il reddito effettivo, sono il frutto di valutazioni e di convenzioni[25],
si perde il significato e la drammaticità dell’antitesi reddito normale-reddito effettivo ed
assume rilevanza l’antitesi, reddito determinato in via automatica ed extracontabile e reddito
determinato in via analitica sulla base delle scritture contabili.

Alla luce di ciò, si può affermare che la determinazione del reddito sulla base delle scritture
contabili è certamente più in grado di far emergere i risultati economici dell’impresa.

Tale assunto però è valido a condizione che il contribuente operi una completa e veritiera
contabilizzazione delle operazioni aziendali compiute.

Il legislatore, come si è già detto, dopo pochi anni dall’entrata in vigore della riforma tributaria
del 1973, ha cercato di affrontare il problema; vale a dire, riuscire a far emergere l’effettivo
risultato economico, soprattutto, in relazione ai soggetti medio-piccoli, i quali hanno maggiori
occasioni e maggiore facilità a sottrarsi ai doveri di contabilizzazione delle operazioni compiute.

In tale contesto, gli studi di settore rappresentano quindi uno strumento attribuito agli uffici
dell’Amministrazione finanziaria per superere le difficoltà di ricostruzione del reddito e
finalizzato, attraverso un ragionamento di tipo presuntivo basato su criteri di larga scala, a
determinare il reddito “effettivo” del singolo contribuente[26], con la possibilità di fornire prova
contraria[27].

Proprio tale possibilità, costituisce l’elemento che impedisce di considerare gli studi di settore
come uno strumento di tassazione di un “reddito normale”[28].

Se ciò è vero, si deve sottolineare come parte della dottrina avverta il pericolo che tale
strumento possa comportare una tassazione forfettaria dei soggetti facenti parte di una
determinata categoria.

Come rileva Marcheselli, “i problemi nascono per due ordini di motivi: da un lato perché può
essere ragionevole presumere che il reddito effettivo sia quello normale (curiosa

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trasformazione del reddito normale in reddito presunto), dall’altro, speculare, perché può
accadere che meccanismi rigidi del reddito effettivo attraverso strumenti presuntivi,
determinino – di fatto – la tassazione di un reddito (presunto inesattamente e, quindi) normale
(altrettanto curiosa e simmetrica trasformazione del reddito presunto in reddito normale)”[29].

A queste considerazione si aggiungono quelle secondo cui, il dettato dell’art. 62-sexies, comma
3, D.L. 331/1993 è ambiguo[30].

Infatti, se è vero che gli accertamenti fondati sugli studi di settore sono da collocare
nell’ambito dell’accertamento analitico-induttivo[31], non è escludibile a priori che possano
essere utilizzati con l’obbiettivo di catastalizzare il reddito. L’art. 62-sexies, comma 3, D.L.
331/1993, infatti, fonda l’accertamento basato sugli studi di settore solo su un grave
scostamento tra quanto dichiarato dal contribuente e le risultanze degli stessi e non vieta agli
uffici dell’Amministrazione finanziaria di utilizzarli con finalità di forfettazione del reddito delle
diverse categorie di contribuenti.

Tutto ciò, soprattutto, di fronte ad eventuali input politici tendenti, per esigenze di gettito, a
restringere di fatto la possibilità di fornire la prova contraria da parte del singolo contribuente.

Per evitare tutto ciò, un ruolo             fondamentale è giocato dai singoli uffici locali
dell’Amministrazione finanziaria e dal     loro modus operandi, nel senso che gli accertamenti
fondati sugli studi di settore debbono     essere “gestiti in maniera critica e dinamica e devono
consentire la valorizzazione del singolo   caso concreto”[32].

Gli studi di settore rimangono, comunque, uno strumento costruito secondo una elaborazione
statistica[33] di dati medi riferiti ad anni pregressi ed a condizioni di normalità dell’esercizio
dell’attività economica e che non tengono pienamente conto della realtà territoriale[34].

Quindi, ai fini di una corretta applicazione degli studi di settore, occorrerà che gli uffici
dell’Amministrazione finanziaria verifichino se le condizioni reali d’operatività dell’impresa
corrispondano a quelle considerate nella fase d’elaborazione e soprattutto verificare, in
contraddittorio con il contribuente[35], se sono intervenuti accadimenti, sia previsti dalle note
metodologiche, sia dalle istruzioni illustrative delle modalità applicative degli studi, sia non
espressamente codificati, che hanno influito negativamente sul normale svolgimento
dell’attività economica[36].

Detto ciò, risulta evidente che, nella motivazione dell’accertamento fondato sugli studi di
settore, non sarà possibile, per gli uffici dell’Amministrazione finanziaria, fare esclusivo
riferimento alle loro risultanze, ma sarà necessario dare adeguata spiegazione sugli elementi e
sulle valutazioni che sono state operate in merito alla realtà operativa delle singole attività
economiche in rapporto con quelle prese in considerazione in sede di elaborazione del singolo
studio di settore ed in relazione agli elementi forniti in contraddittorio dal contribuente.

3. Accertamento fondato sugli studi di settore: accertamento analitico-contabile o
induttivo?

Altro interrogativo fondamentale al quale si deve dare risposta è se la scelta del legislatore di
collocare l’accertamento fondato sugli studi di settore nell’ambito dell’accertamento analitico-
contabile ex art. 39, comma 1, lett. b), D.P.R. 600/1973 e non nell’ambito dell’accertamento
induttivo ex art. 39, comma 2, D.P.R. 600/1973, può essere condivisa o deve essere criticata.

La maggior parte della dottrina, anche se con motivazioni diverse, ritiene che la scelta operata
dal legislatore è da considerarsi appropriata[37].

Una parte[38], ritiene che forse da un punto di vista sistematico sarebbe stato più esatto
collocare l’accertamento fondato sugli studi di settore nell’ambito dell’accertamento induttivo,

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visto che in esso si procede ad una globale risistemazione dei ricavi dei compensi, globale
risistemazione che appunto è propria dell’accertamento induttivo.

Alle esigenze d’ordine sistematico        si   contrappongono     però,   esigenze   di   efficienza
dell’Amministrazione Finanziaria.

L’accertamento induttivo, infatti, presuppone una prima fase diretta a disconoscere la valenza
delle scritture contabili ed una seconda nella quale si procede alla ricostruzione del reddito;
nell’accertamento fondato sugli studi di settore, invece, la prima fase viene baipassata per
concentrarsi solo sugli aspetti ricostruttivi dei ricavi o dei compensi.

Inoltre, l’accertamento richiede una necessaria fase di verifica che non è detto debba essere
operata nell’accertamento basato sugli studi di settore.

Una altra parte della dottrina[39], invece, ritiene che la scelta operata dal legislatore è da
condividere in pieno in quanto l’ accertamento fondato sugli studi di settore non è finalizzato –
come invece l’accertamento induttivo – a determinare l’ammontare complessivo del reddito
d’impresa, ma solo una parte di esso, seppure sicuramente la principale, vale a dire
l’ammontare complessivo dei ricavi e dei compensi.

Non deve trarre in inganno o sembrare una forzatura dell’applicazione dell’art. 39, comma 1,
lett. b), D.P.R. 600/1973 – afferma Gallo – il fatto che si arrivi a rideterminare l’ammontare dei
ricavi e dei compensi percepiti attraverso una procedura che si soliti si utilizza per rettificare
singole poste contabili. Infatti, seppure ricavi e compensi sono rideterminati nella loro
globalità, non è detto che oggetto dell’accertamento sia anche solo una forma di ricavo o di
compenso.

4. motivazione dell’avviso d’accertamento fondato sugli studi di settore

Riguardo la motivazione dell’avviso d’accertamento fondato sugli studi di settore è necessario
fare qualche riflessione in aggiunta alle considerazioni che sono già state fatte.

Innanzitutto, è assolutamente da scartare l’idea di poter consentire che in tale accertamento si
possa utilizzare la motivazione per relationem attraverso un automatico rinvio alle risultanze
dello studio di settore.

A parte, infatti, le considerazioni prima fatte sulla necessità di allegare lo studio di settore
all’avviso d’accertamento e sulla necessità, ai fini dell’onere della prova, di produrne una copia
in giudizio, salvo il caso in cui non sia stato allegato o riprodotto il contenuto essenziale
nell’avviso d’accertamento, si deve affermare che, considerate le molteplici verifiche e
valutazioni che l’ufficio deve operare, oltre che tener conto dei risultati del contraddittorio,
deve ritenersi assolutamente preclusa la possibilità di poter motivare l’avviso d’accertamento
per relationem rinviando alle risultanze del singolo studio di settore.

Inoltre, si deve affermare che, in relazione alla motivazione dell’atto impositivo, l’art. 7 dello
Statuto del contribuente, L. 27 luglio 2000, n. 212, non richiama in toto il dettato dell’art. 3, L.
7 agosto 1990, n. 241[40].

Nonostante la lettera dell’art. 7, all’interno della motivazione dell’avviso d’accertamento basato
sugli studi di settore non può mancare il riferimento alle risultanze istruttorie, sia in quanto il
fatto di dare conto delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione
dell’Amministrazione finanziaria impone di fare riferimento alle risultanze istruttorie, sia perché
si deve dare conto delle valutazioni che gli uffici devono compiere ai fini dell’applicazione dello
studio di settore[41].

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Altro aspetto che merita espressa considerazione nell’ambito della motivazione dell’avviso
d’accertamento fondato sugli studi di settore, è l’interpretazione del concetto di “gravi
incongruenze tra l’ammontare dei ricavi, compensi e corrispettivi dichiarati e quelli
fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni d’esercizio della specifica
attività svolta ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62-bis del presente
decreto”[42].

L’Amministrazione finanziaria interpreta tale concetto nel senso che, “costituisce presunzione
grave, precisa e concordante su cui fondare l’accertamento in questione lo scostamento dei
ricavi e dei compensi dichiarati rispetto a quelli attribuibili al contribuente sulla base dello
studio di settore approvato per la specifica attività svolta”[43].

Parte della dottrina interpreta il dettato dell’art. 62-sexies, comma 3, D.L. 30 agosto 1993, n.
331, nel senso che la verifica all’esistenza gravi incongruenze tra l’ammontare dei ricavi,
compensi e corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle
condizioni d’esercizio della specifica attività svolta ovvero dagli studi di settore, sarebbe
necessaria solo nel caso in cui l’accertamento fosse basato sulle caratteristiche e le condizioni
d’esercizio dell’attività svolta e quindi in relazione a verifiche condotte direttamente
sull’attività, mentre l’accertamento basato sugli studi di settore non richiederebbe il requisito
della gravità riducendo la motivazione dell’accertamento alla semplice divergenza tra i ricavi e
dei compensi dichiarati dal contribuente rispetto a quelli previsti dal singolo studio di settore.

Tale tesi, tuttavia, non è condivisibile, in quanto dalla lettura attenta dell’art. 62-sexies,
comma 3, D.L. 30 agosto 1993, n. 331, si evince che il requisito della necessità delle “gravi
incongruenze” è riferito anche alla locuzione “studi di settore”.

Quindi l’accertamento ex art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. 600/1973, cui fa riferimento l’art.
62-sexies, comma 3, D.L. 331/1993, potrà essere emesso sia sulla base di gravi incongruenze
tra l’ammontare dei ricavi, compensi e corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili
dalle caratteristiche e dalle condizioni d’esercizio della specifica attività svolta, sia sulla base di
gravi incongruenze tra l’ammontare dei ricavi, compensi e corrispettivi dichiarati e quelli
fondatamente desumibili dagli studi di settore.

Altra parte della dottrina, invece, partendo dalla considerazione che le presunzioni desumibili
dagli studi di settore sono da considerare presunzioni semplici[44], ritengono che il mero
scostamento dei ricavi, dei compensi e dei corrispettivi dichiarati rispetto a quelli desumibili
dagli studi di settore, non sarebbe sufficiente a motivare l’avviso d’accertamento, ma avrebbe
solo la valenza di indizio di evasione d’imposta.

Sarebbe necessario, secondo i sostenitori di tale tesi, che l’ufficio trovasse altri elementi capaci
di supportare tale scostamento al fine di poter correttamente motivare l’avviso d’accertamento.

Secondo un altro orientamento dottrinale, partendo dal fatto che gli studi di settore forniscono
due misure di congruità: una “puntuale” ed una “minima”[45], uno scostamento dei ricavi o
dei compensi dichiarati rispetto a quelli previsti dallo studio di settore, ma all’interno
dell’intervallo di confidenza, farebbe venir meno all’incongruenza dell’attributo di “gravità” ed
imporrebbe all’ufficio di effettuare un approfondimento d’attraverso le classiche attività
ispettive e di verifica al fine di rilevare gravi incongruenze che possano supportare le
motivazioni dell’avviso d’accertamento[46].

La tesi che, tuttavia, sembra meritevole di accoglimento, è quella secondo cui, considerato che
le gravi incongruenze tra l’ammontare dei ricavi, compensi e corrispettivi dichiarati e quelli
fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni d’esercizio della specifica
attività svolta ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62-bis D.L. 331/1993
costituiscono un presupposto per l’emissione dell’atto d’accertamento fondato sugli studi di
settore, la motivazione non potrà trascurare tale aspetto e dovrà contenere adeguate

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argomentazioni sul punto, pena l’illegittimità dell’avviso d’accertamento per difetto di
motivazione[47].

Ciò anche per evitare e scongiurare il pericolo, sopra evidenziato, di un possibile uso degli
studi di settore in un prospettiva statistico-probabilistica con riferimento alla massa dei
contribuenti e con l’obiettivo di catastalizzare il reddito.

Il potere accertativo dell’Amministrazione finanziaria, infatti, deve avere sempre come punto di
riferimento il singolo soggetto cui è notificato l’avviso d’accertamento e le effettive condizioni
di operatività della attività economica, al fine di adattare i ricavi o compensi stabiliti dagli studi
di settore alla singola situazione concreta.

Proprio a tal fine, quindi, alla luce del dettato dell’art. 62-sexies, comma 3, D.L. 331/1993,
l’avviso d’accertamento fondato sugli studi di settore dovrà contenere un’adeguata motivazione
circa il profilo delle “gravi incongruenze” tra l’ammontare dei ricavi, compensi e corrispettivi
dichiarati e quelli stabiliti da parte degli studi di settore[48].

Non si può condividere, invece, quanto affermato dalla Commissione Tributaria Provinciale di
Milano nella citata sentenza del 18 aprile 2005, n. 60 nella parte in cui si afferma che “per la
sussistenza di  incongruenze, a parere di questo Collegio, l’importo dei ricavi non dichiarati
rispetto sia a quelli dichiarati sia a quelli determinabili in via presuntiva, non dovrebbe essere
inferiore al 25/30%”.

Si tratta, infatti, di una affermazione del tutto priva di qualsiasi aggancio normativo ma
soprattutto arbitraria, frutto di approccio superficiale ed approssimativo e non fondata su una
precisa logica fattuale.

Come si può pretendere di predeterminare in maniera fissa una soglia minima di scostamento
tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dall’applicazione degli studi di settore che renda
legittimo l’avviso d’accertamento di fronte ad una realtà economica così variegata sia tra i
diversi settori economici, sia all’interno del medesimo?

Anzi, riprendendo quanto affermato da Beghin[49], l’assunto della Commissione, pretendendo
di determinare una percentuale esemplificativa delle “gravi incongruenze”, si pone in aperto
contrasto con quanto sembra trasparire dalla prima parte della sentenza, vale a dire la
necessità di considerare la singola situazione concreta ed evitare un’applicazione degli studi di
settore basata su una logica statistica-probabilistica, riportando l’applicazione degli
accertamenti fondati su di essi su una logica di oggettivazione di tali strumenti[50].

5. Valenza presuntiva degli studi di settore

Interrogativo fondamentale da risolvere è quale valenza presuntiva deve essere attribuita agli
studi di settore.

Che tipo di presunzione incarnano? Presunzione legale, presunzione semplice o presunzione
giurisprudenziale?

In generale le presunzioni fanno parte delle c.d. prove critiche o indiziarie.

La prova critica o indiziaria si basa su un meccanismo complesso.

La prova, infatti, oltre che avere ad oggetto fatti che integrano direttamente la fattispecie
dedotta in giudizio (prova diretta), può avere ad oggetto fatti che non la integrano
direttamente, non immediatamente rilevanti, ma dai quali si può giungere, attraverso un
ragionamento presuntivo, ad affermare l’esistenza o l’inesistenza dei fatti che integrano la
fattispecie.

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Le presunzioni legali relative, disciplinate dall’art. 2728, comma 1, c.c.[51], si sostanziano
quindi in una inversione dell’onere della prova.

Al verificarsi del presupposto previsto dalla norma avviene uno scambio; quello che
normalmente è un fatto costitutivo diventa un’eccezione; quella che è un’eccezione diventa un
fatto costitutivo. E quindi, correlativamente allo spostarsi del fatto da un settore della
fattispecie all’altro, si inverte l’onere della prova.

Risulta evidente che non si ritrova in tale tipo di presunzione una struttura inferenziale, non si
parte da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto, ma si riparte solo l’onere della prova.

La classica struttura inferenziale che caratterizza le presunzioni la si ritrova invece, nelle
presunzioni semplici, disciplinate dall’art. 2729, c.c., secondo cui: “le presunzioni non stabilite
dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che
presunzioni gravi, precise e concordanti.

Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per
testimoni”.

Il collegamento tra il fatto noto e quello ignoto non è operato quindi direttamente dal
legislatore, ma è lasciato al libero apprezzamento del giudice, il quale dovrà ammettere solo
presunzioni gravi precise e concordanti[52].

Dottrina e giurisprudenza sono divise circa la valenza presuntiva da attribuire agli studi di
settore.

Secondo un primo orientamento gli deve essere attribuita la valenza di presunzioni legale
relative.

Il fondamento di tale tesi deve essere rintracciato, oltre che nell’art. 62-bis, D.L. 331/1993 e
nei relativi decreti ministeriali d’approvazione dei singoli studi di settore, nell’art. 10, L. 8
maggio 1998 n. 146, nel quale si afferma che gli accertamenti basati sugli studi di settore sono
effettuati “con le modalità di cui al presente articolo”.

Si arriva a tale conclusione ritenendo che l’art. 10, L. 146/1998 abbia una efficacia abrogans
dell’art. 62-sexies, D.L. 331/1993, “in quanto il riferimento all’art. 62-sexies fatto nel comma 1
dell’art. 10 sarebbe circoscritto alla parte dell’art. 62-sexies che a sua volta richiama l’art. 62-
bis. E’ quest’ultima, infatti, la norma madre in forza della quale vengono emanati i singoli
decreti ministeriali che contengono la descrizione in chiaro del modo predeterminato di
funzionare di GE.RI.CO”[53].

A sostegno di tale tesi, si è posta anche una parte delle giurisprudenza di merito[54] e la Corte
di Cassazione secondo cui “l’evoluzione legislativa che si è avuta a partire dal 1985 in poi ha
confermato sempre di più la possibilità che l’amministrazione utilizzi strumenti presuntivi
legittimati dalla prassi e valutati già in sede preventiva a livello generale, tanto che ormai da
qualche anno gli studi di settore si stanno consolidando e stanno offrendo soluzioni sempre più
accettate e condivise…

E poiché si tratta di presunzioni relative (che ammettono la prova contraria), il contribuente
che voglia contestare il risultato delle presunzioni medesime ha l’onere di attivarsi e di
mostrare o l’impossibilità di utilizzare le presunzioni in quella fattispecie o l’inaffidabilità del
risultato ottenuto attraverso le presunzioni, eventualmente confermando à al à contempo con
altre presunzioni la validità del suo operato. In un tale contesto, è vero che si verifica una
inversione dell’onere della prova, ma si tratta di una inversione conseguente e legittima in un
sistema che consente l’utilizzazione delle presunzioni a favore dell’amministrazione”[55].

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Sulle possibilità concrete di prova contraria, a parte le considerazione fatte in precedenza, si
deve affermare che compito del contribuente è quello di provare, anche con ragionamenti
presuntivi, ma comunque dotati di persuasività e verosimiglianza, di non aver conseguito i
redditi che invece gli vengono attribuiti dal singolo studio di settore, non di negare gli effetti
che conseguono alla sua applicazione.

Detto ciò, sebbene fornire una tale prova non sia molto facile, non può certo trarsi la
conclusione che il contribuente si trovi di fronte ad una probatio diabolica.

Secondo un’altra corrente dottrinale e giurisprudenziale[56], agli studi di settore deve essere
attribuita la valenza di presunzione semplice.

Varie sono gli elementi che portano a supporto di tale tesi.

Innanzitutto, il fatto che l’art. 62-sexies, comma 3, D.L. 331/1993 stabilisce che
l’accertamento fondato sugli studi di settore deve essere effettuato sulla base dell’art. 39,
comma 1 lett. d), D.P.R. 600/1973, norma nella quale si rintracciano presunzioni semplici e
non legali.

Il legislatore, nonostante tale norma richiami dati concretamente rilevabili attraverso
l’ispezione delle scritture contabili, gli altri strumenti di verifica di cui all’ art. 33, D.P.R.
600/1973, nonché dai dati e dalle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’art. 32,
D.P.R. 600/1973, sembra voglia riferimento alle presunzioni indicate nella norma[57].

Secondo altri[58], il controllo indiretto non va considerato in contrapposizione con la
determinazione contabile dei ricavi, bensì come parametro di credibilità dell’impianto contabile
stesso.

L’accertamento fondato sugli studi di settore deve essere considerato di tipo un accertamento
di tipo analitico, fondato sulle contenuto delle scritture contabili, anche se opportunamente
rettificate.

Gli uffici dovrebbero operare “un riscontro contabile e documentale di quanto dichiarato dal
contribuente, nonché procedere alla verifica della completezza e della fedeltà delle scritture
contabili tenute dall’imprenditore; solo successivamente, avendo accertato la sussistenza di
elementi di reddito non dichiarato, anche sulla base di presunzioni qualificate, possono
quantificare il presunto maggior reddito sottratto a tassazione utilizzando gli studi di settore ed
i parametri”[59].

Il maggior reddito derivante dall’applicazione degli studi di settore, secondo tale orientamento
dottrinale, non può costituire causa ed effetto dell’accertamento presuntivo, pena la nullità
dell’atto impositiva emesso[60].

Ai risultati scaturenti dall’applicazione degli studi di settore non deve essere attribuita la
valenza di presunzione qualificata e la motivazione non può fondarsi solo su di essi senza che
l’Amministrazione finanziaria effettui controlli sulle scritture contabili ovvero senza che sia stati
indicati fatti, elementi o circostanze qualificabili come presunzioni gravi, precise e concordanti.

Altro elemento sul quale si basa la tesi dell’attribuzione agli studi di settore della valenza di
presunzione semplice[61], è quello secondo cui gli studi di settore sono costruiti su degli
elementi che non esauriscono completamente le variabili di cui è fatta una realtà economica.

Inoltre, come si è gia rilevato, alcuni, richiamando alcune sentenze della Corte
Costituzionale[62], ritengono che le presunzioni legali “per poter essere considerate in armonia
con il principio della capacità contributiva art. 53 Cost. debbono essere confortate da elementi
positivi che le giustifichino razionalmente ed inoltre debbono fondarsi su elementi rivelatori di

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ricchezza ovvero su fatti reali, quand’anche difficilmente accertabili, affinché l’imposizione non
sia fondata su base fittizia”[63].

Si ritiene che gli studi di settore, costruiti su dati forniti dagli stessi contribuenti e non rilevati
sul campo – come inizialmente era stato previsto –, non soddisfino tali requisiti e quindi non
possono considerarsi come aventi natura di presunzione legale relativa.

Infine, si sottolinea come il contraddittorio preventivo tra il contribuente e l’Amministrazione
finanziaria, prima previsto solo dalla prassi ministeriale ed ora anche dalla legge[64], tende a
facilitare l’accertamento con adesione. Lo stesso fatto che la normativa sull’accertamento con
adesione non stabilisca alcun limite quantitativo per gli uffici dell’Amministrazione finanziaria,
salvo la necessità di motivare le proprie decisioni e scelte, dimostra che gli studi di settore
costituiscono solo una base di partenza per effettuare il contraddittorio e lasciare al
contribuente la possibilità di manifestare le proprie ragioni in vista della definizione
dell’adesione e non una prova di maggiori ricavi o compensi.

La scelta di qualificare gli studi di settore come aventi valenza di presunzione legale relativa o
presunzione semplice, non è scevra di effetti anzi, assume una valenza fondamentale alla luce
delle diverse conseguenze che ne derivano sia dal punto di vista probatorio che giudiziale.

Innanzitutto, qualificandoli come aventi valenza di presunzione semplice, i loro risultati non
bastano per fondare l’avviso d’accertamento ma devono essere integrati da altri elementi
derivanti da un controllo di natura contabile.

Qualificandoli invece come aventi valenza di presunzione legale relativa, fermo restando gli
obblighi di motivazione circa la corrispondenza tra la situazione economica reale e quella in
base alla quale sono stati costruiti, la “gravità” dello scostamento tra i ricavi ed i compensi
dichiararti e quelli desumibili dalla loro applicazione, si realizza un’inversione dell’onere della
prova in capo al contribuente, il quale dovrà attivarsi per fornire la prova contraria, nei termini
già indicati anteriormente.

Dal un punto di vista giudiziale, la presunzione legale vincola il giudice eliminando il suo libero
convincimento circa l’inferenza tra il fatto noto e quello ignoto, mentre nel caso di
qualificazione nei termini di presunzione semplice dovrà convincersi volta per volta della bontà
di tale inferenza.

Ad avviso di chi scrive, tuttavia, nessuno dei due citati orientamenti coglie nel segno non
attribuendo agli studi di settore la giusta valenza presuntiva.

Gli studi di settore, infatti, non possono essere ricondotti nell’alveo delle presunzioni legali
relative in quanto, indipendentemente dalla loro qualificazione come regolamenti o atti
amministrativi generali, si basano su un ragionamento, che come si è già avuto modo di
segnalare, da un punto di vista statistico-matematico, non può essere considerato molto
attendibile, in quanto non fornisce un risultato unico, ma un intervallo di valori il quale risulta
troppo ampio per poter avere un una forte valenza statistica.

La necessità di non poter rinviare per relationem alle risultanze degli studi di settore, il dovere
adeguare le loro risultanze al singolo contribuente ed i loro citati limiti e carenze, impediscono
di potere attribuire agli studi di settore la valenza di presunzione legale relativa[65].

Dall’altro lato, però, non gli si può attribuire la valenza di presunzione semplice, in quanto si
finirebbe per sminuirne troppo la loro portata, tenendo conto anche del comunque sofisticato
ed apprezzabile metodo di costruzione, che non ha nulla a che vedere con quelli dei parametri
e dei coefficienti presuntivi di reddito costruiti invece in maniera un po’ arrabattata e non
invece con un metodo così rigorosi.

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La soluzione più condivisibile quindi appare quella di assimilare gli studi di settore alle c.d.
“presunzioni giurisprudenziali”[66].

Tali presunzioni, di derivazione giurisprudenziale e non legislativa, hanno il medesimo
funzionamento delle presunzioni legali relative, in quanto il giudice, non fa derivare dalla
conoscenza un fatto noto la conseguenza di un fatto ignoto, ma presume che esso si sia
verificato addossando alla parte contro cui opera la presunzione l’onere di provare il contrario.

Applicando tale ragionamento in ambito tributario, si può giungere ad affermare che gli studi di
settore costituirebbero delle “presunzioni amministrative” che avrebbero la funzione di
precostituire o costituire la prova dell’accertamento fondato sugli studi di settore.

In tale prospettiva gli studi di settore costituirebbero, e sostituirebbero le massime
d’esperienza comune e potrebbero essere definiti come “massime d’esperienza tecnica”.

In ogni caso, conclude Giorgi, fa ben poca differenza, dal punto di vista della ripartizione
dell’onere della prova, attribuire la valenza di presunzione legale relativa, di presunzione
semplice o di “presunzione amministrativa”, in quanto i rispettivi elementi che devono essere
provati dalle parti rimangono i medesimi.

L’Amministrazione finanziaria dovrà provare che la situazione d’operatività del singolo
contribuente corrisponde a quella in base alla quale sono stati costruiti gli studi di settore e la
“gravità” dello scostamento tra i ricavi ed i compensi dichiarati e quelli desumibili dai
medesimi[67], non invece il meccanismo che lega il fatto noto (dati forniti dagli stessi
contribuenti attraverso i questionari) a quello ignoto (il reddito).

Il contribuente, invece, dovrà fornire la prova contraria in modo da scardinare il ragionamento
inferenziale operato dagli studi di settore.

Infine, merita di essere segnalata la modifica operata dall’art. 1, comma 408, L. 30 dicembre
2004 (Finanziaria 2005) all’art. 70, L. 342/2000[68].

Anteriormente l’Amministrazione finanziaria, una volta emesso un avviso d’accertamento
fondato sugli studi di settore, poteva esercitare un’ulteriore azione accertatrice solo con
riferimento a categorie reddituali diverse da quelle che avevano formato oggetto degli
accertamenti stessi.

La modifica apportata dalla legge finanziaria ha eliminato ogni limite all’ulteriore azione
accertatrice in quanto, fermo restando il termine ordinario di decadenza dell’azione accertatrice
previsto dall’art. 43, D.P.R. 600/1973, l’accertamento fondato sugli studi di settore è
effettuato, senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice, relativamente alle medesime o
alle altre ragioni reddituali, nonché in riferimento alle ulteriori operazioni rilevanti ai fini
dell’imposta sul valore aggiunto.

Nel caso di definizione dell’accertamento con un accertamento con adesione o conciliazione
giudiziale, la legge finanziaria ha eliminato la condizione, prevista anteriormente per poter
esercitare l’ulteriore azione accertatrice in relazione alle categorie oggetto di adesione, della
sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi[69], mantenendo invece la disposizione secondo
cui non rileva il limite di cui all’art. 2, comma 4, lett. a), L. 19 giugno 1997, n. 218[70].

Tali modifiche interessano anche gli accertamenti fondati sui parametri.

Riflettendo su tali interventi correttivi, risulta evidente la volontà del legislatore d’ampliare i
poteri di controllo degli uffici dell’Amministrazione finanziaria, finendo però per trasformare
l’accertamento fondato sugli studi di settore in un accertamento parziale ex art. 41-bis, D.P.R.
600/1973[71], introducendo un’altra deroga all’art. 43, comma 3, D.P.R. 600/1973 ed al

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principio in esso sancito secondo cui “fino alla scadenza del termine stabilito nei commi
precedenti l’accertamento può essere integrato o modificato in aumento mediante la
notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi.

Nell'avviso devono essere specificatamente indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti
o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell'ufficio delle imposte”.

Considerando tali modifiche legislative insieme a quelle apportate alla disciplina
dell’accertamento parziale ex art. 41-bis, D.P.R. 600/1973[72], risulta ormai definitivamente
tramontato il principio dell’unicità dell’avviso d’accertamento.

Tuttavia, gli studi di settore mal si conciliano con lo strumento impositivo dell’accertamento
parziale ex art. 41-bis, D.P.R. 600/1973. Infatti, mentre quest’ultimo si caratterizza per
l’evidenza della fonte d’innesco dalla quale si può desumere l’infedeltà della dichiarazione, gli
studi di settore non posseggono tale capacità in quanto, come detto, non possono essere
automaticamente applicati in maniera indiscriminata secondo una logica statistico –
probabilistica ma dovranno tener conto della singola situazione concreta[73].

6. Conclusione

Gli studi di settore rappresentano certamente uno tra gli strumenti sui quali l’Amministrazione
finanziaria maggiormente punterà nei prossimi anni per combattere la piaga dell’evasione[74].

Allo stato attuale, si deve affermare che, nonostante gli ultimi interventi legislativi[75], essi
risultano essere per la maggior parte ancora tarati troppo verso il basso. Ciò comporta, di
fatto, l’attribuzione di “rendite fiscali” per le attività più floride.

Inoltre ancora GE.RI.CO. tratta in maniera troppo simile attività tra loro molto diverse quali
quelle di prestazioni di servizi e di commercio. Nelle prime, infatti, la redditività risulta
fortemente influenzata dalle possibilità di lavoro degli addetti, nelle seconde, invece, dalla
quantità di beni scambiati.

Si auspica un ulteriore intervento di revisione da parte del legislatore capace di eliminare
questi difetti, ma soprattutto, al fine di creare una nuova mentalità nei contribuenti e nei loro
consulenti e di far sentire un più forte presenza sul territorio, un continuo e costante
aggiornamento degli stessi in grado di cogliere le evoluzioni in seno al mercato[76].

Come osservato però, una grossa responsabilità, spetterà agli uffici dell’Amministrazione
finanziaria al fine di consentire una corretta applicazione della normativa sugli studi di settore,
per non trasformare i relativi accertamenti, in accertamenti di un “reddito normale” di tipo
catastale.

Non dovranno, cioè utilizzarli in maniera automatica ed acritica, ma li dovranno
adeguatamente analizzare e tenere in conto la concreta situazione di operatività dell’attività
economica, servendosi anche delle informazioni acquisite in contraddittorio con il contribuente.

Tutto ciò, come detto, dovrà trasparire nella motivazione degli avvisi d’accertamento.

                                                                            Michelangelo Spataro

[1] Il legislatore della riforma tributaria ha portato a compimento un cammino iniziato nel 1864
con l’introduzione nel Regno d’Italia dell’imposta di ricchezza mobile sul reddito netto e

                                                                                                14
proseguito nel 1923 con l’introduzione dell’imposta personale, tendente a superare gli
ottocenteschi metodi di “catastalizzazione” del reddito e quindi su una tassazione del
cosiddetto “reddito medio-ordinario”.

Il cammino legislativo verso la tassazione del reddito effettivo, è proseguito con il testo unico
delle imposte dirette (T.U.I.D.) del 1958 [D.P.R. 645/1958], anche se l’Amministrazione
tributaria manteneva ancora vasti spazi di manovra per addivenire ad una tassazione basata
su redditi presunti (gli uffici dell’Amministrazione finanziaria potevano, per un verso, nel caso
in cui risultavano perdite, spese inesistenti o superiori a quelle effettive, mancata o falsa
indicazione di entrate, integrare o rettificare induttivamente la dichiarazione attraverso un
accertamento di natura integrativa-induttiva, per un altro procedere ad un accertamento
sintetico basato su qualsiasi elemento di cui erano in possesso o che avevano altrimenti
raccolto circa la situazione economica dell’impresa.), e come detto si è completato con la
riforma tributaria degli anni settanta con il quale si è stabilito il principio secondo cui il reddito
oggetto di tassazione per gli esercenti arti e professioni e le imprese doveva essere quello
desunto dalle scritture contabili. Si veda sul tema F. Gallo, Il dilemma tra tassazione del
reddito normale o effettivo: il ruolo dell’accertamento induttivo, in Rass.Trib., pag. 459 e ss. e
N. Pollari, Diritto tributario tra principi ed economia della finanza pubblica, Ed. Laurus Robuffo,
pag. 328 e ss. .

[2] Cfr. G. Pezzato, L’accertamento in base all’art. 62-sexies della L. 29 ottobre 1993, n. 427.
Problematiche e profili evolutivi, in Il Fisco, n. 17/1998, pag. 5452 e S. Capolupo,
Accertamento. Il definitivo abbandono del metodo analitico, in Il Fisco, n. 23/1994, pag. 5544
e ss.

[3] Cfr artt. 3 e 4, Disposizioni preliminari al Codice Civile ed art. 17, commi 3 e 4, L. 23
agosto 1988, n. 400.

[4] Cfr. art. 95 Cost. ed art. 4, D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Possono essere definiti come
provvedimenti contenenti proposizioni prescrittive generali che hanno per destinatari una
pluralità di soggetti non determinabili a priori, bensì esclusivamente a posteriori in sede di
applicazione dell’atto.

[5] Si veda A. Dorrello, La natura giuridica dei decreti ministeriali d’approvazione degli studi di
settore, in Dir. Prat. Trib., n. 2/2003, pag. 265.

[6] La generalità può essere definita coma “l’attitudine della norma a regolare categorie di fatti
o di comportamenti senza riferimento a situazioni o soggetti determinati”. Cfr. T. Martines,
Diritto Costituzionale, nona edizione, pag. 61, Giuffrè Editore.

[7] Intesa quale indefinita ripetibilità ed applicabilità a fattispecie concrete.

[8] Intesa quale capacità di concorrere a costituire o a innovare l’ordinamento giuridico
mediante l’immissione di nuove norme nel sistema ordinamentale.

[9] Cfr. Cass. SS.UU., 28 novembre 1994, n. 10124 richiamata da Cons. Stato, Sez. IV, 15
febbraio, 2001, n. 732.

[10] Si veda Cons. Stato, Sez. II, 14 luglio 1997, n. 63. Cfr. A. Dorrello, La natura giuridica dei
decreti ministeriali d’approvazione degli studi di settore, cit.

[11] Si veda A. Dorrello, La natura giuridica dei decreti ministeriali d’approvazione degli studi
di settore, cit.

[12] Cfr. A. Dorrello, La natura giuridica dei decreti ministeriali d’approvazione degli studi di
settore, cit.

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