Dossier sul virus di stato: intercettazioni e funzioni atipiche tra violazioni della privacy ed esigenze di tutela

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                              Direttore responsabile: Antonio Zama

   Dossier sul virus di stato: intercettazioni e funzioni
atipiche tra violazioni della privacy ed esigenze di tutela*
 Dossier on a State virus: interceptions and atypical functions between privacy violations
                                     and protection needs
                                                  12 Gennaio 2021
                                                  Emanuele Toma

* Il contributo è stato sottoposto a referaggio con valutazione favorevole.
Articolo pubblicato nella sezione La triade del giudizio del numero 1/2021 della Rivista "Percorsi
penali".

Abstract
“L’accidentato percorso del «captatore informatico» giunge ad un nuovo approdo con la riforma Orlando.
Dalla giurisprudenza pregressa alle nuove disposizioni il presente contributo fornisce una panoramica
sull’argomento, fra pregi e difetti, prospettando soluzioni (de iure condendo e de iure condito) alle più
discusse criticità.”
“The rocky road of the«Trojan virus» brings it to a new shore, conquered through a long waited reform
(“Riforma Orlando”). Analyzing the new rules and the established jurisprudence, this paper tends to give
a panoramic view on the subject, among strenghts and weaknesses, proposing solutions to the most
discussed criticalities.”

Sommario
1. Introduzione. L’importanza del linguaggio: il vocabolario del “captatore”.
2. L’invasione della privacy tra le Sezioni Unite Prisco e Scurato.
3.1 La tutela del domicilio e delle conversazioni tra Corte costituzionale…
3.2 (segue) …e giurisprudenza di Strasburgo.
4. Habemus legem! Le scelte critiche della “riforma Orlando”.
5. La patologia e l’inutilizzabilità costituzionale.

Summary
1. Introduction. The importance of language: the vocabulary of the "catcher".
2. The invasion of privacy between the United Sections Prisco and Scurato.
3.1 The protection of domicile and of conversations between the Constitutional Court ...
3.2 (continued)… and Strasbourg jurisprudence.
4. Habemus legem! The critical choices of the "Orlando reform".
5. The pathology and constitutional inoperability.
1. Introduzione. L’importanza del linguaggio: il vocabolario del “captatore”
L’accidentato percorso seguito dalla riforma della disciplina delle intercettazioni ha attraversato due
legislature e tre governi.
Essa si origina nel contesto del governo Gentiloni con la “riforma Orlando” (L. 103 del 2017), viene attuata
con il “decreto intercettazioni” (d.lgs. 216 del 2017), la cui entrata in vigore è stata differita e il testo
sottoposto a numerose modificazioni già nel corso del primo governo Conte, tra le altre merita di essere
menzionata la legge sprezzantemente chiamata “spazza-corrotti” (L. 3 del 2019), ed entra, infine, in vigore
nel testo da ultimo modificato dal D. L. 161 del 2019 nel contesto del governo Conte-bis.
Il solo dato temporale costituisce, per se, emblematica manifestazione della delicatezza dell’argomento.
Delicatezza che deriva dal valore del tutto singolare che l’intimità del domicilio privato e la segretezza
delle comunicazioni (riassunti nel diritto alla privacy) vanno acquisendo. Rectius: della sensibilità che
l’opinione pubblica sta sviluppando sull’argomento.
Quando si discute del delicato problema del bilanciamento tra tali interessi individuali e gli (altrettanto
pregevoli) interessi della collettività alla pubblica sicurezza e alla repressione criminale, il buon legislatore
dovrebbe operare con estrema cautela. La buona tecnica legislativa, infatti, gli imporrebbe di soppesare la
scelta di ogni singolo vocabolo, senza farsi guidare dall’impulso di prendere scelte di “facile politica” per
accontentare lo stomaco (sempre borbottante) del Belpaese.
Inutile ribadire come queste siano qualità che al nostro legislatore mancano da molto tempo[1].
Il problema lessicale non è affatto marginale ed è il primo, preliminare, punto che il presente dossier
affronterà. In questo caso particolare, l’imperizia linguistica si manifesta, soprattutto, attraverso il
malgoverno dei termini tecnici che vengono impiegati. Per intenderci, il “captatore informatico” non esiste:
si tratta di un concetto di creazione legislativa, capace di riassorbire in sé una pluralità di funzionalità
tipiche dei software più disparati. Questo porta a due complicazioni.
In primo luogo, porta molti all’erronea confusione tra il concetto legislativo di “captatore” e il programma
noto come Trojan horse. I due, in verità, non coincidono: il Trojan è solo una parte del tutto, e può essere
inteso come la modalità d’attacco o come il mezzo con cui inoculare nel dispositivo bersaglio un secondo
programma che è quello che svolgerà l’attività “captativa” vera e propria. Inoltre, esso è perfettamente
defettibile, ben potendosi avere modalità di inoculazione che prescindano dall’utilizzo del Trojan
, ad esempio tramite l’installazione manuale diretta.
In secondo luogo, e conseguentemente, viene creata la necessità di inquadrare giuridicamente tutte quelle
attività investigative, diverse dalle intercettazioni, che possono essere svolte con il captatore. Pensiamo, tra
le tante al download da remoto dei documenti conservati all’interno del dispositivo, all’attivazione della
telecamera o allo screen-capture: nel silenzio della novella, dovranno reputarsi prove atipiche? O forse
potranno essere ricondotte alla disciplina di prove tipiche, magari atipicamente assunte?
La recente riforma ha inteso regolare solamente la particolare modalità di esecuzione delle intercettazioni
svolte per mezzo di questo “captatore informatico”, con la conseguenza che le altre funzionalità del
captatore vengono lasciate alle soluzioni elaborate anteriforma: vale a dire, prove atipiche fintanto che non
siano riconducibili ad una delle prove tipizzate al di fuori dell’ambito delle intercettazioni. Oltre l’intento
della novella, apparirebbe andare l’interpretazione secondo la quale ogni funzionalità non contemplata
sarebbe da ritenersi vietata.
Non ci si può astenere dal notare come sarebbe stata più auspicabile[2] l’introduzione di una definizione
precisa di cosa debba intendersi per “captatore informatico”, di quali siano le sue funzioni tipiche e quali
quelle vietate e, soprattutto, di una specifica previsione che regolasse la procedura del suo impiego
(installazione, attivazione, etc.), se non l’introduzione di un intero nuovo Capo all’interno del titolo terzo,
dedicato al captatore, alla sua disciplina e all’inutilizzabilità delle prove tramite questo ottenute.
Forse, una più soddisfacente soluzione sarebbe stata raggiunta seguendo l’impostazione proposta dal
D.D.L. “Quintarelli” (C. 4260 del 2017, che non ha mai visto la luce) che si proponeva di disciplinare il
captatore informatico, distinguendo tre “funzioni”: i) “osservazione dei dispositivi e acquisizione da
remoto dei dati contenuti in un sistema informatico”; ii) “intercettazione di conversazioni e comunicazioni,
anche tra presenti”; iii) “acquisizione della posizione geografica”.

2. L’invasione della privacy tra le Sezioni Unite Prisco e Scurato
Ma se risulta insufficiente la portata delle innovazioni apportate dal legislatore (si voglia per imperizia, si
voglia per paura di scontentare l’opinione pubblica), per converso, dovrà necessariamente continuare a
riconoscersi il valore della giurisprudenza precedente alla riforma, in tema di intercettazioni e di tutela
della privacy.
A testimonianza della “vivacità” della materia in discussione bisogna notare che nell’ultimo ventennio le
Sezioni Unite della nostra Suprema Corte sono state chiamate a intervenire sull’argomento con una
frequenza (in proporzione) davvero impressionante.
Nel ripercorrere, in ordine cronologico e non d’importanza, le principali pronunce sul tema, tracceremo un
quadro dello sviluppo della sensibilità con cui si è preso in considerazione il diritto alla privacy, quale
fil rouge della trattazione.
Il punto di partenza della recente elaborazione giurisprudenziale sul tema deve essere individuato nelle
Sezioni Unite Prisco[3] del 2006, con le quali si sono tracciati alcuni precisi limiti all’arbitraria
videoripresa eseguita all’interno del privato domicilio. Con tale pronuncia, il Supremo Consesso è stato,
innanzitutto, chiamato a decidere sulla qualificabilità delle riprese audiovisive come prova documentale
ovvero come intercettazione, giungendo alla conclusione che il distinguo debba avere carattere formale: la
Sentenza Prisco stabilisce che, le medesime videoregistrazioni, effettuate al di fuori (ma non
necessariamente prima) del procedimento abbiano carattere di prova costituita (dunque prova
documentale), mentre effettuate nel corso del procedimento dalla polizia giudiziaria esse assumerebbero
carattere di prova costituenda e, dunque, da sottoporre alla disciplina della prova atipica di cui all’art. 189
c.p.p.
Allo stesso tempo, però, auspicando un mai avvenuto intervento legislativo, viene puntualizzato che tale
distinzione possa operare solo al di fuori dell’ambito domiciliare, laddove entrano in gioco le garanzie
dell’art. 14 Cost. (pochi anni prima, nel 2002, esaminate dalla Corte costituzionale proprio in relazione alla
disciplina delle intercettazioni[4]).
Qualora le stesse videoriprese vengano svolte in ambito domiciliare o in altri luoghi ad esso assimilabili la
Corte di Cassazione impone, assai condivisibilmente, il ricorso ad un ulteriore criterio di carattere oggettivo
: secondo una valutazione da operarsi ex post, qualora ad essere concretamente registrati siano
comportamenti di tipo comunicativo, la prova sarà considerabile alla stregua di una vera e propria
intercettazione e, quindi, regolata dalla disciplina di cui agli artt. 266 e susseguenti c.p.p.; altrimenti, le
stesse dovranno continuare ad intendersi prove atipiche ai sensi dell’art. 189 c.p.p.
Ma in quest’ultimo caso, esse non potranno trovare asilo.
Sul punto, pur prendendo atto dell’intenso dibattito dottrinale e giurisprudenziale sul tema
dell’inutilizzabilità delle prove c.d. incostituzionali, la Suprema Corte ritiene di poter glissare
sull’argomento, non prendendo una posizione a riguardo ed escludere la rilevanza di tali ultime prove
facendo leva sulla disciplina dell’ammissibilità.
Rileva la Corte, con argomentazioni di dubbia condivisibilità, che l’istituto dell’inutilizzabilità sia destinato
ad operare unicamente nei confronti delle prove tipiche e non anche per quelle atipiche. Queste ultime,
invece, sarebbero destinate ad essere escluse in un momento antecedente, secondo le regole che
disciplinano l’ammissibilità della prova: ciò perché l’art. 189 c.p.p. implicitamente prevedrebbe
l’esclusione delle prove vietate dalla legge non potendole considerare “prove non disciplinate dalla legge”
[5].
Tali ultime argomentazioni, a fronte di una decisione complessivamente condivisibile e ben motivata, non
appaiono convincenti e sembrano enunciate con l’unico fine di non prendere posizione rispetto al citato
dibattito attorno all’inutilizzabilità costituzionale della prova[6]. Infatti, sembra rimanere insuperata
l’obiezione (appena accennata dalla Corte) che per prova atipica debba intendersi la prova sprovvista di
una disciplina processuale tipizzata, in conseguenza potendo e dovendo trovare applicazione la disciplina
dell’inutilizzabilità di cui all’art. 191 c.p.p. anche con riferimento alle prove atipiche.
Pregevoli risultano, invece, le categorizzazioni operate dalla Suprema Corte al fine di operare una corretta
qualificazione delle videoregistrazioni audio-visive, a seconda delle modalità esecutive e della nature delle
immagini riprese, di volta in volta come prove documentali, intercettazioni ovvero prove atipiche. Per
quanto riguarda la differenziazione tra ripresa di comportamenti comunicativi e non, essa sembrerebbe tale
da trovare applicazione anche al di fuori del contesto del domicilio privato dato che, al di là del mero
rilievo che essa sia stata affermata con riferimento alle riprese negli ambienti domiciliari, appare
affermazione di carattere generale.
Ma ciò che più di tutto attira la nostra attenzione è il rilievo centrale che viene dato all’art. 14 della
Costituzione, vale a dire al diritto all’inviolabilità del domicilio, che funge da limite assoluto alle esigenze
di repressione criminale espresse dalla disciplina delle prove.
Seguono la Sentenza Prisco altre pronunce[7] fra le quali vale la pena ricordare nel 2006 le Sezioni Unite
Carli[8], che impongono lo svolgimento presso la Procura (e tramite l’utilizzo degli impianti ivi esistenti)
dell’attività di registrazione e nel 2008 le Sezioni Unite Lasala[9], con le quali si afferma il diritto assoluto
del difensore a ricevere le registrazioni delle intercettazioni sommariamente trascritte dalla polizia
giudiziaria[10], ma soprattutto segue l’avvento dei dispositivi portatili, degli smartphone e delle
intercettazioni operate mediante captatore informatico.
Con questo, le intercettazioni raggiungono un livello di invasività senza precedenti che ha reso necessaria
la rivisitazione dei limiti e delle garanzie apprestate dal legislatore: necessità cui risponde in primo luogo la
Corte di Cassazione con le Sezioni Unite Scurato[11], la prossima grande decisione su cui andremo a
trattenere la nostra attenzione[12]. Siamo nel 2016, un anno prima della riforma Orlando.
La Suprema Corte prende immediatamente atto della molteplicità di funzioni cui il “captatore informatico”
possa essere adibito, tuttavia limitando la portata della propria decisione alla sola funzionalità di
intercettazione “ambientale”, data la circoscritta portata della questione loro devoluta.
La questione, di fatti, concerne la possibilità o meno di disporre l’utilizzazione del virus di Stato senza la
previa individuazione dei tempi e dei luoghi in cui saranno attivati microfono e webcam. Il carattere
itinerante (o ambulante come lo definiscono alcuni autori[13]) che caratterizza questo straordinario mezzo
di indagine pone il problema di prima evidenza del rischio di ottenere, accidentalmente, registrazioni audio
o video all’interno dell’ambito domiciliare, che sappiamo essere coperto dalle stringenti garanzie che già
avevano portato alla Sentenza Prisco.
Nel rifiutare l’impostazione seguita dalla Sentenza Musumeci[14] (che proponeva la necessaria
enunciazione dei tempi e dei luoghi nei quali sia prevista l’attivazione di microfono e webcam), il Supremo
Consesso enuncia il principio di diritto per cui non ogni intercettazione ambientale richiede il rispetto di
questa garanzia, essendo unicamente riferita a quelle intercettazioni destinate a svolgersi anche in ambiente
domiciliare. Solamente in tale ipotesi le intercettazioni saranno inutilizzabili, mentre in tutti gli altri casi si
avrà una mera irregolarità, senza alcuna sanzione processuale.
Ma se il discrimine ha natura spaziale, allora emerge in tutta la sua evidenza l’importanza del carattere di
eccezionalità che deve contraddistinguere la disciplina del software-spia visto che, per sua natura, esso non
è vincolato ad un unico luogo ma itinerante: la Corte di Cassazione adotta, astutamente, un parametro di
tipo oggettivo che distingue a seconda del reato per cui si sta procedendo. Il ragionamento è semplice e
chiaro: se è impossibile per il giudice predeterminare i luoghi in cui il captatore verrà attivato (e se,
comunque, sarebbe impossibile ex post verificare l’avvenuto rispetto di tali condizioni), allora la
conclusione deve essere quella di permettere l’impiego di tale tecnica captativa solo nei procedimenti per
quei reati per cui sarebbe sempre permessa l’intercettazione ambientale anche all’interno del domicilio
privato.
Il problema principale che si realizza nel caso di ricorso
   all’impiego del captatore è, infatti, costituito dalla tutt’altro che
   remota possibilità che anche ricorrendo i requisiti per
   l’attivazione del microfono o della videocamera all’interno del
   domicilio di uno specifico soggetto (perché vi è ragione di
   ritenere che ivi si svolga l’attività criminosa[15]), esso potrebbe
   essere attivato all’interno di altro domicilio. Per risolvere tale
   problema le Sezioni Unite Scurato fanno riferimento alla
   disciplina speciale dettata in tema di reati di criminalità
   organizzata[16], per la quale (sulla base di un bilanciamento di
   interessi operato dal legislatore e della cui legittimità
   costituzionale vedremo infra al paragrafo seguente) ai fini del
   perseguimento dei citati reati il diritto all’inviolabilità del
   domicilio subisce una compressione notevole, essendone
   permessa l’invasione anche senza che ricorra il presupposto di
   cui all’art. 266, co. 2, c.p.p., e senza la previa indicazione dei
   luoghi e dei tempi in cui svolgere l’intercettazione ambientale. In
   sintesi: non potendo essere certi che utilizzando il captatore non
   si operino intercettazioni domiciliari in violazione dei
   presupposti stabiliti dalla legge, esso potrà essere utilizzato solo
   laddove tali presupposti non siano richiesti.
In due punti, almeno, la sentenza risulta infelice.
In primo luogo, già si è detto, la sentenza non delinea dei limiti di carattere generale all’impiego del
software noto come “captatore informatico” con riguardo ad ogni sua possibile funzionalità, ma concentra
la propria attenzione unicamente sul suo utilizzo come mezzo di intercettazione ambientale. Benché sia
encomiabile pratica quella di non esulare eccessivamente dall’ambito della questione devoluta, non si vede
come le Sezioni Unite non abbiano ritenuto utile, in quanto pregiudiziale all’utilizzabilità del captatore
come mezzo di intercettazione, delineare anche i presupposti al ricorrere dei quali si possa, innanzitutto,
ricorrere allo stesso. Perdendo tale opportunità, rimangono prive di qualsivoglia disciplina tutte le
(numerose) altre funzionalità del virus, che continueranno ad essere assoggettate alla disciplina cui si
reputino di volta in volta riconducibili: ad esempio, nel caso di attivazione della webcam, si dovrebbero
reputare applicabili le conclusioni della Sentenza Prisco, sopra esposte.
In secondo luogo, appare poveramente motivata, e perfettamente evitabile, la parte della Sentenza nella
quale il Supremo Consesso nella quale enuncia che “Nel caso di captazioni eventualmente avvenute in
luoghi di privata dimora al di fuori dei presupposti di cui all'art. 266, co. 2, cod. proc. pen., non potrebbe
nemmeno invocarsi la sanzione della inutilizzabilità essendo la stessa riservata a gravi patologie degli atti
del procedimento e del processo, e non ad ipotesi di adozione di provvedimenti contra legem e non
preventivamente controllabili quanto alla loro conformità alla legge”[17]. Tale passaggio, del tutto
superfluo, da un lato, sembra gettare discredito sulla dottrina dell’inutilizzabilità costituzionale della prova
senza affrontare il problema con l’accuratezza che meriterebbe (dopo essersi tanto accuratamente tenuta nei
limiti della questione loro devoluta per quanto riguarda i presupposti per l’utilizzabilità del captatore!)
mentre, dall’altro, ora che il captatore più largamente impiegabile potrebbe (se si continuasse a seguire tale
impostazione) dilatare in maniera eccessiva l’utilizzabilità di intercettazioni avvenute in ambito domiciliare
senza il ricorso dei presupposti di cui all’art. 266 c.p.p.

3.1 La tutela del domicilio e delle comunicazioni tra Corte costituzionale…
Il quadro giurisprudenziale può essere completato solo esaminando il presupposto di partenza delle
decisioni sopra analizzate e finora rimasto sottaciuto, costituito dalla giurisprudenza costituzionale in tema
di diritto all’inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.) e alla segretezza e libertà della corrispondenza e delle
altre comunicazioni (art. 15 Cost.), intesi, rispettivamente, come proiezione “spaziale”[18] e “spirituale”
[19] della persona.
Storicamente, la prima fondamentale sentenza che vale la pena esaminare è la celebre Sent. 34 del 1973[20]
, spesso richiamata come fondamento per la dottrina c.d. delle prove incostituzionali (cui, è bene dirlo
subito, lo scrivente aderisce).
Nel caso di specie, il giudice delle leggi era chiamato a giudicare della tenuta costituzionale della disciplina
delle intercettazioni prevista dal vecchio codice di procedura penale, con riguardo al rispetto del diritto alla
segretezza delle comunicazioni di cui all’art. 15 della Carta costituzionale, giungendo a ritenere detta
disciplina conforme e, quindi, a rigettare la questione.
Vale, però, la pena di soffermarsi su due punti fondamentali affrontati dalla Corte: da una parte, il
contenuto e i limiti della tutela costituzionale delle comunicazioni e, dall’altra, le conseguenze processuali
della prova assunta in violazione della Costituzione.
Sotto il primo profilo, vale la pena di sottolineare quanto presto siano emerse le esigenze di tutela
nell’ambito dell’intercettazione di comunicazioni, data l’evidente ingerenza all’interno della sfera privata
dell’individuo. Scendendo nel merito della decisione della Corte costituzionale, invece, possiamo
rintracciare un nucleo di garanzie che il legislatore è tenuto a rispettare affinché l’art. 15 si possa ritenere
inviolato.
Inquadrata la questione come un bilanciamento da operare fra il diritto alla segretezza delle proprie
comunicazioni e l’interesse della collettività alla prevenzione e repressione dei reati, il giudice delle leggi: i
) riconosce che il diritto contemplato dall’art. 15 della Costituzione sia connaturale ai diritti della
personalità definiti inviolabili dall’art. 2 della stessa; ii) stabilisce che le operazioni non possano essere
eseguite direttamente dalla polizia giudiziaria ma debbano essere disposte da un magistrato; iii
) afferma che il rispetto dell’art. 15 impone al giudice che disponga le intercettazioni di fornire una
motivazione puntuale sulle ragioni che impongano il ricorso a tale mezzo d’indagine, e sulla durata per le
quali le stesse si dovranno protrarre; iv) afferma altresì che le modalità di esecuzione debbano essere tali da
consentire al magistrato un controllo sul rispetto dei limiti imposti, in modo che possano accedere al
processo solo le intercettazioni autorizzate; v) stabilisce che l’ordinamento debba disporre meccanismi di
controllo sulla legittimità del decreto che dispone le intercettazioni e limiti entro i quali i materiali raccolti
siano utilizzabili nel processo; vi) riconosce, infine, che si porrebbe in violazione degli artt. 2 e 15 della
Costituzione un ordinamento che consentisse la divulgazione in pubblico dibattimento delle comunicazioni
non inerenti al processo.
Si tratta di un complesso sistema di limiti e garanzie che debbono essere rispettati anche nel perseguimento
di altri interessi e che, come vedremo a breve, sono analoghi a quelli previsti dalla giurisprudenza della
Corte Europea dei Diritti Umani[21] .
Sotto il secondo profilo, la Corte costituzionale afferma con forza un principio fondamentale che deve
regolare il processo penale in generale, vale a dire quello per cui “le attività compiute in dispregio dei
fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per se a giustificazione ed a fondamento di
atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito”[22] perché “un
diritto riconosciuto e garantito come inviolabile dalla Costituzione sarebbe davvero esposto a gravissima
menomazione”[23].
Risulta facile, allora, comprendere la ragione per cui questa decisione di oltre 45 anni fa continui ad essere
il fulcro attorno al quale ruota il dibattito sull’incostituzionalità della prova, una sentenza pronunciata sotto
la vigenza del vecchio codice di procedura penale, vale a dire quando la specifica forma di invalidità
costituita dall’inutilizzabilità neppure era prevista.
Ma è proprio questo, secondo autorevolissima dottrina[24], il punto debole di questa pronuncia, che
impedisce di ritenerla una conferma abbastanza autorevole della vigenza del principio di necessaria
costituzionalità della prova nel nostro ordinamento. Secondo l’autore, infatti, essendo la stessa pronunciata
con riferimento ad un ordinamento diverso da quello attuale, essa non potrebbe essere ritenuta ancora
attuale.
Tuttavia, ben consapevole della posizione di grande subalternità dello scrivente rispetto alla dottrina
accennata, non ci si può astenere dal notare come lo stesso principio sia stato enunciato in termini ampi e
onnicomprensivi, tali da trascendere la concreta manifestazione dell’ordinamento processuale penale che
vigeva al tempo, per imporsi come principio generale e sovraordinato.
A ragion maggiore possiamo continuare ad affermare il valore
   di queste conclusioni osservando come esse siano state
   riaffermate proprio dalla Corte costituzionale sotto la vigenza
   del nuovo codice con una sentenza[25] che, facendo proprie le
   conclusioni della sent. 34/1973, vi fa ampio riferimento
   arrivando ad affermare (ancora in tema di intercettazioni!) che
   l’attinenza della libertà e della segretezza della comunicazione al
   nucleo essenziale dei valori della personalità[26] comporta un
   particolare vincolo interpretativo, diretto a conferire a quella
   libertà un significato espansivo e che non possano validamente
   ammettersi in giudizio mezzi di prova che siano stati acquisiti
   attraverso attività compiute in violazione delle garanzie
   costituzionali poste a tutela dei fondamentali diritti dell'uomo o
   del cittadino.
Potendo, ai fini della presente analisi, riconfermare il valore dei principi affermati dalla sentenza 34/1973,
volgiamo ora la nostra attenzione sulla seconda – solo cronologicamente – decisione della Corte
costituzionale che, anche perché presa in espressa considerazione dalle commentate Sezioni Unite Prisco,
completerà la ricostruzione del panorama giurisprudenziale nazionale[27]. Il riferimento è alla decisione
135/2002[28], con la quale, rigettando la questione d’illegittimità costituzionale tesa all’ottenimento di una
pronuncia additiva che allineasse la disciplina delle riprese audiovisive nei luoghi di privata dimora a
quella delle intercettazioni tra presenti effettuate nei medesimi luoghi, veniva operata un’accurata
distinzione tra la tutela approntata dall’art. 14 Cost. in favore dell’inviolabilità del domicilio e quella
sancita dall’art. 15 Cost. a garanzia della segretezza delle comunicazioni.
Il giudice delle leggi giunge ad affermare che, sebbene libertà di domicilio e libertà di comunicazione
rientrino entrambe in una comune e più ampia prospettiva di tutela della “vita privata” — oggetto di
previsione congiunta ad opera degli artt. 8 della Carta EDU[29] e 17 del Patto internazionale sui diritti
civili e politici, nonché 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea —, esse vadano distinte
sul piano dei contenuti.
 La Corte prosegue spiegando che la libertà di domicilio avrebbe una valenza essenzialmente negativa,
concretandosi nel diritto di preservare da interferenze esterne determinati luoghi in cui si svolge la vita
intima di ciascun individuo, mentre la libertà di comunicazione, pur presentando un fondamentale profilo
negativo costituito dal diritto di esclusione di tutti i soggetti non legittimati dall’apprendimento della
comunicazione, avrebbe un contenuto qualificante positivo, quale “momento di contatto fra due o più
persone finalizzato alla trasmissione di dati significanti”[30].
Abbiamo così delineato i contenuti e la portata dei diritti di cui all’art. 14 e 15 della Costituzione, rilevanti
ai sensi dell’art. 2 della stessa Carta costituzionale, vale a dire quelli messi in pericolo (e, effettivamente,
lesi) dall’attività di intercettazione, ed in particolar modo dal captatore informatico.
Tuttavia, deve ancora farsi un breve cenno (in quanto profondamente condivisa) a quella dottrina[31]
che invita la giurisprudenza italiana a prendere coscienza dell’esistenza di una nuova dimensione,
altrettanto concreta, in cui al giorno d’oggi la personalità dell’individuo ha diritto a svilupparsi nella più
completa intimità. Si tratta di quello spazio privato costituito dal “domicilio digitale”, cui in Germania già
si è arrivati ad estendere le stesse tutele che vengono previste per il domicilio fisico: non vi sono dubbi,
infatti, che la maggior parte delle incertezze sul tema qui in discussione verrebbero risolte qualora anche la
giurisprudenza italiana adottasse tale approccio.

3.2 (segue) …e giurisprudenza di Strasburgo
Ma nei tempi moderni, caratterizzati dalla sempre crescente internazionalizzazione dell’ordinamento, non
si può ritenere sufficientemente analizzato l’argomento senza i necessari approfondimenti sul tema anche
nell’ottica dei principi di diritto di matrice internazionale che il nostro ordinamento è chiamato a rispettare.
Giova ricordare, in proposito, che la Convenzione EDU, ha efficacia diretta nel nostro ordinamento per un
duplice ordine di ragioni: in primo luogo, perché in forza dell’art. 117 della nostra Costituzione lo Stato e
le regioni esercitano la propria potestà legislativa “nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento
internazionale”; in secondo luogo, sulla base del richiamo che l’ordinamento dell’Unione Europea effettua
al co. 3 dell’art. 6 TUE, rendendo parte integrante delle sue fonti anche la CEDU e i diritti fondamentali ivi
sanciti, anche in assenza di una espressa adesione[32].
Come certamente noto, il diritto all’inviolabilità del domicilio e delle comunicazioni sono, all’interno della
Convenzione, trattati congiuntamente all’art. 8 (rubricato “diritto al rispetto della vita privata e familiare”),
che sancisce al suo primo comma il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare e
(specifica subito) del proprio domicilio e corrispondenza.
Subito possiamo trarre due considerazioni.
In primis, vale la pena sottolineare l’assolutezza della tutela garantita dalla Carta EDU, che rende illecita
qualsiasi interferenza, posta in essere da qualsiasi soggetto (pubblico o privato che sia), nei confronti di
qualsiasi soggetto, che possa porre in pericolo in qualsiasi modo il diritto (potremmo dire) all’intimità
della propria vita privata.
In secundis, si potrebbe argomentare che, ponendo sullo stesso piano le due libertà (che, come vedremo a
breve, mantengono comunque contenuti diversi) si dà al diritto al rispetto della corrispondenza un
contenuto più pregnante di quello alla segretezza delle proprie comunicazioni stabilito all’art. 15 della
nostra Costituzione.
Dopo aver posto la regola dell’inviolabilità della vita privata di
   ogni persona, l’art. 8, co. 2, CEDU, enuncia l’eccezione, vale a
   dire i casi in cui può ammettersi una invasione della vita privata
   di taluno: “Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica
   nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista
   dalla legge e costituisca una misura che, in una società
   democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica
   sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine
   e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della
   morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Proprio con riguardo all’interferenza che l’impiego dei meccanismi di intercettazione provoca con i
contenuti del descritto art. 8 CEDU, è stata chiamata a pronunciarsi numerose volte la Corte di Strasburgo
analizzando, innanzitutto, le condizioni alle quali la disciplina nazionale possa ritenersi conforme alle
garanzie del citato articolo[33].
Nel tentativo di delineare le garanzie che l’ordinamento nazionale deve prevedere e rispettare, possiamo
ricordare almeno le seguenti.
In primo luogo, l’ordinamento interno deve prevedere chiaramente le condizioni alle quali possa
permettersi l’esecuzione di un’attività captativa nei confronti di taluno, costituendo questo il minimo
indefettibile perché l’art. 8 della CEDU possa ritenersi rispettato. Tali condizioni devono, peraltro, essere
ricomprese tra quelle tassativamente elencate dall’ultimo periodo del secondo co. dell’art. 8. La Corte di
Strasburgo chiarisce che la riserva di legge che garantisce il rispetto del diritto alla privacy
dell’individuo non richiede una tassativa e specifica elencazione di ogni caso in cui sia ammessa la
disposizione di un’intercettazione, ben potendosi ammettere la previsione di condizioni meno determinate
purché si continui a rispettare il criterio della “forseeability”: per quanto una previsione indeterminata non
sia, per ciò solo, incompatibile con il sistema di garanzie della Carta, le sue applicazioni concrete dovranno
essere considerabili come conseguenze prevedibili della norma[34].
 In secondo luogo, la Corte EDU afferma che la legge nazionale debba prevedere chiaramente i limiti
temporali di durata massima nei quali l’attività di intercettazione può svolgersi, nonché le condizioni che
ne permettano la proroga e quelle che ne impongano la cessazione, in quanto la possibilità di far protrarre
arbitrariamente e per un tempo indeterminato l’invasione della privacy di una persona equivarrebbe ad una
sostanziale violazione dell’art. 8[35].
In terzo luogo, devono essere previste regole precise con riguardo al potere del giudice di ordinare la
conservazione o la distruzione del materiale frutto della captazione, fornendo ai cittadini indicazioni
sufficientemente chiare a proposito delle condizioni alle quali esso potrebbe essere conservato al termine
del processo[36].
In quarto luogo, nel prevedere che le intercettazioni possano essere disposte solo da un’autorizzazione che
provenga dal potere giudiziale[37], stabilisce i requisiti che la stessa debba rispettare per rappresentare una
sufficiente garanzia: essa deve indicare con precisione la persona nei confronti della quale l’intercettazione
è disposta, le ragioni che spingono il giudice a disporla, i termini massimi di durata dell’autorizzazione e
deve essere impugnabile e contestabile[38]. Inoltre, per evitare infelici prassi che abusino delle situazioni
di urgenza per procedere direttamente all’intercettazione senza dover richiedere un’autorizzazione
giudiziale (rendendola una garanzia soltanto apparente), la Corte di Strasburgo afferma che la disposizione
di urgenza di un’intercettazione sia compatibile con l’ordinamento internazionale solo fintanto che la legge
preveda, innanzitutto, limiti precisi entro i quali si possa ricorrere a tale ipotesi e, in secondo luogo,
imponga che un giudice sia sentito in tempi brevi e che abbia non solo il potere di autorizzare la
prosecuzione dell’intercettazione ma anche quello di sindacare la legittimità della disposizione d’urgenza
[39].
In quinto luogo, perché la disciplina nazionale sia conforme all’art. 8, essa deve prevedere altresì delle
garanzie a tutela del corretto svolgimento delle operazioni, che in particolar modo si potranno ritenere
sussistenti solo quando i membri della polizia giudiziaria non abbiano diretto accesso a tutte le
comunicazioni dei privati e, comunque, quando sia previsto un sistema di controllo del potere giudiziario
tale, sempre con i necessari requisiti di indipendenza dall’esecutivo, da fungere ad idonea garanzia alla
corretta esecuzione dell’attività captativa[40].
In sesto (ed ultimo) luogo, ricoprono un ruolo di particolare interesse le garanzie rappresentate dalle
notificazioni, alla parte che è stata sottoposta ad un’intercettazione, degli avvisi di svolgimento della stessa
[41]. Difatti, argomenta la Corte di Strasburgo, al fine di poter garantire un effettivo potere di auto-tutela in
capo al cittadino, lo stato nazionale non può limitarsi a prevedere dei meccanismi di impugnazione
dell’autorizzazione ma deve mettere lo stesso in grado di venire a conoscenza dell’esecuzione della misura,
delle ragioni che hanno portato a questa e della durata per la quale essa è stata protratta. Secondo la Corte,
perché il diritto al rispetto della propria vita privata non sia svuotato del suo contenuto, ognuno deve avere
connesso diritto-potere processuale a far valere le proprie ragioni davanti al potere giudiziario, sindacando
l’eventuale illegittimità del provvedimento adottato nei propri confronti.
Il giudice di Strasburgo non dimentica, però, di tenere in considerazione che una notificazione prematura
potrebbe mettere a serio rischio l’attività investigativa in corso di svolgimento sia perché un’intercettazione
(in modo da essere efficace) deve essere svolta in segreto, sia perché l’intercettazione potrebbe collocarsi
nel contesto di un’operazione di più ampio e complesso carattere. Così, la Corte EDU ha riconosciuto,
senza spingersi ad affermare un termine minimo entro cui far pervenire la notificazione, che il potere di far
valere in giudizio le proprie ragioni sia compiutamente esercitabile solo dal soggetto in possesso delle
informazioni a proposito dell’intercettazione e, perciò, esse vanno assicurate a chiunque vi venga sottoposto
[42].
Con riguardo a quest’ultimo punto vale la pena anticipare un’obiezione da muoversi all’attuale disciplina in
tema di intercettazioni (che sarà più compiutamente analizzata infra al seguente paragrafo): in Italia, ben
potrebbe accadere che taluno sia sottoposto ad intercettazioni senza averne mai notizia, qualora le indagini
dovessero chiudersi con un provvedimento di archiviazione de plano.
Di conseguenza, nella sommessa opinione dello scrivente, la disciplina delle intercettazioni italiana già
sarebbe incompatibile con la disposizione dell’art. 8 CEDU nella parte in cui non prevede né un
meccanismo di notificazione che permetta al cittadino di sapere qualora sia stato sottoposto o meno ad
intercettazione, né un meccanismo di garanzia attivabile da chiunque anche a prescindere dalla prova della
propria sottoposizione ad una specifica misura captativa, comprimendo così il diritto di ognuno a tutelare la
propria vita privata e familiare.
Ma non è qui che si esaurisce l’interesse verso l’ordinamento EDU. Un altro punto di interesse riguarda la
questione (speculare al dibattito nazionale in tema di prova incostituzionale) delle conseguenze processuali
delle prove assunte in violazione della tutela della vita privata e familiare: può il processo che ammette la
validità delle prove ottenute in violazione dell’art. 8 della CEDU essere ritenuto “unfair” ai sensi dell’art. 6
della stessa? Quali ne sarebbero le conseguenze sul piano nazionale?
Sul punto la giurisprudenza è incerta mentre la dottrina (nazionale) è per lo più silente.
Infatti, pur essendo oscillante sul punto, la Corte di Strasburgo non è mai pervenuta ad una decisione in
Grande Chambre che dirimesse una volta per tutte la situazione di incertezza: si contrappongono, infatti,
una linea di pensiero secondo la quale l’utilizzazione di qualsiasi prova ottenuta tramite un comportamento
lesivo dei diritti fondamentali sanciti dalla Carte renderebbe, per ciò solo, il processo “unfair as a whole”
[43] e un’altra impostazione secondo la quale le garanzie sostanziali e quelle processuali sono
fondamentalmente distinte e la violazione dell’una non deve portare a ritenere una conseguente violazione
dell’altra, potendosi riconoscere come unfair solo quel processo che basi la condanna di taluno unicamente
sulla prova ottenuta in violazione della Carta[44].
Prende atto del contrasto, e della perdita dell’occasione di
   pronunciarsi in Grande Chambre, uno dei giudici della Corte di
   Strasburgo, che nell’ambito della decisione Bykhov c. Russia
   motiva la sua concorrente opinione[45]: dopo aver riconosciuto
   che non si può aderire né alla giurisprudenza dominante
   secondo la quale le violazioni dell’art. 8 non renderebbero il
   processo “unfair” in quanto non si vede come le forze di polizia
   possano essere così dissuase dal ricorrere a pratiche in contrasto
   con la Convenzione[46], né pienamente alle opinioni dissenzienti
   degli altri giudice della Corte che invece avrebbero richiesto
   l’automatico riconoscimento della violazione dell’art. 6 ogni
   volta che fosse violato un diritto tutelato dalla Carta, il giudice
   si spinge a sostenere che anche qualora la prova ottenuta in
   violazione dei diritti di un soggetto fosse soltanto addizionale o
   sussidiaria, il processo dovrebbe ritenersi “unfair” a meno che la
   violazione non si risolva nella semplice violazione di regole
   processuali formali che non costituirebbero violazione dei diritti
   comunemente riconosciuti dagli stati nazionali né dai principi
   internazionali o, comunque, il bilanciamento fra gli interessi
   pubblici perseguiti e i diritti individuali tutelati dalla
   Convenzione non si possa ritenere ragionevolmente
   proporzionato[47].
Benché la dottrina italiana non si sia espressa molto sulla questione, vale la pena di menzionare l’idea che
si è prospettata, di poter parlare, oltre che di inutilizzabilità costituzionale, altresì di inutilizzabilità
convenzionale. Secondo tale dottrina, infatti, stante la diretta e vincolante efficacia non solo della Carta
EDU, ma altresì della giurisprudenza di Strasburgo, sarebbe possibile desumere l’esistenza di un divieto
probatorio rilevante ai sensi dell’art. 191, c.p.p. oltre che dalla Carta costituzionale, anche dall’ordinamento
EDU.
Bisogna riconoscere che tale impostazione, benché compia un encomiabilissimo sforzo nel senso di
allineare il più possibile l’ordinamento italiano a quello internazionale, presta il fianco alla facile obiezione
che se è vero che la stessa Corte EDU ancora abbia ancora preso una posizione univoca sulle conseguenze
processuali della prova ottenuta in violazione dei diritti sanciti dalla Carta allora ancor più difficoltoso
sarebbe accogliere l’idea che nella stessa Carta di possa rintracciare un divieto probatorio abbastanza
esplicito da rientrare nelle maglie larghe dell’art. 191 c.p.p.
Inoltre, viene lucidamente notato[48], che per adesso la Corte Europea di Strasburgo si è limitata a dettare
un canone di interpretazione improntato sulla proporzionalità tra l’interesse collettivo perseguito (fra quelli
di cui al co. 2 dell’art. 8 CEDU) e la compressione del diritto individuale alla tutela della propria vita
privata.
Non potendosi tale principio ritenere sufficientemente specificato, in modo da attribuirvi cogenza nel
nostro ordinamento, dovremo aspettare che la Corte di Strasburgo affermi l’esistenza di una connessione
più stretta tra la violazione dell’art. 8 e l’unfairness del processo ai sensi dell’art. 6, come conseguenza
automatica o liberamente valutabile dal giudice perché sia possibile riaprire la questione.

4. Habemus legem! Le scelte critiche della “riforma Orlando”
Delineato il contesto in cui va ad inserirsi l’attesa riforma, possiamo passare ad analizzarla con l’ausilio dei
vari strumenti interpretativi che abbiamo incontrato e delineato. Tuttavia, la presente trattazione, pur
cercando di operare un’analisi onnicomprensiva della disciplina del virus di Stato, dedicherà la maggior
parte della propria attenzione ai punti più dibattuti, occorrendo ben più dello spazio a disposizione del
nostro articolo per poter fornire una disamina parimenti approfondita di ogni profilo di interesse.
In primo luogo, bisogna rilevare che la delimitazione oggettiva proposta dalle Sezioni Unite Scurato risulta
abbandonata, preferendo la scelta di un discrimine che non ha più riguardo all’eccezione prevista dall’art.
13 del D.L. 152/1991 e non compensa – come faceva invece la sentenza, nel definire il bilanciamento di
interessi – l’intensa lesività del mezzo d’investigazione con la circoscrizione ai procedimenti per reati di
criminalità organizzata della possibilità di ricorrere al captatore informatico. Essa sceglie, invece, di rifarsi
all’elencazione dei reati c.d. distrettuali, di cui all’art. 51, commi 3bis e quater, c.p.p.[49].
Accanto a questi, dalla negativamente nota legge n. 3 del 2019 (c.d. “spazza-corrotti”), sono stati aggiunti
con evidenti intenti simbolici i reati contro la Pubblica Amministrazione compiuti dai Pubblici Ufficiali e
dagli Incaricati di Pubblico Servizio[50], in modo tale che l’art. 266 c.p.p. preveda un triplice binario: sul
primo ci si muove nel caso in cui il reato per cui si si procede rientri nell’alveo dei reati distrettuali, per i
quali l’inoculazione del captatore informatico è sempre consentita; sul secondo ci si muove qualora invece
si proceda per un reato contro la Pubblica Amministrazione compiuto da un Pubblico Ufficiale o un
incaricato di pubblico servizio, per i quali l’utilizzo del captatore informatico, “previa indicazione delle
ragioni che ne giustificano l'utilizzo anche nei luoghi indicati dall'art. 614 c.p.”, è pure sempre consentito;
sul terzo, che dovrebbe[51] costituire la regola, ci si muove in tutte le restanti ipotesi, per le quali l’impiego
del captatore informatico è condizionato al ricorrere dei presupposti menzionati dall’art. 266, commi 1 e 2,
e 267 c.p.p.
Le scelte così operate dal legislatore sono criticabili sotto i seguenti profili.
Innanzitutto, apparirebbe che le norme disposte dal nostro legislatore in ordine all’individuazione
dell’ambito applicativo della disciplina delle intercettazioni in generale e del captatore informatico in
particolare rispondano più a scelte politiche, che ad una vera e propria ponderazione degli interessi in gioco
[52].
In secondo luogo, risulta evidente come, per rispondere alle esigenze politiche del momento, il legislatore
abbia operato un bilanciamento tra gli interessi in gioco che ha evidente preferenza per quelli collettivi
della repressione criminale a discapito di quelli individuali alla tutela del proprio domicilio, delle proprie
comunicazioni e, in generale, della propria vita privata (ricordiamolo, riconosciuti come diritti
fondamentali sia dalla Carta Europea dei Diritti dell’Uomo che dalla nostra Costituzione).
Sembrerebbe, almeno con riguardo a questo problema, che il legislatore non sia uscito al di fuori
dell’esercizio delle proprie prerogative e che la scelta, per quanto povera, non si ponga in contrasto né con
la Costituzione, né con l’ordinamento convenzionale (entrambi esaminati supra, §§ 3.1 e 3.2).

   Si può riconoscere che, al fianco di questa notevole estensione
   dell’ambito di applicabilità del captatore, sia stata operata una
   non indifferente riduzione scegliendo di abbandonare il criterio
   proposto dalle Sezioni Unite Scurato del riferimento alla
   criminalità organizzata[53]. Infatti, sottraendo il captatore alla
   latissima nozione giurisprudenziale di “criminalità organizzata”,
   pactum sceleris e all’incerto discrimine tra concorso interno ed
   esterno, pur aumentando le categorie di reati per le quali esso
   possa essere impiegato, da un lato, si risponde meglio alle
   esigenze di determinatezza della materia[54] e, dall’altro, si
   limita la possibilità di ricorrere ad imputazioni forzate,
   strumentali solo ad ottenere l’autorizzazione ad impiegare il
   captatore stesso[55].
L’altro punto caldo della disciplina, data la vivace discussione dottrinale che ne è immediatamente
scaturita, riguarda le modifiche operate alla disciplina dell’utilizzabilità del materiale probatorio ottenuto
tramite captatore informatico per reati diversi da quello presupposto ovvero in altri procedimenti (i c.d. “usi
obliqui”[56]).
L’art. 270, commi 1 e 1bis, c.p.p., oggi recita: “1. I risultati delle intercettazioni non possono essere
utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e
indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza e dei reati di cui
all'art. 266, co. 1.
1bis. Fermo restando quanto previsto dal co. 1, i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con
captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di
reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione qualora risultino
indispensabili per l'accertamento dei delitti indicati dall'art. 266, co. 2-bis.”
Il primo comma, dunque, fornisce la disciplina del materiale ottenuto tramite qualsiasi modalità
d’intercettazione in altri procedimenti, sancendone l’inutilizzabilità a meno che anche il reato
procedimento diverso non ricada nell’ambito dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei
reati di cui all’art. 266, co. 1, c.p.p. Il primo dubbio riguarda l’aggiunta ai delitti per i quali sia obbligatorio
l’arresto in flagranza del riferimento anche ai reati di cui all’art. 266 c.p.p., specie alla luce della Sentenza
delle Sezioni Unite Cavallo[57]. Con tale sentenza, infatti, la Corte di Cassazione sanciva (con l’intento
evidente di limitare l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni) che il divieto non avrebbe operato in
relazione ai reati che fossero risultati connessi a quello originario ex art. 12 c.p.p., “sempreché rientrino nei
limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 c.p.p.”.
Mentre le Sezioni Unite Cavallo erano mosse dalla consapevolezza dell’opportunità di limitare la libera
trasmigrazione da un procedimento all’altro del materiale probatorio raccolto con le intercettazioni, il
legislatore sembrerebbe aver perseguito una finalità di espansione, permettendo l’utilizzabilità in altri
procedimenti anche se i reati oggetto di questi rientrano nell’elencazione di cui all’art. 266 c.p.p., pur non
essendo connessi ex art. 12 e non essendo delitti previsti dall’art. 380 c.p.p.
Questo, a meno che non si voglia accogliere quell’opinione per la quale il nuovo requisito debba intendersi
come cumulativo e non alternativo agli altri: lettura che, per quanto più adatta a contemperare le esigenze
in gioco, non sembra essere quella più in linea alla lettera della norma.
Con l’intento di fornire un contrappeso alla dilatazione degli usi obliqui delle informazioni intercettate, il
legislatore ha affiancato un nuovo presupposto a quello dell’indispensabilità ai fini dell’accertamento del
secondo reato: quello della rilevanza dell’intercettazione agli stessi fini. Appare inutile spendere prezioso
inchiostro per spiegare le ragioni della superfluità e ridondanza di tale requisito.
Con specifico riferimento alle intercettazioni eseguite tramite il captatore informatico, vengono dettate le
norme di cui al co. 1bis, che si pongono in un’ottica di specialità rispetto a quelle del co. 1, come anche
testimoniato dalla clausola di salvezza[58] (della cui infelicità vedremo a breve) con cui si apre. In
particolare, la disciplina del materiale ottenuto tramite captatore informatico prevede che esso possa
utilizzato per l’accertamento di altri reati qualora risulti indispensabile per l’accertamento dei delitti
previsti dall’art. 266, co. 2bis, c.p.p.
Per ricostruire il sistema dell’utilizzabilità, tenendo coto del disposto dei due commi, dobbiamo distinguere
le ipotesi nelle quali “l’altro reato” sia stato contestato nel medesimo ovvero in altro procedimento. Nel
primo caso, non si pongono particolari problemi: esulando dal campo d’applicazione del primo comma, le
due discipline non interferiscono e il materiale sarà liberamente utilizzabile solo se il secondo reato sarà
ricompreso nel catalogo dei reati “distrettuali”.
Nel secondo caso, la soluzione si complica: dovendosi ritenere applicabili entrambe le disposizioni (in virtù
della menzionata clausola di salvezza), come possono essere coordinare in modo che il sistema risulti il più
possibile coerente?
Sembrano prospettabili almeno due ipotesi, entrambe con una rispettiva criticità.
Ipotesi numero 1: l’utilizzabilità in altro procedimento del materiale probatorio ottenuto tramite captatore
informatico è condizionata anche dal co. 1bis, oltre che dal co. 1, che si pone come ulteriore requisito
alternativo. In questo caso, però, non si vede come possa essere una soluzione sistematicamente coerente
quella che nel caso di una situazione meno lesiva (diverso reato ma medesimo procedimento) operi una
limitazione dell’utilizzabilità della prova, mentre in quella più lesiva (altro procedimento) ne espanda
l’utilizzabilità.
Ipotesi numero 2: l’utilizzabilità in altro procedimento è condizionata anche dal requisito posto dal co. 1bis
che deve reputarsi cumulativo rispetto ai requisiti di cui al co. 1. In quest’altro caso sembrerebbe svuotata
di effettività la clausola di salvezza, in quanto verrebbe compressa la norma secondo la quale i risultati
delle intercettazioni potrebbero essere utilizzati nei reati contemplati dall’art. 266, co. 1 e dei delitti previsti
dall’art. 280 c.p.p.
In realtà, sembra potersi (e doversi) preferire la seconda ipotesi. Di fatti, non bisogna dimenticare che il co.
1 dell’art. 270 pone innanzi tutto una regola (l’inutilizzabilità in altro procedimento) e poi due eccezioni
(art. 266 co. 1 e 380 c.p.p.). Di conseguenza, l’interpretazione sistematica più coerente della clausola di
salvezza di cui al co. 1bis è quella che intende richiamato non il co. 1 nella sua interezza, ma solo la regola
di esclusione ivi prevista.
La corretta definizione del combinato disposto dei due commi dell’art. 270 dovrebbe essere la seguente:
“Fatta salva” la regola generale dell’inutilizzabilità in altro procedimento del materiale probatorio disposto
dal primo comma, nel caso in cui esso sia stato ottenuto tramite l’impiego del captatore informatico viene
posta dal co. 1bis la regola eccezionale dell’utilizzabilità qualora il reato del secondo procedimento rientri
nel catalogo di cui all’art. 51 commi 3bis e quater.
Infatti, appare evidente che la finalità perseguita dal legislatore sia quella di garantire che il giudice
fornisca un’adeguata motivazione[59] sulle ragioni che impongono la necessità di ricorrere al materiale
captato in modo da evitare che , una volta ottenuta l’autorizzazione con riferimento ad un certo
procedimento, essa possa giustificare l’utilizzabilità delle informazioni ivi ottenute anche per reati per i
quali i presupposti non sussistano ovvero non siano stati verificati[60]. Ma allora ritorna lecito domandarsi
se, in realtà, tale limitazione non dovrebbe essere estesa a qualsiasi reato non contemplato dal decreto
autorizzativo, a prescindere dalla medesimezza o diversità della sede in cui si procede. A discapito delle
esigenze di tutela del privato cittadino, sembra però molto difficile accogliere questa impostazione di fronte
ad un testo che espressamente prende in considerazione la diversità di reati al co. 1bis e, invece, si limita a
parlare di diversi procedimenti al co. 1[61].
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