Oscar Wilde MODERNITÀ E CATASTROFE DI UN DANDY

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Oscar Wilde

MODERNITÀ E CATASTROFE DI UN DANDY
Anticipiamo la prefazione a un memoriale di André Gide sul geniale letterato
irlandese che verrà pubblicato da Stampa Alternativa. Lo scrittore francese,
Premio Nobel nel 1947, aveva conosciuto l’autore del “Ritratto di Dorian Gray”
a poco più di vent’anni nel 1891 restando affascinato dalla sua figura di uomo
vestito con ricercatezza, bello, ricco, colmo d’onori e dalla brillantissima, ironica
conversazione trapunta di battute al vetriolo. Dopo la condanna per
omosessualità, la detenzione e la caduta in povertà, fu però abbandonato da tutti,
anche dal suo innamorato biografo.

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di Stefano Lanuzza *

                                     Il futuro appartiene al dandy: saranno gli animi squisiti a governare

                                                                                            Oscar Wilde

Fatta valere anche contro l’avverso parere di alcuni consiglieri politici, è dell’inizio del 2007
la delibera del ministro inglese dell’Istruzione Alan Johnson che per la prima volta include
l’insulare d’Irlanda Oscar Wilde nel novero degli autori anglosassoni degni d’essere adottati
dai programmi scolastici del Regno Unito.
  Trascorre così oltre un secolo prima che la conclamata omosessualità finisca tra gli
stereotipi e le bagattelle biografiche d’un letterato e polemista la cui opera rimane tuttora
accesa dalla luce d’una ineguagliabile intelligenza fusa col genio critico e con un anelito
libertario dove il dandismo contestativo di Wilde, dai conformisti degradato a vano snobismo
per screditare la distinzione intellettuale del dandy, echeggia e corrobora il sentimento di
giustizia del popolo irlandese colonizzato dalla Gran Bretagna.
  In tale prospettiva, paiono assumere particolare valenza due opere wildiane pubblicate
rispettivamente nel 1890 e 1891: cioè la dissertazione in forma dialogata Il critico come
artista e il libello L’anima dell’uomo sotto il socialismo.
  Magari sono questi, fra gli scritti di Wilde - tutti comunque ‘scandalosi’ per la pruderie
vittoriana (si pensi al celebre Il ritratto di Dorian Gray, 1890, allegoria d’un dandy faustiano
diviso tra culto della bellezza e pervertimento, e prefigurante la tragedia finale dello stesso
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autore) -, quelli più morbosamente compulsati dai giudici che, nel 1895, davanti a una folla
schiamazzante, condannano lo scrittore a due anni di carcere duro: provocandone la
disgregazione della personalità, la rovina sociale e la conseguente morte a soli 46 anni.
   Allora, anche se si racconta che, agonizzando, Wilde faccia una lepida osservazione sulla
brutta tappezzeria della propria camera, è più verosimile che, morendo nella desolazione,
come altri testimoniano, egli prorompa in un urlo disumano...
   È ora interessante riportare qualche passo del processo contro lo scrittore, che, sfociando
nella sentenza ‘pilotata’, può ben ritenersi una farsa (ripetuta negli Stati Uniti dove, dal 1895
al 1900, sono quasi un migliaio i sermoni pubblici che ravvisano nell’omosessualità di Wilde
l’anello debole per demolirne le pericolose idee). Si veda il pretestuoso verdetto pronunciato
nel tribunale dell’ Old Bailey: “Che voi, Oscar Wilde, siate stato il centro di una vasta e
odiosa corruzione fra la gioventù” argomenta il puritano giudice di regime Collins “non c’è
da dubitarne. In queste circostanze devo pronunciare la più severa sentenza che la legge
consente e che secondo la mia opinione è del tutto inadeguata al vostro delitto, in questo che è
il peggior processo ch’io abbia mai avuto la sorte di presiedere”.
   Wilde si difende negando d’essere un corruttore di giovani e, diffondendosi a parlare
dell’amore ‘socratico’, puramente intellettuale, forse fa sorgere in qualcuno il sospetto che,
dopotutto, non sia tanto l’omosessualità l’efferato crimine perseguito dal filisteo Regio
Tribunale, bensì l’antagonismo militante d’un irlandese irriducibilmente libero, capro
espiatorio di un’isola di ribelli che per l’imperialistica Corona britannica è da sempre causa di
seccature.
   A tale proposito non vanno sottaciuti gli incitamenti alla rivolta dell’Irlanda contro
l’Inghilterra lanciati dalla madre di Wilde, Lady Jeane, morta il 3 febbraio 1896, poco dopo la
condanna del figlio che in una poesia giovanile scrive: “Quei Cristi che muoiono sulle
barricate / Dio lo sa, io sono con loro”…
   Delle due pubblicazioni prima citate non cessa di colpire la chiarezza del pensiero e
l’estrema attualità degli assunti.
   In quanto - spiega l’autore - non può esserci vera arte senza consapevolezza, l’arte non è se
non è critica. Questa, a sua volta, è essa stessa arte poiché consapevolezza e spirito critico
sono la medesima cosa. La critica non è solo interpretativa, ma è “creazione dentro una
creazione”, talora rovesciamento di valori risaputi, “punto di partenza per una creazione
nuova”, impegno formativo individuale o autorealizzazione improntata al gusto.
   Per Wilde, scopo della vera esegesi è di ricercare nelle strutture artistiche una verità infine
rivelata dallo ‘stile’ inteso come prerogativa essenziale per il giudizio di valore: un giudizio
volto a configurare nello spirito critico lo Spirito del Mondo.
   Il necessario artificio stilistico sotteso all’arte rimane inoltre la condizione che, liberando da
ogni utilitarismo, commercialismo, puritanesimo e convenienza la realtà, ne rivela l’essenza
più profondamente autentica. Non è solo una battuta, quella wildiana secondo cui “la vita
imita l’arte assai più di quanto l’arte imiti la vita”.
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  Il tema dell’atto critico coinvolgente la società, la cultura e la politica è ulteriormente
definito in L’anima dell’uomo sotto il socialismo, presumibilmente un dialettico controcanto
chiarificatore delle opinioni collettivistiche espresse in una conferenza del 1889 dal
commediografo Bernard Shaw (1856-1950), concittadino e amico di Wilde.
  In nome d’una soggettività contraria a burocratici progetti di collettivizzazione che, con il
loro pesante controllo, condizionerebbero e avvilirebbero i diritti umani, l’autore difende
un’individualità distinta da quell’egoismo classista che, volendo uniformare tutto al proprio
mero interesse, esclude la nobile ricerca d’autovalorizzazione della persona.
  Il soggetto socialista - l’utopista d’un socialismo umanizzato che, profetizza Wilde, non
crede al ‘socialismo reale’ oppressore dell’individuo - è chi valorizza se stesso confutando le
sovrastrutture che vorrebbero affermare le disuguaglianze, la morale borghese, il
mercantilismo e la proprietà privata dei mezzi di produzione.
  Viceversa, si tratta d’affrancare gli uomini dal bisogno, dall’indigenza, dallo sfruttamento e
perfino dalle virtù conservatrici della carità o del filantropismo di sentimentalists e clericali
che corrompono e subordinano la rivolta dei deboli e, con la loro beneficenza
pseudoapostolica, con le loro elemosine organizzate, perpetuano la miseria. Piuttosto,
trasvalutando i triti ideali di sacrificio e sofferenza, occorre “ricostruire il sistema sociale su
basi che rendano impossibile la povertà”.
  Non è pleonastico ravvisare negli intenti teorici di Wilde, inconcepibili per la società
vittoriana, l’anticipazione d’un moderno socialismo democratico da realizzare a favore dei
diritti degli individui e non quale passivo tributo alla statolatria integralista.
  “Al socialismo è necessaria l’individualità. Se il socialismo sarà autoritario, se vi saranno
governi armati di poteri economici come oggi lo sono di poteri politici, se, in una parola,
dovremo subire le tirannie industriali, allora quest’ultima condizione diverrà per l’uomo
peggiore della precedente”.
  Continua: “Il socialismo o comunismo, come meglio vi piaccia chiamarlo, convertendo la
proprietà privata in proprietà pubblica, e sostituendo la concorrenza con la cooperazione,
riporterà la società alle sue naturali condizioni d’organismo veramente sano e garantirà il
benessere materiale a ognuno dei membri della comunità. Nei fatti, esso darà alla vita le
giuste basi e un vero ambiente. Ma per il completo sviluppo dell’esistenza nella sua
perfezione più elevata, è necessario qualcosa di più. Quanto è necessario è l’individualità”.
   In conclusione, è un socialismo non dogmatico e antiautoritario (“Ogni autorità è sempre
nociva”) che può realizzare i talenti della persona liberata dai lavori degradanti, dallo Stato-
controllore, dagli ingiusti obblighi e anche dalle panie burocratico-istituzionali del
matrimonio che, “nella sua forma odierna”, è crogiolo del culto proprietario da cui s’origina
la stessa gelosia, “un’emozione strettamente collegata con le nostre concezioni della
proprietà”.
  Troppa utopia nella pragmatica wildiana? Ma - insiste Wilde - “una mappa del mondo che
non includa il paese d’Utopia non vale neppure un’occhiata, perché esclude il solo luogo al
quale l’umanità abbia sempre approdato”.
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  Scritto nel dicembre del 1901, rielaborato per la stampa nel 1903 e accresciuto con
un’aggiunta finale nel 1905, incluso, col titolo Oscar Wilde. In memoriam, nella raccolta di
interventi critici e polemici Prétextes (con, tra l’altro, studi su Goethe, Nietzsche, Stevenson),
il memoriale di André Gide (1869-1951) è tra le rare testimonianze di prima mano sulle
tribolate vicende umane di un Wilde paragonabile non più al fatuo ‘arbitro d’eleganza’ Lord
Brummell (1778-1840) bensì al ‘dandy tragico’ Baudelaire (1821-1867).
  In questi termini studiatamente refertali, privi di compiacenze o intenti agiografici, il
fondatore della “Nouvelle Revue Française” (1908) e premio Nobel 1947 per la letteratura
segue un preciso filo di ricordi che collega la fugace fase ‘estetica’ e l’agonia senza onore né
gloria del più brillante inventore di paradossi.
  È nel 1891 che Gide giovane incontra per la prima volta Wilde: restando affascinato dalla
letizia che quell’uomo vestito con ricercatezza, bello, ricco e colmo d’onori, sprizza da tutti i
pori.
  Del nuovo sodale lo incantano la conversazione brillante, l’inventiva affabulatoria, le frasi a
effetto e mai banali, il radioso spendersi ed esporsi al giudizio dell’opinione pubblica senza
infingimenti e con impavido spregio.
  Tuttavia è possibile che, conoscendo il Wilde brillante battutista e conversatore, si possa
rimanere delusi leggendone i libri - sostiene Gide; che, sedotto dall’ironia al vetriolo, dai
motti di spirito, dagli sberleffi e dalle clamorose affettazioni del viveur, non sa presagire
quanta parte dell’opera wildiana finisca per penetrare nella cultura novecentesca. Ciò è
dimostrato dalla gran messe di studi seguiti in tutto il mondo, dall’avvio del Novecento fino a
oggi; e, se non bastasse, dalla moltitudine di imitatori dello stile aforistico d’uno dei pochi
tardo-ottocenteschi mai scomparso dalle librerie. “Si stenta a immaginare il mondo senza gli
apologhi di Wilde” chiosa Borges in Altre inquisizioni (1960).
  L’intento di Gide non è comunque quello di formulare giudizi sui libri dell’amico quanto di
trascrivere, nella scansione di pochi anni, una sequela di episodi degni di nota.
  Tra quelli a lui più presenti spiccano, fedelmente riportati, le brevi favole che Wilde
improvvisa solo per lui: seguite da notazioni estetiche, per esempio sulla differenza tra il
“mondo reale” che in quanto tale non ha bisogno d’essere nominato e il “mondo dell’arte” di
cui occorre parlare per farlo esistere; da critiche all’“idealismo cristiano” e all’inquietante
aneddotica dei “miracoli” cui si contrappone il salutare “naturalismo pagano”; da
apprezzamenti per le gidiane Nourritures terrestres (1897) oppure, in altra occasione, da
affettuosi rimproveri per l’insistenza di Gide a scrivere la parola ‘io’ con iniziale maiuscolo-
metafisica (“In arte” ammonisce Wilde, in qualche modo contraddicendo il proprio
individualismo, “non esiste una prima persona”).
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   L’atmosfera psicologica lieta e leggera, durata fino al 1895 quando i due si rivedono in
Algeria, sembrerebbe confermarsi con l’incontro nell’esilio di Berneval, cupa cittadina nelle
vicinanze di Dieppe, porto francese sulla Manica.
   Seppure duramente leso dalla carcerazione, marcato nel corpo e nello spirito, dedito a
un’esistenza dolorosa, carica di rimpianti e delusioni, Wilde rifugge dal mostrarsi sconfitto: e
il suo ingannevole aspetto appare a Gide ancora quello dei tempi migliori.
   Wilde racconta la propria prigionia, le umiliazioni subite, l’amicizia coi compagni carcerati,
l’ottusa crudeltà d’un direttore della prigione e l’illuminata gentilezza d’un altro direttore ben
disposto a consentirgli di leggere e scrivere.
   Parla di pietà per il mondo e per gli uomini, ed è come se volesse esorcizzare la pena per se
stesso.
   Promette di non tornare a Parigi prima d’avere scritto delle nuove opere, utili a restituirgli il
perduto prestigio; ma è cosciente di non poterci riuscire.
   Soprattutto, sa che non gli sarà più possibile riacquistare la dignità perduta.
   Quando, di lì a poco, giunge nella capitale francese, Wilde è un uomo perso. Debole,
inflaccidito, privo di mezzi economici, coi vestiti lisi, scansato da tutti e perfino dallo stesso
Gide che preferirebbe non farsi notare in sua compagnia, lui, un giorno “ricco, felice e carico
di gloria”, ora è poco più d’un clochard: uno che, derubato del proprio destino e stanco della
vita, sente di doversi congedare dal mondo.
   Così, a Gide, che biografa Wilde non riferendo mai della propria stessa omosessualità
(come inizia a fare in Corydon, 1911) e, dimentico delle persecuzioni subite dall’irlandese
inviso al potere britannico, vorrebbe rinfacciargli certe scelte rovinose, il dandy decaduto non
manca d’impartire un’ultima umana lezione: “Non si rimprovera mai chi è stato colpito”.
   Nel Père Lachaise, il cimitero parigino, la tomba di Oscar Wilde raffigurante una sfinge è
oggi quotidianamente segnata dalle impronte di rossetto lasciate dai baci delle numerose
ammiratrici.

* Prefazione al libro di André Gide: Gli ultimi anni di Oscar Wilde, dandy decaduto, tradotto da Stefano
Lanuzza e di prossima uscita con Stampa Alternativa.
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