NARCISI SENZA TERRA Valentina Crespi* 2/2021 - Phoenix Capital Iniziative di ...
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2/2021 Valentina Crespi* 6 NARCISI SENZA TERRA Sulla deriva “superegoica” dell’imperativo performista. Marzo 2021
“Rendi cosciente l'inconscio, altrimenti sarà l’inconscio a guidare la tua vita e tu lo chiamerai destino”. Carl Gustav Jung *Valentina Crespi, Social Scientist & Collaboratore Divisione Corporate Finance - Phoenix Capital
1. Premessa Da che ho memoria la società mi è sempre apparsa come il più affasciante sistema complesso esistente. Ci si può meravigliare dinanzi alla spettacolarità degli ecosistemi, si rimane estasiati davanti l'immensità del cosmo, ci si stupisce delle singole doti di ogni essere vivente, ma il sociale è ciò che desta la mia più forte curiosità. Analizzate nella loro interezza, le società possiedono una moltitudine di forme che divengono pressoché infinite man mano ci si sposta verso gruppi più piccoli, sino a giungere alle innumerevoli sfaccettature proprie di ciascun individuo: dal micro al macro, si tratta di una materia polimorfa e dinamica, mai uguale a se stessa nel tempo e nello spazio. Ho scelto di elaborare questo testo per dare risalto a una tematica per certi aspetti controversa, intrecciandola successivamente con la mia inclinazione ambientalista. L'argomento di cui tratterò brevemente è la performance, fenomeno sempre più radicato nelle cosiddette "società avanzate": cercherò - per quanto mi è possibile - di analizzare questo fenomeno sociale, al fine di mettere in risalto il suo lato oscuro. Senza prendere in considerazione, in questa sede, le aberrazioni cui può condurre l'ossessione per la performance (psico-patologie, disagio esistenziale, doping, etc.…), la mia tesi intende descrivere come la ricerca della prestazione migliore, ad ogni costo, comporti la frantumazione dei legami sociali (già così sottili nella nostra epoca contemporanea), favorisca una “radicalizzazione” egoistica dell’Io e faccia perdere di vista le reali necessità delle comunità (tutela del mondo naturale, lotta alle diseguaglianze, riduzione della povertà). Il contesto sociale occidentale entro cui viviamo è costituito da una realtà molto variegata, nella quale è ormai saltato il vecchio mondo ordinato che era capace di fornire valori condivisi: viviamo in quella che Lyotard ha definito la "post-modernità". Il progetto della modernità solida di attribuire un senso unitario alla realtà, facendo leva sulle grandi narrazioni, si é sgretolato e ha lasciato il posto a un quadro sociale privo di riferimenti altrettanto forti. Siamo dentro le illusioni del capitalismo tecno-nichilista (Magatti, 2009). Abbiamo assistito alla polverizzazione dei significati, poiché essi vengono oramai allocati soltanto sul piano soggettivo, al sorgere di un'esigenza di libertà assoluta, che è
tuttavia divenuta esclusivamente astratta, e al dilagare ininterrotto della tecnologia nella vita quotidiana. Lo sviluppo economico e sociale, che va estendendosi in sempre più aree del mondo, ha mutato le condizioni nelle quali ha luogo la vita sociale rendendo possibile un oggettivo miglioramento della vita umana e consentendo un accrescimento del potenziale di azione individuale. Tuttavia, se da un lato questa espansione della capacità individuale possiede caratteri positivi, quali l'emancipazione dalle rigide istituzioni del passato e la possibilità di una libera espressione della propria soggettività, guardando l'altra faccia della medaglia ci si accorge che l'attore sociale, svincolato da ogni limite tradizionale, si ritrova un essere fragile, insicuro e tendenzialmente schiacciato dal grave peso della responsabilità. Inoltre, l'individuo che abita nella contemporaneità, sebbene sia convinto di essere totalmente libero, è condizionato da assetti istituzionali secondari che ne orientano l'intera esistenza. Per dirlo con le parole di Beck (2000) queste istituzioni «plasmano la bibliografia dell'individuo e lo rendono dipendente dalla moda, dalle relazioni sociali, dalle congiunture economiche e dai mercati, contrariamente all'immagine del controllo individuale che si impone nella coscienza». Da ciò ritengo si possa cogliere bene l'essenza della matrice sociale in cui è inserito il cittadino dell'Occidente: ciascun soggetto sociale introietta, come verità, l'illusione di una libertà incondizionata che gli permetterà di autorealizzarsi, ma agisce secondo questo principio in una realtà dove le risorse oggettive messe a disposizione sono oltremodo inferiori a quelle necessarie affinché tutti vadano in questa direzione. Tale fatto comporta il radicarsi di nuovi valori dominanti, centrati sulla realizzazione del singolo − a scapito della collettività − e sulla predominanza della dimensione immanente rispetto a quella trascendente, che vanno a plasmare il mondo di significati precostituiti sui quali si erge il sociale. Nasce, quindi, una profonda discrepanza fra l’organizzazione culturale delle società avanzate e la condizione psico-emotiva ed esistenziale di coloro che vivono in funzione del raggiungimento dei cosiddetti miti socioculturali. È entro questa cornice che mi accingo ad approfondire, nel capitolo che segue, i caratteri distintivi di un soggetto "ideale" che ha interiorizzato gli artefatti culturali del capitalismo e che persegue una delirante «autorealizzazione narcisistica dell’Io».
2. Nel mondo dei performanti La struttura delle società avanzate è governata dall'imperativo performista. Questo imperativo, di derivazione capitalista, condiziona inevitabilmente l'agire dei singoli che vivono nella società. La cultura del capitalismo (nella sua chiave contemporanea) è il mainstream della cultura sociale: la performance diventa una norma implicita a cui non ci si può sottrarre stando dentro questo sistema. Una delle cause della centralità dello spirito capitalista consiste nella sua capacità di essere adatto ad esprimere quei forti bisogni di soggettività latenti che caratterizzano le società contemporanee; il capitalismo permea così tutte le dimensioni della società andando oltre la mera sfera economica. La libertà di scelta individuale viene massimizzata, facendo aprire un ventaglio di possibilità tendenzialmente infinite − almeno in un'ottica ideale − che danno sfogo al desiderio soggettivo. Non si tratta, tuttavia, di una libertà assoluta: la cruda realtà ci pone dinanzi a risorse finite che mai potrebbero soddisfare i desideri "infiniti" di ogni soggetto sociale. Dunque, il successo diventa il fine ultimo di soddisfazione per l'essere umano mosso dal principio della prestazione. L'assorbimento di questa impronta performista avviene attraverso la socializzazione e, da qui, tutto l'agire - secondo questo principio - diviene naturale per il soggetto: la stessa autorealizzazione narcisistica, citata poc'anzi, assume i tratti di un obiettivo pressoché sacro in quanto, avendo messo da parte il peso ingombrante degli ideali, abbiamo necessariamente bisogno di quel Grande Altro (inteso come struttura simbolica, valori di fondo) a cui l'ordine sociale fa riferimento. E non si può uscire dal mondo sociale; non si può nemmeno immaginare un uomo al di fuori del contesto sociale. Nel nostro mondo performare la propria felicità è la norma di una società che paradossalmente definisce sé stessa senza leggi, poiché se è divenuto "vietato vietare", parallelamente è "vietato non performare". A questo proposito vorrei riportare una frase di Massimo Recalcati (2010) che ritengo sintetizzi molto bene la condizione umana del nostro tempo: «l’epoca ipermoderna è l’epoca dell’individualismo atomizzato che s’impone sulla comunità, è l’epoca del culto narcisistico dell’Io e della spinta compulsiva al godimento immediato […] imponendosi nella forma di un inedito principio di
prestazione che situa il godimento stesso come nuovo dovere superegoico». Proprio la funzione superegoica, in quanto rappresentante della società a livello mentale, promuove l'introiezione acritica di questi valori. Nel momento in cui l'Io si impone sulla comunità non c'è gruppo immune dal rischio di frantumazione del legame, esito nefasto di un processo ormai irreversibile (sebbene, a mio parere, trasmutabile apportando i dovuti cambiamenti nei suoi meccanismi di reiterazione). La tendenza alla distruzione del legame venne già affrontata da Alain Touraine, che anni fa sostenne che la società fosse morta e che fossimo dinanzi a una moltitudine di individui che faticano a pensarsi insieme, e secondo Federico Chicchi e Anna Simone vi è stato un «passaggio paradigmatico dalla società del rischio alla società della prestazione nella sua implicazione legata ai processi di individualizzazione e di rottura del legame sociale». Nella società della prestazione "performance" è un termine che ha a che fare con le proprietà di rendimento mostrate nell’esecuzione di compiti specifici e con determinati parametri di efficienza legati alle logiche del potere capitalistico globale che governa l’economia mondiale. Dal momento che il grado di performance degli attori sociali viene misurato a partire dalla valutazione delle prestazioni e degli obiettivi raggiunti, dal punto di vista sociologico ciò conduce la mera prestazione a divenire fonte di legittimazione di una comunicazione incapace di depositare senso sociale. Si tratta allora «di una forma di supremazia del sistema economico su tutti gli altri, vale a dire una sorta di “funzione antropofagica” del mercato» (Simone, 2016) che obbliga all’introduzione di forme di organizzazione basate su un modello che mira esclusivamente all'efficienza e ad “aspettative di performance” fondate sul bisogno di rispondere solo alle dinamiche imposte dal mercato (Chicchi, Simone, 2017). Gli individui diventano sempre più "io- centrici" in un contesto in cui si sostanzia la liquefazione dei legami e la cancellazione dell’autolimitazione. Seguendo la linea tracciata da Massimo Recalcati per il quale, partendo dalla concettualizzazione di Herbert Marcuse − sussunzione del principio di realtà nel principio di prestazione −, è in corso una vera e propria mutazione antropologica generata dal discorso del capitalista, si potrebbe azzardare la definizione di un nuovo tipo di soggetto sociale che vorrei identificare con l'etichetta di homo perficiendis. Egli è caratterizzato
da un agire performativo orientato al godimento e al successo, la cui meta viene di volta in volta spostata più in alto e, se non raggiunta, conduce l'individuo a naufragare nel disagio esistenziale lasciandolo in balia dell'inadeguatezza, dell'insicurezza e dell'angoscia: il fallimento è la sua tomba. D’altra parte, la cultura porta a negare la precarietà dell’esperienza umana cosicché non sia possibile una conciliazione fra l’onnipotenza dell’Io e la finitezza della vita; in altre parole, la spinta socio-culturale del nostro tempo genera scissioni paradossali tra progetto esistenziale e cicli di vita che culminano nelle derive narcisistiche. Come sosteneva Ehrenberg, pare che Edipo sia stato soppiantato definitivamente da Narciso e, aggiungo, pare anche che oggi questi Narcisi siano più soli che mai. 3. Un focus importante In quest'ultima parte vorrei mettere in evidenza una delle conseguenze, che più ritengo salienti, del fatto che nella società della prestazione, o più in generale nella dimensione prestazionale del soggetto, non vi sia spazio per la comunità. Lo standard di vita ideale, che l'Occidente ha imposto come unico apprezzabile e desiderabile, non è un modello sostenibile considerando le risorse di cui il mondo dispone. Invero credo vi sia un radicale contrasto fra il mito di autorealizzazione − nel modo in cui viene propinato nelle società avanzate − e le problematiche ambientali. Nel momento in cui l'attore sociale si focalizza in maniera unidirezionale sul raggiungimento del successo personale, perde di vista i mali che lascia dietro di sé, anche a causa della condizione in cui viviamo oggi che ci obbliga alla frenesia (pena l'esclusione sociale). Sono i bisogni "estremi" di velocità, di bene-stare, di godimento, di lusso, di comunicazione continua, di salute, di perfezione a renderci parassiti della nostra stessa casa, del nostro pianeta. Abbiamo creato una gerarchia di priorità che fino a pochi anni fa quasi non prendeva in considerazione altra vita al di fuori della nostra, consegnando le successive generazioni a un mondo che, senza usare mezzi termini, è malato. Tuttavia, invece di rivedere il nostro stile di vita per avvicinarlo alle necessità ambientali e sociali, abbiamo "esportato" questo il modello (non sostenibile) con la globalizzazione; esso ha pervaso il sistema mondiale diventando mito sociale anche per coloro che non avevano
tale ideale culturale. Si va dunque a ingigantire il gap fra quelle che sono le necessità odierne, comuni a tutte le popolazioni, e gli obiettivi individuali che tutti si sentono spronati a conseguire. Ma l’homo perficiendis è comunque consapevole di vivere in un mondo limitato ove le risorse sono scarse, perciò impiega quasi tutte le sue forze per raggiungere quella vetta che rappresenta la sua sicurezza di benessere e non si ferma a pensare ai danni ambientali che provoca col suo agire − forse non si può permettere di riflettere sulla sua condotta per non rischiare di essere schiacciato da chi è più ostinato e con meno scrupoli − delegando a terzi il compito di sanificare il pianeta. D'altra parte, credo sia molto difficile poter immaginare uomini "realizzati" senza una Terra adatta alla vita umana. I fondatori di Rural Hub (collettivo di ricerca che verte a individuare nuovi modelli di sviluppo economico) sostengono che «le vicende umane non possono essere considerate come dipendenti da fattori esclusivamente sociali e culturali, ma anche da complessi legami di causa-effetto e di retroazione nei confronti della natura. Le azioni umane, quindi, hanno per esito molte conseguenze che possono essere impreviste e dannose per l'ambiente e per la stessa specie umana, che, come le altre specie, vive in un ambiente biofisico finito sul quale l'uomo non ha un dominio totale, ma che impone anzi potenti limitazioni fisiche e biologiche al suo agire». Si rende palese, dunque, la questione fondamentale per cui l'individuo debba uscire dal ripiegamento narcisistico in cui il suo Io è sigillato; non solo per provare a ricucire la frattura dei legami sociali ma anche per porre fine alla sua cecità rispetto ai problemi ecologici in cui il sociale è immerso. È, allora, necessario un mutamento radicale delle abitudini al fine di ricomporre le nostre coscienze attualmente divise tra perversi miti e le necessità dei contesti sociali e ambientali. Attualmente qualcosa in questa direzione si sta già muovendo: nello spirito del capitalismo sembra essere entrato il criterio di grandezza della valorizzazione sostenibile. Pian piano (con passi purtroppo troppo lenti rispetto a quanto sarebbe doveroso) i modelli di business iniziano a cambiare, premiando coloro che ottimizzano le risorse e non chi le sfrutta o le distrugge. Bisogna, però, dare un senso concreto alla sostenibilità (che ancora in molti casi è quasi esclusivamente una moda più che un progetto effettivo) per creare un valore sociale che sia a tutti gli effetti condiviso su scala mondiale. In fondo, per usare le parole del Dr. Basile, «nonostante i
condizionamenti dei contesti relazionali, sociali e culturali di appartenenza, è sempre possibile attivare una riflessione sulla propria esistenza esercitando la libertà di autodeterminarsi verso percorsi esistenziali che sostituiscano il mito delirante dell’autorealizzazione narcisistica dell’Io con la realizzazione del Ben-Essere della collettività, unico vero fattore protettivo del benessere esistenziale». Si deve allora ricostruire lo "stare insieme" attribuendo un senso comune allo svolgersi delle azioni quotidiane, affinché vi sia un fondo di significati condivisi riguardo la vita collettiva e venga messa fine all’illogico antagonismo fra ciò che pretende la società dal singolo e ciò che invece dovrebbe chiedergli per garantirsi il benessere generale. Come potremo altrimenti pensare a un futuro migliore − senza discriminazioni, diseguaglianze, povertà, malattie, guerre e ingiustizie − se non abbiamo una sana Terra in cui esistere? La questione ambientale, quindi, assume un aspetto alquanto paradossale, dato che i problemi ambientali sono, per prima cosa, problemi sociali. In sostanza, gli attori sociali sono continui produttori di esternalità negative che da una parte impattano sulla sfera personale di chi le pone in essere e dall’altra hanno effetti negativi sia sulla condizione degli altri individui sia sulla situazione ambientale. Le conseguenze che si manifestano non sempre sono immediate, pertanto viene offuscata la percezione dei costi sociali connessi al compimento di queste attività; ciò non toglie che il perseguimento di una sregolata soddisfazione individuale si scarica inevitabilmente sul pianeta e, assunto che le risorse naturali sono limitate, arriverà un tempo in cui il bene di una persona sarà per vincolo esternalità negativa di un'altra generando una lotta intestina potenziale letale. Ma forse è accettando e interiorizzando il fatto che la condizione umana non implichi la libertà assoluta, bensì l’interdipendenza fra individui e la dipendenza dalla natura, che si può prendere coscienza della necessità di cooperare per cercare un equilibrio sostenibile che superi il contrasto tra la narcisistica ossessione per la performance e le reali necessità del mondo sociale di cui ognuno di noi è parte.
Riferimenti bibliografici Federico Chicchi e Anna Simone, La società della prestazione - 2017 Massimo Recalcati, L'uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica - 2010 http://www.nilalienum.it/Sezioni/Archivio/FunzioneSuperEgoica.html#Segna6 https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/07/06/il- capitalismo-illiberale-noi-vittime-del-tecno-nichilismo.html https://www.jstor.org/stable/23004971?seq=1#page_scan_tab_contents http://www.filosofico.net/lyotard.htm http://www.ruralhub.it/progetto/
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