Margarete Durst e Mario Pezzella - discutono

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Margarete Durst e Mario Pezzella
discutono
Buongiorno notte di Marco Bellocchio

La prigionia dell’umano
Margarete Durst

1. «È una che si è buttata nella rivoluzione per passione e per passione vorreb-
be uscirne»: così Maya Sansa descrive Chiara, il personaggio che interpreta in
Buongiorno notte. In effetti la passione anima questa donna, che per me è solo
Chiara per come la vedo vivere nel film, al pari degli altri personaggi, incluso
Moro che chiamerò solo «il prigioniero». Il film infatti, a differenza di Il pianista
di Polanski, non mostra una vicenda storica «come in un documentario», né
riflette il timore «che il dialogo, contrapposizioni e scontri, potessero dare anche
una lieve connotazione teatrale»1. In Buongiorno notte l’impostazione teatrale dà
risalto alla struttura dialogica del discorso sollecitandoci a dire la nostra; il che
farò a partire da Chiara, anche per il suo di più di passione. Passione, la sua, a
doppia faccia: o tutta di testa, della specie «cancro dell’anima» che assorbe ogni
energia psichica in chi se ne è lasciato afferrare, o emozione pura, che dilaga nei
pensieri, nei gesti, nelle parole programmate, scompigliandone l’ordine. Da qui
i moti improvvisi di gioia, melanconia, pianto che animano Chiara, come il suo
muoversi raggelata e assente dentro e fuori la casa-prigione, dominata dall’ansia
da autocontrollo. Imbrigliata nelle maglie di una razionalità difensiva la passione
fa di lei un «soldatino» sotto sforzo da prestazione, ma apre anche delle zone
franche nella sua vita ossessionata, fino a disporla a sognare un sonno pervaso
di calma. Quest’alternanza segnala una mobilità affettiva e una reattività al sen-
tire suscettibile di volgere in sentimento che negli altri componenti del gruppo
non appare. Incapsulati in passioni tutte di testa, questi sono avvezzi a reprime-
re le loro emozioni, e solo gesti inconsulti sfuggono alla loro corazza ideologica.
In uno è la fuga degli uccellini dalla gabbia che fa scattare il gesto, folle nella
logica del gruppo, di uscire all’aperto. In un altro è il bisogno di congiungersi
con la sua donna, estranea al gruppo, che lo spinge a trasgredire per raggiunger-
la. Ma il rientro nel sistema è scontato perché l’affetto, vissuto in maniera coat-
ta, non arriva ad operare un cambiamento complessivo di un modo di sentire e
pensare; che è quanto invece avviene in Chiara. Al contatto con l’umanità indi-
fesa del prigioniero, rispetto a cui lei, da osservatrice non vista, non suppone di

     1.   Cfr. M. Reich-Ranicki in «La Repubblica», 27 ottobre 2002.
«Iride», a. XVII, n. 41, gennaio-aprile 2004
2    Marco Bellocchio

doversi salvaguardare, rimane come vulnerata, tanto che recepisce una serie di
scariche di umanità verso cui, fino ad allora, era risultata immune. Ciò le suscita
pensieri imprevisti, nuovi ricordi, fantasie e sogni ad occhi aperti che la porte-
ranno ad immaginare possibile un’azione impensabile: liberare senza condizioni
il prigioniero.
    La mia chiave di lettura del film è centrata appunto sul ruolo che gioca lo
snodo tra affetti e ragione sulla capacità umana di agire in «tempi bui», inter-
rompendo un ciclo di fatti che tende a configurarsi come destino. È questo
anche il tema di Buongiorno notte che mi ha sollecitato un’associazione con la
concezione arendtiana di azione e di azione politica, scaturita dall’impatto con le
scene in cui la donna avverte il prigioniero di non mangiare e versa il sonnifero
nella minestra dei compagni per poi liberarlo. Quando in cucina svita il coper-
chio della boccetta Chiara mostra di colpo una sua identità rimasta fino ad allo-
ra impensata, a tratti presagita ma incapace di emergere senza il contatto con
una imprevista umanità, e questo cortocircuito, anticipato da vari segni di cedi-
mento nei confronti di un’emotività a fatica compressa, fa balenare uno spiraglio
di libertà in uno scenario segnato dal destino. Il momento rivelativo della diver-
sità di Chiara rispetto agli altri brigatisti (cioè le sequenze in cui lei agisce di
testa sua) funge per me da perno per l’intera vicenda filmica, in quanto ne pro-
spetta il duplice sbocco: la libertà del prigioniero e la sua morte. Ciò assegna un
ruolo determinante al contagio di umanità avvenuto nella donna, confermando
la crucialità che in relazione alla capacità di agire assume il nesso tra affetti e
ragione, e di qui quello tra le dimensioni privata e pubblica della vita. Due di-
mensioni che Arendt distingue fermamente per garantirle entrambe, onde evita-
re che una assorba l’altra con danno reciproco. Il loro rapporto è ricondotto a
quello tra prima e seconda nascita, dove la seconda sta a significare la riappro-
priazione innovativa della prima, cioè di quanto ci viene dalle nostre radici. Tale
rapporto di implicazione e di distinzione è centrale nella teoria arendtiana del-
l’agire, ed in specie dell’agire politico espressione per eccellenza dell’azione.
Agire significa infatti manifestare davanti agli altri «chi» si è scoprendolo ai
propri stessi occhi, per cui fulcro dell’azione è il nuovo che scaturisce da un
distillato di storia: l’imprevisto, l’inaspettato che chi agisce tira fuori dalla trama
relazionale di cui è intessuta la sua vita di individuo, unico e irripetibile e nel
contempo plurale. In quest’intreccio si condensa l’essenziale di un processo for-
mativo, e, in tal senso, l’azione esprime il fulcro della personalità dell’agente.

2. Paradossalmente, nel film chi agisce è innanzitutto il prigioniero, il più mate-
rialmente impedito, perché cercando di non lasciarsi schiacciare dall’accaduto fa
leva su tutta la sua storia per trovare una soluzione a una situazione disperata.
Cerca quindi di pensare con mente allargata mettendosi dal punto di vista degli
altri, a cominciare da quello dei suoi carcerieri, fino a richiamare alla mente le
sue molteplici relazioni umane, private e pubbliche. Nel dialogo muto che avvia
con se stesso il suo pensiero va in avanti e a ritroso per trovare le argomentazio-
ni con cui affrontare il credo dei brigatisti, la disperazione dei famigliari, l’inde-
cisione e le perplessità dei politici; in sintesi: pensa per formarsi un giudizio e
trovare una soluzione al suo caso che non precluda la speranza per la sua vita e,
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da qui, per il bene privato e pubblico. Così facendo scopre davanti agli altri
aspetti riservati della propria personalità, imbastendo un nuovo intreccio tra le
diverse dimensioni della sua esistenza, costretta nell’anomalo «spazio», né priva-
to né pubblico, della stanza-cella. L’anomalia di quello spazio accentua la porta-
ta riflessiva del suo agire e nel contempo accresce la tensione verso l’azione del
suo riflettere. Chiara osservando questa dinamica se ne lascia contagiare ed avvia
un’attività ideativa che prelude ad azioni tanto impensate e tanto semplici da
prospettare una «banalità del bene». L’azione del prigioniero, nel suo minima-
lismo, ha il carattere rivelativo dell’«evento» in quanto riluce agli occhi di Chia-
ra che nel diventarne spettatrice la riflette in sé. Da qui il deragliamento del
«soldatino» che sfocerà nella disobbedienza al credo comune e nel mentire per
compiere ciò che sente giusto. Ciò avviene senza che il prigioniero faccia null’al-
tro che mostrarsi nelle varie sfaccettature della sua personalità e nell’interezza
della sua umanità, segno che lo scongelamento emotivo che trasformerà Chiara
in spettatrice-testimone dell’evento cui assiste, è innescato dal suo essersi esposta
all’umanità dell’altro. La paura di perdere il controllo ha d’altronde già messo in
luce l’imperfezione della sua conversione in «soldatino»; così come il riaffiorare
dei ricordi del padre, man mano che vede nel politico profilarsi un padre, è ri-
velatore del suo ancoraggio al contesto della nascita, il cui potenziale di natalità
nutre l’azione. Da qui lo sfaldamento della netta demarcazione tra sfera privata
e sfera pubblica indotta dal gruppo dei compagni, e il riemergere di isole di
memoria e sogno nel serrato congegno della sua vita quotidiana. Le sequenze in
cui Chiara tratta il neonato come un oggetto sono infatti indicative, attraverso la
fissità dello sguardo e la meccanicità dei gesti, di un terrore da contatto umano
troppo forte: segno di una fragilità legata alla sua maggiore esposizione ai senti-
menti di umanità rispetto al resto del gruppo. Da qui anche il suo interesse cre-
scente per il prigioniero esposto agli altri in tutta la sua fragilità e che, per tale
via, rivela una forza ignota ai brigatisi. In loro non riecheggiano legami del pas-
sato ed il privato appare azzerato dal totale investimento nel pubblico, a sua
volta disancorato da un contesto di intime relazioni umane. Questa lacuna di
vita interiore si riflette nell’assenza della domanda sul senso di quello che stanno
facendo e se sia lecito farlo in relazione alla salvaguardia di un mondo umano.
È l’affacciarsi di tale domanda che incrina in Chiara l’immagine di mondo che
anima il gruppo, ponendola come controfaccia di un falso modo di agire.
L’azione infatti non può procedere rescissa dalla sua prima radice: la natalità,
che la impregna della trama delle relazioni storiche per permetterle di affermarsi
nella sua novità. Né può affrancarsi dal discorso, condotto attraverso il confron-
to delle opinioni, e dal pensiero che offre all’agire politico – sempre in situazio-
ne – un orizzonte di senso. Il film ci fa dunque assistere alla gestazione, in Chia-
ra, di un’azione intrinsecamente politica, in quanto indicativa di un’intenziona-
lità progettuale rispetto al mondo inteso come trama di rapporti umani diversi-
ficati e complessi. Si tratta di un’intenzionalità che prefigura il politico perché
dispone all’azione politica in senso proprio, il cui venir meno riconduce l’agire
a fare annullandone la portata innovativa.
    Insisto, interpretando Arendt, sul legame tra pensiero e azione, come tra
tutti gli altri caratteri fondamentali della condizione umana: nascita, morte,
mondo, pluralità, discorso. Non a caso nel suo libro sulla condizione umana,
4    Marco Bellocchio

ponendo a protagonista l’agire, Arendt si appella al pensiero, per sottolineare
come la circolarità tra quei fattori strutturali si trasformi da virtuosa in viziosa se
viene meno la capacità di pensare. Infatti, l’alienazione dal mondo dell’epoca
contemporanea consegue lo svilimento dell’agire in fare innescato dall’incapacità
di pensare. Solo pensiero ed azione possono rimettere «in sesto» il mondo, fa-
cendo della sua precarietà un segno nel contempo di forza e di fragilità: le stesse
che animano l’arendtiano «chi», capace di emergere nella sua unicità da una
tessitura di rapporti umani. È la scoperta della trama di vita del prigioniero che
risveglia in Chiara il senso di desolazione per la propria vita, più claustrofobia di
quella di chi è segregato in una cella; da qui il malessere e le linee di fuga che
s’insinuano nel meccanismo di una vita modellata dall’educazione all’obbedienza
e alla disciplina. Ma la pratica della libertà comporta una frizione con l’ordine
dato delle cose che mette a prova le portata critica dell’ideologia di un gruppo
compattatosi non sull’esercizio del discorso e del pensiero, ma sulla strumenta-
lizzazione dell’umanità propria e altrui.
    La riduzione dell’essere umano a cosa, l’esercizio del potere in forma di
dominio, l’alienazione dal mondo, in sintesi le principali minacce che secondo
Arendt incombono sulla condizione umana, assumono il volto dei carcerieri che
applicano i loro principi alla situazione del prigioniero senza sforzarsi di capirla
nella sua specificità, così da valutarne il cambiamento in rapporto ad un più
ampio contesto di riferimento. Il paradosso dell’individualità plurale viene in tal
modo eluso proprio da persone disposte a sacrificare la loro vita privata per il
bene dell’umanità, che è per loro solo un’astrazione (la classe operaia) in cui
non c’è posto per la diversità che ci rende tutti, ciascuna/o, unici ed irripetibili
nella comune appartenenza umana. La disponibilità al diverso affiora in Chiara
dall’interno aprendola al dubbio sul senso di un disegno che esclude qualsiasi
revisione in corso d’opera e nega così l’imprevedibilità dell’agire. Il potenziale
critico di quel dubbio slabbra il blocco delle verità da lei date per acquisite,
tanto che dovrà ripeterle ad alta voce per tenerle bene a mente. La scoperta nel
personaggio pubblico dell’uomo privato, capace di guardare le cose, anche le
più umili, sotto il profilo dell’umanità (tanto da sospettare la presenza di una
donna dal modo in cui sono stirati i suoi calzini), diventa così per lei cifra del
suo estraneamento dal mondo, facendole sentire famigliare una persona che
nemmeno la conosce; il che la trasforma in spettatrice partigiana, cioè le confe-
risce quel più di comprensione che, per Arendt, ha lo spettatore rispetto all’at-
tore di una vicenda. Infatti, il primo solo coglie il senso complessivo dell’agire,
come non può fare chi agisce, ma ciò comporta una messa in circolo del poten-
ziale innovativo dell’azione che induce lo spettatore ad agire a sua volta. Come
accade a Chiara che restituisce al regista, fuori campo, il ruolo di spettatore. La
complessa dinamica dell’agire è espressa in Buongiorno notte in maniera pretta-
mente filmica, in immagini, suoni, uso del feed-back che mescola dimensioni
oniriche a contesti iperrealistici, ecc. Cito le sequenze in cui Chiara legge la let-
tera del prigioniero alla moglie e quella di un condannato a morte della resisten-
za, in cui l’azione rivela tutta la sua fragilità e la forza della sua tenuta, che ne
allarga il raggio d’incidenza al di là del prevedibile. Analoga forza rivela l’agire
di Chiara allorché ripercuotendosi sul prigioniero ce lo rende, nel finale, trasfor-
mato: doppiamente libero. È significativo che costui nel lasciare la casa anticipi
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la donna per poi affiancarsi a lei, quasi a rimarcare la loro interazione. Non ha
quindi senso dire che non c’è stata nessuna azione perché nessuno è stato libe-
rato. Nel film, che come ogni opera d’arte ammette plurime letture, si prospet-
tano due soluzioni possibili: quella che lascia che le cose seguano il loro corso,
e quella in cui accade qualcosa di nuovo perché qualcuno ha scelto di agire.

Per una critica della violenza
Mario Pezzella

1. Al di là dei riferimenti alla cronaca politica degli anni ’70, questo film è un
apologo sulla natura e sulla radice profonda della violenza e in particolare sulla
sua potenza mimetica. Nella sequenza decisiva, vera e propria cesura e punto di
svolta del film, Chiara – membro del gruppo brigatista che ha rapito Moro –
legge l’ultima lettera che questi ha scritto alla moglie; le parole si sovrappongo-
no nella sua mente a quelle delle «Lettere di condannati a morte della resistenza
europea», il libro preferito di suo padre. Scorrono alcune immagini in bianco e
nero, l’uccisione dei partigiani nell’episodio di «Paisà» di Rossellini, riprese
documentarie. Questo montaggio di parole e di immagini esprime l’improvvisa
consapevolezza di Chiara: la condanna a morte decretata dal gruppo brigatista la
sta rendendo simile ai suoi peggiori nemici, ai carnefici dei partigiani amici del
padre. La risposta simmetrica alla violenza del potere –invece di «colpirla al
cuore» – tende a perpetuarne le leggi e la struttura, ad assimilare e ripetere le
figure dell’aggressione. La militarizzazione, con cui i brigatisti pensano di acce-
lerare la rivoluzione, smarrisce l’idea di umanità e felicità che pure animava i
movimenti degli anni ’70. All’inizio forse essa era ancora il fine a cui intendeva-
no rivolgersi: ma nel frattempo, come puro mezzo, l’uso della violenza diviene
indistinguibile da quello del peggiore nemico. Nella gestione quotidiana e reale
della violenza, logiche ed emozioni sono sempre più simili a quelle dei servizi
segreti, dei piduisti, degli stragisti..
    La specularità dei due poteri che si scontrano – quello ufficiale infiltrato
dalla corruzione e dalla strategia della tensione e quello neostalinista del gruppo
di Moretti – affiora a più riprese nelle immagini del film. Il gesto del capo bri-
gatista, che getta a terra con indifferenza le carte trovate nella borsa del suo
prigioniero, è simile a quello del Papa, più tardi, dopo la lettura della lettera di
Moro; la giustificazione dell’omicidio da parte del capo brigatista (è indispensa-
bile ottenere un riconoscimento politico) è speculare alla ragion di stato invocata
dagli uomini di governo per non salvare la vita di Moro; alla fine del film l’im-
magine dell’uomo destinato alla morte, bendato e umiliato come un capro espia-
torio, compare in montaggio alternato con la funebre benedizione del sacrificio
da parte del Papa, di fronte al mondo politico riunito. In effetti, si tratta qui di
un documento televisivo dell’epoca; ma è la forza stessa del montaggio a sovrap-
porre la benedizione all’omicidio e a suggerire la comune ideologia sacrificale
dei due poteri in conflitto.
    Oltre i due poteri che in superficie si affrontano, ne affiora del resto un al-
tro, a cui entrambi sono totalmente asserviti: quello dello spettacolo. La presen-
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za della televisione lungo tutto il film è ossessiva: frammenti di varietà, canzonet-
te, dichiarazioni politiche, telegiornali, ballerine, sfilano senza soluzione di con-
tinuità, in contrappunto di montaggio con le inquadrature claustrofobiche del-
l’appartamento del sequestro. Sulle vecchie ideologie sta trionfando un potere
nuovo e onnipervasivo, con la sua ipertrofia comunicativa e mediatica. Ma col-
pisce come anche i brigatisti guardino la televisione per realizzare il senso di
quanto loro stessi hanno fatto; il contatto con l’esterno avviene soprattutto in
forma visiva, decifrando (o immaginando) segnali e messaggi. L’identità della
loro azione politica dev’essere confermata dalla spettacolarizzazione che essa
subisce e senza di questa diviene semplicemente vuota. L’azione in sé non ha
significato, se è separata dal suo riflesso spettacolare di massa, che sostituisce
ormai ogni effettiva e possibile partecipazione. Questa – sembra di intendere –
seguirà se mai i colpi di scena spettacolari e mediatici. All’immagine televisiva di
Galloni, che rilascia le sue dichiarazioni banali, i brigatisti reagiscono con una
specie di stupore attonito, recitando catechisticamente uno slogan; segue una
breve sequenza in bianco e nero, da un documentario su Stalin, che assiste a
una delle sue parate monumentali. Il montaggio rinvia all’aspetto spettacolare
della mentalità totalitaria.
    La coscienza stessa dei propri atti proviene ai brigatisti dall’esterno e di ri-
flesso; gli eventi, i commenti, e perfino il delitto, vengono predisposti e proget-
tati fin dall’inizio nella prospettiva della loro «ripresa» televisiva. Il dominio
spettacolare informa gesti e reazioni dei brigatisti e dei potenti governativi, allo
stesso modo e allo stesso tempo. I rivoluzionari sono diventati spettatori stupe-
fatti di se stessi.

2. Se la realtà storica assume sempre più i connotati dello spettacolo e del so-
gno, costellazioni immaginarie e oniriche determinano nel profondo gli atti e le
scelte politiche. In tutto il film il registro della «realtà» si alterna e si confonde
con quello onirico; in alcune sequenze, i sogni di Chiara costituiscono quasi una
storia parallela a quella reale, in montaggio alternato. È questa una cifra stilistica
di molti film di Bellocchio; nel suo aspetto figurativo il sogno non presenta defor-
mazioni clamorose e non si differenzia in modo evidente dalla realtà; c’è quasi
uno scivolamento inavvertito e continuo dall’uno all’altra, un’ambivalenza continua
della percezione del mondo, un’incertezza costitutiva che ci impedisce di distin-
guerli in modo definitivo. In questo film, tuttavia, il film «onirico» mostra svilu-
pi e significati, che divergono con intensità crescente da quello «reale».
     Fino alla crisi di coscienza di Chiara, le immagini oniriche e quelle del se-
questro restano ambiguamente solidali, in una sorta di allucinata fantasmagoria;
poi le immagini di sogno dissentono sempre più profondamente da quelle «re-
ali», fino a indicare una soluzione utopica e alternativa a quella dell’omicidio. È
il linguaggio dei sogni che ci mostra il processo di crisi e trasformazione di
Chiara.
     La rivoluzione è essa stessa all’inizio un’immagine onirica, mediata dalla cita-
zione – in bianco e nero – di un film sulla Russia del 1917, o dal canto partigia-
no che – nella festa in ricordo del padre di Chiara – stabilisce una continuità
fantasmatica con la Resistenza. Più che da una logica razionale, Chiara è sospin-
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ta dal desiderio di riattualizzare in sé gli archetipi eroici del passato. Poco le
importa, in un certo senso, se essi siano adeguati o corrispondano alla situazione
presente, da un punto di vista strettamente politico. Nella sua costellazione im-
maginaria, la ripetizione mitica del passato prevale sulla differenza e sulla speci-
ficità storica attuale. Del resto, il partigiano che canta – rosso in viso e collo
sguardo sbarrato – è davvero simile a un’allucinazione, e la festa familiare col
suo misto di segni di croce, lasagne e moralismo parolaio è una rasoiata contro
il cattocomunismo all’italiana.
    Moro stesso diventa una figura della fantasmagoria interiore di Chiara. Ini-
zialmente ella si identifica coll’autoritaria «famiglia» brigatista, sostituto e surro-
gato di quella reale: in un’immagine onirica, quasi alla fine del film, vediamo i
brigatisti che si fanno il segno della croce a tavola, prima di mangiare, come i
parenti della festa familiare. Qualcosa di profondamente infantile sopravvive
nella psicologia di Chiara ed emerge nella sua gioia per i fuochi d’artificio alla
fine dell’anno (gioia simile a quella che prova quando la televisione annuncia il
sequestro; ma allora ha una vertigine e la realtà sembra attraversata da un brivi-
do o da una risonanza).
    Moro diviene un fantasma del padre assente, ambiguamente odiato e compian-
to. La dinamica psichica è del tutto parallela a quella politica: l’uccisione sacrifica-
le non comporta alcuna liberazione, alcuna individuazione reale. L’omicidio del
padre, la ripetizione mimetica – contro di lui – della violenza o della mancanza
un tempo subita, lascia nel «covo» claustrofobico e ossessivo dell’identificazione
e della colpa. L’appartamento dove avviene il sequestro è appunto un simbolo
di questa condizione oppressa e senza respiro; nelle prime immagini del film lo
vediamo sfilare davanti a noi in una lenta panoramica, oscuro e già soffocante.
Uccidendo il padre, si entra in questo spazio senza varco, prigione a un tempo
della vittima e dei carnefici. Da essa, Chiara cerca infine di evadere.
    Ciò non comporta tuttavia il pentimento o l’identificazione rassegnata col
nome del padre; per sfuggire all’identità con l’imago paterna occorre entrare in
conflitto con essa. L’affermazione della propria differenza sarebbe l’opposto
dell’assassinio rituale, che porta Chiara a rifiutare la maternità, l’eros, la femmi-
nilità e coincide con un suicidio psichico. Chiara oscilla tra l’odio e l’idealizza-
zione del padre rifiutato. Solo lasciando che questo fantasma si distacchi e si
allontani libero per la sua via, si può raggiungere al contempo la propria libertà.
Il conflitto e la separazione sono la vera alternativa alla follia, alla violenza mi-
metica o alla sottomissione passiva: nel film questo atteggiamento non conformi-
sta è rappresentato soprattutto nella figura di Enzo (che sul piano politico non
sta né con lo stato né con le BR; viene arrestato per questo?).
    L’alternativa simbolica è racchiusa in una inquadratura dell’inizio del film; in
primo piano vediamo un neonato, che una vicina ha affidato a Chiara e lei tratta
con goffagine e imbarazzo; sullo sfondo entrano i brigatisti con la cassa in cui è
rinchiuso Moro. L’immagine di una vita possibile si contrappone alla necessità
senza scampo della violenza mimetica.

3. Nel corso del film, Moro si trasforma sempre più da uomo politico in corpo
manipolato, nuda vita prigioniera del meccanismo sacrificale della violenza. Le
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sue responsabilità e le sue azioni politiche finiscono progressivamente sullo sfon-
do, mentre in primo piano viene quella creaturalità elementare, che rende co-
munque e sempre immorale la pena di morte. Quando l’essere umano cade
nella più radicale e irrimediabile impotenza, quando il suo corpo grida come un
animale condotto al macello, e a condurlo sono altri uomini, il diritto mostra il
suo fondo di barbarie (anche quello del «tribunale del popolo» brigatista).
    Moro è accettato e voluto come vittima sia dal potere governativo, sia da
quello terrorista. Entrambi si rinsaldano e si fondano versando il sangue del
sacrificio, perpetuando la spirale della violenza e mostrando così il volto impas-
sibile e arcaico del potere. La trasformazione di Moro in puro oggetto di mani-
polazione è mostrata visivamente nel film: in tutto il tempo della prigionia gli è
negata la reciprocità dello sguardo. I brigatisti che lo interrogano sono incap-
pucciati; quasi sempre Moro è inquadrato dal circolo dello spioncino, metafora
di un occhio che spia, circondato dal buio.
    È la coscienza di partecipare a questo meccanismo vittimario, che sconvolge
Chiara e ne determina la trasformazione: la sua costellazione immaginaria ab-
bandona l’archetipo eroico del gruppo rivoluzionario e si orienta piuttosto verso
il desiderio di rompere ed aprire la struttura sacrificale del potere. L’immagine
di sogno della rivoluzione è sostituita da un’immagine utopica di liberazione,
quella in cui la vittima destinata viene sciolta dai suoi vincoli, come nel sacrificio
di Isacco interpretato da Kierkegaard. La trasformazione sociale, per essere ra-
dicale davvero, deve trovare forme che rompano il meccanismo vittimario e la
catena imitativa della violenza: solo allora è possibile distaccarsi ed opporsi ad
ogni forma di potere.
    Questa alternativa è espressa dal montaggio alternato alla fine del film, in cui
le due soluzioni opposte – quella sacrificale e quella della libertà – si confronta-
no nello spazio di poche, potenti immagini: prima vediamo Moro che esce dal-
l’appartamento e si muove libero per le vie di Roma; poi lo vediamo bendato,
umiliato, condotto alla morte dai suoi carcerieri; poi il papa che benedice la
funzione funebre e il sacrificio compiuto, davanti ai volti impietriti dei potenti
dell’epoca; e infine di nuovo Moro, che cammina libero. La musica dei Pink
Floid carica di grottesco la funzione funebre, mentre quella di Schubert inseri-
sce un tono struggente di nostalgia e di rimpianto nell’immagine di Moro libe-
rato.
    Queste immagini in tensione dialettica non esprimono buonismo o facili
conciliazioni: l’immagine di sogno è tanto più intensa, quanto più mostra – nelle
immagini centrali – i responsabili e i colpevoli del sacrificio e della morte.
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