Loreto cantiere artistico internazionale nell'età della controriforma I committenti, gli artisti, il contesto - FRANCESCA COLTRINARI

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Loreto cantiere artistico internazionale nell'età della controriforma I committenti, gli artisti, il contesto - FRANCESCA COLTRINARI
FRANCESCA COLTRINARI

Loreto cantiere artistico internazionale
     nell’età della controriforma
     I committenti, gli artisti, il contesto
Loreto cantiere artistico internazionale nell'età della controriforma I committenti, gli artisti, il contesto - FRANCESCA COLTRINARI
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Loreto cantiere artistico internazionale nell'età della controriforma I committenti, gli artisti, il contesto - FRANCESCA COLTRINARI
Francesca Coltrinari

Loreto cantiere artistico internazionale
     nell’età della controriforma
   I committenti, gli artisti, il contesto
Loreto cantiere artistico internazionale nell'età della controriforma I committenti, gli artisti, il contesto - FRANCESCA COLTRINARI
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Simone Gismondi

Responsabile editoriale
Silvia Frassi

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Pacini Editore Industrie Grafiche

isbn 978-88-7970-819-7

In copertina
Lorenzo Lotto, Cristo e l’Adultera, Museo Antico Tesoro della Santa Casa

Referenze fotografiche
Archivio Storico della Santa Casa di Loreto, Roberto Dell’Orso

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INDICE
Abbreviazioni                                                                            7

Presentazione                                                                            9
Pier Luigi De Vecchi

Premessa                                                                                15

                                        PARTE I
 IL PROTETTORATO DI RODOLFO PIO DA CARPI (1542-1564) E GLI ANNI DEL CONCILIO DI TRENTO

Capitolo I
Governo e organizzazione della Santa Casa
I. 1 Rodolfo Pio legato pontificio della Marca                                          23
I. 2 Il cardinale da Carpi protettore di Loreto: gestione, politica e organizzazione    25
I. 3 La rete sociale ed economica di Loreto: i mercanti, la fiera di Recanati
     e il porto di Ancona                                                               29
I. 4 Il capitolo e un suo protagonista: Bernardino Cirillo dall’Aquila                  35
I. 5 I governatori del cardinale da Carpi: familiari e giudici della fede               46

Capitolo II
L’allestimento delle cappelle absidali: un programma protoriformato
II. 1. Le cappelle del Sacramento e di Sant’Anna: Francesco Menzocchi da Forlì
       «pittore nobilissimo e universale» a Loreto                                      85
II. 2. «Con quella inteligenza che ho saputo». Pellegrino Tibaldi
       dalla cappella del cardinale di Augusta alle pale d’altare anconetane           102
II. 3. In margine alla committenza lauretana del cardinale da Carpi:
       la Conversione di San Paolo di Taddeo Zuccari per i cappuccini di Ancona        118
II. 4. «Come benefattore et incorporato ministro di esso pio et santo luogo».
       Lorenzo Lotto e Loreto                                                          124
       II.4.1. Lotto a Loreto prima del 1552                                           124
       II.4.2. Il ciclo del coro                                                       133
       II.4.3. I dipinti devozionali                                                   152

                                        PARTE II
      DOPO TRENTO. LORETO SANTUARIO DI CONVERSIONE E BALUARDO DELLA FEDE CATTOLICA

Capitolo I
L’eredità dei della Rovere: il protettorato di Giulio Feltrio, cardinale di Urbino
(1564-1578)
I. 1. «Per sodisfare alla divotion mia et all’obligo che n’ho come protettore».
      Il governo “interrotto” di Giovanni Morone (1564; 1578-1580)                 193
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I. 2   Giulio Feltrio della Rovere, cardinale di Urbino (1564-1578):
       mecenate e riformatore                                                          199
       I.2.1 «Cominzando da papa Giulio fino alli signori presenti».
       Un santuario “familiare”                                                        199
       I.2.2 «La gelosia che tengo della Santa Casa de Loreto».
       Giulio Feltrio protettore                                                       204
       I.2.3 La committenza del cardinale di Urbino fra Roma, Ravenna,
       Fossombrone e Loreto                                                            218
I. 3   L’indotto del pellegrinaggio: Agostino Filago
       «gentilhuomo cortesissimo e raro» e i paternostrari di Loreto
       fra economia e mercato dell’arte                                                231
I. 4   Il clero di Loreto e la controriforma:
       cultura, problemi disciplinari e contrasti                                      241
I. 5   Loreto santuario di conversione e riconciliazione di cristiani,
       ebrei e turchi fra documenti e immagini                                         253

Capitolo II
Il cantiere artistico: i protagonisti, l’organizzazione del lavoro
e le dinamiche in un grande santuario europeo
II. 1 «Sono stato saldo senza rompermi punto».
Giovanni Boccalini da Carpi architetto della Santa Casa                                297
II. 2 Il cantiere della scultura: Giovanni Battista Della Porta,
       Antonio Calcagni e i fratelli Lombardi. Avvicendamenti,
       conflitti e collaborazioni lungo la via lauretana                               311
II. 3 Il cantiere pittorico: committenti, artisti, programmi figurativi                319
       II.3.1. L’assetto interno della basilica lauretana nel ‘500:
                 la ricerca dei patroni e il progetto della cappella del Granduca di
                 Toscana                                                               319
       II.3.2 Cesare e Silvio Mosca pittori di Ancona, Pietro Paolo Menzocchi e
                 Gaspare Gasparini: la cappella del «principe ongaro»
                 e le ante del nuovo organo                                            328
       II.3.3. Verso il giubileo del 1575: le cappelle Altoviti e d’Avalos d’Aragona   336
       II.3.4. «La quale in tutto il resto è superiore di gran lunga alle altre».
                 La cappella dei duchi di Urbino                                       344
       II.3.5. Pietà al femminile a Loreto:
                 la committenza di Ginevra e Barbara Massilla                          358

Bibliografia                                                                           395

Indice dei nomi                                                                        429
Indice dei luoghi                                                                      443
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LORETO CANTIERE ARTISTICO INTERNAZIONALE NELL’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA

anconetani ancora senza opere attivi in quegli anni anche a Loreto 183: da qui
l’impressione di insieme non risolto, frutto della sovrapposizione di modelli
quasi giustapposti fra loro che l’immagine trasmette. Tra le due versioni sem-
bra essere intervenuta una conoscenza più diretta della Conversione di Saulo di
Michelangelo nella cappella Paolina 184: da qui deriva infatti la figura di Cristo,
che nella tela anconetana riprendeva un modello, ugualmente michelangiole-
sco, ma meno aggiornato e, per così dire, pertinente al tema, come il Dio Padre
nella Creazione di Adamo della Sistina 185. Le due Conversioni di Taddeo, inoltre,
potrebbero nascere da un simile intento di allusione alla conversione: suggesti-
vo è il richiamo fatto da Golda Balass alla figura di un santo appartenente alla
famiglia Frangipane, S. Ottone, un soldato vissuto nell’XI secolo e convertitosi
al cristianesimo, che avrebbe potuto favorire la scelta del soggetto da parte dei
committenti romani, caricandolo anche di un richiamo alla storia familiare 186.

II. 4. «Come benefattore et incorporato ministro di esso pio et santo
       luogo». Lorenzo Lotto e Loreto

II. 4. 1. Lotto a Loreto prima del 1552
«Come benefattore et incorporato ministro di esso pio et santo luogo»: con que-
ste parole Gaspare Dotti dichiarava Lorenzo Lotto oblato della Santa Casa nella
solenne cerimonia svoltasi dentro la santa cappella di Nazareth il giorno della
Natività della Vergine del 1554. Messosi «in ginocchione dinanzi al mio signore
Iddio Jesu Christo, alla sua santissima madre» e al governatore, l’anziano pittore
aveva offerto la propria «volontà, il corpo et tutta la robba che mi truovo [...]
sia in vita come dopo morte» al santuario 187. L’oblazione è l’ultimo atto della
vita di Lotto, che sarebbe morto circa due anni dopo, probabilmente nei primi
mesi del 1557 e arrivava dopo due anni esatti dal suo trasferimento a Loreto «a
complacentia di Monsignor governator Gaspar de Dotti, il 30 agosto 1552» 188.
La vicenda lauretana di Lotto è stata per lo più definita come il ripiegamento
e l’estremo rifugio di un uomo anziano, solo e inquieto, costretto dapprima a
riparare da Venezia ad Ancona, nel 1549, e poi a passare a Loreto, dove l’obla-
zione gli dava la possibilità di non “andarsi più avvolgendo” nella sua vecchiaia:
«ritiro», «esilio» «pellegrinaggio» sono le parole più usate per definire la scelta
controcorrente del pittore 189. Un filone di studi dedicati alla posizione religiosa
di Lorenzo Lotto ha poi potuto interpretare la scelta finale dell’oblazione a Lo-
reto in due modi antitetici, ora come dimostrazione dell’ortodossia del maestro,
ora come possibile azione penitenziale, forse orientata da Gaspare Dotti e dal
cardinale da Carpi, per le passate idee e frequentazioni eterodosse dell’artista 190.
I rapporti del maestro veneto con il santuario erano iniziati tuttavia molti anni
prima. È difficile pensare infatti che Lotto, nel periodo compreso fra l’autunno
del 1506 e il 1508, quando era impegnato a dipingere il polittico dell’altare
maggiore della chiesa di San Domenico a Recanati, non avesse fatto visita al

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Loreto cantiere artistico internazionale nell'età della controriforma I committenti, gli artisti, il contesto - FRANCESCA COLTRINARI
L’allestimento delle cappelle absidali: un programma protoriformato

santuario e non avesse frequentato alcuni degli artisti e dei committenti coin-
volti nel grande cantiere architettonico. Negli anni di Girolamo Basso della Ro-
vere (1476-1507), che fu insieme vescovo di Recanati e protettore della Santa
Casa, si era creata una commistione di funzioni fra diocesi e santuario, esempli-
ficata dalla figura di Domenico Sebastoli da Anguillara, governatore della Santa
Casa e al contempo vicario episcopale, come tale residente quasi stabilmente a
Recanati 191. Dopo la morte del cardinale, nell’ottobre 1507, Giulio II separerà
Loreto da Recanati, inviandovi Bramante con il compito di fare «cose magne»
nel santuario, ormai passato anche ufficialmente sotto l’egida di Roma 192. Lotto
sfrutta questa congiuntura e ne è un interprete. Il polittico di San Domenico
porta i segni visibili del difficile momento di “distacco” di Loreto da Recanati: a
questo è stato ricondotto l’inserimento dei due medaglioni con le figure dell’an-
gelo e della Vergine annunciata nei guanti del patrono vescovo San Flaviano,
raffigurato in uno degli scomparti dell’ancona 193. Nel perduto pannello centrale
della predella era poi raffigurata, come testimonia Vasari, «quando Santa Maria
di Loreto fu portata dagl’Angeli dalle parti di Schiavonia là dove ora è posta»,
dove Lotto si misurò, probabilmente per la prima volta, con il soggetto della
Traslazione della Santa Casa che avrebbe in seguito riproposto nei nove quadretti
inviati in vendita nella bottega lauretana di Agostino Filago per il giubileo del
1550 194. Fabio Marcelli ha convincentemente avanzato l’ipotesi di individuare
un riflesso dell’invenzione di Lotto per la predella del polittico nella xilografia
a corredo della Lauretanae Virginis Historia scritta intorno al 1525 da Girolamo
Angelita, cancelliere del comune di Recanati 195. Lotto sfrutta il ponte con Roma
costituito da Loreto per approdare nella capitale pontificia, dove entra con una
posizione di rilievo nel cantiere delle Stanze di Giulio II, all’inizio del 1509 196,
prima del ritorno a Recanati, in cui è nuovamente attestato il 14 ottobre 1510 197.
Credo che numerose prove documentarie e dati di contesto, anche di recente
acquisizione, possano confutare con sufficiente certezza la tesi di un prolungato
soggiorno del pittore a Roma, proposta nel 1990 da Francesca Cortesi Bosco 198.
I tre anni precedenti al passaggio a Bergamo del 1513 sono spesso stati letti sulla
base dello schema del Lotto in fuga dal centro alla periferia e in considerazione
del “traumatico” impatto con la maniera di Raffaello, per lo più come periodo
non felice e di turbamento, con la Trasfigurazione recanatese quale emblema di
tale disorientamento 199. Ma questa visione mi sembra non reggere di fronte ai
veri capolavori di questi anni, dalla Deposizione di Jesi all’affresco di tono mil-
lenaristico e di grande potenza espressiva con il San Vincenzo Ferrer in gloria di
Recanati, nonché ai dati che emergono dai documenti: ad esempio il pagamen-
to per «due quadri cum figure» fatto al Lotto nell’ottobre 1512 dalla tesoreria
di Sigismondo Gonzaga, legato della Marca 200, uno dei quali potrebbe essere la
Giuditta con la testa di Oloferne della collezione della Banca Nazionale del Lavo-
ro che, per qualità esecutiva e anche per il riferimento, colto da Peter Humfrey,
a un’incisione di Mantegna, potrebbe corrispondere al profilo della committen-

                                                                                 125
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                                                                  za gonzaghesca 201. Di
                                                                  nuovo alla frequenta-
                                                                  zione del cantiere bra-
                                                                  mantesco di Loreto, di-
                                                                  retto dal 1511 da Gian
                                                                  Cristoforo     Romano,
                                                                  ci riporta il riconosci-
                                                                  mento di Lotto fatto
                                                                  da Chiara Pidatella nel
                                                                  «magistrum       Lauren-
                                                                  tium venetum», che
                                                                  il 30 aprile 1512 rice-
                                                                  veva in eredità dallo
                                                                  stesso Ganti disegni e
                                                                  cere, da dividersi con
                                                                  altri tre pittori, Gio-
                                                                  vanni e Bernardino da
                                                                  Arezzo e Franchino da
                                                                  Como 202. Un prezioso
                                                                  strumentario di botte-
Figura 22. Lorenzo Lotto, I Santi Cristoforo, Rocco e Sebastiano,
                                                                  ga, dunque, passava al
Loreto, Museo Antico Tesoro della Santa Casa                      pittore e sarebbe inte-
                                                                  ressante verificare se
nelle opere si possa trovare qualche riscontro degli influssi di Giancristoforo:
forse da qualcuno di questi disegni (architettonici?) potevano provenire spunti
usati per l’elaborazione della costruzione spaziale della pala Martinengo e delle
tarsie bergamasche. L’inventario delle gemme in calce al testamento dell’archi-
tetto rivela la presenza a Loreto di un patrimonio di glittica e gioielli molto
simile ai cammei posseduti da Lotto e apre un piccolo squarcio su un ambiente
artistico dove si riflettevano i gusti e i modelli dei cantieri romani di Giulio II 203.
Circa venti anni separano questa fase dalla testimonianza maggiore dell’attività
di Lorenzo Lotto a Loreto prima dell’epilogo degli anni ‘50: la tela con i Santi
Cristoforo, Rocco e Sebastiano, oggi nel Museo Antico Tesoro della Santa Casa
(fig. 22) 204. Il dipinto è stato identificato con quello citato da Vasari come «una
tavola a olio, che è in una capella a man ritta entrando in chiesa» 205; il primo
documento che ce ne parli è la concessione rilasciata il 2 aprile 1583 da Filippo
Guastavillani, protettore della Santa Casa, al governatore Vincenzo Casali di po-
ter collocare il dipinto nella cappella che egli intendeva far costruire nella chie-
sa; tale cappella, la seconda nella navata destra, era vicina al fonte battesimale
ed era dedicata a San Cristoforo 206. Casali quindi aveva scelto un dipinto che
aveva già per protagonista il santo patrono dei viaggiatori titolare del sacello,
ma la motivazione doveva essere anche di altro genere, di carattere artistico, se

126
L’allestimento delle cappelle absidali: un programma protoriformato

è vero che il governatore aveva acquistato già nel 1579 due dei cartoni lotteschi
per le tarsie di Bergamo raffiguranti il Diluvio universale e la storia di Giuditta,
lasciati dal pittore alla guardaroba della Santa Casa 207. In assenza di ancoraggi
documentari, la data dell’opera è stata fissata con una certa unanimità su base
stilistica negli anni ‘30 del ‘500, attestandosi fra 1533 e 1535 208. Per la commit-
tenza, Floriano Grimaldi avanza le ipotesi induttive più ragionevoli, pensando
o a una commissione di Giovan Matteo Giberti, allora protettore del santuario,
oppure all’iniziativa di qualche privato titolare di un altare nella chiesa 209. Lo
studioso richiama la possibilità che vi sia un collegamento con alcuni docu-
menti del 1542 e 1548 nei quali veniva citata l’esistenza di un altare dedicato
a San Cristoforo e di un beneficio intitolato a San Sebastiano, fondato da un
chirurgo francese abitante a Jesi, «magister Johannes Lorinerius» o Corinzio 210.
In effetti esistono varie attestazioni relative a questa vicenda che risulta piutto-
sto intricata per la lacunosità della documentazione e perché è una questione
molto tecnica legata alla gestione di un’eredità e di benefici ecclesiastici, tuttavia
vale la pena riesaminarla perché può fornire qualche informazione su uno degli
aspetti a mio parere più oscuri nella storia artistica della chiesa: vale a dire qua-
le ne fosse l’aspetto prima delle campagne decorative che stiamo esaminando
in queste pagine. Quali e quanti erano gli altari eretti nella chiesa prima della
metà del ‘500, a partire da quando e per iniziativa di chi? Se, infatti, le cappelle
della crociera furono oggetto di interventi decorativi solo dal 1545, nella na-
vata dovevano esistere già diversi altari in uso e quindi allestiti. Torneremo sul
problema, ma ora cerchiamo di chiarire qualche dato utile sull’altare da cui
proveniva la pala di Lorenzo Lotto. Il 2 giugno 1542, dunque, maestro Giovan-
ni Corinzio, francese, ma cittadino di Jesi, dettava il suo testamento a Loreto,
disponendo in caso di morte dei suoi figli che erede universale del suo patrimo-
nio fosse la cappella di San Sebastiano nella chiesa di Loreto; egli ne designava
anche il primo rettore nella persona del francese Roberto Giumel, mansionario
di Loreto, e stabiliva di eleggere possibilmente sempre dei cappellani francesi,
«per effectum quo prosequitur homines nationis et sue gentis» 211. Il documento
è quindi anche un’interessante testimonianza del carattere internazionale che
il santuario di Loreto stava assumendo: possiamo infatti credere che Giovanni
Corinzio avesse scelto la Santa Casa non solo per il suo indubbio prestigio e per
motivi devozionali, ma anche perché aveva un clero di eterogenea provenienza,
in cui i francesi sono in effetti bene attestati, specie in quanto apprezzati musici
e cantori 212. Lì, dunque, poteva meglio che altrove avverarsi il suo desiderio di
dare continuità alla sua nazione. Per quanto riguarda ciò che la vicenda testi-
monia dell’altare, risulta chiaramente che esso già esisteva nella chiesa, e che
il testatore si limitava a erigervi una nuova cappellania, affidata a un sacerdote
francese. Le disposizioni testamentarie di Giovanni vennero tuttavia parzial-
mente modificate per intervento del cardinale da Carpi il 24 gennaio 1548,
quando si stabilì che tale cappellania venisse eretta con il titolo di San Seba-

                                                                                  127
LORETO CANTIERE ARTISTICO INTERNAZIONALE NELL’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA

stiano, ma nell’altare di San Cristoforo 213. Le motivazioni di tale cambiamento
risultano oscure, tuttavia è abbastanza certo che i due altari di San Sebastiano
e San Cristoforo restarono distinti: della cappella di San Sebastiano sappiamo
che era collocata «sotto il primo organo» della chiesa e che nel 1569 Paolo Ma-
rio, vescovo di Cagli, aveva espresso il desiderio di «far assettare e dotarla» 214.
Il primo organo era quello fatto costruire da Giulio II e collocato a ridosso
della sacrestia di San Marco decorata da Melozzo da Forlì, per cui la cappella
di San Sebastiano era l’ultima della navata destra della chiesa. Quello di San
Cristoforo, invece, doveva trovarsi sempre a destra, ma vicino all’ingresso, come
dice la testimonianza di Vasari e, con ogni verosimiglianza, era la stessa che nel
1583 il governatore Casali faceva «costruire», o più probabilmente riadattare 215.
Non se ne faceva menzione nella ricognizione promossa nel novembre 1570
dal cardinale di Urbino per conoscere i diritti di patronato su cappelle, altari e
benefici della chiesa, mentre il fatto che Vincenzo Casali chiedesse al protettore
il permesso di collocare il quadro sul suo altare può forse suggerire che, almeno
a quella data, la cappella fosse rimasta vacante e tornata quindi nella disponi-
bilità del santuario 216.
Resta dunque aperto il mistero sulla committenza originaria del quadro di Lot-
to. Di dipinto votivo si è parlato per la presenza dei tre maggiori protettori
contro la peste, una protezione a cui Lotto stesso si sottopone con l’espediente
della firma apposta su un cartiglio nel quale è attorcigliato un serpente che tira
fuori la sua lingua proprio al di sopra dell’occhio. Il santuario di Loreto era
nato come santuario specializzato contro la peste e il mutamento di funzio-
ni simboliche che conosce dalla metà circa del ‘500 in poi non elimina mai
tale prerogativa 217: la stessa esistenza di due altari distinti dedicati l’uno a San
Sebastiano e l’altro a San Cristoforo lo comprova. La malattia, il viaggio e il
pellegrinaggio sono tre grandi temi del dipinto. È al termine del suo viaggio
Cristoforo, che arriva attraverso il mare, quasi facendo con altri mezzi la tra-
versata della casa di Nazareth e quella dei tanti pellegrini che da Venezia o da
altri porti giungevano al santuario; è nel mezzo del suo itinerario di pellegrino
Rocco, fermatosi solo per mostrare il bubbone sulla coscia e sembra muoversi
perfino San Sebastiano, malgrado sia inchiodato al tronco, come un povero
viandante sorpreso e malmenato dai ladri lungo la strada. L’opera manifesta
un impegno creativo e formale elevatissimo da parte di Lotto, che si avvale,
secondo una recente lettura di David Frapiccini, di modelli antichi, a partire dal
Laocoonte, di cui possedeva un modello in cera, ma anche di stampe di Dürer
(nella figura del Bambino) 218. Palese è a mio avviso il richiamo al San Cristoforo
affrescato nel 1529 da Tiziano nel palazzo Ducale di Venezia, da cui può essere
derivata anche l’idea della traversata del mare 219. Ogni spunto è però sempre
metabolizzato entro un’immagine dove le tre figure, separate in quanto ad azio-
ne, sono unificate dallo spazio e dalla luce: grazie al punto di vista ribassato, gli
sguardi di Rocco e Sebastiano cadono molto dall’alto sull’osservatore, sul quale

128
L’allestimento delle cappelle absidali: un programma protoriformato

doveva incombere il gigantesco Cristoforo, che ha un carattere monumentale
non solo per le dimensioni, ma per il ritmo spezzato del corpo, impegnato
nell’ultimo sforzo prima di toccare la riva. Cristoforo è dunque alla fine del suo
viaggio ed è proprio qui, dopo l’epica traversata, che, voltandosi a guardare il
suo passeggero, riceve l’illuminazione e riconosce nel bambino sulle sue spalle
Cristo. Lotto coglie questo istante nello sguardo colmo di stupore e commo-
zione del rustico santo e sottolinea questo momento chiave tramite lo svolazzo
ampio e teatrale del rosso mantello, che diventa drappo scenografico esteso fino
a San Sebastiano. Il disegno preparatorio della figura, nei musei civici di Pesaro,
svela il lavoro di elaborazione e poi le correzioni apportate nel dare colore e
luce all’immagine 220. La composizione ebbe grande fortuna, come attestano
le altre versioni dipinte dal pittore. Firmata e datata 1531 è la coppia di tavole
con i santi Sebastiano e Cristoforo provenienti da un polittico che raffigurava
anche i santi Francesco, Rocco e Giacomo, dalla chiesa di San Sebastiano a Ca-
stelplanio, oggi a Berlino 221, mentre per la chiesa di Santa Maria di Posatora di
Ancona, secondo le attestazioni del Libro di spese, Lotto dipinse nel 1549 i due
santi Rocco e Sebastiano, riconosciuti rispettivamente in due versioni nella Gal-
leria Nazionale delle Marche e in collezione privata 222. Non sappiamo invece
se sfruttasse le medesime idee anche il quadro con La Madonna di Loreto fra i
santi Rocco e Sebastiano riadattato come pala d’altare per la chiesa del convento
di Santa Maria Maddalena a Treviso, del 1544 223. Non è facile da accettare che
il prototipo per la tela di Loreto possa essere stato il trittico di Castelplanio,
datato 1531, quando Lotto era ancora a Venezia prima di trasferirsi nelle Mar-
che: ragioni di prestigio della sede e la profonda unità compositiva del dipinto
lauretano renderebbero infatti più plausibile l’idea che il maestro avesse ideato
per prima la tela del santuario 224.
Gli anni ‘30 sono un periodo di intenso lavoro di Lotto nelle Marche, segnato
dalla conquista di nuove piazze come Fermo, Cingoli, Osimo, forse Macerata,
mentre Recanati, Loreto e Ancona sono i suoi principali punti di riferimento:
lo attesta un documento del 1534, per ora la prima menzione di Lotto nella
regione in questi anni. Il maestro, habitator di Ancona, nomina procuratore per
la vendita di dipinti Giannetto di Giovanni del Coro, verosimilmente il figlio
del suo amico architetto anconetano e probabile autore della scritta sul retro
del Cristo con i simboli della Passione della collezione Longhi 225; alla stipula fa da
testimone il nobile Ludovico Grazioli, per il quale negli anni ‘50 Lotto avrebbe
realizzato un ritratto, fatto che prova la capacità del maestro veneto di tessere
relazioni durature anche a distanza e del suo legame con la città adriatica. In
questa fase Lotto, verosimilmente nella stessa Ancona, ha bottega con allievi e
collaboratori, fra cui rientrano Durante Nobili e Giovanni Andrea de Magistris
da Caldarola, che utilizzano in questi e negli anni successivi le composizioni
del maestro 226, ma probabilmente anche Antonuccio da Jesi. Sono certa che un
nuovo scavo documentario porterà alla luce altre attestazioni di questo periodo,

                                                                                   129
LORETO CANTIERE ARTISTICO INTERNAZIONALE NELL’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA

ma intanto sappiamo che i committenti delle opere di questi anni vengono da
famiglie di notabili, spesso di ceto mercantile, come i Franceschini di Cingoli, i
Guzzolini di Osimo, i Pizoni di Ancona e i membri della confraternita dei mer-
canti di Recanati, per i quali viene dipinta l’Annunciazione, ormai riferita a questi
anni 227. Questo poteva essere il milieu da cui proveniva il patrono dell’altare di
San Cristoforo a Loreto. Una cauta proposta tutta indiziaria potrebbe essere
fatta in favore di Vinciguerra Gigli, il grande mercante-paternostraro-banchiere
recanatese che abbiamo già incontrato come factotum e finanziatore del santua-
rio negli anni ‘30 e ‘40. Come si apprende dal suo testamento del 1549, egli
aveva un altare nella chiesa di Loreto. Molti fatti impongono cautela nel colle-
gare quest’altare a quello di San Cristoforo: nel testamento non se ne menziona
il titolo, né si forniscono informazioni sull’epoca della sua erezione, mentre il
testatore lasciava 150 fiorini per ornarlo, il che fa pensare a un altare ancora non
finito 228. Vinciguerra Gigli apparteneva alla cerchia di mercanti che si muovono
fra Loreto e Ancona nella quale ritroviamo i contatti di Lotto documentati dal
Libro di Spese e il pittore sarà in sicuro rapporto con i suoi eredi qualche anno
dopo, quando, fra marzo e luglio 1553, depositerà presso di loro in cambio di
denaro, i cammei, una medaglia da berretta e l’anello con la corniola, recupe-
rati nell’agosto dell’anno dopo 229. Nel 1534 Vinciguerra aveva ottenuto per sé
e gli altri «paleari» di Loreto un importantissimo riconoscimento pontificio, un
breve di Clemente VII che li autorizzava a vendere corone nel santuario anche
nei giorni festivi, domenica compresa 230. Il paternoster legato con evidenza al
bastone di Rocco nella tela lottesca, assente ad esempio nella replica oggi a Ur-
bino, potrebbe forse essere un altro piccolo indizio verso uno dei paternostrari
lauretani 231.
Le indagini documentarie preparatorie di questo studio hanno portato alla luce
una quantità sorprendente di riferimenti lauretani a committenti e personaggi
in rapporto con Lotto. Vale la pena riferirne perché possono aprire nuove piste
di ricerca e chiarire aspetti ancora oscuri dell’attività del maestro. Fra i numerosi
orafi che a vario titolo sono in contatto con la Santa Casa di Loreto sono ben do-
cumentati i tre fratelli Polini: Giuliano, Girolamo e Aurelio, figli di Francesco det-
to Cecco da Recanati. Si trattava di orefici influenti e facoltosi, tanto che Aurelio
veniva detto “il ricco”, membri delle magistrature cittadine 232 e in relazione con
colleghi forestieri: ad esempio, nel 1538, Giuliano Polini si impegnava a saldare
un debito risalente a sette anni prima all’orefice milanese Giacomo Lantanido 233.
Dei tre i rapporti professionali più diretti con la Santa Casa li ha Aurelio, che nel
1567 tiene in affitto una casa con bottega del santuario e fra 1566 e 1572 è do-
cumentato per prestazioni d’opera, come la stima dello sportello bronzeo del ta-
bernacolo per l’altare della cappella del Sacramento, opera di Francesco Tortorini,
zecchiere del duca di Urbino, oppure la vendita di un calice del tesoro di Loreto ai
frati cappuccini di Ancona 234. Giuliano riceve pagamenti non meglio precisati fra
1538 e 1544, mentre insieme ai due fratelli nel 1543 vende un terreno alla Santa

130
L’allestimento delle cappelle absidali: un programma protoriformato

Casa 235. Nel 1544, inoltre, è testimone al già citato accordo fra i pittori Sante,
Biagio e Nicolò Peranzone 236. Nel 1570 il figlio Pomponio, noto come maestro di
teologia, attivo a Recanati e Venezia, risolveva un contenzioso con Agostino Fila-
go, risalente con ogni verosimiglianza ai rapporti del padre con il mercante lom-
bardo 237. Girolamo è invece il meno documentato a Loreto: dopo la vendita del
terreno fatta insieme ai fratelli nel 1543, lo troviamo solo nel marzo 1544 mentre
promette di non offendere Bartolomeo Zampini 238. Ma è lui la figura chiave nei
rapporti con Lorenzo Lotto. Egli è infatti menzionato nel Libro di spese diverse per
essersi trasferito a casa del pittore a Venezia, nel giugno del 1548, per fare «la
vita del viver a mità», accettando in cambio di tenere «per mostra da vendersi» i
cammei e i gioielli dell’artista. La convivenza si rivelò tuttavia impossibile a causa
della tendenza a “insignorirsi” del recanatese, che aveva cercato «con intrighi»
di non pagare l’affitto, e finì per concludersi nel peggiore dei modi: nel giugno
del 1549, infatti, Polini fuggì di nascosto da casa del pittore, minacciando il suo
garzone e portando via il ritratto suo e della moglie, senza finire di pagare la sua
quota dell’affitto 239. Lotto dice chiaramente che Girolamo era sua «fiozo», figlioc-
cio, quindi con ogni probabilità egli ne era padrino di battesimo: malgrado non
abbiamo documenti in merito, è probabile che Lotto avesse stretto amicizia con
la famiglia Polini e segnatamente con Francesco, padre di Giuliano, Girolamo e
Aurelio, fin dal suo primo soggiorno recanatese, che durò dal 1506 al 1513 circa, e
che egli abbia potuto fare da padrino a Girolamo, la cui cronologia è compatibile
con una nascita in quegli anni. Questo spiega anche meglio la decisione di Lotto
di accogliere in casa il gioielliere, con cui dunque aveva un legame di prossimità
che, per l’epoca, equivaleva a una parentela 240. Nel 1939 padre Clemente Bene-
dettucci, infaticabile raccoglitore di memorie patrie, pubblicava una pergamena
acquistata «da un libraio di Venezia» nella quale veniva citato «il nome di un re-
canatese», cioè appunto Girolamo Polini. Si trattava di un atto di procura del 14
maggio 1568 stipulato da Maria, vedova dell’orafo Alessandro Caravia, a nome
anche delle figlie Giovanna e Nicolosa e dei loro mariti, rispettivamente Mario
Antonio Negri da Venezia e Girolamo Polini del fu Francesco di Recanati, per
recuperare tutti i beni del suo defunto marito a Venezia, Firenze, Costantinopoli
e in altri luoghi 241. Il nome del procuratore viene trascritto da Benedettucci come
«Antonio a Vetuta», ma si tratta senz’altro di un’errata lettura per Antonio «a Vetu-
la», ovvero della Vecchia 242. I personaggi menzionati sono infatti ben noti: Anto-
nio Caravia è uno dei principali gioiellieri «eretici» individuati da Renzo Fontana
e da Massimo Firpo come certe o probabili frequentazioni di Lotto a Venezia
negli anni ‘40, in quell’ambiente della Ruga degli orefici di cui facevano parte
anche i fratelli Carpan. Antonio della Vecchia era il fraterno amico di Caravia, in
cui favore testimonia nel processo subito dal gioielliere nel 1559 davanti all’In-
quisizione, accusato di eresia per la sua opera La verra antiga de castellani 243, ma è
altresì il referente veneziano della bottega di orafi e mercanti che abbiamo visto
in relazione con la Santa Casa, con Lotto e stabilmente insediata anche ad Anco-

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LORETO CANTIERE ARTISTICO INTERNAZIONALE NELL’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA

na. La doppia parentela di Girolamo Polini con Lotto e con Alessandro Caravia
rende pressoché certa l’ipotesi di Firpo di una conoscenza diretta fra Caravia e il
pittore 244 e non è da escludere la possibilità che Lotto potesse aver avuto un ruolo
nell’introdurre in quella cerchia il suo figlioccio, che certamente fece un matrimo-
nio vantaggiosissimo: Caravia, infatti, era mercante di pietre e orefice di grande
fama e ricchezza, prediletto dal duca di Firenze Cosimo I 245 ed in effetti, come la
procura pubblicata da Benedettucci rivela, parte della sua eredità finì nelle mani
di Polini e della moglie. Era dunque verosimilmente proprio Nicolosa Caravia ad
essere stata ritratta da Lotto insieme al marito, in quei quadri portati via dalla casa
del pittore nel giugno del 1549.
Naturalmente la cronologia di questa ricerca non copre tutta l’attività di Lot-
to ed è possibile che altre circostanze possano emergere in futuri approfondi-
menti. Ad esempio è chiaro il legame esistente fra la Santa Casa di Loreto e la
famiglia Bonafede di Monte San Giusto. Fa parte del primo capitolo di Loreto,
quello istituito nel 1513 da Leone X, il sangiustese Fabrizio Roberti, intimo del
vescovo Niccolò Bonafede, con cui, nel 1523, viene chiamato al governo della
città natale, minacciata da un’epidemia di peste 246. Roberti riveste la carica di
depositario e, proprio durante la sua attività, vari sangiustesi svolgono mansio-
ni per il santuario, come il medico Troilo da San Giusto nel 1519 e fra prima-
vera ed estate nel 1520, i due pittori di Monte San Giusto Battista e Silvestro di
maestro Ercole, pagati per aver realizzato la decorazione di alcune stanze nel
palazzo apostolico 247. Proprio nel 1520, deciso a lasciare gli incarichi pubblici
per ritirarsi a Monte San Giusto, Bonafede si reca in pellegrinaggio nel santua-
rio; come rivela la Vita manoscritta del prelato egli vi

      andò a visitar, et render gratie alla Madonna di Loreto di tanti beneficii da lei rece-
      puti; ad la quale in tanti bisogni era solito recurrer; ascrivendo ad la clementia del
      Summo Dio, et ad la intercessione de epsa sempre Vergine tucte le virtuose et lauda-
      bili opere, et actioni da lui seguite et facte 248.

Queste parole dimostrano un inequivocabile legame devozionale con il san-
tuario che doveva essere precedente a questa data. Nella Santa Casa, ancora
nel 1572, si poteva vedere del resto un ex voto dipinto, donato nel 1508 da
Pier Matteo Bonafede, fratello del vescovo: ferito gravemente da alcuni briganti
sulla strada fra Macerata e Monte San Giusto, Pier Matteo era sopravvissuto
grazie alla Madonna di Loreto 249. Una frequentazione del santuario è attestata
anche da parte di Agesilao, uno dei figli di Niccolò Bonafede: nel 1546 Agesilao
compra due calici della santa cappella e nel 1548 è presente alla cerimonia di
apertura delle casse delle elemosine, un privilegio concesso a pochi selezionati
ospiti, probabilmente agevolato in questo da Barnaba Bonafede, forse figlio di
Pier Matteo, canonico della Santa Casa almeno dal 1545 al 1566 250. Nel 1587,
infine, Niccolò Bonafede, figlio di Agesilao, versa alla Santa Casa 500 scudi la-

132
L’allestimento delle cappelle absidali: un programma protoriformato

sciati dal padre in eredità per la fabbrica del santuario 251. Non sappiamo poi se
Lotto abbia contribuito a stringere un qualche legame fra Loreto e la famiglia
Amici di Jesi, committente dell’ultima pala d’altare del maestro veneto. Il dipin-
to, come accennato, venne realizzato proprio nella Santa Casa fra il 1552 e il
1555; il contratto fra Pier Francesco e Amico Amici e il pittore fu stipulato a Jesi
il 19 agosto del 1552 dal notaio Aurelio Aureli che di professione era speziale
«al segno della Fenice» 252. La sua spezieria, evidentemente piuttosto lussuosa,
diversi anni dopo, verrà venduta in blocco proprio alla Santa Casa 253. Pier Fran-
cesco Amici, uno dei due committenti di Lotto, sarà in rapporti soprattutto con
il cardinale della Rovere che, durante il suo protettorato, e precisamente dal
1576 al 1578, chiamerà il figlio Giulio a ricoprire la carica di governatore della
Santa Casa 254. Ovviamente queste sono circostanze che oltrepassano la vita di
Lotto, ma indicative del potere di attrazione del santuario nei suoi multiformi
aspetti di centro devozionale, di cantiere artistico e di luogo di potere.

II. 4. 2. Il ciclo del coro
Come una sorta di fenomeno carsico, destinato a ripresentarsi a distanza di anni,
Loreto tornerà a occupare un posto nella carriera e nella vita di Lorenzo Lotto al
suo rientro nelle Marche nel 1549. Il pittore arriva in Ancona ai primi di luglio
per provvedere alla realizzazione della pala d’altare per la cappella della famiglia
Todini nella chiesa di San Francesco alle Scale, commissionatagli il 1° giugno a
Venezia da Lorenzo Todini: il trasferimento di Lotto nelle Marche era previsto
negli accordi, mentre la cornice fu realizzata a Venezia sotto la supervisione di
Giovanni del Coro 255. L’artista lavora alacremente all’impegnativa pala d’altare
insieme a garzoni e collaboratori: Giuseppe Belli da Poltrenga, condotto da Ve-
nezia ad Ancona, Durante Nobili ed Ercole Ramazzani sono i principali, mentre
egli prende per breve tempo a bottega Marco Catalenich da Fiume e Paolo Ros-
sini, figlio di un medico bresciano 256. Dopo la conclusione dell’opera, nel 1550,
si apre un periodo privo di grandi commissioni pubbliche, fatto di incarichi
minori – i dipinti per la chiesa di Santa Maria di Posatora, molti ritratti, pitture
per la chiesa di Sant’Anna dei Greci – e della gestione di opere realizzate negli
anni precedenti per il mercato e che Lotto cerca di vendere in vari modi, affi-
dandole ad altri, come a Sansovino a Venezia nel 1549 o al mercante Francesco
Petrucci per venderle a Roma, oppure ancora ricorrendo alla lotteria nella loggia
dei mercanti di Ancona. L’uso di strategie mercantili da parte di Lotto è stato sot-
tolineato come un altro carattere di rilievo nell’attività di maestro 257. Senz’altro
emerge dal Libro di spese una difficoltà in questi anni a piazzare le proprie opere
e a farsi riconoscere il compenso sperato e atteso. Eloquente è proprio il caso
dei nove dipinti con la «istoria de Santa Maria de Loreto». Spediti da Venezia
intorno al 1549 insieme a vari altri quadri di cui un San Cristoforo, restano inven-
duti anche dopo il giubileo del 1550 e Lotto li regalerà in più riprese: due il 25
marzo 1551, giorno dell’Annunciazione, al cavaliere lauretano Vincenzo da Chio

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LORETO CANTIERE ARTISTICO INTERNAZIONALE NELL’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA

e a Francesco Bernabei di Ancona, che glielo restituisce; un altro, qualche mese
dopo, allo stesso Filago, anch’egli cavaliere lauretano, mentre altri due sarebbero
stati donati nel 1552 al cardinale da Carpi e nel 1553 al cardinale di Augusta,
durante la sua visita a Loreto 258. Loreto, con il suo cantiere artistico e con il mer-
cato, anche di immagini religiose che vi aveva luogo, poté allora offrire ancora
delle possibilità al pittore. Egli, del resto, frequenta ad Ancona una cerchia di
mercanti che lo avvicina quasi fatalmente al santuario: Tommaso della Vecchia,
Giovan Paolo Corbetta, Quintiliano da Montolmo, Dario Franceschini, Antonio
Saracini, Agostino Filago sono i personaggi che, come abbiamo visto, figurano
nei libri contabili della Santa Casa non meno che in quello del pittore 259. Ma
decisivo dovette essere l’incontro con il governatore Gaspare Dotti, avvenuto ad
Ancona verosimilmente nella primavera del 1552. È infatti «intorno el mese de
aprile» che Lotto annota di aver dato a Dotti «un San Francesco con le stimatte
con l’ornamento dorato, quadro piccolo», con ogni probabilità lo stesso riman-
dato indietro al pittore l’anno prima da Francesco Bernabei 260. Dotti era appena
rientrato da Venezia dove, fra febbraio e marzo 1552, aveva acquistato molti
oggetti di arredo e vetri per la Santa Casa e si tratteneva in Ancona: l’incontro con
il maestro, forse già conosciuto dal veneziano Dotti e in ogni caso a lui noto per
lo meno per le opere lasciate a Loreto e Recanati, sfocia nella commissione delle
figure di sei profeti e sei sibille, con angeli ed “epiteti” della Vergine, da fare a
chiaroscuro per i pilastri della navata della chiesa 261. Lotto li dipinge ad Ancona e
li manda via mare fino al santuario, dove arrivano, forse insieme al pittore, a fine
agosto 1552 262. L’opera fu quindi portata avanti in pochi mesi, forse anche grazie
al fatto che si trattava di figure a monocromo: l’iniziativa riprendeva da un lato
la serie di profeti eseguita anch’essa a grisaille sulle crociere della chiesa da Luca
Signorelli, dall’altro si collegava con le statue dei veggenti previste nelle nicchie
dell’ornamento marmoreo della santa cappella, la cui realizzazione era iniziata
nel 1549 a opera di Aurelio e poi di Girolamo Lombardi 263. In un momento in
cui le sculture non erano ancora poste in opera e comunque il ciclo non era com-
pleto, i dipinti di Lotto assolvevano verosimilmente la funzione di sottolineare il
valore provvidenziale dell’Incarnazione, annunciata da profeti e sibille, guidan-
do, anche in virtù delle scritte, nel percorso lungo la navata alla santa cappella.
Malgrado non abbiamo dettagli su come queste figure fossero, in particolare se
di dimensioni reali o maggiori del vero, se sedute o in piedi, è però certo che
esse andavano a interagire con l’architettura ed è pertanto verosimile pensare a
un confronto fra Lotto e l’architetto della Santa Casa, Galasso Alghisi da Carpi.
Con la consueta precisione, Lotto annota nel Libro di spese tutte le circostan-
ze del trasferimento a Loreto: si trattava di un accordo informale stretto con
Gaspare Dotti in Ancona alla presenza dei mercanti Tommaso della Vecchia,
Girolamo Gibellini e Giovan Paolo Corbetta. I patti prevedevano la fornitura
a Lotto di una stanza, di un luogo dove lavorare, del vitto, compreso quello
di un garzone, e la possibilità «di lavorar per altri in cunto mio e guadagno».

134
L’allestimento delle cappelle absidali: un programma protoriformato

Unica contropartita sarebbe stata «per scarico de mia consientia lavorar qual-
che cosa in qualità e quantità che parà a mia consientia et questo per amor mi
porta sua Signoria a beneficiarmi, mentre che sua signoria sta al governo» 264.
Inizialmente dunque Lotto si sposta a Loreto solo per un rapporto fiduciario
e personale con Dotti, attratto dalla vantaggiosa offerta di vitto e alloggio e
con la più ampia libertà di continuare a lavorare in proprio, sdebitandosi con
prestazioni che egli stesso avrebbe liberamente deciso. Nei due anni successivi
le cose sarebbero cambiate, fino a condurre Lotto alla decisione di rinunciare
alla sua propria libertà, facendosi “incorporare” dal santuario come oblato.
Nel frattempo però non era ancora il momento per l’artista di ritirarsi: Lot-
to infatti, pochi giorni prima del trasferimento a Loreto, il 19 agosto, si era
recato a Jesi per stipulare il contratto per un dipinto d’altare, destinato alla
cappella della famiglia Amici nella cattedrale. Si trattava di un’altra grande
pala d’altare per la città di Jesi, una delle piazze più fedeli a Lotto, che vi
aveva inviato dipinti fin dal 1512. Fautore di questa commissione, come di
molte altre fra la città marchigiana e Bergamo, è un membro della famiglia di
mercanti bergamaschi Marchetti, nel caso specifico Sebastiano 265. Il contratto,
stipulato dal notaio Aurelio Aureli, come accennato anche speziale al segno
della Fenice, testimonia la complessità del dipinto, che prevedeva una Madon-
na in Gloria e un Giudizio Universale «sopra il frontespizio de l’ornamento»,
con ben sei santi – Biagio, Antonio, Vincenzo, Sebastiano, Pietro e Francesco
– a terra, oltre a storie dei santi Biagio, Antonio, Sebastiano e Vincenzo nella
predella; la cornice, di cui Lotto portava con sé un disegno distinto, viene
affidata a Giovanni del Coro, l’amico architetto che nel novembre del 1552
era venuto a Loreto «per risolver l’ornamento de Jesi con maestro Sante» e
nel dicembre 1552 riceveva una procura da Lotto «per negociar cose mie a
Jesi» 266. Sante va identificato con ogni verosimiglianza con il Sante di Bartolo-
meo da Treviso, maestro di legname della Santa Casa in quegli anni, lo stesso
che il 7 novembre 1552 veniva chiamato a testimoniare insieme a Francesco
Menzocchi in favore di Dotti, intenzionato a vendere gli argenti della Santa
Casa 267. La dinamica della commissione della cornice risulta per la verità par-
ticolare; Giovanni del Coro, infatti, vi appare più come un appaltatore e un
soprintendente al lavoro che come esecutore. Ma perché era stato necessario
che lui andasse a Loreto a contrattare con maestro Sante? Forse Sante si stava
limitando a realizzare la tavola vera e propria e la cornice invece veniva fatta
da Giovanni del Coro ad Ancona. Sembrerebbe provarlo il fatto che alla mor-
te di Giovanni, avvenuta fra dicembre 1552 e maggio 1553, la commissione
passò all’intagliatore Domenico Salimbeni, con cui Lotto stipula un accordo
scritto da Giovan Paolo Corbetta 268. Salimbeni era un importante artefice e
mercante di legnami di origine fiorentina stabilitosi in Ancona che, come ha
chiarito Irene Sacco, lavorerà anche per Pellegrino Tibaldi, oltre a rifornire
la Santa Casa di legname da costruzione almeno fra 1559 e 1565 269. Già nel

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LORETO CANTIERE ARTISTICO INTERNAZIONALE NELL’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA

giugno 1552 ad Ancona aveva comprato da Lotto, forse per rivenderlo, «un
quadretino con l’ornamenti de noce et suo coperto a uso de spechio» che
Lotto aveva preparato per un «ritrattino» del mercante fiorentino Domenico
Nobili, poi non realizzato, e nel 1553 costruirà la cornice del San Girolamo
per il cardinale da Carpi 270. Questa esecuzione separata di dipinto e cornice si
era verificata anche nel caso dell’Assunta di San Francesco alle Scale, quando
il quadro era stato realizzato ad Ancona, mentre la cornice era stata fatta fare
da Giovanni del Coro a Venezia 271. L’ornamento della pala jesina viene infine
dorato a spese della Santa Casa da Antonuccio da Jesi, un altro dei probabili
allievi di Lotto degli anni ‘30 272. Il mistero sulla pala Amici si infittisce a causa
di un’altra annotazione contabile nei registri della Santa Casa. Il 14 maggio
1557 veniva infatti accreditata a Gaspare Dotti la somma di 13 scudi d’oro
che il governatore aveva prestato fino al 30 maggio 1555 a Lotto «per vestirsi e
pagar un giovine che doveva haver da lui»; il denaro si sarebbe dovuto ricavare
«dalla cona dipinta da quelli di Jesi, che mai hanno levata» 273. L’annotazio-
ne sembrerebbe indicare un ritardo nel pagamento e soprattutto nel ritiro
dell’opera, che, secondo il contratto, doveva essere portata a Jesi «a pericolo
e fortuna» dei committenti, su cui gravava il costo di «carri e homini da con-
durli e bovi» 274. In questo caso Lotto, scomparso prima del maggio 1557, non
avrebbe fatto in tempo a vedere in opera la sua ultima pala d’altare, che resta
inattingibile anche per noi, essendo andata dispersa nel ‘700 275.
Parallelamente alla pala Amici, fra ottobre 1554 e febbraio 1555, Lorenzo Lot-
to provvede alla decorazione della nuova cappella del coro della Santa Casa,
la cui commissione spetta al santuario, e cioè al governatore Dotti con il più
che probabile avallo del cardinale da Carpi 276. Non possediamo attestazioni
documentarie precise in merito, ma i lavori di sistemazione di questo ambien-
te sembrano essere iniziati intorno al 1543-1544, in concomitanza con l’avvio
della decorazione delle cappelle della crociera, sotto la direzione di Ranieri
Nerucci 277: fu allora che si decise di spostare il coro dei canonici dalla cap-
pella centrale a quella maggiore nella crociera destra della chiesa. Nel corso
del 1543, infatti, si susseguono diversi pagamenti a marangoni genericamente
per la «fabbrica», solo ipoteticamente riferibili a lavori al coro 278, mentre dal
luglio del 1544 e fino alla fine del 1545 troviamo precise attestazioni della
realizzazione del «soffitto» e del «pulpito dei cantori» nella nuova cappella del
coro, il primo ad opera di Sante veneziano, maestro di legname della Santa
Casa, l’altro del conterraneo Francesco veneziano, che vi lavora con due gar-
zoni 279. Questo soffitto, come ci testimonia secoli dopo Gianuizzi, che a fine
‘800 poteva ancora vederlo al suo posto, aveva «divisa [la cappella del coro] a
mezza altezza» ed era completato con la Traslazione della Santa Casa di France-
sco Menzocchi, pagata al pittore romagnolo nel 1548 (fig. 11) 280. Documenti e
fonti riconducono il finanziamento dell’opera al principe di Bisignano, com-
mittente anche dell’adiacente cappella di Sant’Anna 281. Gianuizzi riteneva che

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L’allestimento delle cappelle absidali: un programma protoriformato

lo spostamento fosse
stato determinato da
ragioni      climatiche,
essendo la cappella
centrale troppo espo-
sta al freddo 282, ma
essa diede anche l’oc-
casione di intervenire
sull’apparato musica-
le della chiesa; il coro
infatti si veniva a tro-
vare molto più vicino
all’organo esistente,
quello costruito sotto
Giulio II da Olivie-
ro da Montecarotto,
addossato al pilastro
fra la sacrestia di San
Marco e la cappella
di Sant’Anna 283; la
realizzazione di una
struttura per i canto-
ri e più tardi, a parti-
re dal 1564, alla fine
del protettorato del
cardinale da Carpi, di
un secondo organo,
opera dell’organaro
veneto Alessandro Vi-
centino da Palazzo, Figura 23. Anonimo del secolo XVII, Pianta della basilica di Lo-
collocato simmetrica- reto, Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe (da Grimaldi
mente fra la sacrestia 1975, p. 8)
di San Giovanni e la
cappella dei duchi di Urbino, completavano un apparato architettonico e stru-
mentale degno delle grandi cappelle musicali pontificie, adatto per eseguire
musica a cori spezzati, una moda diffusa soprattutto a Venezia 284. L’assetto
dell’ambiente è leggibile in una serie di piante seicentesche della chiesa, pub-
blicate da Floriano Grimaldi (fig. 23) 285: vi si vedono chiaramente gli stalli
disposti lungo due file ai lati dell’abside poligonale. Su di essi non abbiamo
notizie precise, ma proprio l’assenza di documenti induce a credere che non
furono costruiti ex novo e che, con ogni verosimiglianza, ci si limitò a trasfe-
rire nella cappella i sedili già esistenti in quella maggiore 286. Qui all’epoca di

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LORETO CANTIERE ARTISTICO INTERNAZIONALE NELL’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA

Clemente VII era stato collocato un «superbo choro», fatto fare dallo stesso
pontefice, secondo la testimonianza dello storico Girolamo Angelita, che, scri-
vendo intorno al 1525, ci permette di datare il complesso fra 1523 e 1525 287.
Forse sono i sedili visibili in una foto del 1895 della navata centrale della chie-
sa prima dell’inizio dei lavori di restauro 288. La cappella del coro fu infatti la
prima a venir interessata dai rifacimenti diretti da Giuseppe Sacconi, fra 1886
e 1890, e dalle nuove decorazioni pittoriche, il cui soggetto, compatibilmente
con la nuova intitolazione di San Giuseppe, è dedicato al santo falegname 289.
In una prima fase dei lavori di restauro ottocenteschi si era deciso di salvare
gli stalli spostandoli nella cappella del Sacramento. Il 29 maggio 1885 venne
anche stipulato un contratto per la ricollocazione del coro e degli altri arredi
lignei della cappella (cantorie e baldacchino dell’altare) fra l’amministrazione
della basilica e l’artigiano Coronato Cingolani Lunghi, in cui era previsto di
riutilizzare 22 stalli conservando « tutti gli avanzi del vecchio coro [...] per dar-
gli altra sistemazione» 290. Allo stato attuale delle ricerche non sappiamo quale
sia stata realmente la sorte di questo coro, se e perché il progetto dello sposta-
mento non venne realizzato: non è escluso che qualche parte del complesso
venisse venduta e probabilmente le ricerche intorno al periodo dei restauri
potrebbe riservare delle sorprese.
L’ambiente era decorato anche con sette dipinti di Lorenzo Lotto collocati «fra
la detta architettura sopra i seggi dei canonici», oggi tutti conservati nel Museo
della Santa Casa 291. Lo spostamento delle tele iniziò già alla fine del ‘700, quan-
do l’Adultera fu collocata nel Tesoro, dove nel 1797 fu requisita dai commissari
napoleonici: portata a Parigi e recuperata a inizio ‘800, venne esposta nel salone
del palazzo apostolico, dove dal 1850 circa furono sistemate anche le altre sei
tele 292. L’artista risolveva così definitivamente il problema di intervenire sullo
spazio rimasto fra i seggi e il coro, a cui si era pensato fin dal 1548; all’aprile di
quell’anno risaliva infatti una donazione fatta dal canonico dalmata Giovanni
di Albona a varie istituzioni religiose di Recanati e alla Santa Casa, a cui in par-
ticolare egli destinava

      fiorini cento di moneta colli quali se n’habbino a comprare tante spalliere di razzi
      quanto bastino a coprire il muro del choro ch’é tra le sedie di esso coro et la suffitta
      et hora per all’hora esso messer Joanni li deposita ne la santa cappella della Madonna
      et da extraherse dopo la sua morte et investirse quanto prima in dette spalliere, quali
      se habbiano ad comprare ad arbitrio di monsignor reverendissimo governatore pro
      tempore et dal sindico del capitolo, et il prezzo di esse non exceda la dicta somma 293.

La prima idea era dunque quella di rivestire le pareti con “spalliere” in arazzo,
secondo un uso diffusissimo che riguardava le abitazioni private, i palazzi pub-
blici e gli edifici di culto, ovviamente con differenti tipologie di stoffe e tessuti:
proprio Lotto ci offre spesso le immagini di queste spalliere negli interni dei

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L’allestimento delle cappelle absidali: un programma protoriformato

suoi dipinti, ad esempio nella Visitazione di Jesi e nella Annunciazione di Recana-
ti, dove vediamo esempi delle più comuni “spalliere verdi”. L’acquisto di questi
manufatti preziosi poteva essere fatto agevolmente sia ad Ancona, sia nella fiera
di Recanati, dove fin dai primi del ‘500 è attestata la presenza di un agente dei
Mouscron/Moscheroni, i mercanti fiamminghi noti per essere i committenti
della Madonna di Bruges di Michelangelo, che vende decine di tessuti preziosi
e arazzi 294. Nel 1568 anche Antonio Rogati, fratellastro di Barbara Massilla,
avrebbe lasciato alla Santa Casa «omnes et singulos pannos flandrenses ut vul-
gariter dicit de razza» 295. Non sappiamo se poi gli arazzi venissero davvero com-
prati o se il denaro lasciato dal canonico schiavone confluisse nel pagamento di
Lotto o in altro. Ancora il 1° aprile 1554 si pagavano delle tele nere per mettere
intorno al coro 296 e nel 1555 venivano comprate spalliere per il coro dal mer-
cante Petruccio Petrucci in Ancona 297.
L’impresa che vede coinvolto Lotto aveva invece carattere permanente e va ricon-
dotta alla committenza di Dotti, verosimilmente con l’avallo del cardinale da
Carpi; è inoltre probabile che Galasso Alghisi, architetto della Santa Casa, possa
aver agito da consigliere, ma è credibile che sia stato lo stesso Lotto a proporre di
impiegarvi alcune delle tele portate con sé a Loreto nel 1552 e, dopo l’oblazione
del 1554, passate al patrimonio della Santa Casa. Per la precisione egli riutilizzò
cinque dipinti già esistenti, modificandoli per renderli omogenei e adeguarli agli
spazi architettonici, mentre due, cioè l’Adorazione dei Magi e la Presentazione al
tempio vennero dipinti ex novo 298. Questa ultima fatica pubblica di Lotto ha co-
nosciuto una pervicace sfortuna critica, derivata dalla mancata comprensione del
contesto in cui la commissione maturò, dalla supposta scarsa qualità delle sette
tele, e dall’idea che l’insieme sia il frutto della quasi casuale riunione di dipinti
eseguiti in momenti diversi dall’artista, privo dunque di una regia e di significa-
to unitari 299. In realtà la commissione si sviluppa nel contesto della campagna
decorativa voluta dal cardinale da Carpi per conferire magnificenza al santuario
e illustrare significati teologici collegati alla fede in anni cruciali per la Chiesa, e
Lotto si trova a operare in un ambiente stimolante, accanto ad artisti come Men-
zocchi, Tibaldi, i fratelli Lombardi e Galasso Alghisi, mentre il santuario attraeva
cardinali e principi così come uomini di chiesa, predicatori e i gesuiti, con tutta la
forza della loro innovativa proposta devozionale. Di scarsa qualità si è poi parlato
per dipinti in uno stato conservativo precario, causato da pesanti interventi di
restauro, dannosi anche in quanto effettuati senza una riflessione sulle modifiche
apportate dallo stesso Lotto proprio in vista dell’adattamento al coro lauretano:
i recenti interventi sul Cristo e l’Adultera, l’Adorazione del Bambino e l’Adorazione dei
magi da parte di Fabio Piacentini dei Musei Vaticani hanno rivelato invece una re-
altà diversa 300. Per quanto riguarda, infine, la mancata considerazione delle sette
tele come ciclo unitario, risulta eloquente la diversa considerazione che le varie
parti hanno ricevuto, minima per opere come l’Adorazione dei Magi e l’Adorazione
del Bambino e massima per la Presentazione al tempio, quest’ultima assurta quasi a

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