London's Alternative Housing Housing stories and sharing practices by Italian people living in London - ESPAnet Italia

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London's Alternative Housing Housing stories and sharing practices by Italian people living in London - ESPAnet Italia
ESPAnet Annual Conference
                                                     Torino, 18-20 settembre 2014

                                        London's Alternative Housing
     Housing stories and sharing practices by Italian people living in London
      Silvia Sitton – Phd in Economia, Università di Modena e Reggio Emilia - sittons@gmail.com

                                                              Storytelling reveals meaning without committing the error of defining it.
                                                                                                                       Hannah Arendt

Premessa
La casa a Londra, poco importa se in affitto o di proprietà, è un ambito in cui si registrano una crescente
disuguaglianza ed esclusione; la scarsità dal lato dell'offerta e i valori immobiliari elevatissimi delle zone
centrali hanno enfatizzato la separazione tra “chi ha” e “chi non ha”. Le case nella capitale inglese sono
infatti le più care di tutto il resto del Regno Unito (e anche tra le più care del mondo), con un prezzo medio
di 345.186 sterline a fronte di una media nazionale di 175.826 sterline. Inoltre, con 36.000 nuovi nuclei
familiari previsti ogni anno e 24.500 nuove abitazioni, ci sia aspetta una carenza nell'offerta abitativa di
559.000 abitazioni nel 2022. Oltre a questo, le case di Londra sono le più affollate del Paese e preoccupa la
crescita del 50% dell'indice di affollamento che si è registrata tra il 2000 e il 20101, a conferma che è sempre
più difficile riuscire a comprarsi una casa propria (Whitehead and Travers 2012) .
L'aumento dei prezzi di vendita e di quelli di affitto hanno reso l'abitare un problema molto diffuso, in un
periodo in cui la crisi politica ed economica ha lasciato più spazio alla sperimentazione di pratiche abitative
e di modelli alternativi che mettono in discussione il significato tradizionale di proprietà privata.
Forme di abitare alternativo come ad esempio cohousing, occupazioni di edifici vuoti (squatting o contratti di
property guardian), residenze temporanee low cost, formule di acquisto in sharing, sfumano il confine tra
quello che è “personale” e quello che è “comune”, così come normalmente si pensa quando si parla di casa,
e mettono in piedi logiche alternative che sembrano facilitare la diffusione di pratiche di condivisione nella
vita quotidiana.

Impianto della ricerca
L'interesse per nuovi modelli abitativi ed esperienze di condivisione da un lato, e la passione per le storie
dall'altro sono i driver che hanno orientato la ricerca 2. L'obiettivo è indagare la relazione tra pratiche di

1   I dati sulla situazione abitativa di Londra sono disponibili nel report Housing London. A mid-rise solution, promosso da Princes's
    Foundation e pubblicato nel 2014.
2   Il lavoro è partito a inizio del 2014, a seguito di una proposta di ricerca sull'abitare alternativo a Londra che ho presentato alla
    London School of Economics nell'ambito di un approfondimento sul tema in vista della conferenza annuale della Royal
    Geographical Society.

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condivisione e forme di abitare in una città globalizzata come Londra e in un contesto di crisi economica,
analizzando modelli abitativi eccentrici (squats, houseboats) e nuove formule con cui affrontare l'emergenza
abitativa (property guardian shemes, shared-ownership houses).
Partendo dalle interviste fatte ad alcuni italiani che vivono a Londra, scelti come rappresentativi di diversi
modelli di abitare, la ricerca descrive, con uno stile narrativo ed un approccio visivo, la situazione abitativa
londinese da diversi punti di osservazione, quelli di persone che non hanno legami l'una con l'altra e che
hanno storie diverse, a partire dalle loro condizioni sociali e lavorative.
Con le informazioni soggettive raccolte è stata realizzata una rappresentazione grafica che colloca
geograficamente le storie. La mappa, arricchita con fotografie e descrizioni narrative, è disponibile su una
piattaforma online (www.doorothy.it), in modo da poter essere incrementata con altre storie.
La ricerca non vuole raccontare “la Storia” dell'abitare a Londra, ma solamente alcune storie di abitare, che
costituiscono una tra le tante possibili storie che si potrebbero raccontare: nel lavoro di ricerca infatti ho
raccolto delle microstorie, tutte territorialmente molto localizzate, che non consentono di trarre conclusioni
quantitative sui modelli alternativi di abitare più diffusi a Londra, ma piuttosto forniscono informazioni
particolari con le quali arricchire il quadro conoscitivo sul tema.
Si tratta di una lettura dell'abitare che potrebbe essere definita “raso terra”, in cui ciascuno degli intervistati
vive e documenta, partendo dal racconto della sua casa, un dettaglio di vita londinese, che diventa
un'estensione della sua vita privata, della sua esperienza di “interni”.
Gli studiosi di fenomeni sociali usano spesso metodi di ricerca quantitativi, più raramente strumenti di analisi
qualitativa e solo incidentalmente optano per una metodologia più narrativa. Quando ho scelto lo
storytelling come minimo comune denominatore della ricerca, ho pensato che raccontare storie fosse il
modo migliore per mettere insieme valori, bisogni ed esperienze intorno ad un tema chiave come quello
dell'abitare; inoltre, avvicinandomi ad un ambito profondamente indagato da esperti di diverse discipline, ho
ritenuto che usare strumenti ascrivibili tra le “self-documentation probes” fosse una scelta migliore per
documentare e visualizzare le informazioni raccolte piuttosto che propendere per rappresentazioni più
tradizionali. Infine ho pensato che lo storytelling potesse diventare uno strumento efficace per parlare con i
policy makers, e anche solo per questo che valesse la pena approfondirlo.
Le domande principali che hanno orientato la ricerca sono tre:
- Che cosa si intende per “alternativo” quando si parla di abitare?
- Come stanno evolvendo i modelli di abitare e quali sono le implicazioni sul concetto di proprietà privata?
- Esistono forme di abitare che più di altre sono in grado di facilitare e promuovere esperienze di
condivisione?

Metodologia
Per provare a rispondere alle domande della ricerca e per cercare di capire qualcosa sulle implicazioni della
condivisione sui modelli abitativi, ho scelto il punto di vista particolare degli italiani che vivono là e un
approccio etnografico sperimentale.
Concentrarmi sugli italiani mi ha permesso di circoscrivere l'immenso tema dell'abitare a Londra in confini

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più limitati (e a me noti); inoltre ho pensato che alcuni risultati della ricerca sull'abitare alternativo a Londra
potessero essere utilmente usati come benchmark da utilizzare in occasione di nuove ricerche sull'abitare
alternativo in Italia.
L'etnografia applicata ha molti legami con la tecnica del raccogliere storie, al fine di rappresentare la
complessità e le connessioni profonde che ci sono tra fenomeni sociali. Possiamo definire etnografia
applicata una metodologia “speciale” costruita sulle persone e modificabile durante tutto il processo di
ricerca, una metodologia che si applica a contesti reali e combina diversi strumenti di ricerca, che ha finalità
più esplorative che valutative ed è indirizzata a far emergere il punto di vista delle singole persone
(Mattelmaki 2006), partendo dalla ricomposizione di frammenti minuti di esperienze private, personali e
individuali.
Tra gli strumenti di ricerca utilizzati nell'etnografia applicata, in questa ricerca si sono utilizzati strumenti
cosiddetti di auto documentazione. Ricorrendo alla letteratura e a diversi esperimenti condotti con questi
metodi di indagine (Mattelmaki 2005) si possono identificare tre caratteristiche che descrivono gli strumenti
utilizzati in questa ricerca sull'abitare alternativo a Londra. La prima riguarda il ruolo attivo dei partecipanti,
documentato dalla partecipazione in prima persona alla ricerca (rispondendo a domande aperte,
compilando questionari, disegnando mappe) e dall'auto produzione di materiale di indagine (esperimenti
fotografici e diari digitali). La seconda caratteristica comune è che tutti i materiali hanno a che fare con il
contesto personale delle persone (housing) e con le loro abitudini quotidiane (living). Infine i materiali
raccolti hanno tutti un carattere esplorativo, ossia indagano nuove opportunità piuttosto che proporre
soluzioni.
Figura 1. Un esempio di esperimento fotografico: il ritorno a casa dal lavoro ripetuto dal lunedì al venerdì

Nella ricerca sono stati utilizzati insieme più strumenti di indagine: interviste individuali (realizzate via
Skype), un questionario strutturato, forme di diario via e-mail e esperimenti fotografici, molto utili per
coinvolgere le persone e farle partecipare attivamente alla ricerca. Caricare i dati raccolti su una piattaforma
multimediale (www.doorothy.it) è sembrato un buon modo per rappresentare la complessità del lavoro,
condividere le informazioni e sviluppare ulteriormente la partecipazione individuale.
Quando ho iniziato questo lavoro non conoscevo quali fossero i modelli di abitare alternativo più comuni a
Londra e nemmeno avevo dati sul mercato immobiliare e sulle condizioni abitative delle famiglie inglesi.
Questa situazione di “non conoscenza” si è rivelata funzionale per sperimentare l'efficacia degli strumenti di
auto documentazione che avevo scelto: ho provato infatti a ricostruire un quadro dell'abitare a Londra
chiedendo direttamente agli intervistati di raccontarmi con parole e immagini la loro esperienza abitativa,
provando ad entrare nelle loro case, a indagare le loro preferenze, le loro abitudini e le loro percezioni

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relativamente al contesto urbano in cui vivevano, tutto al fine di cercare di comprendere le implicazioni della
collaborazione e della condivisione sulle esperienze di abitare.
In cinque mesi ho contattato una novantina di italiani che abitano a Londra (manager e studenti, artigiani e
uomini d'affari, ristoratori e architetti, casalinghe e insegnanti, artisti e commessi, mamme e papà, occupati
e disoccupati, ..), ne ho intervistati in profondità venti (tramite colloqui via Skype e la somministrazione di un
questionario) e di undici di questi ho raccolto anche il materiale fotografico completo.
Per “scovare” gli italiani da intervistare ho usato un approccio relazionale, chiedendo inizialmente alle
persone che conoscevo che vivevano a Londra di diffondere il progetto tra loro conoscenti italiani, in una
sorta di passaparola progressivo che mi ha permesso di individuare casi interessanti in merito ai modelli
abitativi praticati e all'approccio alla condivisione.
La forma di auto documentazione prescelta per questa ricerca è stata l'esperimento fotografico: ad ogni
intervistato ho chiesto di partecipare attivamente, utilizzando la fotografia come strumento di ricerca, ed in
particolare ho raccolto materiale fotografico su tre ambiti:
- il modello di abitare, che significa la tipologia di casa, l'ambiente domestico, la famiglia o comunque le
persone insieme alle quali si vive;
- la vita quotidiana, documentata dal diario fotografico di una settimana tipo, nel quale ogni intervistato ha
scattato ogni giorno, per sette giorni, diverse foto ad orari stabiliti (indicativamente il momento della
colazione, l'uscita di casa, l'ambiente di lavoro, il ritorno a casa, la cena e il dopo cena);
- il vicinato, mappato in base agli spostamenti più frequenti, ai posti con cui ciascuno ha un legame
particolare, al paesaggio urbano e umano vissuto dagli intervistati.

Figura 2. Un esempio di esperimento fotografico: il momento della colazione ripetuto dal lunedì alla
domenica

Attraverso le interviste qualitative e le domande del questionario, ho indagato come ogni persona
rappresenta l'abitare a Londra e cosa intende per “alternative housing”. Inoltre ho approfondito le modalità di
sharing praticate da ciascuno, cercando di far emergere i fattori che facilitano la condivisione e quelli che
invece la ostacolano, per provare a verificare se ci fosse un qualche legame tra modi di abitare e pratiche di
condivisione.
All'inizio del lavoro ho stabilito quattro vincoli che ho mantenuto fino alla fine: il primo di utilizzare gli
strumenti di auto documentazione come principale metodologia di analisi, il secondo di intervistare solo
italiani, il terzo di non intervistare persone che avessero rapporti stretti tra di loro e il quarto di non andare
mai a Londra durante la ricerca, per non inquinare con uno sguardo diretto il lavoro di auto documentazione.
Ho poi usato tutti i frammenti raccolti per ricostruire delle storie individuali di abitare e fornire una

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rappresentazione di “pezzi” minuti di abitare, cercando ancora una volta di utilizzare lo sharing come fil
rouge con cui tenere insieme le storie individuali.
Se da un lato l'approccio etnografico, coniugato con il mix di strumenti di indagine, si è rivelato molto adatto
a rappresentare le sfumature di un fenomeno complesso come l'abitare, dall'altro raccogliere le
informazioni in maniera multidimensionale (interviste, questionario, esperimento fotografico, diari digitali) è
stato piuttosto oneroso in termini di tempo, sia per i partecipanti che per me che coordinavo i vari momenti.
Questo ha dato luogo a due effetti che non erano stati preventivati nella fase di progettazione del lavoro:
innanzitutto, considerando che ogni partecipante ha dedicato una media di sette ore alla ricerca, molte
persone, dopo il primo contatto, hanno preferito non partecipare proprio perché l'impegno preventivato era
troppo elevato rispetto al tempo che loro avevano a disposizione; questo ha comportato una “selezione
naturale” verso l'alto dei partecipanti, escludendo in partenza i lavoratori a tempo pieno più precari e fragili.
D'altra parte proprio l'impegno richiesto e la quotidianità dei contatti ha fatto sì che con le persone che
hanno completato integralmente il lavoro si sia instaurato un rapporto profondo di scambio di conoscenze e
che molte di queste continuano a inviare spunti sui temi analizzati anche se la ricerca si è conclusa.

Risultati
Nonostante la ricerca fosse di tipo esplorativo e il campione di intervistati assolutamente qualitativo,
possono essere sintetizzate alcune tendenze in merito a tre aspetti approfonditi con le interviste: che cosa si
intende per “alternativo” quando si parla di abitare, come stanno evolvendo i modelli di abitare e quali sono
le implicazioni sul concetto di proprietà privata e infine come i diversi modelli di abitare influenzano le
pratiche di condivisione.
Prima di esaminarle in dettaglio viene fornito un profilo sintetico delle persone intervistate e delle tipologie
abitative incontrate:
E., analista finanziario, a Londra da 13 anni, dopo aver vissuto in almeno sette shared houses, quando
mette su famiglia compra un appartamento in un palazzo signorile in una zona di pregio dove solo di
condominio spende £600 al mese;
G., assistente in una galleria d'arte, a Londra da 4 anni, vive nell'houseboat di un'amica a cui paga un affitto
mensile e circa una volta al mese cambia indirizzo;
G., disoccupata, a Londra da 5 anni, vive nella council house del suo compagno che ha conosciuto quando
faceva il property guardian di un vecchio stabile vittoriano abbandonato;
P., designer, a Londra da 2 anni, vive in una casa singola del West End dove paga £2500 al mese di affitto,
in parte compresi nel contratto di lavoro della moglie;
S., arrivata a Londra 2 anni fa per studiare, fa la commessa e vive in uno squat a sud del Tamigi; in un anno
e mezzo ha cambiato tre squat diversi, abitando negli uffici di una azienda ora fallita, in un negozio di
computer chiuso da tempo ed ora in una chiesa sconsacrata;
T., artigiano, 8 anni fa si è trasferito a Londra per avvicinarsi al mercato particolare di cui si occupa; vive
nella casa della sua compagna, la quale, per pagare il mutuo, subaffitta una stanza; ha l'ufficio in una
warehouse che condivide con altri artigiani;

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V., operatrice culturale, ha comprato 5 anni fa due appartamenti a Londra come investimento, si è trasferita
stabilmente da un anno nel più piccolo e vive con i soldi dell'affitto dell'altro;
R., insegnante, a Londra da 17 anni, vive con la famiglia in una villetta a schiera in una social street in una
zona popolare alla periferia sud della città
M., commessa, a Londra da 15 anni, dopo aver cambiato moltissime case e aver vissuto diversi periodi
anche in ostello, ora vive insieme ad altre due persone in una ex council house in periferia dove spende due
terzi del suo stipendio per l'affitto;
F., insegnante part-time, a Londra da 3 anni, si mantiene grazie ad un appartamento che sua madre ha
comprato nella zona olimpica e che lei affitta con Airbnb;
M., sviluppatore web, a Londra da 6 anni, ha comprato una casa in shared ownership: oggi paga il mutuo
per il 30% che possiede e sul resto un affitto agevolato.

Che cosa si intende per “alternativo” quando si parla di abitare
L'esplorazione dell'universo alternativo è solitamente viziato da due questioni: la prima è che si è
generalmente portati a catalogare come alternativo tutto quello che appare misterioso e che non si conosce;
la seconda, ancora più pericolosa, è che con la parola “alternativo” ci si riferisce troppo spesso a qualcosa
di antagonista rispetto a quello a cui si è abituati: sulla base di questi assunti si potrebbe facilmente mettere
in relazione l'abitare alternativo con forme di abitare chiuse e impenetrabili, arrivando fino a ritenerle ostili e
preoccupanti. Anche dalle risposte raccolte con i questionari e con le interviste emerge questa frattura di
significato, tra chi è fuori dall'abitare alternativo e chi dentro, tra chi lo conosce e chi non lo conosce.
Vi è invece unanimità nel sottolineare la differenza sostanziale tra la casa a Londra e in Italia: mentre in
Italia la casa è qualcosa di stabile, sia in senso fisico che psicologico, e viene associata comunemente a
sentimenti di sicurezza e tranquillità, a Londra gli italiani generalmente 3 la vedono come un problema, un
impegno che occupa l'esistenza in maniera negativa e che alimenta lo stress invece che diminuirlo. Come
viene evidenziato nella Figura 3, la casa a Londra è innanzitutto un problema economico, nel senso che i
prezzi delle case sono così alti 4 che pochi possono permettersi di comprarne una e d'altra parte anche gli
affitti sono molto cari 5. Da ciò dipende da un lato il senso di precarietà e temporaneità che viene associato
all'abitare, dall'altro la diffusione delle shared houses, ossia abitazioni che vengono condivise da più
persone o più nuclei familiari, non per ragioni ideali ma semplicemente per risparmiare. Un altro tema
ricorrente dai questionari raccolti è la scarsità di case rispetto alla popolazione, che costringe sempre più
persone a spostarsi ai margini della città, dove è più facile trovare una sistemazione e dove i prezzi sono più
bassi.
Figura 3. Le parole più frequenti nei questionari per definire l'housing a Londra

3   I pochi che hanno comprato un appartamento a Londra come investimento, all'opposto, sottolineano come avere una casa da
    affittare sia una vera “miniera d'oro” in una città come Londra.
4   l prezzo medio di una casa a Londra era a marzo del 2011 di £343,000 rispetto alla media inglese di £213,000 (Gleeson, 2011)
5   Arrivato a £173 a settimana, il prezzo medio di affitto a Londra è del 36% più alto che la media nazionale, mentre se ci si riferisce
    all'affitto a canoni sociali la differenza scende al 17%. (Gleeson, 2011)

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Fatta questa premessa, la Figura 4 sintetizza cosa viene percepito come alternativo nel mercato
immobiliare londinese. In diverse espressioni ritorna il tema dello sharing: si può condividere la casa con
altri per abbassare i costi di affitto (o di mutuo nei casi in cui il proprietario subaffitta una stanza per pagare
le rate), ma si può anche condividere con altri anche la proprietà stessa della casa, come nelle formule di
shared ownership, che consentono di acquistare inizialmente solo una percentuale della proprietà della
casa e pagare sul resto un affitto agevolato al proprietario. A Londra, dove i prezzi delle case sono tra i più
alti del mondo, viene poi percepito come alternativo l'housing sociale, promosso da politiche pubbliche. Il
problema principale di questa tipologia è la scarsità di offerta, che dipende dalla massiccia vendita di case
popolari senza che al loro posto ne venissero costruite di nuove, fenomeno che ha portato a circa cinque
milioni di persone in lista d'attesa per un alloggio sociale.
Nella definizione di alternativo rientrano anche le esperienze residuali e non ufficiali di squatting, che nel
Regno Unito hanno una loro legittimazione quando riattivano spazi abbandonati e che si sono evolute
anche in forme più strutturate incarnate dalla figura del property guardian6.
Un altro modello molto citato dagli intervistati è quello dell'houseboat, percepito anch'esso come
radicalmente alternativo in particolare in relazione a due aspetti: il primo è che consente di vivere
spendendo poco in zone centrali molto richieste, dove i valori immobiliari dell'abitare tradizionale sono
altissimi; il secondo aspetto è che, per affrontare meglio le diverse difficoltà tipiche della vita in barca,
incentiva la creazione di comunità solide, armoniose e durature (i barcaioli), esperienza a Londra piuttosto
inusuale da ritrovare in contesti abitativi tradizionali.

6   Nel Regno Unito esistono molte imprese che selezionano guardiani che dovranno occuparsi per conto dei proprietari di locali
    commerciali o abitazioni vuote. Spesso i guardiani sono key workers o studenti lavoratori che cercano soluzioni abitative
    economiche e uno stile di vita flessibile.

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Figura 4. Le parole più frequenti nei questionari per definire l'alternative housing a Londra

Dagli esempi emerge come a fronte della spontaneità e temporaneità delle esperienze più rappresentative
di abitare alternativo (squat, houseboat), ne stiano emergendo altre (property guardian and shared
ownership scheme), inserite in un contesto più istituzionale, che cercano di imbrigliare l'informalità delle
prime esperienze dentro modelli meno radicali nei quali riattivare i meccanismi di condivisione e community
building normalmente associati all'abitare alternativo, con il fine ultimo di sviluppare forme di abitare
affordable, con cui trattenere in città quelle fasce di popolazione mobile e giovane che alimentano la vitalità
e attrattività di Londra e che adesso non trovano una risposta sostenibile alla loro domanda abitativa.

Come stanno evolvendo i modelli di abitare e quali sono le implicazioni sul concetto di proprietà
privata
Nei casi analizzati c'è chi ha comprato la casa per andarci a vivere e chi per investimento, chi la possiede
“leasehold” e chi “freehold”7, chi ha optato per una formula di shared ownership e chi deve subaffittare una
stanza della casa che ha comprato per pagarsi il mutuo. E poi c'è chi non compra ma vive in affitto, solo con
la famiglia o insieme ad altri, c'è chi fa il property guardian ufficialmente e chi sceglie la strada dello
squatting, chi vive in barca e chi in una council house. Tutti gli intervistati comunque hanno alle spalle una
storia abitativa molto vivace, con una media di tre traslochi all'anno nei primi tre anni di permanenza a

7   Ci sono due sistemi principali per possedere una proprietà nel Regno Unito: diritto di proprietà fondiaria assoluta (detto freehold) e
    diritto di proprietà in concessione (detto leasehold). La maggior parte degli appartamenti in Inghilterra sono proprietà in leasehold in
    quanto la maggioranza della terra appartiene alla Corona Inglese o alla Chiesa Inglese. Chi acquista una proprietà in leasehold non
    possiede la terra su cui la casa è costruita ma solo il diritto di vivere nella proprietà per un periodo di tempo determinato.
    Generalmente più è lungo il contratto di leasehold, che va dai 99 ai 999 anni e comunque si rinnova facilmente, più costosa sarà la
    proprietà.

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Londra.
Dal quadro che ho ricostruito analizzando diversi modelli di abitare, emerge la divaricazione del concetto di
proprietà, che si sostanzia nello sviluppo di diversi modi di possedere. È come se fosse in atto un processo
di ri-significazione della proprietà, influenzato dalle pratiche di sharing che in qualche modo sembrano
opacizzare il suo significato tradizionale, rendendo condiviso un diritto che invece nasce come privato ed
esclusivo. La proprietà assume in questo contesto diverse sfumature di significato che possono essere così
catalogate:
- la proprietà “in costruzione” della shared ownership: in questa formula la condivisione è un modo per
agevolare l'accesso alla casa da parte di quelle persone che non avrebbero le risorse economiche per
acquistare la proprietà interamente: le housing associations che mettono in vendita le case con questa
modalità in sostanza anticipano l'investimento, che si ripagano nel tempo incassando le quote di affitto, e
permettono all'acquirente di dilazionare l'acquisto della casa;
- la proprietà “mobile” dell'houseboat: nelle case barca la proprietà perde le sue radici e diventa un concetto
mobile, come la barca, che deve spostarsi ogni due settimane: il proprietario paga una licenza annuale al
Comune e questo gli permette di ormeggiare la barca in un territorio, ma non di fermarvisi stabilmente.
Questo particolare modello abitativo mette in discussione anche altre dotazioni normalmente abbinate al
concetto di proprietà: vivere in barca infatti significa non avere allacciamenti e doversi rifornire di acqua,
luce e gas secondo modalità non convenzionali;
- la proprietà “precaria” dello squat: occupare un posto abbandonato è un'operazione oscura, che si fa di
notte, perché il buio è il colore del proibito. Ma poi, una volta entrati, squattare a Londra viene legittimato dal
tribunale, che lo vede come un presidio su spazi altrimenti “under control”. Vivere in uno squat stimola la
condivisione in una società super individualizzata, combatte l'alienazione da grande città visto che a casa
non sei mai solo, ti permette di godere di spazi grandi e ariosi quando invece si vive sempre più spesso in
micro cellule abitative e risolve radicalmente il problema del costo degli affitti. Rimane comunque una forma
precaria di abitare, visto che l'assenza di un contratto formale implica che il proprietario, in caso di bisogno,
possa richiedere di sgomberare il posto molto rapidamente. La proprietà è in questo caso “condizionata”
dalle decisioni del legittimo proprietario ma allo stesso modo è anche una proprietà “accresciuta”, che
travalica i confini degli interessi privati per sposare modelli di vita orientati alla sostenibilità e al benessere
generale;
- la proprietà “di vicinato” delle social street: la social street è un'etichetta piuttosto nuova appiccicata ad
un'esperienza antica, tipica della famiglia allargata contadina dell'Ottocento, in cui, attraverso la
condivisione di oggetti e lo scambio di saperi, si socializza tra vicini di casa per darsi una mano l'uno con
l'altro. Questa pratica che in tempi moderni è facilitata dai social network che i vicini di casa usano per
mandarsi messaggi con cui scambiarsi i vestiti, chiedere in prestito attrezzi, recuperare una determinata
ricetta o farsi aiutare ad imbiancare, si sviluppa grazie alla frequentazione reale, che ha il suo apice
nell'organizzazione di feste di strada e in pranzi collettivi: conoscersi di persona aiuta a rafforzare la fiducia
nell'altro, incentiva la collaborazione e sensibilizza a prendersi cura del posto in cui si vive e di cui tutti si
sentono un po' proprietari.

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                                           Torino, 18-20 settembre 2014

Come diversi modelli di abitare possono influenzare esperienze di condivisione
Non è semplice stabilire se e come modelli diversi di abitare possono avere un impatto sulla condivisione,
anche perché la condivisione agisce “secondo un pullulare di eccezioni” che mettono fuori gioco le logiche
spaziali tradizionali (Bianchetti, 2014) e invitano ad un'analisi di queste eccezioni fatta per avvicinamento
progressivo e osservazioni minute.
Sicuramente però quando si parla di condivisione si presuppone l'esistenza di rapporti tra persone, rapporti
che ancora oggi, nonostante la crescita del mondo virtuale, si sostanziano in risorse collettive e progetti
condivisi mediati da uno spazio fisico (Savoldi, 2002). La casa diventa in questo contesto un facilitatore di
relazioni, scambi e supporti sociali, sia a livello familiare che in maniera più diffusa quando si tratta di
esperienze di abitare collettivo (id22, 2012). L'abitare in questo quadro si configura come forma principe
dello stare assieme e la condivisione si concretizza in forme leggere e temporanee, in aggregazioni locali
spontanee, nella costruzione di spazi delimitati esterni alla residenza privata ma in un qualche modo protetti
nei quali ritrovarsi (Sampieri, 2011).
Partendo da queste considerazioni, la ricerca evidenzia come il contesto abitativo sia un luogo adatto per
sviluppare forme di sharing, in particolare in quei casi in cui nell'esperienza abitativa si mescolano spazi
comuni e spazi privati.
La casa come “facilitatore” di forme di condivisione ha una sua giustificazione particolare in una città come
Londra, dove le grandi dimensioni della città e all'opposto quelle mediamente molto piccole delle abitazioni
obbligano gli abitanti a costruirsi una socialità vicina, che minimizza gli spostamenti, costruita intorno a
luoghi comuni, inseriti nel contesto in cui si vive (quando ci sono spazi comuni condominiali come un
giardino in cui portare i bambini a giocare) o comunque il più possibile vicino a dove si abita. Che si tratti
della strada su cui si affacciano le case, dell'area giochi per i bambini, del negozietto pakistano di alimentari
o della fermata dell'autobus, tali spazi diventano quasi delle appendici della casa, estensioni in cui coltivare
relazioni, come si evince dalle mappe degli spostamenti degli intervistati, caratterizzate da una ripetitività
sicuramente più tipica delle dinamiche di un villaggio rispetto a quello che ci si aspetterebbe in una grande
città altamente connessa.
È però dalle forme di abitare più collettive che si ricavano maggiori informazioni rispetto al tema della
condivisione. Le shared houses, la forma di abitare più diffusa tra gli italiani nel loro primo periodo a Londra,
possono essere catalogate tra i modelli di condivisione cosiddetta “forzata”, in quanto dettata più da
motivazioni di ordine economico che da ideali comuni. Dalle interviste emerge come l'esperienza di abitare
in una shared house venga considerata “iniziatica” dai ragazzi più giovani, che la vedono come un modo
efficace per imparare ad arrangiarsi e allo stesso tempo a prendere decisioni in maniera collettiva.
Successivamente la shared house assume i contorni di in una scelta ricercata, alla quale non si rinuncia,
almeno fino a quando non si costruisce una famiglia propria, per le dinamiche relazionali e di aiuto reciproco
che si instaurano tra coinquilini. E a questo punto la condivisione si trasforma da forzata a “consapevole”.
Una relazione forte tra contesto abitativo e pratiche di sharing si riscontra nella comunità solidale dei
barcaioli, che aggregano in maniera solida chi vive in una houseboat intorno a necessità pratiche (la legna

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per scaldare la barca in inverno, l'acqua per lavarsi, la ricerca di un pezzo di ricambio per il motore) e a
occasioni più conviviali, come l'abitudine a mangiare insieme degli abitanti di più barche vicine o a
organizzare feste lungo il canale. In questo esempio la ricerca di un modello abitativo non convenzionale
coniugata con le difficoltà comuni del vivere in barca, sembrano essere le molle che spingono naturalmente
i barcaioli verso pratiche di condivisione.
Sempre in rottura con l'abitare individuale tipico delle città ma comunque pienamente inserita nel territorio
urbano è anche l'esperienza degli squatter londinesi, che parte proprio dalla volontà di riappropriarsi di spazi
della città non utilizzati, da abitare insieme secondo logiche altre rispetto a quelle di mercato. Nella
riconversione in squat di ex fabbriche, chiese o locali commerciali si privilegiano prima gli spazi comuni,
valorizzando le caratteristiche fisiche e architettoniche di questi luoghi e poi si costruiscono le camere in cui
dormire, l'unico presidio di spazio privato che rimane. La spinta ideale di vivere in un modo diverso
accomuna queste esperienze, che si differenziano tra loro soprattutto per il grado di attivismo e di apertura
intorno ai quali si costruisce il gruppo di abitanti. Vivere in uno squat, dove la condivisione di spazi,
attrezzature, ma anche di ideali e decisioni quotidiane è esasperata, non è facile e non è raro che dopo un
primo periodo di entusiasmo si cerchi una sistemazione diversa, a conferma del fatto che la condivisione
non è per tutti e non è per sempre.

Bibliografia
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Bianchetti Cristina (a cura di), Territori nella crisi. Rapporto intermedio, Politecnico di Torino, Ecole
Polytecnique Fédérale de Lausanne, 2014
id22: Institute for Creative Sustainability-. Experimentcity, Cohousing Clultures, Jovis, 2012
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di vicinato, Tesi di dottorato in Sociologia, Università di Bologna, 2013
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Roget Liat, A laboratory for collaborative innovation in urban housing, Tesi di dottorato in Design, Politecnico
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Sampieri Angelo (a cura di), L'abitare collettivo, Franco Angeli Editore, 2011
Savoldi Paola, Se la comunità non è un mezzo. Forme e luoghi di esperienze condivise, Tesi di dottorato in
Pianificazione Ambientale e Territoriale, Politecnico di Milano, 2002
Sennett Richard, Insieme, Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, 2012
Sitton Silvia, L'abitare come motore della sharing economy, Quaderni Forum PA, 2013
Whitehead C., Travers T., Investing in affordable housing in Europe, London School of Economics, 2012

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